Il Passaggio (Es 12-13)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Nelle narrazioni, così come nelle nostre vite, ci sono interi periodi che si possono riassumere in un pugno di frasi, e ci sono singoli eventi che richiedono ampi racconti. Si possono descrivere, ad esempio, quarant’anni in pochissime parole e, allo stesso tempo, essere costretti a narrare una sola notte in diversi capitoli. È ciò che succede con la narrazione della notte di Pasqua. Ci sono momenti che non hanno lo stesso peso degli altri, e meritano di essere affrontati con ampiezza.

Il mese scorso abbiamo già mostrato come confluiscano nella tradizione pasquale e nel suo racconto tre tipi di festa (una pastorale, una agricola e una storica), e abbiamo affrontato lo spinoso tema del male inflitto da Dio agli Egizi. Qui ci concentriamo su quello che il racconto dice, cercando di evidenziarne alcuni contenuti.

La prima pasqua

Le modalità che il Signore indica a Mosè per celebrare la festa di Pasqua sono una legge vera e propria, con suggerimenti precisi che indicano il senso di ciò che si dovrà celebrare. Il Signore affida questa legge a Mosè, ma non solo a lui, anche ad Aronne (12,1), e la offre loro «nella terra d’Egitto». Quasi tutte le leggi citate nell’Esodo vengono consegnate da Dio a Mosè sul Sinai. Tra le eccezioni c’è la circoncisione, che però era già stata praticata da Abramo, apparentemente dimenticata e poi recuperata (sembra) tramite il curioso e inquietante racconto di Es 4,24-26.

La circoncisione e la Pasqua sono norme radicali, fondamentali. La prima è un segno di alleanza che era stato affidato a uomini che non sapevano dove avrebbero dormito, chi li avrebbe tutelati, dove sarebbero stati sepolti. È un gesto di fiducia nella presenza di un Dio-persona che non abbandona.

La Pasqua nasce in un ambiente straniero, ostile, da cui si sta per fuggire. Non c’è più l’inquietudine di chi teme pericoli per sé e per i propri cari, ma la consapevolezza di chi sa che i pericoli esistono, li ha già subiti e ne vede di più grandi all’orizzonte. Non è la paura un po’ vaga dei bambini, è la consapevolezza degli adulti che decidono di fidarsi pur sapendo che in tal modo perderanno comunque qualcosa, che la scelta è rischiosa, che in palio c’è la libertà, ma anche il rischio della morte.

In entrambi i casi, la fiducia non dipende dalle proprie capacità o da un’assicurazione scritta, bensì da una parola di promessa, una relazione. Prima di tutte le leggi, nella Bibbia, c’è il rapporto con Dio. Fuori da questo, le leggi non hanno senso.

L’invito fatto dal Signore per celebrare la Pasqua è ad allestire una cena. I nostri pasti non servono mai soltanto a nutrirci.

Diverso è mangiare con tutta la famiglia riunita, nelle sue varie generazioni, magari cucinando piatti tradizionali, antichi, con calma, al modo con cui si facevano una volta, insegnandoli ai nipoti (dando un enorme rilievo alla continuità nella e della famiglia – e non a caso sono pochi i pasti di questo tipo -), oppure andare con gli amici nel locale più alla moda, o nel quale ci servono più in fretta oppure si possono gustare piatti nuovi (anche questa non è una scelta neutra: è decidere di concentrarsi nel presente, a volte rifiutando volutamente il passato).

Una cosa è lasciare che ognuno si prenda una scatola di biscotti e si rifugi nella propria camera, un’altra è cucinare insieme una grigliata in cui non ci sono posti fissi e tutti gli invitati portano qualcosa.

Ogni stile di pasto comunica qualcosa, sottintende qualcosa. Il problema dei sottintesi però è che possono essere fraintesi, e se fraintesi, possono far nascere sentimenti ancora più forti e violenti di quelli che nascerebbero dalle parole.

Non a caso, quando nelle famiglie si litiga, tutto il rituale che sottintende armonia (pensiamo al tempo di Natale) diventa faticoso e logorante, perché diventa falso, comunica ciò che non si vive.

Lo stile della festa

Agli ebrei Dio indica lo stile della festa: ognuno si troverà in una famiglia che sia autosufficiente, che riesca a mangiare uno o più agnelli per intero. Una famiglia, ossia un ambiente umano al cuore del quale ci sono le relazioni, non l’età o la professione o le idee. Ma non il nucleo ristretto fatto di padre, madre e figli: le indicazioni esplicitano che nei nuclei singoli si è troppo pochi, ci si deve unire ad altri. Un gruppo umano legato dalla parentela, ma abbastanza grande da consumare almeno un agnello intero, e non così piccolo da essere facilmente spazzato via.

Il cibo ricorda la provvisorietà della vita dei pastori: non bisogna avanzare niente, si cuocerà l’agnello alla brace (il modo più semplice, per chi è in cammino, senza stoviglie, senza condimenti speciali…), lo si accompagnerà con pane non lievitato (quello usato allora era il lievito madre, messo da parte dalla massa e tenuto per la volta dopo, con la necessità di tempi lunghi di lievitazione e dispense fresche e buie) ed erbe amare (cioè quelle che crescono spontaneamente nei campi, e non quelle coltivate, più dolci). In più, l’allestimento, soprattutto guardando al dettaglio dell’agnello «maschio, perfetto, nato nell’anno», da cuocere arrosto, sembra rimandare ai sacrifici: ciò che accadrà questa notte coinvolge Dio.

Se non bastasse il menù, si precisa che bisogna mangiarlo con i sandali ai piedi e la cintura ai fianchi, come se si fosse pronti a partire, e «in fretta», con una parola che non viene quasi mai usata nella Bibbia, e che, quando viene usata (in Dt 16,3 e Is 52,12), succede in due brani che parlano della Pasqua. Esprime una trepidazione unica, peculiare, che non può confondersi con nessun’altra. È l’ansia dello studente prima dell’esame di maturità, di due sposi la sera prima del matrimonio: paura, mescolata a speranza, insieme alla consapevolezza che da domani nulla sarà più come prima.

Il sangue alle porte

Insieme agli elementi che rimandano a un rito, che sia più pastorale (l’agnello) o agricolo (gli azzimi), ce ne sono altri che rinviano alla storia, ad esempio l’invito a bagnare col sangue dell’agnello gli stipiti delle porte.

In questo invito particolare, possiamo intravedere, mescolati tra loro, almeno quattro messaggi che il testo probabilmente vuole trasmetterci.

1) Il sangue è la sede della vita. La vita è di Dio. Non è un caso che agli ebrei resterà vietato cibarsi di sangue, perché significherebbe oltrepassare i propri confini e mettersi al posto di Dio, quasi si fosse signori della vita (cfr. Lv 17,12-14). L’aspersione con il sangue non è soltanto un gesto apotropaico, ossia un gesto che vuole scaramanticamente tenere lontano il male evocandolo (come quando ci auguriamo «in bocca al lupo»): è Dio stesso che si pone sulle porte. Dio è coinvolto, e non è neutrale.

2) L’aspersione è un gesto antichissimo, «copia» un rito già esistente. Nella tradizione vicino orientale, le porte della casa, il luogo di comunicazione con l’esterno e quindi il più fragile, il più esposto anche al malocchio, deve essere difeso da amuleti. Il sangue può essere uno di questi. Non è un rito ebraico. Nessuno di noi, però, viene dal nulla, siamo sempre figli di tradizioni e abitudini che risalgono a prima di noi e ci condizionano. A volte i «puristi» (e ogni tanto lo siamo stati tutti) vorrebbero eliminare dalle tradizioni ciò che le precede, perché siano senza mescolanze. Ma nulla nella vita umana è totalmente puro. Quando Dio si incarna, non si vergogna di questa «mescolanza», che è la normale condizione umana, e vi entra anche lui, la accoglie, la fa sua. Anche se non a ogni costo e in ogni caso. In quel rito di aspersione, che esisteva già prima degli ebrei, solitamente si difendevano tutti i lati del passaggio (i tre stipiti e la soglia), e quindi anche la soglia (nella nostra tradizione, a volte, la soglia di casa non si deve calpestare: eredità superstiziose antichissime). In Esodo, Dio invita a non prenderla in considerazione. Come a dire che la relazione con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe resta aperta all’incertezza, al non tutto deciso, quindi alla fiducia.

3) Il sangue sugli stipiti, poi, è anche un segno visibile all’esterno. Chi passa per strada può riconoscere che lì dentro ci sono ebrei, ed ebrei che hanno deciso di ascoltare la voce di Dio. Finora, nello scontro tra Mosè (o Dio) e il faraone, il popolo sembra quasi essersi messo da parte, come uno spettatore. Viene però un momento in cui non si può più rimanere fuori, occorre mettersi in gioco, decidere da che parte stare. È questo il momento.

Una tradizione intrecciata

4) L’ultimo aspetto merita di essere trattato un po’ più a fondo, perché riguarda tutto il Primo Testamento. Nel capitolo 12 di Esodo troviamo accenni alla Pasqua «pastorale», alla Pasqua «agricola» e alla Pasqua «storica» (questa emerge con più chiarezza negli stipiti bagnati di sangue ma fa anche da cornice a tutto il racconto).

I tre aspetti vengono intrecciati, mescolati, quasi confusi, anche a costo di perdere un po’ in coerenza narrativa. Ma è l’approccio normale della Bibbia.

Noi uomini del nostro tempo tendiamo a distinguere, separare e analizzare. Il mondo biblico sa che la vita umana è interconnessa, intricata, persino confusa. E chi scrive, anche se si trova davanti tre tradizioni diverse, distinte e separate, le unisce come nella vita. In tal modo «costringe» ognuno a riconoscere dignità anche alle tradizioni diverse. Il contadino che ha sempre celebrato la Pasqua come festa stagionale, con gli azzimi e la mietitura dell’orzo, riconosce Es 12 come brano fondamentale per comprendere la propria festa. Quel passo, però, è anche centrale e fondamentale per il pastore che celebra la pasqua dell’agnello, delle erbe amare e dei sandali ai piedi. Anche il cittadino riconosce in quella tradizione soprattutto la storia del popolo. Ognuno ritrova le altre tradizioni nel «proprio» testo e impara ad accoglierle e rispettarle come affidabili, autentiche. E capisce che non è semplicemente un mettere insieme solo ciò che è comune, ma un unire e ampliare le tradizioni di ognuno. Ciascuno, quindi, non solo si ritrova a casa propria, ma anche insieme a dei compagni di casa che forse non immaginava di avere.

Un’unica storia

Chi parte dall’Egitto porta con sé un bottino (Es 12,34-36), quasi fosse un esercito vincitore. Ma questo esercito, che si rassegna a prendere la strada più lunga, per non far scoraggiare nessuno di fronte ai pericoli (13,17-18), è composto da carri, vecchi, bambini, donne incinte, bestiame, e si ritrova in una marcia che non può che essere lenta e fragile.

Gli Ebrei portano con sé le ossa di Giuseppe, per non lasciare nulla in Egitto: i ponti con la «casa di schiavitù» saranno tagliati in modo definitivo. E si guarda già avanti, alla celebrazione del «memoriale»: non un semplice ricordo, ma la ragione delle proprie scelte in ogni tempo, anche oggi (Es 13), come due sposi che rivivano insieme la memoria di come si sono conosciuti sessanta anni prima.

Il numero di coloro che abbandonano l’Egitto è fissato in seicentomila uomini adulti (12,37), cifra assolutamente inverosimile, secondo alcuni raggiunta forse nel momento di massimo splendore dei regni di Israele. L’idea è che in quella schiera che fugge sono già raccolti tutti i futuri credenti, i quali infatti saranno chiamati a riconoscersi nel Dio
d’Israele rievocando quel «passaggio» fatto di fiducia in una parola di promessa divina.

Non è un caso che l’etimologia della parola «Pasqua», abbastanza oscura, venga fatta risalire volentieri, dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica, a «passaggio». L’angelo della morte «passa» attraverso l’Egitto, «passando oltre» le case degli ebrei, ma loro stessi sono chiamati a «passare fuori» dall’Egitto, decidendo, finalmente, di «passare» dalla parte di Dio. Non c’è nulla di statico, nulla di assicurato, è una vita in corso, fatta di promesse e fiducia.

Dio, in cambio, sarà per loro colonna di nubi che guida durante il giorno, e colonna di fuoco che protegge dalle incognite del buio durante la notte (13,21-22).

La storia non è finita, il popolo non è salvo. Ma ha preso una decisione. E, anche se questa verrà rimpianta e contestata, resta un primo passo deciso nella direzione della fiducia in Dio.

Angelo Fracchia
(Esodo 07 – continua)




Con altri occhi

testo e foto di Daniele  Biella |


Portare a scuola le migrazioni in carne e ossa. Per far conoscere ai ragazzi la concretezza delle vite dei protagonisti di un fenomeno troppe volte descritto in modo ideologico. Un rifugiato che si racconta in aula vale più di mille video su YouTube.

Siamo in un paesino della Brianza, in un pomeriggio d’autunno del 2019, quando ancora la pandemia non è entrata nelle nostre vite. Una bambina che sta per finire la scuola primaria, vede da lontano una persona e corre ad abbracciarla. La nonna, rimasta indietro, guarda la scena sbalordita e preoccupata: non conosce, infatti, quella persona, che ha anche il colore della pelle diverso dal suo. Ma la preoccupazione dura pochi attimi, perché la bambina risolve tutto con un sorriso e poche parole. «Nonna, è Wilfrid! È venuto nella nostra scuola a raccontarci la sua vita. È molto bravo e simpatico». La nonna si avvicina al giovane, che è nato nel 1996 in Camerun, e dal 2017 è rifugiato in Italia, e poco alla volta inizia a parlargli.

Una domanda dopo l’altra, la signora è sempre più a suo agio e, al momento dei saluti, la tensione iniziale non ha lasciato alcuna traccia.

«Quando ha saputo che stavo lavorando come aiuto cuoco in un ristorante non lontano da dove abitava, mi ha detto che sarebbe venuta una volta a mangiare. E dopo qualche tempo è accaduto», spiega Wilfrid qualche mese dopo agli alunni di una classe di seconda media mentre io, accanto a lui, osservo i volti divertiti dei ragazzi e della professoressa presente. «Per questo è importante conoscere la storia delle persone. La conoscenza è il primo passo per superare i pregiudizi», aggiungo.

In carne e ossa

Perché mi trovo dentro un’aula scolastica assieme a un giovane rifugiato, davanti a studenti curiosi che, per tutto il tempo dell’incontro, ci riempiono di domande? La risposta si chiama progetto «Con altri occhi».

Ogni anno, come giornalista che si occupa di tematiche migratorie, incontro nelle scuole migliaia di ragazze e ragazzi, in Brianza, ma anche in altre zone d’Italia, per far toccare loro con mano «le migrazioni in carne e ossa», e mostrare come sia possibile guardarle con altri occhi.

Il progetto, iniziato nell’anno scolastico 2016/2017, permette un incontro tanto eccezionale quanto normale: quello tra una persona che si trova in Italia dopo una migrazione forzata e ragazzi che, attraverso il suo racconto, possono capire meglio quello di cui i mass media parlano da anni, quasi sempre con toni accesi: «Gli sbarchi», «le carrette del mare», «l’accoglienza dei richiedenti asilo».

Quello delle migrazioni è un tema complesso che, se non affrontato in modo approfondito e adeguato, può generare disinformazione e luoghi comuni nocivi. Come è avvenuto in diverse situazioni, la persona migrante può diventare il capro espiatorio dei problemi delle comunità.

Narrazione e dialogo

«Il migrante che arriva in Italia dopo la fuga forzata dal suo paese non deve essere trattato con pietismo, non è un “poverino”, ma una persona con le sue caratteristiche che la rendono diversa dagli altri, proprio come me. Più sfortunata, certo, perché, a differenza mia, chi chiede asilo in Italia, o in una nazione non sua, ha dovuto abbandonare controvoglia i luoghi di una vita», dice Sergio Saccavino, direttore di Aeris Cooperativa sociale, storica realtà della provincia di Monza che oggi ha settecento soci lavoratori (soprattutto in ambito di assistenza educativa scolastica). È lui che mi ha chiesto, nel 2016, di diventare formatore per Aeris sulle migrazioni, portando con me persone rifugiate in Italia che la stessa cooperativa ospita in appartamenti della zona secondo il modello dell’accoglienza diffusa aderendo a progetti della prefettura e del ministero dell’Interno.

«C’è bisogno di un racconto diretto di quello che accade. Devono parlare i protagonisti. Noi abbiamo il dovere di fare un investimento culturale in tal senso», aveva aggiunto Saccavino. Detto, fatto: il progetto – che per le scuole è stato gratuito per i primi quattro anni, e che, con l’arrivo della pandemia, è stato strutturato in doppia modalità, online e in presenza, a seconda della situazione specifica – già nel primo anno ha coinvolto 5mila alunni e, a fine anno scolastico 2020-2021, ha raggiunto quota 15mila.

In ogni classe sono proposti due incontri: durante il primo si affrontano con i ragazzi le motivazioni e le dinamiche che spingono gli esseri umani a lasciare la propria casa. Lo si fa anche attraverso un gioco di ruolo e la narrazione diretta di alcuni viaggi giornalistici (su una nave di salvataggio, alle frontiere d’Italia e d’Europa, nei paesi di provenienza di chi arriva nel nostro continente). Nel secondo incontro, accompagno in classe una persona accolta in Italia, allo scopo di instaurare un dialogo a tu per tu con gli studenti.

Il libro

Ultimamente il progetto è diventato anche un libro, dal titolo Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni (Fabbrica dei Segni editore, 2020), proprio perché l’ottimo riscontro di interesse verso il progetto ha convinto Aeris e Fabbrica dei Segni ad accordarsi per pubblicare un testo capace di raggiungere chiunque voglia approfondire, adulti compresi.

Ho scritto il libro raccogliendo le testimonianze dei quattro giovani rifugiati che mi hanno accompagnato in classe in questi anni (oltre a Wilfrid, c’è Harris, ghanese, Bourama, maliano, e Mamadou, della Guinea Conakry), ma anche le domande e le considerazioni degli studenti. Queste ultime rappresentano – e lo dico senza alcuna retorica – il modo più efficace per capire quanto le ragazze e i ragazzi (ma anche i bambini, dato che il progetto si rivolge a studenti dagli 8 anni alle scuole secondarie di primo e secondo grado) siano pronti a ragionare su quanto sta accadendo e, soprattutto, a «dire la loro» con responsabilità e senso della realtà.

Le relazioni (e la conoscenza) superano i muri

Andando nelle classi e dialogando in modo fitto con gli studenti, ho riscontrato una conferma non da poco: il concetto di multiculturalità, oramai, è pregnante. Il compagno di classe di origini straniere ha un nome e un carattere, prima di avere una nazionalità, e le relazioni che i ragazzi creano superano «muri» che invece a volte si instaurano nel mondo degli adulti.

Ci possono essere situazioni specifiche di intolleranza o bullismo, ma, in generale, si dice il vero quando si afferma che la scuola è più avanti del resto della società a livello di «gestione delle diversità». E non solo le diversità date dalle provenienze.

Quello che serve agli alunni (e, a volte, anche ai professori, che hanno bisogno formazione specifica per rispondere alle domande dei loro studenti senza trovarsi spiazzati), è avere tutti gli elementi per capire di che cosa si parla quando si discute di migrazioni. A cominciare dalle parole «giuste» (profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante economico, protezione umanitaria) e dalla conoscenza dei luoghi e delle situazioni di partenza delle persone.

«Quali sogni hai?»

«Perché sei partito?», è spesso la prima delle decine di domande che gli studenti pongono alla persona rifugiata durante gli incontri.

Le domande arrivano sempre come un fiume in piena: «Come è stato il viaggio con il barcone?», «quanti soldi ricevi dall’accoglienza in Italia?», «cosa fai durante la giornata?», chiedono gli studenti per capire i meccanismi concreti della migrazione. «Quali sogni hai?», «sei stato trattato male qualche volta, anche per le tue origini?», «cosa pensi del razzismo?», per capire a livello più profondo quello che ha dentro di sé una persona che viene da lontano. «Che squadra tifi?», «che musica ti piace?», «quale città italiana vorresti visitare?», «quale cibo preferisci?», «che numero di scarpe porti?», chiedono per stabilire una relazione orizzontale di normalità.

Le domande trovano sempre una risposta, e spesso fanno scattare confronti e discussioni anche profondi.

«Ho visto emergere ragionamenti e aspetti dei miei alunni che non avevo mai notato», mi hanno detto tante volte maestre, maestri, professoresse e professori.

Coinvolgimento emotivo

Un valore aggiunto del progetto è il fatto che i giovani rifugiati coinvolti parlano bene l’italiano. Si evitano, quindi, incomprensioni e difficoltà di dialogo: le loro storie, i loro racconti, arrivano diritti a destinazione, e spesso sono coinvolgenti a 360 gradi.

Ci sono, infatti, momenti di forte emozione, soprattutto quando i rifugiati parlano, con gli studenti più grandi, dei viaggi difficili e pericolosi che hanno affrontato nel deserto del Sahara o nel Mare Mediterraneo, o delle dure condizioni che devono sopportare le persone migranti e dei trattamenti cui sono sottoposte da parte dei trafficanti di esseri umani nelle prigioni illegali in Libia e nelle altre situazioni di violazioni dei diritti umani.

Uno dei momenti più coinvolgenti è quello nel quale Wilfrid racconta ai ragazzi di una canzone gospel che si è messo a cantare assieme ai compagni di gommone quando l’imbarcazione aveva iniziato a imbarcare acqua dopo la rottura del motore.

Durante il racconto, spesso, Wilfrid ne intona una strofa, creando un’atmosfera di forte empatia.

Empatia che trova sollievo quando il giovane camerunese racconta il miracoloso salvataggio da parte di una nave commerciale di passaggio che poi ha consegnato i naufraghi alla Guardia costiera italiana.

Messaggi su carta

«Quando ci ha raccontato quello che ha passato, si poteva percepire che era molto triste e aveva nostalgia del suo paese, ma nonostante tutto era sempre sorridente e per questo lo ammiro. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose e mi sono emozionata», scrive una ragazza di terza media su un foglietto al termine dell’incontro.

Ogni volta chiedo ai ragazzi, in forma anonima se preferiscono, un pensiero a caldo su quanto vissuto: ne ho raccolti migliaia. Sono diretti, a volte taglienti, mai scontati, veri.

«Dei ragazzi come noi hanno delle storie che meritano di essere ascoltate». «Ho imparato che se vedi una persona in difficoltà devi aiutarla perché ogni persona può fare la differenza». «Non sono una persona che prova pregiudizi verso le persone, ma questa esperienza mi ha chiarito le idee, e penso che gli immigrati siano persone come noi, alcune buone altre di meno». «Quando bisogna giudicare un libro si guarda il contenuto, non la copertina».

Nel libro che nasce dal progetto, una sezione è dedicata a molti di questi messaggi. Un’altra, invece, è dedicata a esempi di contaminazione positiva: piccoli fatti capitati dopo gli incontri in classe (come quello tra Wilfrid, la bambina e sua nonna) che aiutano ancora di più a superare le barriere invisibili del pregiudizio.

Per il resto, il testo riporta con ricchezza di esempi le leve che rendono valido un progetto sulle migrazioni proprio partendo da questa esperienza. L’intento è di spronare altre persone, altri enti, altri giornalisti, altre persone rifugiate a replicarlo in altre zone d’Italia.

Serve guardare il mondo con altri occhi, pur rimanendo se stessi: la conoscenza diretta delle storie di vita, oggi più che mai, è necessaria per fare evolvere questa nostra società nella giusta direzione, ovvero con un’identità forte perché aperta verso il mondo. Una società dove le fake news, le notizie false, non devono trovare terreno fertile.

«Come sta Harris?»

«Non è stato semplice, all’inizio, incontrare gli studenti e raccontare di me e della mia vita. Sono riuscito a farlo, ho preso in mano il coraggio e mi sono aperto, confrontandomi e soprattutto imparando molto da loro», ragiona Harris, il primo testimone coinvolto nel progetto di Aeris. «Ho 20 anni e non ho avuto una vita facile. Conoscere così tanti ragazzi ed essere ascoltato pur essendo giovane, è stata per me una grande scuola di vita. Spero davvero sia stato utile anche a tutti loro, uno per uno».

L’esempio che l’utilità c’è stata, e non solo quella, è arrivato direttamente a me a inizio 2021, ovvero quattro anni dopo l’incontro tra Harris e uno studente di prima media che ora affronta le superiori: «Ciao, mi fa piacere rivederti. Ma soprattutto, come sta Harris?», mi ha chiesto il ragazzo in un incontro fortuito per strada. Aggiungendo: «Sai che, nonostante sia passato tanto tempo, ricordo tutto di quello che ci siamo detti in classe? È uno dei ricordi più incisivi che porto dietro dalla scuola media».

Daniele Biella




Perù: 1821-2021. Duecento anni sono pochi

Sommario

 

 


Il maestro venuto dalle Ande

Le elezioni e un bicentenario difficile

Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe  «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.

Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.

Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).

Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).

(Photo by Ernesto BENAVIDES / AFP)

Pedro Castillo

Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.

Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.

Keiko Fujimori

La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).

L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.

Keiko Fujimori (Photo by Miguel Yovera / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Il nuovo colonialismo

Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».

Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).

Golpe, stallo e resistenza

Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.

Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.

Dal 28 luglio 2021

Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.

Paolo Moiola


Da una parte (e dall’altra)

La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni

Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.

Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.

Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.

Un imprevisto di nome Castillo

Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.

Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.

Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).

Una battaglia ideologica

Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.

Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.

Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).

Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».

Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).

Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.

Il crocefisso di Keiko

monseñor Pedro Barreto

Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).

A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.

Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».

Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».

Correzione di rotta e mediazione

Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.

Paolo Moiola


Perù, tempi di maccartismo

La conversazione

Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.

«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.

(Photo by Carlos MAMANI / AFP)

Sono 44.176 voti in più

Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?

«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».

Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?

«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».

Giustizia: carcere sì, carcere no

La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?

«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.

Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».

(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).

Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?

«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori, ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Quel «comunista» di Pedro Castillo

Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?

«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».

La religione e la famiglia peruviana

Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?

«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».

Un paese razzista

Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?

«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.

È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».

La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo

La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?

«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».

Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?

«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa

A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?

«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.

«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».

Il futuro sarà complicato

Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?

«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».

Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?

«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».

 Paolo Moiola


I padroni delle notizie


NOTE:

(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione.
(2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc.
(3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio.
(4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese.
(5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.

FONTI:

Reuters Institute, «Digital News Report 2021»;
OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»;
Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.

A cura di Paolo Moiola
(Luglio 2021)


(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP


Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi

Il fenomeno delle «invasioni»

Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.

Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.

Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.

La Lima bianca e l’altra Lima

Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.

Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.

Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.

La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.

La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.

Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.

Le invasioni, come e perché

Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.

Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.

Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.

In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.

Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.

La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».

«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.

Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.

Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.

Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.

«Al fondo hay sitio»

Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.

Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.

Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.

Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.

Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).

Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.

La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».

Giovanni (Gianni) Vaccaro


Hanno firmato questo dossier

  • Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
  • Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
  • Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.

 




Recovery plan: speranze e dubbi

testo di Francesco Gesualdi |


La tragedia del Covid si è trasformata nell’occasione per ripensare il ruolo dell’Unione europea. Il «Next generation Eu» prevede un intervento da 750 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza. Tuttavia, l’ideologia economica non viene toccata.

Il Covid è stato una tragedia per le sofferenze e le morti che ha provocato, ma per qualcuno è stato come il formaggio sui maccheroni perché gli ha permesso di togliersi qualche castagna dal fuoco.

È successo, ad esempio, alla dirigenza europea che ha potuto invertire la direzione di marcia della propria politica economica senza dover ammettere nessuna colpa. La direzione abbandonata si chiama «austerità», quella intrapresa si chiama «politica espansiva». La motivazione ufficiale è superare la crisi provocata dal Covid. Quella reale è uscire dal pantano provocato da un’impostazione economica al servizio esclusivo di banche e finanza. I fatti sono noti, ma conviene riassumerli.

Finanza contro stati

Nel periodo 2008-2011 molti governi europei ampliarono il proprio debito per salvare gli istituti bancari sull’orlo della bancarotta a causa di scelte azzardate e fallimentari. Ma, invece di ringraziare per il soccorso ricevuto, la finanza approfittò per speculare sulla situazione di difficoltà in cui si erano cacciati i governi. Le vittime predilette furono Grecia e Italia, i paesi tradizionalmente più indebitati. La finanza decise di scommettere sul crollo del valore dei loro titoli di debito pubblico e si organizzò per provocarlo. Così gli italiani dovettero imparare il termine spread che, pur rimanendo misterioso nelle sue dinamiche, comunicava per certo che quando esso saliva le cose andavano male, quando scendeva andavano meglio.

Nel biennio 2010-2012 la situazione divenne catastrofica: la finanza avanzava nel proprio intento speculativo, complici i governi che, pur avendo i mezzi per poterla fermare, avevano la testa troppo intrisa di mercantilismo per utilizzarli. Convinti che le regole di mercato dovessero trionfare sopra qualsiasi altra esigenza, si guardarono bene dal porre regole, divieti e disincentivi per fermare l’offensiva posta in atto dalla grande finanza contro i titoli del debito pubblico. Così, nel tentativo di recuperare fiducia da parte dei mercati, l’unica strategia di difesa che i governi seppero mettere in campo fu quella di autoimporsi regole di finanza pubblica sempre più severe per dimostrare di saper essere debitori affidabili. Del resto, la vera preoccupazione dei governi non era cosa sarebbe potuto accadere sul piano sociale, ma i rischi che avrebbe potuto correre l’euro se anche solo uno dei paesi aderenti all’eurozona avesse dichiarato di non essere in grado di pagare gli interessi o di restituire le quote di capitale in scadenza. Un caso del genere avrebbe potuto indurre la finanza internazionale a fare di ogni erba un fascio e, prendendo le distanze da tutti i paesi che utilizzavano l’euro, avrebbe potuto provocare una svalutazione importante del valore della moneta comune.

Ricordando la Grecia

Nel 2010 la Grecia era sull’orlo della bancarotta e, per evitare che l’euro finisse nel vortice del suo dissesto, l’Unione europea decise di farsi carico dei suoi debiti. Nel contempo, però, le impose delle condizioni draconiane che la strangolavano sul piano sociale. Il patto era chiaro: l’Unione europea le avrebbe concesso nuovi prestiti per permetterle di pagare gli interessi e le rate in scadenza, ma in cambio la Grecia doveva adottare una politica rigorosissima di risparmi per risanare i propri bilanci. Con prezzi sociali altissimi. In nome del pagamento del debito la Grecia venne costretta a operare tagli drastici alla sanità, alla scuola, alle pensioni, agli stipendi stessi dei dipendenti pubblici. Gli effetti furono ospedali senza farmaci di base, masse di bimbi che andavano a scuola senza mangiare, un numero crescente di poveri, di senza tetto e di senza lavoro che potevano sopravvivere solo grazie all’intervento delle agenzie caritatevoli. In una parola era la tragedia sociale. Ma niente sembrava scuotere l’inflessibilità dei fanatici dell’austerità, in particolare i governanti dei paesi dell’Europa del Nord: Germania, Olanda, Austria. Pur di dimostrare al mondo della finanza che la priorità dell’Unione europea era la difesa dei creditori, nel corso degli anni vennero approvati una serie di provvedimenti che accrescevano il ruolo di gendarmeria assegnato all’Unione europea che ora poteva sindacare sulle scelte di bilancio effettuate dai singoli governi con diritto di veto, se non fossero state ritenute coerenti con le attese di riscossione da parte dei creditori. Ma un tarlo cominciava a insinuarsi nella fede incrollabile riposta nel rigore finanziario.

Foto Capri23auto – Pixabay.

Gli effetti dell’austerità

La minaccia avvertita si chiamava stagnazione, la consapevolezza che il taglio eccessivo delle spese governative e familiari avrebbe portato a una caduta importante della domanda, tale da fare imballare il sistema. Del resto il capitalismo è un sistema di mercato il cui epicentro è rappresentato dalle imprese, strutture produttive organizzate per la vendita: se vendono ciò che producono hanno qualche probabilità di crescere e assumere; se non vendono, interrompono la produzione e di sicuro non assumono, addirittura licenziano. Difatti le strette di bilancio si accompagnarono a un blocco della crescita del Pil, se non a una sua riduzione, specialmente fino al 2012. Assieme al blocco della produzione, ci fu anche un aumento della disoccupazione. La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 2015, ma non al ritmo voluto. Le politiche di austerità iniziavano quindi a essere viste con sospetto da parte di qualche politico, ma senza poterlo dire apertamente per paura di essere tacciato come eretico. Tuttavia, anche un’altra esigenza cominciava a farsi pressante, ma non poteva trovare attuazione finché prevaleva l’ideologia del rigore finanziario. La nuova esigenza si chiamava (e si chiama) cambio dell’infrastruttura energetica per provare ad arrestare i cambiamenti climatici. Una trasformazione che richiede investimenti per decine di miliardi, che, se dovessero essere reperiti tramite la normale via fiscale, richiederebbero un innalzamento della pressione fiscale che nessuna comunità nazionale accetterebbe. Stretta fra i due fuochi la classe politica europea rischiava la paralisi, finché non è arrivato il Covid che, con i suoi lockdown, nel 2020 ha provocato un arretramento del Pil all’Unione europea nell’ordine del 7,4%. La pandemia è, quindi, stata presa a pretesto da tutti per operare un cambio di direzione di marcia senza bisogno di lasciarsi andare a una sconfessione ideologica.

Per un’Unione europea di nuova generazione

Oggi anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce) reputano il debito una necessità per il rilancio delle economie messe in crisi dal Covid. Occasione presa al balzo da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea che, durante il suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 16 settembre 2020, ha formulato la sua proposta di rilancio europeo battezzandolo Next Generation Eu, ossia «Unione europea di nuova generazione». Un rilancio finalizzato a due grandi obiettivi: la transizione ecologica e il ritorno alla crescita economica. E come strategia ha proposto la costituzione di un fondo europeo (recovery fund) del valore di 750 miliardi di euro da mettere a disposizione degli stati membri, per la realizzazione delle loro opere di rilancio. Un piano ambizioso, facile da enunciare, ma pieno di nodi da sciogliere per renderlo operativo.

La provenienza dei soldi

Per cominciare, la costituzione del fondo: con quali soldi formarlo? L’indicazione della Commissione europea è stata di finanziarlo con soldi presi a prestito sul mercato finanziario. Una proposta insolita per l’Unione europea, ma ancora più rivoluzionaria considerato che ad essere indicato come intestatario del debito non sono i singoli stati, ma la Commissione stessa. Un vero salto di qualità sulla strada dell’integrazione europea perché è la prima volta che l’Unione europea accetta di indebitarsi in maniera collettiva. Individuata la via del debito condiviso come forma di finanziamento, si trattava di stabilire con quali risorse restituire i prestiti ottenuti. La proposta della Commissione è stata duplice: contribuzione e tassazione. Da una parte ha ipotizzato di innalzare la contribuzione annuale dei singoli stati al bilancio comunitario, facendola passare dall’attuale 1,6% del Pil fino al 2%. Dall’altra ha proposto di innalzare alcune tasse tradizionali a beneficio esclusivo della Commissione europea, o di introdurne di nuove. Fra esse una tassa sulle imprese del web, un’imposta sulle transazioni finanziarie, un nuovo dazio doganale sui livelli di anidride carbonica connessi ai prodotti importati.

Ripartizione e utilizzo

Il terzo nodo da sciogliere era la ripartizione dei fondi tra i paesi membri. Nodo che in realtà è duplice: come determinare la somma complessiva da assegnare a ogni stato membro e sotto quale forma. Per il primo aspetto si è deciso di utilizzare un mix di criteri che comprendono l’estensione della popolazione, la situazione sociale e la situazione economica. Per il secondo aspetto si è deciso che parte dei fondi sarebbero stati assegnati a fondo perduto, parte sotto forma di prestito, gravato di interessi, da restituire nel giro di un trentennio. Riferito all’Italia la conclusione è che il totale a cui può accedere corrisponde a 191,4 miliardi di euro per il 64% (122,5 miliardi) sotto forma di prestiti e il 36% (68,9 miliardi) a fondo perduto.

Il quarto nodo da sciogliere era a quali condizioni elargire i fondi agli stati richiedenti. Il regolamento approvato dal Parlamento europeo il 10 febbraio 2021 pone alcuni vincoli sia rispetto al modo di spendere i soldi ricevuti, che agli obblighi contabili e amministrativi. Rispetto all’utilizzo dei soldi, due capisaldi sono che almeno il 37% deve essere speso per investimenti utili ad abbattere l’anidride carbonica, mentre un altro 20% deve essere speso per la transizione digitale (art. 16). Quanto alla gestione contabile, il regolamento consente alla Commissione europea di sospendere i pagamenti qualora si registrino ritardi, inefficienze o altre inadempienze da parte dei paesi riceventi (art. 24).

Foto Wolfgang Eckert – Pixabay.

Positività e vecchi errori

I paesi interessati hanno fatto arrivare le loro richieste di finanziamento alla Commissione europea. La proposta italiana è stata spedita il 30 aprile e formalmente accettata il 22 giugno con la visita a Roma della presidente Von der Leyen.

Rimandiamo alla prossima puntata l’analisi del piano dell’Italia, che è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Intanto, però, è possibile avanzare alcune valutazioni sull’idea complessiva del Next generation lanciata dall’Unione europea. In particolare ne emergono tre, di cui una positiva, una parzialmente positiva e una negativa.

Quella positiva è il cambio di prospettiva della Ue. Finalmente non più gelida ragioniera attenta solo ai pareggi di bilancio e agli impegni verso i creditori, ma sensibile alle condizioni di vita dei suoi cittadini: salute, lavoro, prospettive di vita. Altrettanto positiva è la determinazione con la quale l’Unione europea conduce la sua lotta contro le emissioni di anidride carbonica. Ma questa positività è offuscata dall’uguale enfasi posta sulla ricerca ossessiva della crescita del Pil, come se la transizione ecologica fosse solo una questione di tecnologia e non una necessità molto più profonda che coinvolge la necessità di ridimensionare i nostri consumi per alleggerire la nostra pressione complessiva sul pianeta in un’ottica di equità internazionale.

Per questo ritengo che gli obiettivi del Next generation siano positivi solo parzialmente. Mentre si può definire negativa la scelta di finanziare il piano tramite prestiti. L’alternativa era ottenere quel denaro direttamente dalla Banca centrale europea (Bce), anche se ciò avrebbe richiesto una revisione dei trattati affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura. Il solo modo per sfuggire alla trappola del debito e mettersi definitivamente al riparo dall’austerità che l’Unione europea ha sospeso, ma non accantonato.

Francesco Gesualdi

 




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




Bambini ai margini:

nella trappola della povertà

testo e foto di Dan Romeo |


Conosciuta come il «Tibet delle Americhe», a causa della sua posizione ad alta quota, la Bolivia vive un forte contrasto tra i celebri e prevedibili paesaggi immortalati sui social e la realtà vissuta dalla gente, soprattutto i più giovani e i bambini.

Quasi la metà della popolazione boliviana ha meno di 18 anni, la maggioranza della quale vive al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Onu. Circa due milioni di bambini vivono in condizioni di estrema povertà. Si calcola che di questi più di 700mila siano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, e che oltre 300mila trascorrano le loro esistenze per strada.

Nell’ottobre del 2019 sono andato a Cochabamba, una delle principali città della Bolivia, per documentare l’impegno della Ong Bolivia Digna, una Ong locale che lavora con l’obiettivo di promuovere e difendere i diritti dei bambini, degli adolescenti e di altri gruppi sociali vulnerabili che vivono nell’esclusione e nella povertà. L’organizzazione offre loro la possibilità di essere e sentirsi semplicemente bambini, alleviando la pressione del lavoro infantile per alcune ore durante l’arco della giornata.

Il lavoro della Ong è reso possibile grazie al supporto di volontari locali e internazionali che si uniscono per offrire ai piccoli la possibilità di giocare, imparare e sviluppare abilità che altrimenti non sarebbero a loro disposizione. L’Organizzazione opera principalmente in alcune aree situate nei sobborghi di Cochabamba e in particolare in alcune comunità rurali del Mercado Campesino e di Arocagua.

Mercado Campesino

Cochabamba si mostra agli occhi dei turisti di passaggio come una città dalla vitalità esuberante. E in rapida crescita a causa della migrazione di migliaia di persone che vi si trasferiscono dalle aree rurali. Questi flussi migratori interni hanno causato il fiorire di una miriade di agglomerati fatiscenti nelle aree di periferia, i barrios, baraccopoli prive delle infrastrutture e servizi di base come acqua, elettricità e fognature.

Mercado Campesino è uno di questi barrios nella zona Nord della città, abitati da persone povere e spesso senza un lavoro che garantisca loro il sostentamento. Molti adulti sono analfabeti e lavorano con orari massacranti per paghe insufficienti ai bisogni della famiglia. Così i bambini soffrono di una mancanza cronica di attenzioni e cure da parte dei genitori che non sono in grado di provvedere alla loro crescita. Bambini e adolescenti sono spesso abbandonati a se stessi, impegnati a prendersi cura dei fratelli più piccoli, e a rischio di diventare vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali e di tratta di esseri umani. Mancano del sostegno necessario per poter sfuggire alla trappola della povertà.

Arocagua, situato a Est, è un altro di quei barrios. Là ho trascorso la maggior parte delle giornate con le macchine fotografiche riposte nello zaino, dedicandomi a interagire e giocare con i bambini. Le mie buffe battute e i racconti improvvisati con uno spagnolo molto elementare e spesso sgrammaticato hanno fatto il resto, rompendo gli indugi e mettendo i bambini a proprio agio. Due settimane sono trascorse veloci alla scoperta delle vite di quei piccoli bambini e delle loro famiglie. Qui ho incontrato Ester. Abbandonata appena nata dai suoi genitori, ha avuto la fortuna di essere affidata alle cure della nonna, una anziana di etnia quechua che non ha mai imparato lo spagnolo e che si prende cura di sua nipote tra le lamiere della loro «casa». Grazie al supporto di Bolivia Digna, Ester è stata adottata a distanza.

Ester con la nonna

Ester

Il Parco Nazionale di Torotoro

Cochabamba è anche la base per avventure ed escursioni ad alta quota, comprese le gite al Parco nazionale di Torotoro. Uno dei parchi più piccoli della Bolivia, Torotoro è rimasto fuori dai percorsi turistici, il che ne rende la scoperta ancora più meravigliosa. I suoi tesori sono geologici, archeologici e storici, con oltre 2.500 impronte di dinosauri incise nelle rocce del periodo paleozoico e cretaceo, canyon e gole profonde dalla vegetazione lussureggiante e grotte calcaree a decine di metri di profondità, grandi abbastanza da ospitare laghi e cascate. Tutto questo accompagnato dalla calda ospitalità, dall’umorismo e dalla curiosità del mosaico culturale e linguistico della gente di qua.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

Questo slideshow richiede JavaScript.




Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Perdenti 64.

Suor Dorothy Stang, difesa degli oppressi

testo di Don Mario Bandera |


Il 12 febbraio 2005 veniva uccisa in Brasile, in piena foresta amazzonica, una suora statunitense settantatreenne, Dorothy Mae Stang (nella cantilenante lingua portoghese-brasileira, amorevolmente chiamata Irmã Dorote) della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur.

Subito balzò agli occhi che non si era trattato di un atto violento di intolleranza religiosa, ma di qualcosa di ben più efferato che scosse, oltre che la sensibilità della grande famiglia missionaria, anche la sonnolenta coscienza collettiva dell’opinione pubblica internazionale. Ma chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili del Nord Est del paese, ella rappresentava una presenza umile e solidale a fianco dei poveri contadini «sem terra» in cerca di terra incolta da coltivare.

Era, suor Dorothy, una presenza viva e scomoda di Chiesa in un luogo dove nessun missionario aveva ancora messo piede, e punto di riferimento per tante famiglie di contadini costantemente in balìa dei grandi interessi economici che con tracotanza, e anche violenza, si contendevano ogni metro quadrato della foresta amazzonica.

Suor Dorothy, col tempo, era diventata una voce profetica in quanto ricordava a tutti che la persona va sempre difesa, in modo particolare gli esclusi della società e i più poveri fra i poveri, e che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate per ricavare più profitti economici a beneficio dei pochi ricchi fazendeiros (proprietari di enormi aziende agricole, latifondisti, ndr) e delle insaziabili multinazionali, ma rispettate, protette e amate perché sono patrimonio di tutti.

Parlaci un po’ di te, chi sei, da dove vieni, perché sei diventata suora e missionaria.

Sono nata il 7 giugno 1931 in Dayton, Ohio, Usa, nella fattoria del tenente colonnello Henry Stang, trasformato in contadino, padre di ben nove figli e figlie. Ex militare, mi ha insegnato un forte senso della disciplina e del dovere. Da lui ho preso anche una grande passione per la natura e la vita contadina. Da mia madre Edna, invece, ho preso l’allegria e la spensieratezza. A sedici anni sono entrata con la mia amica Joan nella congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Questo è successo per due ragioni: la mia partecipazione al gruppo dei Giovani studenti cristiani, dove avevo imparato il metodo del «vedere, giudicare e agire», e il fatto che avevo studiato nella Julienne, una scuola proprio delle suore di Namur, dove si respirava un forte spirito missionario.

Perché sei andata in Brasile?

Dopo gli anni di preparazione, ho fatto i primi voti nel 1951 e ho preso il nome di suor Mary Joachim. Ho passato i miei primi anni come insegnante nelle nostre scuole negli Usa, ma il desiderio della missione è andato crescendo in me, anche sotto la spinta del Concilio Vaticano II. Quando papa Giovanni XXIII ha lanciato un appello alle suore del Nord America affinché mandassero almeno il 10% del loro personale in America Latina, mi sono resa subito disponibile, incoraggiata anche dal fatto che due dei miei fratelli erano diventati missionari. È stato con immensa gioia che nel 1966 ho ricevuto la notizia di essere parte del secondo gruppo di suore di Namur destinate al Brasile.

Sei finita di nuovo nella scuola?

Sembrava la cosa più naturale visto il tipo di attività che la nostra congregazione faceva, ma le cose sono andate diversamente. Appena arrivate in Brasile, nell’agosto del 1966, siamo andate a Rio de Janeiro, nel Centro di formazione interculturale, per imparare la lingua e per l’inserimento nel paese. Là, tra le nostre guide, c’erano Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. Già da subito, l’impatto con la gente delle favelas di Rio ci ha messo in discussione, a cominciare dal nostro modo di vestire, per cui abbiamo lasciato l’abito «da suore» e abbiamo cominciato a vestirci con abiti semplici.

Dopo il corso di inserimento dove siete andate?

Appena prima di Natale siamo partite per la nostra prima destinazione, Coroatá, nel Maranhāo, accolte con calore da due missionari italiani e sistemate in una casa crollata a metà, quindi tutta da sistemare. Pensavamo di insegnare nella scuola, invece ci hanno mandato subito a visitare la gente del posto e ad animare le nascenti comunità ecclesiali di base. Era una pastorale nuova, attenta ai poveri e quindi, quasi da subito, ci siamo trovate in contrasto con i fazendeiros, che erano abituati a dominare tutta la vita dei loro contadini, anche quella religiosa (con messe celebrate solo nelle loro fazendas e feste patronali organizzate in tutto e per tutto da loro).

Un contesto carico di problemi e di tensioni sociali.

Indubbiamente. I latifondisti trattavano i contadini come gli schiavi di un tempo e impedivano qualsiasi azione di riscatto sociale. Anche costruire una scuola era visto male perché avrebbe reso i poveri più coscienti della loro situazione. Inoltre, c’era un meccanismo di sfruttamento ben oleato. Il governo prometteva lotti di terra a chiunque era disposto a entrare nella foresta e disboscare. Così molti poveri contadini senza terra si buttavano all’avventura. Disboscavano, preparavano la terra, la rendevano pronta per la coltivazione. Passati cinque anni, arrivavano i fazendeiros o le grandi multinazionali, che intanto si erano assicurati i titoli di proprietà di quelle terre, e, forti dei loro «diritti», cacciavano via tutti per impiantare le loro grandi fazendas. Nessun compenso era pagato ai contadini, anzi veniva usata la forza della polizia o di sgherri privati per costringere la gente ad andarsene, il tutto accompagnato da case bruciate, pestaggi, imprigionamenti di chi resisteva e anche uccisioni.

E voi closa facevate per aiutare la gente?

La priorità era il sostegno alle comunità di base, poi abbiamo cominciato a celebrare le messe, gli incontri e le feste nei villaggi dei contadini invece che nelle case dei possidenti.

Questo è stato vero a Coroatá, la prima missione. Ma lo stesso abbiamo fatto quando ci siamo spinte ancor più nell’interno, dal Maranhāo al Pará, e ci siamo stabilite prima ad Abel Figueredo (nel 1974) e poi ad Anapu (nell’82), una zona ancora più «calda» nella diocesi di Altamira.

Con una certa audacia fondaste anche il sindacato locale dei contadini.

È stata una scelta ovvia quella di aiutarli a organizzarsi. Era importante che diventassero loro soggetti del loro riscatto. E poi c’era l’istruzione. Immagina che con loro abbiamo costruito (e ricostruito, perché spesso ci venivano bruciate) ben ventitré scuole primarie in un’area dove l’istruzione di base era completamente assente.

Insegnaste anche le tecniche di agricoltura sostenibile.

Certamente. Abbiamo cercato inoltre anche l’incontro e la collaborazione con i popoli indigeni, per renderli coscienti della situazione e far loro comprendere l’importanza di battersi per i loro diritti. Dimostrando a tutti che cosa può fare chi ha fede, coraggio e determinazione per cambiare una parte del mondo disperatamente bisognosa di giustizia.

Ma allora eravate più attiviste sociali che missionarie.

No, proprio perché facevamo ogni giorno una scelta di vita e impegno secondo il Vangelo, avevamo la forza e la lucidità per affrontare quelle situazioni. Era il confronto giornaliero con la Parola di Dio che ispirava non solo me, ma i preti con cui lavoravamo e i leader delle comunità di base.

Inutile dire che la vostra azione sociale e pastorale non era ben vista dai potenti della zona.

Fin dal mio arrivo in Brasile sono stati diversi gli avvertimenti che questi individui ci facevano giungere, mettendoci in guardia per la nostra azione in difesa degli indigeni e dei contadini più poveri. La prima minaccia risale addirittura al 5 agosto 1970. In quel tempo lavoravo a Coroatà, quando un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel centro parrocchiale minacciando le suore che in quella sede riunivano la gente per educarla ai propri diritti.

E non solo noi eravamo malviste, ma anche i sacerdoti con cui lavoravamo e i leader della comunità di base, gli insegnati delle scuole. Molti di loro, e non solo noi suore, hanno pagato con minacce, arresti abusivi, imprigionamenti, torture e anche la morte il loro impegno per la giustizia e i poveri.

In ogni caso la vostra situazione peggiorava di giorno in giorno.

I ricchi moltiplicano i loro piani per sterminare i poveri, riducendoli alla fame. Uno di essi, il sindaco di Anapu, mia ultima destinazione missionaria, se n’era uscito con una frase terribile e lapidaria indirizzata alla mia persona: «Dobbiamo sbarazzarci di questa donna se vogliamo vivere in pace».

Tu però non ne avevi nessuna intenzione di lasciare la tua gente.

So che volevano togliermi di mezzo a qualunque costo, ma io di andarmene non ci pensavo proprio. Il mio posto restava con la gente continuamente umiliata, sfruttata e calpestata».

La mattina del 12 febbraio 2005, «mentre cammina da sola nella foresta, la sua via viene sbarrata da due uomini armati. Dal borsello di plastica, che porta sempre con sé, estrae mappe e documenti per dimostrare che l’area contesa è stata dichiarata riserva per i poveri senza terra. Uno dei due uomini le chiede se ha un’arma. Lei sorride e tira fuori la Bibbia. “Questa è l’unica arma che ho”, dice, e comincia a leggere dalle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Beati gli operatori di pace; saranno chiamati figli di Dio”.

Quando si volta per ripartire, uno degli uomini la chiama. L’altro impugna l’arma, e mentre la suora si gira, le spara a bruciapelo mentre ha ancora la Bibbia in mano. Continua a sparare, sei volte. Poi i due corrono verso i cespugli e fuggono verso la tenuta di uno dei mandanti». (Da Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, Emi 2009).

Dorothy Stang, per il suo sacrificio come «testimone della fede», rappresenta uno dei più luminosi esempi ai nostri giorni di devozione al Vangelo applicata sul campo, accanto ai più umili e poveri, ai così detti «senza voce». Nella sua azione sociale e pastorale, contrastò interessi importanti; per questo venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. Ma la sua testimonianza è tutt’ora viva e la sua memoria, ripropone temi, problemi e impegni attuali più vivi che mai. Ecco perché «la sua storia è tutt’altro che terminata».

Ad ogni anniversario della sua morte, centinaia di persone si radunano attorno alla sua tomba nella foresta amazzonica. Fra esse i rappresentanti delle tante comunità di base sorte soprattutto dopo il sacrificio di Dorothy Stang, per condividere il Vangelo e viverlo sul campo, come lei aveva insegnato. La recente Esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco è un doveroso omaggio a questa piccola donna, paladina della giustizia sociale, e a tutti quelli che hanno donato la vita per difendere la loro fede. 

Ultimo, profetico segnale: nel 2004 – l’anno prima di venir uccisa – suor Dorothy viene insignita con la «Medaglia di Chico Mendes» da parte dell’Organizzazione brasiliana degli avvocati per i diritti umani. Quasi a riconoscerla erede – e tragicamente fu proprio così – del sindacalista, difensore degli ultimi, assassinato nel 1988.

Don Mario Bandera

Da leggere:

Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, EMI, 2009




Nodi da sciogliere

È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.

Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».

E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.

Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…

Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».

Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.

padre Giacomo Mazzotti


Un nome che impegna

Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.

Due nomi, ma uno solo basterebbe

Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».

Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».

Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.

Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».

Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.

Diventare ciò che il nome esprime

Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».

Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».

Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.

Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».

Figli prediletti e felici

Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.

Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».

Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.

padre Francesco Pavese

 


Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198

Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo

È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».

Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.

Biografia divulgativa

È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».

Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.

L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.

Il «mondo» torinese dell’Allamano

Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.

L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.

Apertura missionaria

Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».

Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.

Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».

padre Giacomo Mazzotti




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio