Nm 13,1-3a.25-14,1.26-30.34-35; Sal 105; Mt 15,21-28
Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo
Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano
Gli anni di vita che ho davanti a me saranno pochi, ma anche se fossero tanti, vorrei usarli tutti per fare il bene e farlo bene. Come diceva san Giuseppe Cafasso (zio materno dell’Allamano, ndr): “il bene deve essere fatto bene e senza rumore”.
Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano
Nellla liturgia, la Chiesa ci offre un alimento spirituale concreto. Celebrata con dignità, la liturgia conduce a Dio, mal celebrata ci allontana.
Lun, 2 agosto 2021
Nm 11,4b-15; Sal 80; Mt 14,13-21
Esultate in Dio, nostra forza
Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano
Non basta avere un amore momentaneo della durata di 24 ore. Dio esige un amore forte e costante da coloro che sono chiamati al servizio dei fratelli.
L’uomo al centro
«Naufragio nel Mediterraneo, minori annegati», «Spari sui migranti», «La strage», «Migranti, 139 morti», «Corpi di bimbi sulla spiaggia», titoli come questi sono di casa sui nostri quotidiani o alla Tv. Sono titoli rivelatori di una sofferenza infinita nel mondo, di abusi e sfruttamento, di lacrime e sangue. Sono titoli che non ci toccano più, perché ormai ci siamo abituati alla sofferenza dei poveri, alla loro morte.
«Dobbiamo scrollarci di dosso l’indifferenza e l’abitudine alle cose, anche l’abitudine alla morte.
Abituarsi alla morte è la cosa più terribile. La gente sta morendo, e sono migliaia e migliaia di persone che muoiono e a noi non interessa. Sono altri, sono diversi, non sono dei nostri. Questa è nostra colpa e responsabilità. […] Ma noi aspettiamo il prossimo naufragio e poi sappiamo che ce ne sarà un altro. Questo è terribile, perché […] nessuno più se ne sente responsabile. Fa paura. Stiamo diventando gente senza cuore. Non riusciamo più a commuoverci. Io sono amareggiato e preoccupato, perché è come se la società di oggi dovesse per forza dividersi in due: i buoni e ricchi (da una parte) e i poveri [e i] cattivi (dall’altra). Ma una società come questa, quale futuro avrà?».
Queste sono parole del cardinal Francesco Montenegro, già arcivescovo di Agrigento dal 2008 fino all’inizio del 2021, in un’intervista con il direttore della rivista Nigrizia, Filippo Ivardi, in occasione della Giornata internazionale del mar Mediterraneo, l’8 luglio scorso.
Il cardinale offre poi una provocazione a noi cristiani: «Qui entra in ballo anche la Chiesa. Purtroppo c’è una Chiesa che tace, una Chiesa che sembra non abbia niente da dire, rassegnata. Ma la rassegnazione non è una virtù del Vangelo. Quando uno si rassegna, ammazza il Vangelo, perché il Vangelo parla di speranza, parla di Pasqua, e una Chiesa che non desidera la Pasqua per gli altri è una Chiesa che non sta più vivendo la sua fedeltà. Allora assistere a queste scene di morte, adattarsi a queste situazioni, è aver perso umanità».
Poi una provocazione forte. «È più facile mettersi davanti all’Eucarestia, che non parla, non si muove, dove soltanto io posso dire e divento protagonista dell’incontro, e il Signore è costretto a tacere e ad ascoltarmi. È più difficile mettersi dinanzi all’altro sacramento. Perché il Signore ha scelto questi [due] sacramenti per rappresentarlo: l’Eucarestia e i poveri». Così, però, il Vangelo perde il suo senso e diventa un libro di racconti, una storia da insegnare. Ma il Vangelo non è soltanto qualcosa che si insegna, «perché il Vangelo è l’incontro con Qualcuno. E questo qualcuno purtroppo è inquietante, perché ha scelto delle strade che a noi non piacciono. Lui ce l’ha detto, chi lo vuol seguire deve prendere la sua croce, deve essere pronto a seguire una strada diversa. E il povero è la strada diversa che ci propone». E non basta dare l’elemosina che ci permette di sentirci buoni, perché «il povero è colui che ci giudica. Domani, alla porta del paradiso troveremo i poveri, quelli che cercavano il pane, l’acqua, il vestito, e saranno loro a decidere quale sarà la nostra sorte futura». Sarebbe importante, allora, annunciare forte questo messaggio, invece spesso lo sussurriamo soltanto. Il Signore ci ha detto che dovremmo salire sui tetti a gridare, ma noi preferiamo le nostre nenie nel chiuso delle nostre case e chiese. Invece lui ci ha detto che preferisce l’odore di uomo che quello dell’incenso.
Conclude con una costatazione amara il cardinale: al centro della nostra società «non c’è l’uomo, ma il denaro». Per questo «noi ricchi abbiamo bisogno dei poveri, perché senza di loro non potremmo stare in piedi. Allora inventiamo la povertà, anche se poi la nascondiamo».
Così, la lista dei titoli si allunga: «Licenziati in 422 con una email», «Congo RD, bambini schiavi del coltan», «Capo Delgado, 600mila in fuga nella lotta per il controllo delle risorse», «Amazzonia in fiamme», «Invasione di garimpeiros nelle terre indigene», «Caporalato e sfruttamento», «Aumento dei prezzi di beni di prima necessità», «Ilva e inquinamento», «Meno manutenzione, più profitti», «Eswatini in fiamme», «Eswatini, arresti, morti, incendi e violenze». Chissa se riusciamo a farci toccare da qualcuno di essi («Eswatini? mai sentito nominare!»), specialmente in questi tempi di Covid-19 ed emergenza climatica che hanno visto l’aumento esponenziale della povertà e l’arricchimento scandaloso di pochi. Chissà se i cosiddetti potenti della terra (e i dittatori palesi e mascherati in aumento) hanno ancora orecchie per sentire e cuore per cambiare.
È urgente tornare a mettere l’uomo al centro. Tutto l’uomo, ogni uomo, il più povero per primo.
Noi e Voi
Ai nostri missionari
Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.
Gino Merlo dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021
Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.
Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.
Un dossier per agire
Problemi ambientali, soluzioni sociali
Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.
Degrado ambientale e tenore di vita
Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.
Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.
Povertà e ambiente
Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.
Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.
E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.
Fisco che compensa
Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.
Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.
Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.
Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.
Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».
In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!
A proposito del capitalismo compassionevole
Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.
Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).
Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.
Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.
La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.
Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.
C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.
Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.
Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.
Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.
Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!
A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.
Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!
Marcello Poggi Genova, 14/06/2021
Il ghetto dei miracoli
testo e foto di Amarilli Varesio |
In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.
Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.
«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.
Arriva la polizia
Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».
L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.
«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».
Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.
Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.
Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.
Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.
All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.
Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».
Imparare sbagliando
È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».
Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.
Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.
Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».
Bagni di plastica
Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.
Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».
Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».
Un’università dove sporcarsi le mani
La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».
La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».
D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».
Amarilli Varesio
Giovani, costruite il vostro destino
testo di Marco Bello |
È stato innanzitutto un amico d’infanzia di Sankara. Ci racconta il paese reale, la sfida del terrorismo e i conti ancora aperti con un passato su cui fare giustizia. E ci ricorda l’attualità e l’universalità del messaggio del presidente visionario.
Fidél Toé, classe 1949, è stato ministro del Lavoro, Sicurezza sociale e Funzione pubblica di Thomas Sankara (1983-87). Era amico d’infanzia del presidente visionario del Burkina Faso. Avevano, in fatti, frequentato insieme il liceo Ouezzin Coulibaly di Bobo Diulasso.
«Ho conosciuto Sankara nel 1962», ci racconta. «Abbiamo avuto relazioni sane, abbiamo discusso, a volte non eravamo d’accordo».
L’ex minstro è oggi in pensione, dopo una vita nella funzione pubblica, un mandato da deputato (2002-2007), e anni di impegno nella lotta all’Hiv nel suo paese, come coordinatore della Cellula ministeriale di lotta al Hiv/Aids del ministero del Lavoro e della sicurezza sociale.
Toé ha conosciuto l’esilio, dopo l’assassinio di Sankara, avvenuto il 15 ottobre 1987. Ha passato sette anni tra il Ghana e il Congo Brazzaville (1987-94).
È un signore cordiale e accogliente, e quando parla è subito chiaro che porta dentro di sé una grande fetta di storia del Burkina Faso. «Scriverò una memoria – ci confida -, ho tante cose da raccontare».
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua casa di Ouagadougou. Gli facciamo alcune domande sulla difficile situazione che attraversa oggi il paese saheliano.
Terrorismo islamista
Onorevole, come legge gli ultimi, sanguinosi, attacchi dei terroristi in Burkina Faso?
«Gli attacchi sono iniziati nel 2015, nel Nord del paese. Hanno sorpreso molti, mentre altri se li aspettavano. Con l’insediamento del primo governo del presidente Roch Marc Christian
Kaboré sono arrivati attacchi precisi agli hotel per stranieri, e poi allo stato maggiore dell’esercito. Il presidente ha rivelato che alcune persone sospette avevano reclamato, informalmente, al governo, alcuni veicoli promessi dal precedente presidente, Blaise Compaoré. Secondo me c’è la complicità del vecchio regime. Sono state intercettate telefonate nelle quali si diceva che occorreva destabilizzare il paese.
Oggi, pur non conoscendo la faccia di chi attacca, sappiamo che ci sono tra loro dei giovani burkinabè, reclutati dagli jihadisti. Devo ammettere che in qualche modo anche noi siamo complici, per il fatto di non denunciare i nostri figli. Se un ragazzo che non possiede nulla e non lavora, torna al villaggio pieno di soldi, certo non li ha vinti alla lotteria. Li ha ottenuti tramite le armi, la droga o la frode.
Sono questi elementi endogeni che permettono al terrorismo di attaccare, installarsi e sfruttare. Come nell’ultimo attacco a Solhan (vedi box), un villaggio nei pressi del quale si estrae oro in maniera tradizionale. Le autorità dovrebbero capire che se abbiamo l’oro non dobbiamo metterlo a disposizione di chiunque. La ricerca artigianale di questo metallo è oggi fonte di insicurezza, perché nei pressi dei siti si installano persone giunte da ogni dove, anche dall’estero, e non si ha più il controllo di chi è presente sul territorio. Inoltre, le nostre frontiere sono molto permeabili. In fondo penso ci sia una mancanza dei servizi d’informazione oltre che una debolezza organizzativa.
Durante la rivoluzione (sankarista, 1983-87, ndr), chiunque arrivasse in un villaggio doveva presentarsi alle autorità e al Cdr locale (Comitato di difesa della rivoluzione), per essere registrato. Inoltre, un altro problema è che non abbiamo insegnato alla popolazione a difendersi, così la gente scappa di fronte al nemico».
Ma non dovrebbero essere l’esercito e la polizia a garantire la sicurezza dei cittadini?
«È vero, ma in queste situazioni. quando il problema è troppo grande per l’esercito, penso che la popolazione debba sapersi difendere. Si tratta di autodifesa per supplire alle mancanze delle forze di sicurezza. In diversi casi di attacchi, l’esercito era a decine di chilometri, ed è potuto intervenire solo in un secondo tempo. Le nostre frontiere sono difficili da controllare con l’esercito che abbiamo. Ci sono pure soldati che si rifiutano di andare in zone remote. Forse c’è un problema a livello delle gerarchie militari.
Poi c’è la questione dei siti auriferi. Se c’è una popolazione che si organizza per sfruttare l’oro, deve anche essere disponibile a impiegare dei soldi per la sicurezza, per proteggere il minerale estratto. In altri paesi succede così».
Più in generale, come valuta la lotta al terrorismo da parte di questo governo?
«Devo dire che non ci sono stati risultati, quindi c’è un fallimento da questo punto di vista. I servizi non funzionano, non si sa quando arriva il nemico. Dicono che si è fatto un negoziato, ma in verità non è cambiato nulla. Non si è ancora trovata la soluzione».
Inoltre il terrorismo a livello internazionale sembra una scusa per una presenza straniera nel paese.
«Il ricorso a forze straniere dimostra l’impotenza della nostra nazione di affrontare il nemico. Penso che non si sia spiegata in modo adeguato l’importanza di questa lotta ai nostri giovani, perché vediamo dei burkinabè che criticano l’intervento straniero, ma essi stessi non fanno nulla. Non c’è in noi la coscienza che dobbiamo batterci e che, chi può, deve andare al fronte. Ci sono tanti, anche della società civile, che sono contro l’intervento militare, che trovano troppo violento, ma loro non si sporcano mai le mani. Non c’è una guerra con le mani pulite. Ci saranno altre situazioni difficili, queste persone sono molto violente. Negli eventi di Solhan si vede la barbarie. E questo ti fa diventare barbaro, e ti fa chiedere una giustizia punitiva immediata».
L’insurrezione
Parlando dell’insurrezione del 2014 e poi di quella del 2015 contro il colpo di stato, cosa è rimasto del movimento popolare?
«Nel 2014 c’è stata un’insurrezione salutare, che ha visto la fuga di un uomo che non voleva più lasciare il potere, mentre la nostra Costituzione prevede che il capo di stato può stare 5 anni, rinnovabile una volta. Ma Blaise Compaoré voleva un rinnovo perpetuo.
Le forze che hanno fatto l’insurrezione erano dei vecchi amici del partito di Compaoré che si erano dimessi (alcuni mesi prima, ndr) unendosi all’opposizione storica. Movimento che si era rafforzato con i giovani di Ouagadougou e di tutto il paese che si sono sollevati affinché ci fosse un rinnovamento.
Però, quando si fa un’insurrezione, e non c’è uno stato maggiore che dica, nel caso di successo, che cosa si farà, ecco che altri, più organizzati, possono appropriarsene. È quello che è accaduto qui con i militari, che hanno “recuperato” i risultati della rivolta. L’esercito è organizzato, ha potuto subito dire chi aveva preso il potere, mettere in piedi un sistema di sicurezza (per evitare derive, ndr). Hanno presentato un volto unico, mentre i partiti politici, che avevano mandato via Compaoré, non sono riusciti a presentare una struttura e una visione unica del dopo insurrezione. I militari stessi hanno messo in salvo il presidente deposto, facendolo fuoriuscire dal paese in segretezza.
Allo stesso tempo hanno utilizzato il linguaggio degli insorti e hanno preso le redini. Le contraddizioni sono poi venute fuori con il colpo di stato del generale Dinederé (sventato da una successiva insurrezione, ndr).
Oggi assisto a un fenomeno che mi fa sorridere, ovvero gli ex del sistema Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso, il partito di Compaoré che ha regnato 27 anni, ndr) che minacciano di preparare un’insurrezione contro questo governo, che è stato acquisito a sua volta dopo un sollevamento popolare.
Aspettiamo di vedere cosa faranno. Dicono che il regime attuale è fallito. Il governo ha creato delle forze speciali, e loro dicono di essere contrari, che esisteva già il Rsp (Reggimento di sicurezza presidenziale, il corpo militare scelto che proteggeva il presidente ed è stato origine del colpo di stato del 2015, ndr). Ma questo proteggeva un uomo e la sua famiglia e non la popolazione. Gli ex del Cdp dicono che il governo deve dare le dimissioni, altrimenti loro lo cacceranno con la forza. Poi chiedono che per la riconciliazione nazionale si faccia tornare Blaise Compaoré, che attualmente ha cambiato nome in Kouassi Kodjo, e vive in Costa d’Avorio».
Verità e giustizia sul passato
Facendo un passo indietro, in questo periodo si parla molto del processo contro i responsabili dell’uccisione di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni, quel 15 ottobre 1987. Lei come è coinvolto?
«Tutti gli elementi d’indagine sono riuniti affinché il processo possa cominciare. Il giudice d’istruzione, di grande competenza, ha convocato molti testimoni. Io stesso sono stato chiamato a testimoniare e ho raccontato quello che so. Devo dire che nessuno, prima d’ora, mi aveva convocato su questo. Ci hanno accusato di tante cose, me e Sankara, ma nessuno mi aveva mai interrogato.
Inoltre, il giudice d’istruzione, ha finalmente avuto accesso ai dossier francesi sul caso, che erano secretati. Qui tutti (gli avvocati, la famiglia, io stesso) pensano che il processo avrà luogo.
Per questo chiediamo che il termine “Riconciliazione nazionale” non sia esibito per dire, dobbiamo stare zitti, ma, al contrario, occorre fare verità su quanto è successo. Un paese che non ha la verità sul suo passato, che mente a se stesso, non può andare avanti. Non potrà dire di voler giudicare i ladri, se non ha fatto luce sui suoi dirigenti.
Penso che ci sarà il processo, e che il presidente Sankara possa essere sepolto, perché i suoi resti attendono ancora un degno commiato. Spero che si faccia presto, perché da quando se ne parla alcuni testimoni sono già deceduti. Stiamo diventando vecchi».
L’attualità di Sankara
Qual è l’attualità del messaggio del presidente Thomas Sankara per i giovani del Burkina Faso?
«Un messaggio per i giovani dell’Africa e del mondo, che ha superato la dimensione geografica del Burkina Faso. I giovani si devono organizzare seriamente. Non devono aspettarsi che tutto sia facile, ma devono responsabilizzarsi per prendere in mano il proprio destino. Occorre avere uno sguardo nuovo sul modo in cui organizzarsi, in tutti i settori di attività. Sankara voleva rivoluzionare i diversi settori. È stato il primo a parlare contro la deforestazione, per la protezione della natura, per un’economia endogena. Altrimenti consumiamo prodotti provenienti dall’estero e non sviluppiamo la nostra economia. Come, ad esempio, l’allevamento di piccoli animali, nel quale siamo forti.
L’avvenire del Burkina Faso non è nelle miniere d’oro. I giacimenti si sono costituiti durante periodi molto lunghi, non si può venire e sfruttarli per dieci anni, portando via tutto, dando allo stato solo qualche inezia e dicendo che si contribuisce al paese.
Sankara ha sempre detto che anche se troviamo del petrolio in Burkina, non sarà quello che ci salverà. Basta guardare ora in che stato è l’economia di tutti quei paesi che hanno trovato il petrolio, con i loro dirigenti che rubano i soldi derivati. Per l’oro è la stessa cosa».
L’insurrezione ha in qualche modo «sdoganato» la figura di Thomas Sankara, prima se ne parlava di nascosto, adesso sono tutti sankaristi.
«È vero, Thomas Sankara suscita molto interesse. Ci sono scritti che possono essere utili, altri lo sono di meno. Per esempio, c’è un libro scritto da un italiano che non conosco (Toé si riferisce a un romanzo pubblicato in Italia, ndr), che si sarebbe ispirato alla biografia scritta dal mio amico Bruno Jaffré (il biografo di Thomas Sankara, ndr). Mi hanno mandato qualche pagina di questo libro, nel quale l’autore parla di me in termini che ho trovato offensivi e irritanti. Prima di tutto non capisco perché in un romanzo (una fiction), anche se su Thomas Sankara, sia stato utilizzato il mio nome. Perché si sia parlato dei miei genitori, scrivendo Jérôme Toé, che non è il nome di mio padre. Se è stata fatta della fiction, bisogna farla con nomi inventati.
Il rapporto tra me è Sankara è presentato in modo falsato. Abbiamo sempre fatto dell’emulazione sana, per arrivare all’eccellenza, non ci copiavamo, ma potevamo completarci. Sankara è stato per me un amico e un compagno. E lui diceva che io ero un fratello per lui.
Quando aveva bisogno di qualcuno di fiducia, mi chiamava, e sono sempre stato al suo fianco. Prima come direttore di gabinetto della comunicazione, quando era segretario di stato, poi come ministro. Ho parlato con lui al telefono trenta minuti prima che fosse ammazzato. Scriverò un libro di memorie, con la mia verità».
�Bruno Jaffré, Burkina Faso. Les années Sankara, L’Harmattan, 1989.
�Lila Chouli, Sur l’insurrection populaire et ses suites au Burkina Faso, L’Harmattan-Sénégal, 2018.
�Marco Bello, Enrico Casale, Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri, Infinito edizioni, 2016.
Il paese combatte il terrorismo e cerca la verità sul suo passato
Massacro nel Sahel
Gli attacchi terroristici islamisti, iniziati nel 2015, continuano a insanguinare il Burkina Faso. A Solhan, nel giugno scorso, si è toccato il record di vittime. Di mezzo c’è l’oro, e il finanziamento che i gruppi jihadisti ne traggono. Intanto l’opposizione politica chiede conto al governo sulla sicurezza.
È la notte tra il 4 e il 5 giugno scorso. Verso le due del mattino una banda di giovani in motocicletta arriva al sito aurifero nei pressi del villaggio Solhan, capoluogo del comune rurale omonimo (entità amministrativa più piccola).
Gli assalitori attaccano inizialmente la postazione dei Volontari per la difesa della patria (Vpn), una sorta di milizia di autodifesa composta di persone della popolazione. In seguito, si dirigono verso le case, sfondano le porte e uccidono direttamente chi vi abita, senza chiedere nulla e senza considerare l’età. Saccheggiano il possibile, danno fuoco ad alcune case, poi ripartono. Piazzano dell’esplosivo sul ponte della strada che collega Solhan a Sebba, a una decina di chilometri. Causerà altre vittime.
Il bilancio ufficiale è di 132 morti, ma altre voci portano il numero a 150. Molti sono anche i feriti. Si tratta dell’attacco più sanguinoso che il Burkina Faso ha subito sul suo territorio, dall’inizio degli eventi di questo tipo, nel 2015.
In quell’anno il Burkina Faso stava vivendo una transizione politica, seguita da un’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni (cfr MC febbraio 2016). Un colpo di stato del Reggimento di sicurezza presidenziale guidato dal generale Gilbert Dienderé, aveva tentato di bloccare il cambiamento nel settembre 2015, ma il movimento popolare, con l’appoggio internazionale e, soprattutto, dell’esercito, era riuscito a evitare il peggio. La transizione era ripresa e un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré si era insediato il 29 novembre. Il suo governo aveva giurato il 12 gennaio 2016. Tre giorni dopo, un attacco in grande stile era stato perpetrato da jihadisti nel cuore della capitale, facendo 30 vittime di 18 nazionalità.
Da quel giorno gli attacchi si sono moltiplicati nel Nord del paese, per poi estendersi a Est e Sud Est, senza risparmiare la capitale. Si hanno evidenze di contatti diretti tra Compaoré, quando era presidente, e gruppi jihadisti, che avrebbe preservato il paese dalle incursioni.
Solhan, come detto, è un sito aurifero, ed è sfruttato da cercatori d’oro artigianali. Sono situazioni particolari, in cui il tessuto sociale è completamente stravolto. Qui sono installati, senza controllo, decine di migliaia di cercatori d’oro, molti provenienti da paesi vicini. Nell’agosto 2020, il Consiglio economico e sociale del Burkina Faso, ha pubblicato uno studio sul «lavaggio di denaro sporco e finanziamento del terrorismo», con focus sul paese.
Oltre a ricevere finanziamenti dall’estero, i gruppi jihadisti si autofinanziano sfruttando le risorse del territorio che occupano, come le miniere artigianali, o imponendo tasse e balzelli alla popolazione. Dallo studio risulta che dal 2016 al 2020 i terroristi hanno raccolto più di 140 miliardi di dollari, solo tramite gli attacchi o balzelli a siti auriferi artigianali, come quello di Solhan. Normalmente i siti nei quali i cercatori non pagano, vengono attaccati.
Il governo, il 7 giugno, ha disposto la chiusura di tutti i siti auriferi artigianali delle province di Oudalan e Yahga (qui si trova Solhan).
Nella regione sono presenti gruppi jihadisti legati alle due principali formazioni: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda, e lo Stato islamico nel grande Sahara, legato all’Isis. Si tratta di due coalizioni di una galassia di gruppi che talvolta si scontrano tra loro.
L’attacco di Solhan, che non è stato l’ultimo, secondo il governo è stato perpetrato da un gruppo burkinabè, denominato Mouhadine, che significa «Genti solidali», attivo dal 2019 in Burkina, ma anche Niger e Benin. Le forze di sicurezza avrebbero arrestato due elementi del gruppo.
Il presidente Kaboré – rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020 – ha pure tentato di avviare una tre giorni (17-19 giugno) di «Dialogo politico», con tutti i partiti del paese. Ma alla fine l’opposizione si è sfilata, e per voce del Capofila dell’opposizione politica (è una figura istituzionale), Eddie Komboigo, ha indetto manifestazioni di protesta contro l’insicurezza e in memoria delle vittime, a inizio luglio.
Intanto, alcuni politici legati al partito di Blaise Compaoré, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), vogliono organizzarsi per il ritorno dell’ex presidente e la riconciliazione nazionale. Ma prima, occorre fare verità sul passato, a partire dall’assassinio di Thomas Sankara.
Marco Bello
Trascendenza e culto dei morti
testo e foto di Piergiorgio Pescali |
È una regione della Francia, ma la penisola della Bretagna ha origini e caratteristiche tutte sue. Ne sono testimonianza concreta la lingua (appartenente al gruppo celtico), ma anche i suoi monumenti religiosi: dai «dolmen» ai «menhir» fino ai «calvaires» dell’epoca cristiana.
Paul Gauguin (1848-1903) è conosciuto dal grande pubblico per i quadri dipinti durante i suoi due soggiorni a Tahiti, negli ultimi anni della sua vita.
Prima di quel periodo, però, vi fu un’intensa preparazione artistica e tecnica sviluppatasi durante la sua permanenza in Bretagna, a Pont-Aven e a Le Pouldou. Lì, in una breve quanto tormentata fase della sua vita, l’artista francese inaugurò quella forma pittorica denominata a volte «sintetismo», altre volte «ideismo», che lo portò a produrre quadri che troveranno la loro definitiva completezza in Polinesia. Tra di essi ve n’è uno, considerato opera minore e oggi conservato al Museo reale di belle arti di Bruxelles. Dipinta nel 1889, subito dopo la più famosa Il Cristo giallo, la tela è intitolata Il Cristo verde e ritrae una donna bretone seduta sulla base di una scultura in pietra che raffigura la deposizione di Gesù dalla croce.
È, quella scultura, un «calvario», una rappresentazione tipica delle terre bretoni che testimonia la religiosità di una terra aspra e dura, francese de jure, ma indipendente per tradizione e vanto. Coluche, l’attore comico italo-francese (1944-1986), disse una volta che «la Bretagna è bella e poi non è lontana dalla Francia».
Sviluppatisi in quei «recinti parrocchiali» (enclos paroissiaux in francese) nati tra il IX e l’XI secolo e continuamente arricchiti di elementi artistici e architettonici, i calvari della Bretagna rappresentano l’ultima fase di completamento spirituale che ha avuto inizio ben prima dell’avvento del cristianesimo.
«Dolmen» e «menhir»
Per capire l’importanza e la peculiarità di queste realtà religiose occorre individuare il profondo legame che connette il popolo bretone con la trascendenza. Un rapporto che affonda le radici nella preistoria, qui ben rappresentata dai numerosi dolmen e soprattutto menhir che costellano a centinaia le colline della regione.
Del resto, dolmen e menhir sono due parole bretoni che significano rispettivamente «tavola di pietra» (dol, tavola e men, pietra) e «pietra lunga» (da men e hir, lunga). Innalzati cinque-seimila anni fa da civiltà pressoché sconosciute (i più famosi druidi arrivarono ben dopo), i menhir vennero trasformati dal cristianesimo in una sorta di protocalvari con la sola aggiunta di croci sulla loro cuspide.
Dai Galli ai Celti: il cristianesimo bretone
Furono popolazioni celtiche, provenienti per lo più dal Galles e dalla Cornovaglia, a introdurre il cristianesimo e a sostituirsi ai galli. L’Armorica romana divenne la «Piccola Bretagna» per differenziarsi dalla «Grande Bretagna», ma i legami con le terre d’origine vennero mantenuti.
Tutti i sette santi ritenuti fondatori della Bretagna erano nati e avevano studiato in Galles, avevano predicato chi in Irlanda, chi in Scozia per approdare poi sulle coste del continente europeo tra il V e il VI secolo d.C. dando vita a una fede tra le più incrollabili di Francia. Un pellegrinaggio, il Tro Breizh («Il giro della Bretagna», noto anche come Pèlerinage des Sept-Saints de Bretagne), collega attraverso seicento chilometri le sette cattedrali dedicate ai padri del cristianesimo bretone.
«Terra di vecchi santi e di bardi» recita il Bro Gozh ma Zadoù (Vecchia terra dei miei padri), l’inno della Bretagna che, oltre a spartire con le regioni britanniche una cultura ancestrale, ne condivide anche la lingua. Per secoli il mare è stato fonte di unione, mentre le foreste che dividevano la regione dal regno franco occultavano l’orizzonte e le luci di Parigi. Un proverbio afferma che quando Parigi sarà inghiottita dalle acque, riemergerà la città di Ys, la leggendaria capitale bretone situata nella baia di Douarnenez distrutta per i peccati di Dahut, la figlia del re Gradlon. Il mito, che ricorda quello di Sodoma, rimane vivo ancora oggi tra le famiglie della Bretagna a testimonianza di una dicotomia franco-bretone non ancora completamente sanata.
Lontani da Parigi
Dopo l’allontanamento dei normanni (939), il ducato di Bretagna si mantenne virtualmente autonomo dal regno di Francia fino al 1547. Durante questo periodo i duchi di Montfort, che amministrarono gran parte della regione, svilupparono un fiorente commercio di lino e tessuti con le isole britanniche, orientando l’economia della regione al di là della Manica piuttosto che verso l’esecrata Parigi.
La ricchezza che ne seguì favorì sia le classi più povere che i feudatari ripercuotendosi sulle parrocchie. Il clero locale vide le entrate finanziarie aumentare enormemente in pochi decenni: i meno abbienti davano parte dei loro magri introiti come ringraziamento, mentre le famiglie più ricche «si sdebitavano» della loro agiatezza su questa terra comprando indulgenze per la vita dopo la morte.
Recinti parrocchiali, peste e processioni
È da queste premesse che, a partire dal IX secolo, iniziarono a sorgere i «recinti parrocchiali», complessi architettonici cristiani (chiesa, cappella, cimitero, ossario) chiusi. Il primo fu quello di La Martyre, nel dipartimento di Finistère, ma ben presto ne seguirono altri scatenando una competizione che si prolungò nei successivi sei secoli. Le parrocchie chiamavano i migliori architetti e scultori per avere le enclos più belle e prestigiose in grado di richiamare fedeli da tutta la Bretagna.
In un’epoca in cui la manipolazione del denaro era vista con sospetto, le enclos paroissiaux servivano anche a separare fisicamente le attività commerciali (le fiere, i mercati, le compravendite) dalla vita religiosa. Le barriere così create impedivano la mescolanza tra il mondo sacro e quello mondano e, non ultimo, ostacolavano l’accesso agli animali.
I primi recinti comprendevano solo la chiesa e il cimitero. Non dimentichiamo che i villaggi erano formati al massimo da poche decine di famiglie e quindi, almeno nei primi decenni, il terreno occupato dal camposanto non aveva necessità di grandi estensioni.
Nel settembre 1347, dalle navi in porto a Marsiglia cominciò a diffondersi anche in Francia la peste nera che raggiunse la Bretagna alla fine dell’anno successivo. Le guerre di successione in atto tra i conti di Blois e i duchi di Montfort favorirono la propagazione della pandemia che continuò a falciare vite fino alla fine del secolo. La pestilenza non cessò del tutto, ma rispetto al resto dell’Europa, alla Bretagna venne in parte risparmiata l’ecatombe: il batterio Yersinia pecstis riuscì a essere confinato in alcune città grazie ad una severa politica di segregazione che salvò le campagne dal morbus pestiferus. Fu in questo periodo che iniziarono a divenire popolari i pardons, pellegrinaggi penitenziali (ancora oggi in uso), dedicati a un particolare santo a cui chiedere una grazia, un favore o a cui semplicemente rendere grazie.
Il collegamento alla peste di queste processioni è chiaro se si pensa che i santi più acclamati erano San Rocco e San Sebastiano e i pardons partivano o arrivavano non presso le chiese, ma più spesso nei pressi di una fontana da dove sgorgava acqua pura di sorgente. Le fontane erano spesso considerate, assieme ai santi, dispensatrici di poteri purificatori capaci di allontanare le epidemie e di mondare dai peccati alla stregua del battesimo cristiano.
L’«Ankou», la morte
Fu invece la successiva ondata epidemica a colpire, con più ferocia della precedente, la Bretagna dopo la metà del XVI secolo ravvivando la fede delle comunità. I lazzaretti vennero presto riempiti e le autorità obbligarono i contagiati a rintanarsi in casa segnando le porte con calce bianca. Era loro concesso di uscire all’aperto per pochi minuti al giorno, ma in tal caso dovevano indossare una tunica con una croce bianca avvisando del loro passaggio con il rumore di un bastone picchiato sul selciato.
I morti divennero talmente numerosi che i cimiteri non bastavano più a contenere tutti i cadaveri che, già a partire dal XIV secolo, venivano riesumati con maggior frequenza. La seconda peste obbligò ad accelerare il disseppellimento e a partire dal XVI-XVII secolo i resti vennero conservati negli ossari, garnal in lingua bretone. Come le tombe, anche gli ossari erano rivolti verso Est e come le lapidi cimiteriali anche su questi ossari difficilmente si trovano le croci. I fedeli potevano osservare le ossa dei defunti, spesso ammonticchiate le une sopra le altre, da finestrelle. La porta, chiamata Porz a maro, «Porta della morte», che consentiva l’accesso all’interno della struttura era ornata da rilievi che mostravano riti di passaggio verso l’immortalità mutuati dal mondo celtico la cui figura più comune è l’Ankou, la morte, spesso raffigurata come uno scheletro avvolto in un mantello e con una falce o un’ascia tra le mani e accompagnata da frasi ammonitrici. Nel recinto parrocchiale di La Roche-Maurice accanto a una delle rappresentazioni più famose dell’Ankou si legge la scritta «Vi uccido tutti» e «Uomo, ricorda che sei polvere», mentre a La Martyre l’ossario accoglie i fedeli con un «Morte, giudizio, gelido inferno: quando l’uomo pensa a tutto questo deve tremare».
Dal XVIII secolo le famiglie più ricche iniziarono a mettere i teschi dei loro defunti nelle boîte à chef (cassette dei teschi) identificate per nome ed età del morto accompagnando la traslazione con canti e litanie che ricordavano che sulla terra «non c’è più nobiltà, né ricchezza, né bellezza! La terra e i morti si sono confusi e uniti!».
I calvari
Ciò che caratterizza maggiormente le enclos sono sicuramente i calvari, che iniziarono ad apparire dopo il 1450 a Tronoën ed ebbero il loro epilogo a Saint-Thegonnec nel 1610. A volte sono solo semplici croci in pietra su cui è raffigurata la deposizione o Maria Vergine e Maria Maddalena. Altre volte sono vere e proprie storie animate da decine di personaggi. Sono questi i calvari più ammirati e famosi, che si trovano a Gumiliau, Plugastel-Daoulas, Pleyben, Saint-Jean-Trolimon, Guehenno, Plougonven. Artisticamente sono il risultato di un lungo processo di trasformazione che ha rimodellato i menhir preistorici in strutture più elaborate, ma rivolte, fisicamente e spiritualmente, sempre verso il Cielo. La cuspide smussata delle «lunghe pietre» viene sostituita dalla croce e la parte più massiccia che affonda nel suolo si trasforma nelle scene evangeliche più rappresentative e note. Dal punto di vista strettamente religioso i calvari sono le biblia pauperam destinate ai fedeli. I parroci li utilizzavano per insegnare catechismo, i devoti riconoscevano le fasi della vita di Cristo e la sua Passione.
La certezza della Resurrezione, identificabile nei cimiteri dove le tombe sono rivolte verso Est, si ripercuote nelle scene dei calvari, privi di qualsiasi accenno ai miracoli di Cristo. La Salvezza non è un miracolo, ma una certezza. Tutto si sviluppa attorno alla croce, simbolo di salvezza, e le scene non seguono mai uno schema e una cronologia ben definita lasciando all’artista la scelta di ciò che vuole rappresentare e la posizione all’interno dell’opera. Vi sono calvari in cui i personaggi sono vestiti con abiti bretoni del tempo, altri in cui indossano abbigliamenti più ligi agli eventi descritti nei Vangeli. In comune tra loro hanno la divisione in due parti: la vita di Gesù prima dell’entrata a Gerusalemme (annunciazione, visitazione, natività, epifania, fuga in Egitto, presentazione, battesimo, tentazioni) e le ultime fasi della vita di Cristo dopo la domenica delle palme (entrata a Gerusalemme, ultima cena, lavanda dei piedi, Getsemani, processo, via crucis, la Veronica, crocifissione, morte, deposizione, tumulazione, resurrezione).
Diavolo e inferno
L’unica libertà mondana che si prendono alcuni scultori è la rievocazione di Katell Kollet («Caterina la perduta») che si trova nei calvari di Guilimiau e Plougastel-Daoulas. Caterina, nipote del Conte Morris signore di La Roche-Maurice era una bella sedicenne il cui unico scopo nella vita era il divertimento e il ballo. Per questa sua «leggerezza» venne rinchiusa sino a quando non avesse deciso di maritarsi. Liberata da un servo compiacente si rifugiò a La Martyre dove la coppia ballò sino allo sfinimento. Il servo morì, ma Katell, desiderosa di continuare la danza, invocò il diavolo che, presa la palla al balzo, la rapì portandola all’inferno. Caterina Kotell divenne quindi Caterina Kollet. La leggenda è molto popolare in Bretagna, tanto da dare il nome a una band musicale che continua la tradizione dei gwerz, i canti popolari.
Come scrisse Anatole Le Braz (1859-1926) ne La leggenda della morte, «tra tutti i popoli celtici, i bretoni sono forse quello che ha conservato più intatta l’antica curiosità della razza per i problemi della morte».
Piergiorgio Pescali
Variante Delta, variabile Modi
testo di Maria Tavernini |
Il disastro era previsto e annunciato, ma la classe politica al potere ha minimizzato, preferendo raccogliere consensi più che mettere in sicurezza il paese. E le conseguenze dello tsunami seconda ondata hanno colpito anche il resto del mondo.
A fine gennaio scorso, al vertice di Davos del Forum economico mondiale, il primo ministro indiano Narendra Modi aveva sostenuto che il paese avesse dimostrato al mondo come gestire una pandemia.
«Quando è arrivato il Covid-19, anche l’India ha avuto i suoi problemi – aveva dichiarato il premier -. All’inizio dello scorso anno, diversi esperti e organizzazioni avevano previsto che l’India sarebbe stata il paese più colpito dalla pandemia. Qualcuno aveva anche detto che si sarebbero contagiate 700-800 milioni di persone e che due milioni di indiani sarebbero morti».
Secondo Modi, l’India – che ospita quasi il 18% della popolazione mondiale con 1,38 miliardi di persone, ed è il più grande produttore globale di vaccini, tanto da essere definita la «farmacia del mondo» – non solo si era presa cura dei suoi cittadini, ma aveva anche aiutato altri paesi esportando kit, mascherine e, più di recente, vaccini.
Un lockdown brutale
Dopo la prima ondata di Covid-19 che aveva solo lambito il paese con un tasso di mortalità molto basso e contagi relativamente sotto controllo, soprattutto se rapportati alla popolazione, enorme e molto giovane (età media 29 anni), le autorità avevano cantato vittoria e abbassato la guardia. Sembrava già lontana la brutalità del primo lockdown, imposto a fine marzo 2020 con sole quattro ore di preavviso, che in un’economia basata per l’86% su scambi e rapporti informali, aveva scatenato un incontrollato esodo di lavoratori a giornata e di poveri urbani verso le campagne, e innescato così una grave crisi umanitaria per milioni di persone ai margini della società.
La super diffusione del Kumbh Mela
Dopo un inverno di apparente quiescenza del virus con meno di 10mila nuovi casi al giorno, l’allora ministro della salute Harsh Vardhan, a marzo scorso, aveva trionfalmente annunciato la fine della pandemia nel paese e il ritorno alla «normalità».
Niente poteva essere più lontano dalla verità, ma il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party, spinto da una contrazione del Pil del 7,7%, aveva deciso di allentare le restrizioni e far ripartire l’economia.
Mentre il mondo era costretto in casa dalla violenza della seconda ondata e i numeri iniziavano a risalire anche in India, il governo aveva permesso che si tenesse il Kumbh Mela, il più grande raduno umano al mondo: un festival hindu che si celebra a cadenza ciclica in quattro città indiane.
Nonostante le restrizioni, tra gennaio e marzo 2021, oltre tre milioni di pellegrini erano arrivati ad Haridwar da tutta l’India, ammassati sulle rive del Gange per il bagno rituale nel fiume sacro.
Il Kumbh Mela si sarebbe trasformato in un evento «super diffusore» con migliaia di casi collegati.
Solo un anno prima, durante la prima ondata, un altro raduno religioso, in quel caso musulmano, della Tablighi Jamaat, tenutosi nella moschea di Nizamuddin a Delhi – quando i casi giornalieri erano ancora bassi – i fedeli musulmani (poche migliaia, non milioni) erano stati bollati come «corona jihadi» e incolpati dalla destra hindu di aver fatto detonare i casi di Covid-19 nel paese.
Diversi media indipendenti avevano poi smontato quella narrazione ed evidenziato come la comunità musulmana – la più grande minoranza religiosa in India, oltre 200 milioni di persone – fosse stata usata come capro espiatorio dell’aggravarsi della pandemia nel paese.
I comizi oceanici di Modi
Un anno dopo, con i casi in rapido aumento e il Kumbh Mela ancora in corso, il premier si era limitato a esortare i fedeli a fare un bagno solo «simbolico» nel Gange. Nel frattempo, però, si tenevano le elezioni in cinque stati e, mentre l’opposizione aveva sospeso i comizi elettorali con l’aggravarsi della situazione epidemiologica, il Bharatiya Janata Party aveva continuato a tenere comizi oceanici, soprattutto nel secolarissimo Bengala Occidentale, dove Modi sperava di conquistare l’elettorato e dove poi avrebbe invece incassato una pesante sconfitta.
Durante un comizio, nel bel mezzo della seconda ondata, il premier aveva detto di non aver mai visto tante persone a una manifestazione politica: «Dovunque mi volti, vedo gente», aveva esclamato estatico.
In quei giorni, l’India veniva travolta da uno tsunami di casi che avrebbe messo a nudo le fragilità del sistema sanitario indiano e l’impreparazione di una classe politica inadeguata che ha condotto il paese verso una catastrofe di proporzioni inaudite.
Tsunami seconda ondata
A inizio aprile 2021, il paese è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata di infezioni superando un milione di casi attivi.
Nel giro di poche settimane, l’India ha superato il Brasile come secondo paese al mondo per numero di casi dopo gli Usa, con oltre 2,5 milioni di positivi, una media di 300mila nuovi casi e duemila morti al giorno.
Ai primi di maggio, l’India ha registrato in un solo giorno oltre 400mila nuovi casi – l’incremento giornaliero più alto al mondo dall’inizio della pandemia – e oltre 3.500 decessi: una cifra che molti analisti considerano una sottostima (poi rivista al rialzo).
Le immagini dei crematori che bruciavano corpi (come da tradizione nei riti funerari hindu) senza sosta, giorno e notte, anche fuori dagli spazi adibiti, hanno restituito la vera proporzione della tragedia in corso, i cui numeri reali, probabilmente, non si conosceranno mai.
Con gli ospedali pieni, i posti in terapia intensiva ormai saturi, ossigeno e medicine introvabili se non a prezzi esorbitanti sul mercato nero, in un sistema sanitario fatiscente – almeno nel settore pubblico -, diverse grandi città hanno registrato un numero molto maggiore di cremazioni e sepolture rispetto al bilancio ufficiale delle vittime di Covid-19.
Se la seconda ondata ha travolto le megalopoli indiane, le zone rurali sono state letteralmente devastate. Molte persone sono morte per mancanza di ossigeno. La carenza di legna per le cremazioni, le lunghe file e l’inflazione sui prezzi degli ultimi riti ha costretto molte persone (anche hindu) a seppellire i propri cari sulle rive sabbiose dei fiumi: piccoli cumuli di sabbia adornati da ghirlande di fiori. Con le piogge dei monsoni che hanno gonfiato i fiumi, i corpi sono poi venuti a galla, riportati a riva in un macabro spettacolo.
Stime di una catastrofe
Mentre scriviamo, i casi totali ufficiali hanno superato i 30 milioni, e i morti sono più di 400mila: cifre che difficilmente riflettono la realtà. Secondo alcune stime, i numeri relativi a contagi e morti potrebbero essere fino a cinque volte superiori a quelli ufficiali, complice la poca trasparenza delle istituzioni, metodi di registrazione dei decessi frammentari e un inefficace sistema di tracciamento.
Il New York Times ha delineato quattro possibili scenari sui reali numeri della pandemia in India: uno scenario definito «conservatore» stima che i morti siano almeno 600mila; una stima più probabile parla di 1,6 milioni di decessi da Covid-19, mentre lo scenario più catastrofico stima siano 4,2 milioni (stime effettuate alla fine di maggio 2021).
Disastro annunciato
Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nei primi giorni di marzo 2021, un forum di esperti scientifici aveva avvisato i funzionari indiani di una nuova variante del coronavirus, molto contagiosa, che si stava diffondendo nel paese, denominata B.1.617.2, o anche variante Delta, oggi predominante nel Regno Unito.
Nonostante l’avvertimento, il governo centrale non era intervenuto con restrizioni per fermare il contagio: milioni di persone senza mascherine, incuranti delle minime norme di contenimento, avevano partecipato ai festival religiosi e ai comizi elettorali tenuti dal primo ministro Modi, permettendo al virus di circolare liberamente e di mutare.
L’allarme per la nuova variante era stato lanciato a inizio marzo dall’Indian Sars-CoV-2 Genetics Consortium (Insacog), che per primo aveva sequenziato la variante B.1.617.2 del coronavirus, a febbraio. Non si sa se i risultati fossero stati trasmessi direttamente al premier Modi, ma è oramai chiaro che le autorità avevano deliberatamente sottovalutato gli avvertimenti.
Sebbene il rapporto non abbia ricevuto molta attenzione sui principali media indiani, la catastrofe della seconda ondata in India ha messo in luce le ombre dell’amministrazione Modi, ampiamente criticata – in India e all’estero – per la sua incapacità di prevenire e arginare la pandemia. I principali media internazionali hanno infatti puntato il dito contro un esecutivo che ha creduto nel «miracolo indiano», e non si è premurato di contenere il disastro. Piuttosto, di minimizzarlo o negarlo.
I vaccini indiani
Mentre scriviamo, dopo settimane di impennata, la curva dei contagi sembra essere finalmente in lieve flessione: un nuovo lockdown ha fatto rallentare la corsa della contagiosa variante indiana.
Intanto, il piano vaccinale, applicato molto lentamente per mesi, sembra accelerare: l’India è il più grande produttore al mondo di vaccini e ne fabbrica due contro il coronavirus – Covaxin, di Bharat Biotech e Covishield, del Serum Institute of India -. Sono state somministrate 376 milioni di dosi, il numero più alto al mondo dopo Cina e Stati Uniti, ma, in rapporto alla popolazione, un tasso di vaccinazione molto più basso di tanti altri paesi.
Nei giorni peggiori del picco pandemico, l’India ha bloccato le esportazioni del vaccino fino alla fine del 2021 per soddisfare l’enorme domanda interna. La decisione ha avuto un pesantissimo impatto sui 91 paesi a medio e basso reddito che dipendono dal vaccino indiano nell’ambito del piano dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il Covax, che mira a immunizzare due miliardi di persone, ha affermato lo scienziato capo dell’Oms, dr. Soumya Swaminathan.
La campagna vaccinale indiana, iniziata lo scorso gennaio, si era inizialmente concentrata su anziani e persone fragili. Modi aveva poi annunciato di voler mettere il vaccino sul libero mercato per somministrarlo ai più giovani, tramite i governi statali e le strutture sanitarie private, a prezzi maggiorati, creando un doppio binario: chi poteva e chi non poteva permetterselo.
A seguito dell’impennata di infezioni ad aprile e (forse) sulla scia del richiamo ricevuto dalla Corte suprema indiana, che aveva definito il piano «arbitrario e irrazionale», il primo ministro ha poi aperto le inoculazioni gratuite dal 1° maggio per la fascia 18-45 anni. Peccato che non siano state aumentate le scorte, e l’India fa affidamento anche su vaccini prodotti all’estero.
Un leader inadeguato
«Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza dalle popolazioni più povere», aveva avvisato a gennaio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore esecutivo dell’Oms durante una sessione del comitato esecutivo.
La crisi indiana ha confermato i timori di Tedros e dimostrato che in questa pandemia non ci si salva da soli. La mala gestione di un governo impreparato e la conseguente assente pianificazione indiana, ha avuto pesanti ricadute per i cittadini di ogni estrazione e provenienza. Ma anche per quei paesi che dipendevano dalle esportazioni indiane per il piano vaccinale.
Come in altri luoghi del mondo guidati da leader autoritari e populisti, la pandemia ha messo in luce l’incapacità della leadership di rispondere adeguatamente alla crisi, barcamenandosi tra negazione, ottimismo infondato e soluzioni di facciata.
La pandemia ha fatto emergere con violenza le storture del sistema e l’inadeguatezza della leadership indiana: di un partito che, negli ultimi sette anni di governo, si è reso responsabile di un grave declino delle libertà e delle istituzioni democratiche.
Durante i giorni più neri della catastrofe, il primo ministro si è tenuto lontano dai riflettori sostenendo che «il sistema era collassato». Non appena i numeri sono iniziati a calare, come da tradizione, Modi si è assunto i meriti dell’appiattimento della curva.
Peccato che la parola d’ordine «Aatmanirbhar Bharat» (India autosufficiente) sia stata disattesa. L’amministrazione è stata interessata più a controllare la narrativa, silenziare le critiche e nascondere la polvere sotto il tappeto che a tenere a bada il contagio.
E mentre l’India difficilmente dimenticherà questa tragedia, gli esperti avvisano che la terza ondata di contagi potrebbe colpire il paese tra settembre e ottobre.
Maria Tavernini
I cristiani indiani durante la seconda ondata
Perseguitati ma al servizio
Se il subcontinente indiano è stato travolto dalla seconda ondata di Covid-19, trasformatasi nel giro di poco tempo in una catastrofe senza precedenti nella storia repubblicana, per i cristiani d’India e per le altre minoranze religiose, la crisi è stata ancora più drammatica.
La comunità cristiana indiana è la terza comunità religiosa dopo quella hindu e quella musulmana, con oltre 27 milioni di fedeli, ed è costituita in larga parte da Dalit (i «fuoricasta» secondo la rigida stratificazione sociale indiana) convertitisi anche nella speranza di sfuggire a discriminazioni e umiliazioni.
I cristiani indiani, di questi tempi, pregano per i vaccini, per il cibo e per l’ossigeno: ventilatori e bombole di ossigeno scarseggiano, e le restrizioni hanno impedito a coloro che lavorano alla giornata di guadagnare abbastanza per sfamarsi.
Inoltre, l’appartenenza religiosa ha creato non poche discriminazioni anche nella rete di distribuzione di aiuti alimentari durante i giorni più duri del lockdown. Nell’India a maggioranza hindu, con una leadership che avalla politiche settarie e maggioritarie, le minoranze sono destinate a diventare sempre più un bersaglio, «cittadini di serie B».
La persecuzione delle minoranze religiose è, infatti, significativamente aumentata sotto l’amministrazione Modi: la pandemia non ha fatto che acuire questa tendenza e aggravare le discriminazioni, l’autoritarismo e la violenza.
Benché i cristiani siano stati duramente colpiti dalla pandemia e molti siano stati ridotti alla fame, complici anche le condizioni economiche di molte comunità dal background Dalit e il fatto di essere stati spesso deliberatamente lasciati fuori dagli aiuti ufficiali, le organizzazioni cristiane, come anche quelle sikh e musulmane, sono state in prima linea per assistere poveri e malati.
Sono circa 60mila i posti letto che la Chiesa cattolica indiana ha messo a disposizione grazie alle proprie opere sanitarie per arginare la seconda ondata della pandemia. Le istituzioni sanitarie cristiane si sono concentrate in larga parte sulle aree rurali, quelle più devastate dal contagio, dove le strutture pubbliche sono sottodimensionate e in condizioni pessime.
«Le nostre scuole funzioneranno come centri di isolamento e quarantena; le nostre sedi come centri di vaccinazione; e il nostro personale religioso inizierà una campagna per incoraggiare le persone a vaccinarsi», ha detto il presidente dei vescovi indiani a «Vatican News».
Secondo l’emittente vaticana, molte diocesi indiane si sono attivate mettendo in campo anche metodi innovativi per aiutare ad alleviare le sofferenze della gente: nei giorni dell’emergenza sanitaria, l’arcidiocesi di Bangalore, nel Sud dell’India, ha reso disponibili le sue strutture adibendole a ospedali temporanei per i pazienti Covid. L’arcidiocesi ha inoltre attivato una linea telefonica di supporto per le vittime e i loro familiari, fornendo informazioni sulla gestione domiciliare della malattia e sulla disponibilità di posti letto e ossigeno.