A spasso su strade d’acqua
L’Amazzonia, quasi un mito lontano, con la sua foresta, gli immensi fiumi. Ma anche territorio conteso, al centro dell’attualità, tra incendi e cambiamenti climatici. In questo ecosistema ci sono tante storie umane, semplici e complesse.
Il 23 agosto del 2019, io e la mia amica Marika siamo partite per Belém (Pará, Brasile), dove avevo il contatto di una coppia. Appena arrivate ci siamo tuffate nell’accogliente umidità della città, dal sapore aspro dell’açai. L’açai è una bacca di colore blu, alimento base delle popolazioni indigene. Da essa si ricava una bevanda violacea ricca di antiossidanti.
Da Belém siamo partite per la Ilha do Marajò, l’isola fluviale più grande al mondo. In seguito, abbiamo preso un barcone fluviale, un mezzo di trasporto locale che poteva ospitare fino a 300 amache e qualche cabina, per raggiungere l’ecovillaggio di Macaco, vicino alla Ilha do Amor (Isola dell’amore), e raggiungere infine Manaus. In totale, cinque giorni e 105 ore di navigazione sull’immenso Rio delle Amazzoni.
A Manaus ci aspettava la meravigliosa famiglia di Vau ed Enoque, di cui conoscevamo solo i nomi. Marika aveva ottenuto il loro contatto da una commessa di un negozio di Forlì, dopo averle chiesto il prezzo di un paio di jeans. La vita funziona sempre in maniera inaspettata.
Da questa base sicura, siamo partite nuovamente per conoscere gli angoli meno conosciuti di Manaus e dintorni.
Voglia di raccontare
Da quel viaggio sarebbe nato poi l’impulso di narrare questa parte straordinaria del mondo, ma soprattutto la vita delle persone incontrate. E ne sarebbe nato «Strade d’acqua», una raccolta di racconti. Il libro ripercorre le tappe più significative del viaggio. In ognuna di esse c’è un personaggio reale che racconta la sua esperienza e, tramite essa, mostra la realtà ecologica, politica, sociale ed economica di un pezzettino di Amazzonia.
Il primo intento del libro è quello di raccontare in modo semplice e diretto alcune nozioni scientifico-naturalistiche che riguardano la ricchezza e le peculiarità di quell’ecosistema fragilissimo.
Ciò che immediatamente ci ha colpite, infatti, è stata la dimensione della natura, fuori dalla nostra immaginazione. Per fare un esempio, l’esemplare più alto di angelim vermelho (Dinizia excelsa), chiamato anche gigante dell’Amazzonia, misura 80 metri.
Una natura esuberante e pericolosa e pure piena di leggende: le trasformazioni notturne del delfino rosa (o boto vermelho), le radici della marapuama (Ptychopetalum olacoides), con cui oggi viene preparato il «viagra dell’Amazzonia» (anche se dagli indigeni è utilizzato per curare le paralisi), le «formiche proiettile», che entrano velocemente a fare parte della quotidianità e del linguaggio del viaggiatore.
Foresta esuberante e fragile
Prima ancora di mettere piede in Brasile, sull’aereo, scopro con stupore e una vaga tristezza per la perdita di quelle poche nozioni che credevo di aver imparato a scuola, che la foresta amazzonica non è il grande polmone del mondo. Tra un pisolino e l’altro, Juan, un agronomo peruviano incontrato per caso, mi ha spiegato che sono le diatomee (microalghe unicellulari, ndr) a produrre gran parte dell’ossigeno mondiale, attraverso un ciclo che dai deserti africani raggiunge e coinvolge anche
l’Amazzonia. Di fatto, la foresta amazzonica utilizza quasi tutto l’ossigeno che produce per alimentare i tessuti dei suoi alberi e tutti i batteri e funghi che degradano gli scarti degli alberi caduti al suolo. Questo ricco strato di materia organica assicura alle piante la loro stessa sopravvivenza. L’esuberanza della flora amazzonica nasconde la sua fragilità e la poca fertilità del suo suolo, fatta di strati di sabbia e argilla. Se si taglia un albero e se ne tolgono le radici, lì, non cresce più nulla. La foresta si trasforma in un deserto.
Gli studi di archeobotanica dimostrano come l’Amazzonia sia una sorta di «giardino addomesticato» dall’uomo. Già prima del 1492, milioni di indigeni abitavano quelle foreste considerate vergini.
L’agricoltura preispanica prevedeva l’arricchimento continuo del suolo amazzonico infecondo, e la sua riutilizzazione, piuttosto che l’ampliamento delle arre coltivabili tramite incendi controllati. Gli indigeni hanno saputo interagire con la foresta senza comprometterne l’ecosistema come fanno le multinazionali agricole oggi.
Incontro con i riberinhos
Un’altra realtà che abbiamo incontrato è quella delle comunità fluviali, i cosiddetti riberinhos, che vivono lungo le sponde del fiume più lungo del mondo, il Rio Amazonas. Un flusso d’acqua, fango e detriti imponente, che espandendosi «nella sua grandiosità, raggiunge il fondo dell’orizzonte, tentando, invano, di allargare anche il cielo».
Gli abitanti dei grossi centri urbani considerano i riberinhos persone felicemente autosufficienti, senza però conoscere le loro difficoltà. Queste comunità sono isolate, spesso non hanno la possibilità di accedere ai servizi di base, anche se hanno sempre pesce a disposizione, faticano a reperire acqua potabile. Inoltre devono lottare contro le invasioni dei taglialegna illegali nei loro territori.
Durante la navigazione, dall’alto del nostro barcone vedevamo dei bambini dalla terraferma saltare sulle piroghe per dirigersi verso la nostra imbarcazione, sfidando le onde create dal nostro scafo. Si avvicinavano per recuperare i sacchetti chiusi, riempiti di vestiti e cibo, che i nostri compagni di viaggio lanciavano loro. La povertà di queste comunità spesso spinge le ragazzine a prostituirsi a marinai, commercianti o proprietari delle imbarcazioni.
Arrivo a Manaus
Siamo poi arrivate a Manaus, la capitale bollente dell’Amazzonia. Una città costruita a fine Ottocento durante il florido commercio della gomma che mise in piedi un vero e proprio sistema schiavista, dove torture e minacce nei confronti degli indigeni erano all’ordine del giorno.
La ricchezza sociale di questa città è straordinaria: dal centro alle sue periferie ribollono iniziative di riscatto sociale come il percorso per disabili (la strada per bambini speciali) nella baraccopoli di Petropolis. Ci sono slanci di creatività come quella di Rò, un giovane che stampa le foglie degli alberi sulle magliette per ricordare a tutti la loro somiglianza e parentela con la natura. Le lavoratrici sfruttate dalle multinazionali nella zona franca di Manaus sviluppano riflessioni sul senso della vita.
Queste sfumature umane si intersecano con le traiettorie sociali dei rifugiati venezuelani che vendono acqua alle macchine ferme ai semafori, spremono arance agli angoli delle strade, dimenticandosi i propri titoli di studio e vivendo nelle aiuole accampati su materassi di cartone o in stanze sovraffollate. Si incrociano anche con le proteste delle comunità indigene che hanno dovuto lasciare la foresta e sono relegate ai margini della città e che lottano per il riscatto della propria storia e dei propri diritti.
Nel libro riporto anche alcune testimonianze raccolte a Torino di ritorno dal viaggio: quella dell’indigena Célia Xakriabá, 30 anni, professoressa, attivista e una delle coordinatrici del Articulação dos Povos Indígenas (Apib), arrivata in Italia con una delegazione di indigeni brasiliani per denunciare gli abusi del presidente Jair Bolsonaro contro le comunità. Quella di padre Josiah K’Okal, missionario della Consolata che ha vissuto per anni a contatto col popolo indigeno Warao del Venezuela, e quella di Carlo Zacquini, uno straordinario fratello della Consolata che ha dedicato la sua vita agli indigeni Yanomami e di conseguenza alla protezione della foresta.
Amarilli Varesio
Manaus, Colonia Antonio Aleixo
Un quartiere complesso
Il quartiere Colonia Antonio Aleixo nasce nel 1930 per i cosiddetti «soldati della gomma» che estraevano la sostanza (borracha) dagli alberi della gomma, seringueiras. In seguito, negli anni Quaranta, cominciò a essere utilizzato come lebbrosario per allontanare tutti i malati da Manaus, e, verso la fine degli anni Settanta, fu aperto alle loro famiglie, circa duemila anime. Fino a una ventina d’anni fa, gli autobus che collegavano il quartiere alla capitale erano differenziati per evitare contaminazioni, ma ancora oggi questo continua a essere un luogo di emarginazione per i suoi abitanti.
Nel 2017, al suo interno, grazie alla passione di Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid, fondatori del ramo amazzonico dell’associazione O pequeno nazareno (il piccolo nazareno), nasce il Projeto gente grande (Pgg). Il Pgg è una scuola per la prevenzione della criminalità, del lavoro infantile e della mendicità. È gestita da educatori sociali. Gli studenti, per otto mesi, seguono quattro cicli: sviluppo pedagogico, nel quale si insegna portoghese e matematica e si iscrive il minore alla scuola pubblica, se non lo è ancora; sviluppo personale, dove si lavora sui valori e sull’etica e sulla personalità; sviluppo professionale, dove si impara a scrivere il curriculum e a lavorare in gruppo; infine, sviluppo tecnologico, dove si insegnano i principi base per usare il computer.
«L’obiettivo finale è inserirli nel mercato del lavoro come apprendisti. Ma è necessario partire da valori fondamentali quali il rispetto, l’onestà, la responsabilità, l’amore per il prossimo; dimensioni che spesso i ragazzi di strada perdono nel tentativo di far fronte agli strappi affettivi e alle necessità economiche che devono affrontare. C’è molto rispetto per il nostro lavoro da parte degli abitanti del quartiere, e anche da parte dei trafficanti di droga. Negli adulti c’è un desiderio profondo di vedere i propri figli fare una vita diversa dalla loro. Noi non diciamo ai ragazzi che trafficare droga non va bene, ma, dando loro delle opportunità concrete, li aiutiamo a non diventare manodopera infantile del commercio illecito», racconta Tommaso.
A.V.
Manaus, Tarumã
Il parco delle tribù
La comunità indigena Parque das Tribos risiede nel quartiere Tarumã di Manaus ed è formata da più di 400 famiglie di 38 etnie diverse. La migrazione indigena verso l’area urbana è cominciata negli anni Settanta con l’inaugurazione della zona franca e negli anni a venire non si è più fermata. Sulle strade del quartiere, l’asfalto è stato posato per la prima volta nel 2018, assieme all’impianto d’illuminazione pubblica a led e ai servizi di acqua corrente.
Nel Parque das Tribos si lotta per la conservazione delle tradizioni native, ma anche per l’accesso all’educazione superiore e universitaria delle nuove generazioni. In questo contesto multilingue, Claudia Martins Tomas, di etnia Baré, ha deciso di aprire una scuola indigena. Dopo essersi laureata in Pedagogia e Interculturalità e aver ricevuto alcuni finanziamenti, Claudia ha realizzato un progetto di conservazione e trasmissione della lingua autoctona. I bambini e i ragazzi che frequentano la sua scuola sono delle etnie più disparate: Ticuna, Desana, Tukano, Mura, Kokama, e altre ancora. Per insegnare, utilizza la sua lingua materna, il Nheengatu o Lingua Geral Amazonica. Una lingua franca utilizzata nel processo di colonizzazione che i gesuiti standardizzarono, partendo dalla lingua Tupinambà, e adattarono alla grammatica portoghese. Era l’idioma più parlato sulla costa atlantica; fu imposto come mezzo di comunicazione principale e insegnato agli indigeni che fungevano da forza lavoro nelle missioni.
Claudia non parla la sua lingua originaria, il baré, perché non esiste più.
Durante le sue lezioni, la donna narra leggende, insegna i segreti dell’artigianato e delle decorazioni. Lo fa principalmente in Nheengatu, ma anche nelle altre lingue indigene, per rinforzarle. La scuola è un container e nella stagione secca si scalda come un forno. Claudia vende collane di semi e vestiti pitturati con colori naturali e motivi indigeni per finanziare la scuola.
A.V.
Manaus, centro storico
Medicina indigena
João Paulo Lima Barreto è un indigeno di etnia tukano, antropologo, ideatore e coordinatore del Centro di Medicina Indigena Bahserikowi’i, collocato nel centro storico di Manaus. Ha i capelli neri e una pacatezza perenne nello sguardo. Il Centro è stato aperto nel giugno 2017. Nel primo mese ha ricevuto più di 1.200 persone per i trattamenti con i Kumuã (o anche conosciuti come pajés, specialisti). Gli specialisti presenti al Centro sono di etnia tukano, desano e tuyuka. I loro trattamenti sono rivolti a curare dolori emozionali, muscolari, ferite, mal di testa, gastriti, calcoli nei reni; vengono somministrati attraverso i bahsese (benedizioni) e sono affiancati da rimedi prodotti dagli indigeni di etnia apurinã e da rigide raccomandazioni, come astenersi dal mangiare certi alimenti o da attività sessuali.
«All’inizio, la maggior parte delle persone si aspettavano di vedere il guaritore in una capanna, con le piume in testa e le collane di semi al collo; si aspettavano che guarisse tutto e subito, come per magia. Arrivavano con l’immaginario creato dai media, dal folclore e dalla ricerca. Quando scoprivano che il pajé indossava bermuda e camicia e riceveva in una casa storica, uguale alle altre della via, rimanevano delusi e smettevano di venire», racconta João. La sua intenzione è che le persone possano conoscere altre forme di trattamento a partire dai saperi dei popoli originari, visto che fino ad adesso le terapie indigene sono sempre state considerate pratiche religiose o forme di stregoneria. Invece, secondo il pensiero tukano, ogni problema psicologico corrisponde a un disordine nelle aree vitali di una persona: il lavoro, la vita familiare, la salute, la vita comunitaria. È necessario sostenere queste aree con le benedizioni degli specialisti. «A differenza della medicina occidentale, quella indigena serve più come prevenzione che come trattamento. Io suggerisco di imparare ad anticipare la malattia, ascoltando e conoscendo meglio il proprio corpo».
A.V.