L’estate del nostro scontento
Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».
Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».
Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».
Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.
padre Giacomo Mazzotti
Prima santi, poi missionari
Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.
Missionari santi
Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.
Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».
Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».
Prima l’essere, poi l’operare
L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».
Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».
Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».
Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».
È lo Spirito che converte
La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».
Così ragionano i santi
I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!
È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!
Padre Francesco Pavese