testo di Gigi Anataloni |
Il 1° ottobre 1921, padre Luigi Graiff (detto Zizoti [Gigiotti] in famiglia) nasce a Romeno, in Trentino, da Fiorenzo (detto Zechi) e Giuseppina Deromedis. Dal 1927 al 1934 frequenta le scuole elementari al paese. Conosce i Missionari della Consolata e, nell’ottobre del 1934, entra nel seminario minore di Favria Canavese, vicino a Torino, per gli studi ginnasiali (medie più 1ª e 2ª liceo di oggi, ndr). Qui frequenta i primi tre anni di ginnasio e poi la quarta e la quinta a Varallo Sesia (Vc). Il 15 agosto del 1939 veste l’abito chiericale per mano di monsignor Carlo Re e nell’ottobre comincia i tre anni di liceo.
Sono anni duri, gli anni del secondo conflitto mondiale. Il cibo è scarso anche nell’Istituto e i giovani chierici liceali ne soffrono. Nel giugno del 1941 Luigi completa a fatica la seconda liceo perché sempre malaticcio. Le vacanze estive lo rimettono un po’ in sesto, ma alla fine della terza il suo fisico è minato: ha contratto la tubercolosi. Passa quindi lunghi mesi, che diventateranno anni, nel sanatorio di Arco (Tn).
Come hai vissuto quel lungo periodo di malattia?
A luglio del 1943 erano già cinque mesi che mi trovavo in sanatorio e scrissi una lettera ai superiori a Torino. «Qui mi hanno voluto il Signore e la Madonna, e qui sono venuto compiendo con amore e volentieri questo sacrificio che mi costò assai. Finora nella mia vita non m’era successo mai niente, e appunto per questo m’attendevo qualche prova dal Signore. È venuta e l’ho benedetta. Sono pienamente rassegnato alla santa Volontà di Dio. Le sue vie sono mirabili se saprò uniformare la mia alla Sua santa Volontà. Il mio morale è molto alto e forte, e quando mi sopraggiungono le ore tristi, melanconiche cerco di scacciarle come tentazioni, perché potrebbero nuocermi. Finora tutto bene. Sono sempre contento e allegro. La ricordo giornalmente nelle mie preghiere. Le chiedo un memento nella santa Messa».
Una volta guarito, sei tornato in seminario?
È stata lunga guarire, ma nell’ottobre del ‘46 ho iniziato gli studi teologici alla Certosa di Pesio dove gli studenti erano stati trasferiti dopo che la Casa Madre e il seminario a Torino erano stati bombardati e non erano ancora agibili. Nel 1948, sempre in Certosa, ho fatto l’anno di noviziato e poi i primi voti religiosi il 1° ottobre 1949, giorno del mio 28° compleanno. In seguito, c’è stata un’accelerazione, e in pochi mesi ho completato tutti i passi necessari, ricevuto gli ordini minori e il diaconato, e il 18 dicembre di quell’anno sono stato ordinato sacerdote. Ricordo che, poco prima dell’ordinazione, scrissi una lettera al padre Gaudenzio Barlassina, superiore generale, ringraziandolo per la sua vicinanza e chiedendogli preghiere affinché «il profumo della mia vita fosse motivo di gioia per la Chiesa di Cristo».
Sei partito subito per le missioni?
Praticamente sì. Ho dovuto passare ancora un annetto a completare i miei studi teologici e nel marzo del 1951 sono partito da Venezia in nave per il Kenya, destinato alla diocesi di Nyeri. Prima nella missione di Gatanga e poi, dal 1954 al 1960, a Mugoiri. Sono stati anni bellissimi, di piena immersione nella realtà del popolo kikuyu.
Mentre costruivo la chiesa di Mugoiri si rinsaldava nella fede una comunità cristiana molto vivace, nonostante le tante difficoltà di quegli anni di rivolta anticoloniale (e a volte anche anticristiana) dei Mau Mau, di cui i Kikuyu erano i principali protagonisti.
Sei rimasto dieci anni di fila in Kenya, ma non facevate mai le vacanze in Italia?
Un tempo, quando si partiva, lo si faceva per la vita, anche perché i viaggi non erano facili. Invece noi potevamo già tornare per tre mesi ogni cinque anni. Quando sono tornato in Italia nel 1961, però, mi sono dovuto fermare per circa due anni, perché la mia salute non era delle migliori. Sono stato a Rovereto, nel seminario, sia per dare una mano, che, soprattutto per rimettermi in sesto. Però la nostalgia dell’Africa era troppo forte, tanto più che ero ben cosciente che il mio vescovo a Nyeri, monsignor Carlo Cavallera, era impaziente di aprire nuove missioni nel Nord della sua enorme diocesi, dove ai missionari era stato impedito di entrare fino ad allora.
Ci vuoi spiegare meglio?
Certo. La diocesi di Nyeri è stata la prima a essere fondata dai Missionari della Consolata, già nel 1905. Aveva un’estensione enorme. Con la diocesi di Meru, che sarebbe stata separata da essa nel 1926, copriva un’area che andava dal Lago Rodolfo (oggi Turkana) fino ai confini con la Somalia e da un centinaio di chilometri a Nord di Nairobi fino all’Etiopia, un territorio più grande dell’Italia. Ma fino a dopo la Seconda guerra mondiale, tutta la zona poco più a Nord dell’equatore e a Est verso la Somalia era stata off limits per i missionari cattolici. Gli inglesi, allora colonizzatori, non la consideravano sicura e, tenendo conto che gli abitanti erano solo poche decine di migliaia, e tutti pastori nomadi, ritenevano che non fosse il caso di disturbare i musulmani e i pochi protestanti che erano già là (dove gli inglesi avevano aperto degli uffici governativi) ed erano considerati più che sufficienti per i bisogni religiosi di quella gente.
Ma monsignor Cavallera non era dello stesso parere. Sapeva che in quelle zone c’erano anche delle piccolissime comunità cattoliche e poi non poteva ignorare un così vasto territorio affidato alle sue cure pastorali. Per questo, fin dai primi anni Cinquanta, aveva fatto avventurosi viaggi per visitare tutti i centri dove gli inglesi avevano uffici governativi, da Wajir a Moyale, da Laisamis a Loyangallani, da Baragoi a Marsabit. Si era reso conto che sì, protestanti e musulmani si occupavano di religione, ma niente di più. Poi la gente non era affatto musulmana o protestante, ma la maggior parte era di religione tradizionale. In più non desiderava predicatori o imam ma molto di più scuole per i propri figli, centri di salute, progetti di sviluppo, acqua, cibo sicuro e pace. Così il vescovo aveva mosso mari e monti, con la tenacia di cui era capace, fino a ottenere dall’autorità coloniale il permesso di aprire missioni nel Nord, nel Marsabit e nel Samburu.
E qui vieni tu
Già. Monsignore era uno che non si risparmiava, ma era anche molto esigente con gli altri. Se mandava un missionario a iniziare una nuova missione (ed entro il 1964, anno in cui Marsabit è diventata diocesi, ne aveva iniziate ben 14), voleva che le cose fossero fatte «bene e subito», non dopo anni. Non importava se quella era una mission impossible dato che sul posto non c’era nulla e si doveva far venire il cemento da centinaia di chilometri, scavare pozzi per avere l’acqua, raccogliere le pietre per le fondamenta, trovare la sabbia per fare i blocchi, tagliare la legna per avere assi e travi, dormire con un occhio aperto per via degli animali (iene, leoni, elefanti e serpenti) che di notte entravano nel campo, creare piste e strade, attraversare pericolosi fiumi stagionali. Così lui mi ha chiamato, perché mi aveva visto costruire la chiesa di Mugoiri e aveva capito che ero di poche parole ma mi sapevo arrangiare.
Da dove hai cominciato?
Nell’agosto del 1963 mi ha mandato a fondare la missione di Laisamis, tra i pastori rendille, più o meno a metà strada tra Isiolo e Marsabit. L’anno dopo, ho aiutato anche per le prime costruzioni della nuova missione di Archer’s Post tra i Samburu, circa 125 km più a Sud. A Laisamis sono rimasto dieci anni. L’inizio è stato davvero duro. Quando sono arrivato non c’era nulla. I serpenti erano i padroni assoluti. Mi attendeva un lavoro immane. Ho misurato allora a lunghi passi l’area della futura missione, mi sono rimboccato le maniche e, con l’aiuto di alcuni volenterosi del luogo, ho cominciato a rimuovere le pietre. E poi è venuto tutto il resto del lavoro. Scuola (che serviva anche da chiesa), dormitori per gli studenti e dispensario (che sarebbe diventato poi un vero ospedale) sono state le prime costruzioni che ho fatto. Entro il 1965 sono riuscito a costruire anche una casetta per me.
Cos’è che ti ha provato di più?
La solitudine. È vero che il lavoro non mancava e attorno c’era la gente del villaggio, i bambini della scuola, i maestri e gli infermieri, ma, come missionario, ero solo. E alcune volte la solitudine diventava intollerabile, come è successo nel luglio 1964 dopo che il villaggio e la missione erano stati fatti bersaglio di un attacco notturno degli Shifta, quando ho mandato questo messaggio via radio a Nyeri: «Io sto male, ho bisogno che venga subito qualcuno». Un mio confratello, mio grande amico, ha subito accolto l’appello e quando, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto Laisamis sull’imbrunire, dal poggio della missione gli ho gridato: «Te l’ho fatta». Non ero ammalato, avevo solo bisogno di compagnia.
Ovvio che poi c’erano altre difficoltà. Una delle più grandi era quella degli Shifta, banditi di origine somala che terrorizzavano la popolazione razziando il bestiame e uccidendo indiscriminatamente. Quando hanno attaccato Laisamis, hanno fatto scappare tutta la gente, terrorizzata dalla loro violenza. Sono stato l’unico a rimanere, anche se da solo. Vani sono poi stati i miei appelli affinché la gente tornasse. È stata solo la fame e la mancanza di pascoli che li ha convinti a ristabilirsi attorno alla missione, dove, grazie al fiume stagionale, avevano cibo e acqua per il loro bestiame.
Intanto nel 1964 Marsabit era diventata diocesi, staccandosi da Nyeri, anche se le strutture erano minime e il vescovo viveva sotto una tenda.
Il vescovo, sostenuto dall’arrivo di nuovi missionari – nel 1968 sarebbe arrivato anche un mio compaesano, padre Aldo Giuliani, che era entrato in seminario dopo avere partecipato alla mia ordinazione sacerdotale – continuava nel suo impegno per aprire e rafforzare nuove missioni. Nel 1965 ha iniziato la missione di Loyangallani, al Lago Rodolfo, e lo ha fatto con un maestro e un catechista, dopo che lì, il 19 novembre 1965, era stato brutalmente ucciso dagli Shifta il padre Michele Stallone. Così nel 1973 ha mandato me in quell’oasi verde sulle sponde pietrose del lago, dove a pochi chilometri di distanza, a Komote, viveva la piccola comunità dei pescatori Ol Molo che avrebbe subito rubato il mio cuore. Avviata Loyangallani, nel 1979 il vescovo mi ha spostato a South Horr con il compito particolare di curare le due comunità di Tuum e Parkàti che erano state iniziate pochi anni prima da padre Giuseppe Polet.
Ma non era troppo pericoloso spingersi in quelle aree così remote?
Tuum e Parkàti sono, ancora oggi, due punti che trovi a fatica sulle carte geografiche. Tuum è in una valle sul versante Ovest del monte Nyiro, il monte sacro dei Samburu, all’opposto di South Horr, mentre Parkàti si trova a una ventina di chilometri più a Nord verso il lago, in un territorio caldissimo, la Suguta Valley. Grazie alla presenza di sorgenti d’acqua, erano quasi delle oasi adatte per costruire una scuola e un centro di salute per i nomadi che là vivevano.
Lì, ancora tren’anni prima, sospinti dalla fame, abusivamente, i Turkana erano entrati nella terra dei Samburu. Erano file di donne, uomini, vecchi e bambini che, per le piste sassose e polverose, preceduti dai loro armenti e da qualche asinello carico di pentolini, pelli e stracci, curvi e tristi, fuggivano dalla fame.
Inizialmente erano poche migliaia, ma quando sono arrivato a South Horr, la loro presenza contava ormai più di 30mila persone. Poco a poco, i Turkana si erano impadroniti della lunga striscia di territorio situata a Ovest dell’orrida e scoscesa valle di Suguta, una terra tristemente nota per le frequenti scorrerie dei banditi Ngorokos, e quindi poco frequentata dai Samburu.
Chi sono gli Ngorokos?
Erano una banda di predoni, composta prevalentemente da Turkana, ma anche da altri gruppi etnici. Si ritiene che a loro si fossero uniti anche degli ex militari ugandesi di Idi Amin, defenestrato nel 1979. Avevano armi sofisticate e si sospettava che qualcuno dall’esterno li manovrasse e comunque comprasse il bestiame da loro rubato, che andava poi a finire nei macelli di Nairobi. Attivi fin dagli anni Sessanta, hanno fatto pesanti incursioni nei villaggi dei Samburu e dei Rendille, che hanno poi cercato vendetta attaccando i Turkana, aumentando così i conflitti intertribali.
Fino a che punto i Turkana erano responsabili delle scorrerie operate dagli Ngorokos?
La risposta non è facile. Se da una parte è vero che nella banda erano attivi molti elementi della loro tribù, dall’altra è anche vero che i Turkana detestavano cordialmente quegli assassini, chiedendo al governo e persino a noi missionari le armi necessarie per combatterli. E avevano le loro buone ragioni. Quando gli Ngorokos preparavano una razzia contro i Samburu, non trovavano di meglio che allenarsi assaltando le manyatte dei Turkana, violentando donne e ragazze e uccidendo quanti opponevano resistenza. Quando poi compivano le loro razzie nei territori dei Samburu o dei Rendille, chi ne andava di mezzo erano ancora i Turkana perché ritenuti responsabili dell’accaduto. Nel 1975, la conca di Parkàti è stata spettatrice di una di queste feroci rappresaglie: quattordici fra vecchi, donne e bambini, sono stati trucidati dai Rendille, e 7mila i capi di bestiame (capre, asini e cammelli) razziati.
E voi siete andati di proposito a costruire una missione proprio là?
Proprio così. Abbiamo voluto impiantare a Parkàti una piccola stazione di missione perché il sorgere di un abitato stabile avrebbe garantito protezione e tranquillità alla gente, e la presenza di missionari, disposti a servire indistintamente i due gruppi, avrebbe contribuito a placarli e conciliarli. Con la missione, poi, si sarebbe dovuta aprire anche una strada che avrebbe apportato non pochi benefici: dall’intervento tempestivo delle forze dell’ordine in caso di necessità; al trasporto di acqua e generi alimentari, soprattutto nei periodi di siccità; alla rapidità di spostamento anche per la popolazione e il bestiame.
È stato padre Polet che ha convinto il governo ad aprire una strada tra le rocce, guadagnandosi così la totale fiducia della gente, e poi ha costruito un dispensario, aule scolastiche, dormitorio e casette per i maestri. Nel 1977 era spuntata anche la cappella, umile ma funzionale, e, infine la casetta per il missionario. Nella valle dell’inferno era nata la missione di Parkàti. Ogni fine settimana, da South Horr, andavo là e a Tuum.
Cos’è successo all’inizio del 1981?
La situazione era molto tesa. Le razzie degli Ngorokos erano continue e stavano diventando sempre più forti e più crudeli. Prima di Natale, gli altri missionari mi avevano sconsigliato di andare troppo spesso a Parkàti, ma avevo risposto che, se veramente avessero voluto uccidermi, avrebbero potuto farlo già tante altre volte. Solo poche settimane prima, ad esempio, avevano assalito la bottega di Parkàti mentre io ero lì a vedere tutto a circa cento metri di distanza. Scherzando, i miei confratelli mi dicevano che ero il cappellano degli Ngorokos e, prima o dopo, li avrei convertiti tutti. Anche alcuni dei miei cristiani mi avevano sconsigliato di andare, ma un po’ celiando, un po’ sul serio, avevo risposto loro: «Cosa debbo farci dal momento che la mia tomba è là?».
E così ti sei preparato al safari.
Il 9 gennaio, era venerdì, al mattino presto sono andato alla missione di Baragoi per acquistare farina e zucchero da portare a Parkàti. A padre Pietro Davoli e suor Cristiana Sestero, che mi pregavano di non andare laggiù perché ormai erano scappati quasi tutti a causa degli Ngorokos, ho risposto: «Anzitutto, faccio solo il mio dovere; in secondo luogo, vi sono ancora i bambini della scuola e i pochi vecchi che non sono riusciti a fuggire; se non porto loro un po’ di farina, che cosa mangeranno? Non posso lasciarli morire di fame. D’altronde, se il Signore mi chiama, sono pronto».
Lo stesso giorno, passato a South Horr e caricato tutto il necessario, sono partito per Parkàti e, passando per Tuum, mi sono fermato a visitare la famiglia di Veronica che aveva cura della chiesetta quando io ero assente. Vedendo un calendario sulla parete della capanna, mi è venuto di dire: «Sapete? Morirò il giorno 10 gennaio». Poi ho consegnato a Veronica una busta: «Qui c’è qualche shellino, dopo la mia morte fatemi dire delle messe». Prima di partire le ho anche dato quaranta metri di cotonata blu per fare dieci divise per i bambini della scuola, chiedendole di tenerne da parte una misura grande per avvolgervi il mio cadavere. Perplessa e un po’ spaventata, mi ha domandato: «Padre, perché parli così oggi?». Sono rimasto zitto per un po’, poi, ridendo, le ho detto: «Veronica, tieni d’occhio il sacchetto del denaro, non voglio morire con quello come Giuda». Li ho salutati e sono poi arrivato a Parkàti, dove mi sono fermato tutto il sabato.
E sei partito per tornare a Tuum.
Domenica mattina, l’11 gennaio verso le 6 e mezza, sono partito per Tuum dove, come al solito, mi aspettavano per la santa Messa. Mi accompagnava il catechista Patrick, Peter Areman (un giovane diciottenne) e quattro ragazzi che dovevano andare a scuola a South Horr. Il viaggio è stato senza intoppi fin quasi a metà del percorso. A una dozzina di chilometri da Tuum, improvvisamente si è parata davanti a noi una ciurma urlante di uomini armati. Erano più di duecento. Avevano panghe (coltellacci), lance, fucili e anche mitra. Ho capito immediatamente il pericolo e ho tentato di invertire la marcia, ma una raffica ha bloccato la Land Rover. Non c’era più scampo. Eravamo accerchiati. Sceso di corsa, sono andato dietro per aprire il portellone della Land Rover e far uscire i ragazzi. «Non ci resta che inginocchiarci, pregare e morire», ho detto loro. Speravo proprio che si limitassero a derubarci.
È l’11 gennaio, solennità del Battesimo del Signore. Padre Zizoti, riceve il battesimo per la Vita.
Una fucilata alla testa lo fa cadere nelle braccia del catechista. Anche Peter e Lothuru Lomakar, uno degli studenti, sono brutalmente ammazzati. Il catechista Patrick, tra le botte, riesce a parlare con gli assalitori, riconoscendone alcuni. Supplica e ottiene di avere salva la vita, per sé e i ragazzi superstiti. È percosso e spogliato. Gli dicono di avvertire la missione. Riesce a spostare il corpo di padre Graiff a circa due metri dalla macchina che è stata incendiata. Il corpo però subisce gravi lesioni perché i banditi infieriscono su di lui, denudandolo e strappandogli il cuore e le viscere, quasi applicando antichi e brutali rituali per rubargli lo spirito di uomo coraggioso. Patrick risale con grande difficoltà fino a Tuum ad avvisare. Di qui due giovani partono immediatamente con una lettera per padre Cornelio Dalzocchio a South Horr e, attraversando la montagna del Nyiro, giungono alla missione verso le cinque del pomeriggio. Dolore e sbigottimento. Partono subito in quattro, con la Land Rover: padre Dalzocchio, don Tibaldi, suor Floremilia e suor Assunta. Quando, in piena notte, giungono sul luogo dell’eccidio, una scena raccapricciante si presenta ai loro occhi: tre corpi nudi, orrendamente feriti e crivellati di proiettili, bruciati e tumefatti, giacciono sul terreno accanto alla carcassa della Land Rover.
Raccolgono i resti, li trasportano al centro di Maralal, a oltre 200 chilometri di distanza, dove, oltre alla missione, c’è anche il posto di polizia. Espletate le formalità burocratiche e ottenuto il permesso di sepoltura, il giorno dopo hanno luogo i funerali, celebrati da mons. Carlo Cavallera e da tutti i missionari della diocesi. Il pianto dei missionari, degli africani e in particolare dei nomadi è immenso.
Padre Luigi è ora sepolto nel cimitero della missione di Maralal, accanto alle spoglie di padre Michele Stallone, ucciso a Loyangallani il 18 novembre 1965 e di padre Luigi Andeni, ucciso ad Archer’s Post il 15 settembre 1998.
Gigi Anataloni