testo di Rosanna Novara Topino |
Le chiusure (lockdown) e le misure contro la pandemia hanno comportato e comportano varie conseguenze negative sulla salute mentale. E su quella fisica, con controlli cancellati e cure rinviate.
Da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus – e ormai siamo alla soglia dei due anni -, veniamo quotidianamente informati sull’andamento dei contagi, dei ricoveri e dei decessi oltre che, negli ultimi otto mesi, delle vaccinazioni anti Covid-19. Siamo quindi portati a pensare che l’unico problema sanitario causato da questo virus sia quello della malattia. Ci sono però altri aspetti sanitari, di cui si parla meno, che sono la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel tentativo di contrastare la pandemia e che vanno presi in attenta considerazione, poiché rischiano di protrarsi più a lungo nel tempo della pandemia stessa e di avere gravi ripercussioni sulla società.
Il peggioramento della salute mentale
C’è stato e c’è tuttora un forte impatto del coronavirus sulla salute mentale, che si manifesta trasversalmente in diverse fasce d’età e che può sfociare in atti di autolesionismo fino al suicidio o in atti violenti verso altre persone.
Sebbene i dati a disposizione siano incompleti, la sensazione è che, a seguito della pandemia, i problemi legati alla salute mentale e il numero dei suicidi siano aumentati. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che la salute mentale è diventata un’emergenza gravissima. In particolare, il suicidio rappresenta un problema di sanità pubblica così rilevante che, nel 2020, l’Oms ha elaborato un documento sulla sua prevenzione rivolto ai professionisti dell’informazione, fornendo loro indicazioni sulle modalità per una corretta informazione, vista la loro potenziale influenza sul manifestarsi del fenomeno, soprattutto tra le persone più vulnerabili.
Già nel 2014, l’Oms aveva dichiarato il suicidio come quindicesima causa di morte al mondo e la seconda tra 15-29 anni d’età. Quindi, il problema era già rilevante prima della comparsa del Covid-19, che lo ha esacerbato. Basta pensare a cosa è avvenuto nel 2020 in Giappone, dove sono morte suicide 20.919 persone, con un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente. Un numero molto elevato, se confrontato con quello dei decessi correlati al coronavirus nello stesso periodo, pari a 3.459. Il dato è ancora più angosciante, tenendo conto del fatto che di questi suicidi 479 sono stati di adolescenti, 140 in più dell’anno precedente.
In Italia, secondo l’Istat, il numero annuale di suicidi è di circa 4mila e questa è la seconda causa di morte nella fascia d’età sotto i 24 anni. Secondo diversi responsabili dei dipartimenti di salute mentale e dei centri di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, le pressioni psicologiche legate al Covid subite da bambini e adolescenti hanno causato un’impennata di ricoveri legati ad atti autolesionistici e a tentativi di suicidio. In particolare, dall’ottobre 2020 in questi centri si è registrato un aumento di ricoveri di questo tipo del 30% per ragazzi e bambini.
I ragazzi e la scomparsa della socialità
I disturbi sono aumentati notevolmente a seguito dei lockdown, delle chiusure e restrizioni varie, dell’insegnamento a distanza (Dad), che hanno creato una grave crisi psicologica soprattutto, ma non solo, tra i giovani.
Accanto ai ricoveri per gesti autolesivi e tentativi di suicidio, sono in aumento anche quelli legati ai disturbi del comportamento alimentare, soprattutto tra le ragazzine e a episodi di aggressività nei ragazzi.
Durante i periodi di lockdown sono venute meno le occasioni di socialità, che sono indispensabili per tutti, dal momento che l’essere umano è un animale sociale. In particolare, bambini e adolescenti per la loro crescita necessitano della vicinanza dei loro pari, una volta superata l’età della più tenera infanzia, dove prevale il legame con i genitori. Il prolungato isolamento, la mancanza di attività sportiva o ludica e di attività musicali, quali partecipazioni a cori e orchestre, hanno appesantito ulteriormente il carico psicologico già molto negativo dovuto alla paura di ammalarsi, di perdere i propri cari o di essere veicolo per loro della malattia.
I ragazzi e lo stress da Dad
Per molti bambini e ragazzi la didattica a distanza si è rivelata una notevole fonte di stress, che ha acuito il loro disagio psicologico. Questo, tra l’altro, ha portato ai peggiori risultati di sempre dei test Invalsi di fine anno scolastico, oltre che al digital divide tra le famiglie degli alunni più benestanti e quelle più povere e a un aumento di dispersione scolastica, che è passata dal 13% pre pandemia al 25% durante la pandemia (con punte di abbandono di un alunno su tre nel Sud Italia).
A differenza di quanto avviene nelle persone adulte o anziane, per le quali il suicidio è molto spesso legato a forme di depressione, nei giovani esso rappresenta quasi sempre un modo eclatante di manifestare il proprio disagio, la rabbia e la frustrazione dettati dall’impulsività. Quest’ultima è anche un fattore biologico legato allo sviluppo del cervello. Nelle fasi precedenti la maturità cerebrale (raggiunta intorno ai 20-21 anni nelle ragazze e tra i 24-25 anni nei ragazzi), c’è un minore controllo della parte limbica della corteccia cerebrale, che presiede agli impulsi e alle emozioni. Questo comporta una prevalenza nei giovani dell’aspetto emotivo su quello razionale e spiega le grandi difficoltà incontrate da loro nell’affrontare le crisi legate alla pandemia.
Per prevenire queste reazioni giovanili, che possono diventare estremamente pericolose per la loro vita, è importantissimo l’aspetto della familiarità e della condivisione.
A volte fare qualcosa insieme come una passeggiata, un gioco o condividere un hobby dà migliori risultati di tanti discorsi. È fondamentale, da parte degli adulti, dedicare del tempo all’ascolto dei bambini e dei ragazzi, sia in famiglia sia in ambito scolastico ed extrascolastico. Per permettere ai ragazzi di recuperare le carenze accumulate con la didattica a distanza, sarebbe indispensabile farli affiancare da figure di supporto messe a disposizione dagli istituti scolastici, una volta tornati alle lezioni in presenza, in modo da dare loro ripetizioni in orario extracurricolare, senza aggravio economico per le famiglie.
Le conseguenze per adulti e anziani
Tra gli adulti e gli anziani, le persone che hanno scelto di suicidarsi durante la pandemia, lo hanno fatto molto spesso per motivi economici, per l’isolamento e per le pressioni psicologiche, a cui sono state sottoposte.
Per quanto riguarda i motivi economici, va detto che la crisi esisteva già ben prima della pandemia, che però l’ha notevolmente acuita. Secondo l’Istat, in un anno in Italia sono stati persi 700mila posti di lavoro (da febbraio 2020 a luglio 2021) in coincidenza con la pandemia. Dall’inizio della pandemia sono numerosi gli imprenditori falliti e coloro che hanno perso il lavoro, tra cui molti adulti con figli a carico. Sicuramente le difficoltà economiche (molte famiglie si sono ritrovate in condizioni di sovraindebitamento) e l’incertezza del futuro hanno fatto cadere molte persone in depressione, talvolta con gravi conseguenze.
Per ovviare ai disagi psicologici legati alle chiusure sarebbe indispensabile creare una rete di ascolto e di supporto da parte delle istituzioni pubbliche, in grado di aiutare coloro che, pur avendone bisogno, non possono permettersi i costi di una psicoterapia.
Un altro grave impatto sulla psiche di molte persone è stato causato dall’isolamento conseguente ai lockdown, che ha verosimilmente contribuito al diffondersi di idee suicidarie in molti soggetti, specialmente quelli fragili. Molto spesso hanno fatto questa tragica scelta persone anziane, che temevano per la propria salute o quella del consorte, oppure che hanno dovuto trascorrere troppo tempo senza potere vedere i propri cari, magari rinchiusi in qualche Rsa, dove le visite dei parenti sono state a lungo impedite.
Secondo la Società italiana di gerontologia, in base ad un’analisi condotta su anziani ricoverati con Covid-19, anche senza arrivare al suicidio, l’isolamento è comunque causa di un aumento del rischio di mortalità. Addirittura, secondo questa analisi, la riduzione della durata della vita negli anziani è influenzata dall’isolamento e dalla solitudine a un livello simile a quello di chi fuma 15 sigarette al giorno e maggiore a quello di chi è obeso.
Violenza domestica e femminicidi
Il distanziamento sociale ha avuto spesso come conseguenza un aumento del consumo di alcol e droghe (si è diffuso il fenomeno dello spaccio a domicilio), che si è spesso accompagnato a quello della violenza domestica. Quest’ultima ha portato a un aumento dei casi di femminicidio, quasi tutti in ambito familiare, durante la pandemia.
Secondo l’Istat, nel 2020 i casi di femminicidio sono stati il 50% di tutti i casi di omicidio durante i periodi di lockdown.
Va detto che le misure di quarantena collettiva sono spesso state associate anche in passato a un aumento del rischio di suicidio, come è avvenuto durante le epidemie Sars, Mers e spagnola. Inoltre, il personale medico e infermieristico, che svolse il servizio durante quelle epidemie, così come nella pandemia attuale, spesso è stato colpito da «disturbo da stress post traumatico» (Ptsd).
L’impatto della pandemia sulla salute mentale si è manifestato parallelamente su due piani: da un lato con l’esordio di problemi psicopatologici nuovi nella popolazione generale e dall’altro con l’aggravamento di condizioni patologiche preesistenti, che non è stato possibile seguire adeguatamente presso i servizi psichiatrici, che spesso hanno dovuto ridurre o sospendere l’erogazione delle cure, a causa dell’introduzione delle norme di contenimento del contagio. Per questo motivo molti pazienti con malattia psichiatrica preesistente alla pandemia non hanno potuto essere sottoposti alle normali visite di controllo e si è quindi assistito, nei primi mesi della pandemia, a un netto incremento degli scompensi psicopatologici «prevenibili».
Tra le cause che hanno portato molte persone a un grave disagio psicologico, con possibilità di tendenze suicidarie, oltre al distanziamento sociale e, ovviamente, alla perdita dei propri cari, c’è stata la paura costante di contrarre il virus o l’averlo effettivamente contratto. La paura è stata peraltro enormemente alimentata da un’informazione mediatica, che troppo spesso ha esagerato, mandando in onda, a tutte le ore e per mesi, immagini di ambulanze, operatori sanitari in tuta integrale, bare accatastate: un insieme di cose che possono avere avuto un impatto pericoloso sulle persone più fragili.
I pazienti Covid e quelli non covid
Un analogo problema di visite di controllo posticipate o, peggio, di cure temporaneamente sospese in ossequio alle norme di contenimento del contagio ha riguardato sia i pazienti oncologici che quelli di altre categorie, tra cui i cardiopatici. A distanza di un anno dall’inizio della pandemia e precisamente ad aprile 2021, la Federazione di oncologi, cardiologi ed ematologi (Foce) ha consegnato al premier Draghi un documento di denuncia sui gravi disagi subiti dai pazienti da loro seguiti. Ci sono stati infatti moltissimi ritardi o cancellazioni di interventi chirurgici per tumore. È stata registrata una diminuzione dell’afflusso al pronto soccorso e alle unità intensive di cardiologia degli infartuati e sono stati ritardati o cancellati il 20-30% dei trattamenti oncologici.
Questi disagi hanno colpito 11 milioni tra pazienti oncologici, ematologici e cardiopatici. Inoltre, si sono verificati gravi ritardi anche per quanto riguarda lo screening annuale dei tumori, a cui afferiscono 5-6 milioni di persone. È evidente che la precedenza data alle cure dei malati di Covid causerà altre morti o l’aggravamento di patologie più facilmente trattabili, se diagnosticate tempestivamente. La stessa Foce ha reso noto che, da marzo a dicembre 2020, c’è stato un eccesso di mortalità generale nella popolazione del 21%, rispetto alla media dei cinque anni precedenti: 108.178 decessi in più. Di questi, il 69% era rappresentato da pazienti Covid, molti dei quali affetti da patologie cardiologiche o oncoematologiche, quindi a maggiore rischio di letalità da contagiati. Il restante 31%, però, era costituito da morti non Covid, deceduti per patologie in cui il fattore tempo gioca un ruolo determinante, come quelle cardiologiche e si è trattato di pazienti che non hanno ricevuto tempestivamente un’assistenza adeguata in occasione degli eventi acuti. Nei soli mesi di marzo e aprile 2020 ci sono stati 19mila morti in più delle attese, non legate alla Covid.
Se confrontata con le altre nazioni europee, l’Italia ha avuto, nello stesso periodo, il più alto numero di decessi per patologie non Covid, e questo dimostra che qualche errore di programmazione è stato fatto. Se, infatti, è necessario contrastare la pandemia, tuttavia non possono essere messe in secondo piano patologie altrettanto o più gravi. L’elevata mortalità dovuta a queste ultime è la logica conseguenza dei ritardi nella prevenzione, nella formulazione di una diagnosi, nella presa in carico e nell’attuazione di trattamenti salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che si è pensato di aumentare i posti letto per pazienti Covid a scapito dei posti letto riservati a pazienti di altre patologie, anziché aumentare il numero complessivo dei posti letto ospedalieri, con assunzione di ulteriore personale medico, tecnico e infermieristico.
Questo è il risultato dei tagli alla sanità pubblica fatti da governi di ogni colore politico che si sono succeduti alla guida del nostro paese negli ultimi anni.
Conseguenze sulla vista
Un’altra conseguenza dei lockdown legati alla pandemia è stato l’aumento della miopia, soprattutto tra i bambini e i giovani, dovuto alle molte ore passate ai videoterminali sia per le lezioni a distanza, sia per giocare o stare sui social, che per mesi hanno rappresentato la forma di comunicazione più utilizzata. Un recente studio pubblicato su Jama Oftalmology e condotto su 120mila tra bambini e ragazzi cinesi di età compresa tra 6-16 anni ha rilevato un aumento della miopia tre volte superiore da quando è iniziata la pandemia, rispetto agli anni precedenti.
Anche la vista degli adulti, con lo smart working ha subito dei contraccolpi, ma in questo caso, più che di aumento della miopia (lo sviluppo dell’apparato visivo è ormai completo nell’adulto) si può parlare di pseudo-miopia dovuta allo sforzo accomodativo, gestibile facendo delle pause di circa 20 minuti ogni due ore di lavoro.
Anche in ambito oculistico, in Italia la pandemia ha rallentato enormemente le visite di controllo, portando a liste d’attesa fino a tre anni, che impediscono l’accesso alle cure anche per patologie molto invalidanti come la cataratta e la maculopatia.
Rosanna Novara Topino