Di chi è la colpa?

Evoluzione del Terzomondismo dagli anni ‘50 a oggi

Vista aerea di Kuala Lumpur, capitale della Malaysia. Anche le «Tigri asiatiche» erano nel Terzo mondo. Foto Marco Bello

testo di Antonio Benci |


Il Terzo mondo è una categoria nata negli anni ‘50 che indicava indipendenza e autodeterminazione. Diventata in seguito sinonimo di sottosviluppo e povertà, mentre nasceva nei paesi ricchi un movimento che avrebbe avuto una sua evoluzione.

Terzo mondo è quello che oggi si chiamerebbe un «brand fortunato», coniato nel 1952 da uno studioso francese, Alfred Sauvy, che contrappose al Primo mondo capitalista e al Secondo comunista un ampio gruppo di paesi che stavano uscendo dal giogo coloniale e che potevano auto rappresentarsi come qualcosa che vagamente assomigliasse al Terzo stato del 1789.

Si può solo immaginare il carico di attese che poteva suscitare l’accostamento tra questa eterogenea sommatoria di nazioni con coloro chi avevano dato il via alla Rivoluzione francese, che in mezzo a contraddizioni e anche orrori, aveva contribuito a spingere le istituzioni nell’età moderna. Grazie ai movimenti di liberazione e soprattutto all’immagine di questi presso l’opinione pubblica e l’intellighenzia europea, il Terzo mondo divenne un catalizzatore di speranze e inquietudini. Si evocava l’autodeterminazione dei popoli, si osservava lo sforzo di indipendenza di molti paesi africani e asiatici, e l’uscita dal cono d’ombra della povertà endemica di popoli colonizzati dai «civili» uomini bianchi.

Per una breve finestra temporale – grosso modo i primi anni ‘60 – il miracolo parve compiersi con una sequela di stati che si emanciparono dal giogo europeo. Un ruolo importante l’ebbero intellettuali e leader carismatici di quei paesi che si imposero al mondo con le loro ricette e suggestioni. Parliamo di Franz Fanon, Julius Nyerere, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, Camara.

Colombia, una paese dalle grandi disuguaglianze dove, si potrebbe dire, coesistono Primo e Terzo mondo. Foto Marco Bello

Sottosviluppo

Il meccanismo, tuttavia, si inceppò ben presto e spinse l’immaginario a identificare sempre più il Terzo mondo con sottosviluppo, arretratezza, fame. E subito iniziò a imporsi una domanda: a creare questo effetto era la soffocante logica dei blocchi (Usa e Urss) e il neocolonialismo, oppure l’assenza di élites autoctone di quei paesi e una classe dirigente nella migliore delle ipotesi corrotta? In altri termini il sottosviluppo era endogeno o esogeno?

Agli oltranzisti modernizzatori americani che demonizzavano le società tradizionali, arretrate per definizione, si contrapposero le teorie neomarxiste che individuavano nei diseguali rapporti di forza tra i paesi le cause del sottosviluppo, creando un rapporto di causa-effetto tra la povertà dei paesi del Sud e la ricchezza di quelli del Nord.

Era quest’ultima l’impostazione della «scuola della dipendenza» che nacque e si sviluppò per merito di studiosi latinoamericani raggruppati intorno alla figura dell’intellettuale argentino Raúl Prebisch. Da qui trasse origine quella lettura dell’economia mondiale incentrata sulla dicotomia centro-periferia che avrebbe fatto nascere il movimento terzomondista. Il Terzomondismo alla lettera (ci soccorre la Treccani in questo) significa: «Atteggiamento favorevole ai paesi del Terzo mondo, che può manifestarsi sotto forma di solidarietà politica, di sostegno economico, di forte interesse culturale ecc. Negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo, con il termine Terzomondismo si è indicato un orientamento politico che si è sviluppato soprattutto nell’ambito della nuova sinistra, di sostegno alle lotte di liberazione dal dominio coloniale o neocoloniale, ai movimenti rivoluzionari operanti nei paesi del Terzo mondo e ad alcuni stati come Cuba e la Cina».

Tre aspetti

A leggere questa definizione si direbbe che il termine terzomondismo sia relegato in uno scaffale polveroso della storia collettiva. Lotte anticoloniali? Movimenti rivoluzionari? Cosa c’entrano con lo spazio mentale odierno? Eppure ci sono almeno tre aspetti che portano il terzomondismo nella nostra vita contemporanea e sono tre sentiment molto rilevanti per l’uomo: le cause del sottosviluppo, la terapia e il senso di colpa.

Mozambico, in ambito rurale, l’accesso all’acqua pulita è ancora un diritto negato. Foto Marco Bello

Le cause

La lunga rincorsa della scuola della dipendenza portò fin da subito a sinistra. Per dirla con Adriano Sofri, all’idea di «contrapporre la solidarietà alla carità, dunque la dignità degli sfruttati al bisogno dei poveri» (A. Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo, 2007). Abbiamo visto come i problemi del sottosviluppo vennero letti nell’accezione terzomondista in chiave marxista come generati dallo sfruttamento capitalista a cui rimediare non con «l’aiuto», ma con la ricerca di una autentica rivoluzione di respiro internazionale.

Su queste considerazioni, negli anni si innestarono ulteriori e ancora più complesse impostazioni e interpretazioni, strettamente legate alla modernità. Con la vittoria del «blocco capitalista» vennero a crearsi le condizioni per rimettere all’ordine del giorno il Terzo mondo, soprattutto da parte di quei movimenti che videro nella vittoria capitalista un rafforzamento delle politiche liberiste e un impoverimento di quelle di welfare, in un’accezione nazionale come internazionale.

Essere terzomondisti significò pertanto combattere e contestare una sorta di pensiero unico filo occidentale, rimanendo nella trincea di una visione minoritaria che vedeva nell’egoismo dei paesi ricchi la causa principale se non unica del malessere di quelli poveri. Le battaglie contro il debito dei paesi in via di sviluppo, contro il conformismo culturale, contro la globalizzazione, in definitiva erano un guardare al Terzo mondo «pensando a noi stessi». Il terzomondismo negli anni ‘90 fu un vettore di un malessere diffuso che portava con sé un rifiuto radicale della stessa globalizzazione. Era il rifiuto di quell’etnocentrismo che, nelle parole di Samir Amin, costituiva «una dimensione fondamentale dell’ideologia del mondo moderno» (S. Amin, Le conseguenze dell’eurocentrismo in Terzo Mondo. Specchio e memoria dell’Occidente, a cura di F. Slegato ed E. Zarelli, Macro Edizioni, Forlì, 1993). E in effetti l’occidente non esitava a supportare e aiutare regimi antidemocratici al servizio di questa impostazione culturale centrata sul «noi», basti pensare al triste e repentino declino delle cosiddette «primavere arabe».

Borneo malese. Danza di un’etnia dell’isola. L’etnocentrismo occidentale sminuisce le altre culture. Foto Marco Bello

Le terapie

Se dalla diagnosi si passa alle terapie, si torna una volta di più a Sofri e alla dicotomia carità/solidarietà. Il Terzo mondo rimane povero perché l’aiuto è insufficiente oppure perché le società del Sud sono inefficienti? Di nuovo la domanda centrale è «di chi la colpa?». In questi decenni una risposta parziale; eppure, convincente è la carenza di giustizia e diritti. Questa carenza, infatti, allarga la distanza economica, sociale e culturale tra mondi diversi. Come mi disse Graziano Zoni, attivista di Emmaus e Mani Tese fino dagli anni ’60: «Il dare ha tollerato un sacco di ingiustizie e ne tollera ancora. Il dare degli aiuti non si pone il problema della giustizia» (A. Benci, Il prossimo lontano, Unicopli, Milano, 2016).

E quindi le stesse terapie pensate nell’alveo della cooperazione con programmi di sviluppo, accordi bilaterali, l’ingresso delle agenzie delle Nazioni Unite, il ruolo delle Ong, hanno mostrato e mostrano la corda. E questo perché un sentimento terzomondista ancora presente e diffuso all’interno delle opinioni pubbliche suscita diffidenza nei confronti dei programmi finanziati dai paesi ricchi per far «sviluppare» quelli poveri. Non è forse un’altra forma, sia pure sottile e raffinata, di etnocentrismo? La contraddizione rimane: senza giustizia e quindi diritti, non vi può essere uno spirito di cooperazione vera tra le genti, e i fenomeni migratori degli ultimi anni sembrerebbero ribadire questo concetto, come annotano gli studiosi che parlano di sviluppo diseguale come padre non solo di questo spostamento di massa epocale, ma anche dell’inserimento di un’intera generazione di africani e asiatici «nell’economia mondiale come fornitori di manodopera migrante e nello stesso tempo come base per industrie occidentali itineranti» (C. Meillasoux, Per chi nascono gli africani in Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, a cura di P. Basso e F. Perocco, Franco Angeli, Milano, 2003).

Burkina Faso – foto Marco Bello

La colpa

E veniamo ora all’ultimo aspetto: il senso di colpa.

Le responsabilità occidentali sulle condizioni attuali di buona parte del mondo sono solo storiche oppure ancora attuali, come il terzomondismo sostiene? Pascal Bruckner sostenne negli anni ‘80 che l’Occidente, pur avendo colpe storiche inoppugnabili, non doveva sentirsi «in colpa» per il ritardo di sviluppo del Terzo mondo, in gran parte espressione dell’incapacità delle «proprie» classi dirigenti. Per lui non era vero quindi che il mancato sviluppo del Sud, con annesse tensioni, guerre, instabilità, insicurezza, carenza di diritti e servizi fosse direttamente connesso ai voleri inconfessabili dei paesi del Nord, del loro tessuto industriale, della loro rete di interessi (P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco, Longanesi, Milano, 1984).

Il dibattito suscitato da Bruckner continua da quattro decenni ed è tutt’ora apertissimo con una visione terzomondista che vede tra i suoi epigoni spezzoni del mondo missionario, gruppi scomposti del movimento altermondialista, buona parte delle Ong che lavorano «a Sud», e ottengono per questo, senza porsi troppi problemi o domande, finanziamenti da parte di governi, agenzie ed enti del Nord; altro argomento su cui tornare.

Pensiamo, per rimanere all’oggi, ai numerosi commenti a caldo – in cui si distinse padre Giulio Albanese – seguenti l’assassinio dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, che inscrivono l’accaduto nell’instabilità dell’area determinata dalla presenza di bande armate manovrate da multinazionali e affaristi interessati alle materie prime del paese. Un’interpretazione bollata come terzomondista e quindi per definizione datata, polverosa, ideologica da parte dei salotti buoni dell’atlantismo e della diplomazia italiana e non. In questo senso per una fetta importante di opinione pubblica fa gioco mantenere in vita il termine terzomondista come sinonimo di antiquato.

Borneo – foto Marco Bello

Dove sta la verità?

In questo articolo si è tentata una difficile «sistemazione» del termine terzomondismo che è naturalmente un «mondo» troppo vasto per essere spiegato in poche righe. Tuttavia, alcuni punti appaiono chiari.

C’è ancora oggi, a decenni di distanza, una parte dell’immaginario occidentale che vede il terzomondismo come un incrocio tra senso di colpa e ansia di riforma del proprio stile di vita e convivenza. Il variegato fronte altermondialista in questo senso appare come debitore dell’esperienza del terzomondismo.

Finché continuerà a esistere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il vilipendio della dignità degli ultimi e quella straripante diseguaglianza che, in questi sessant’anni, non solo non si è attenuata, ma anzi si è ampliata a dismisura, continueranno a esserci scuole di pensiero e interpretazioni che vedono questi mali come connessi all’arroganza del forte nei confronti del debole, eterno disvalore che ha avuto – e ha tuttora – lo stesso terzomondismo tra le sue interpretazioni.

Tuttavia, se sono indubbi i guasti determinati dall’accaparramento di risorse, materie prime, cervelli da parte di nazioni, aziende e comunità ricche a scapito di quelle povere, è altrettanto vero che il terzomondismo ha anche stimolato e rafforzato quella sorta di auto assoluzione per chi vive nel Terzo mondo che vede come il male venire sempre «da fuori».

È ancora lungo e tortuoso il viaggio del terzomondismo all’interno delle nostre società e delle loro, dei nostri stati d’animo e dei loro, delle nostre percezioni di loro e delle loro su di noi.

Antonio Benci

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