Recovery plan: speranze e dubbi

testo di Francesco Gesualdi |


La tragedia del Covid si è trasformata nell’occasione per ripensare il ruolo dell’Unione europea. Il «Next generation Eu» prevede un intervento da 750 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza. Tuttavia, l’ideologia economica non viene toccata.

Il Covid è stato una tragedia per le sofferenze e le morti che ha provocato, ma per qualcuno è stato come il formaggio sui maccheroni perché gli ha permesso di togliersi qualche castagna dal fuoco.

È successo, ad esempio, alla dirigenza europea che ha potuto invertire la direzione di marcia della propria politica economica senza dover ammettere nessuna colpa. La direzione abbandonata si chiama «austerità», quella intrapresa si chiama «politica espansiva». La motivazione ufficiale è superare la crisi provocata dal Covid. Quella reale è uscire dal pantano provocato da un’impostazione economica al servizio esclusivo di banche e finanza. I fatti sono noti, ma conviene riassumerli.

Finanza contro stati

Nel periodo 2008-2011 molti governi europei ampliarono il proprio debito per salvare gli istituti bancari sull’orlo della bancarotta a causa di scelte azzardate e fallimentari. Ma, invece di ringraziare per il soccorso ricevuto, la finanza approfittò per speculare sulla situazione di difficoltà in cui si erano cacciati i governi. Le vittime predilette furono Grecia e Italia, i paesi tradizionalmente più indebitati. La finanza decise di scommettere sul crollo del valore dei loro titoli di debito pubblico e si organizzò per provocarlo. Così gli italiani dovettero imparare il termine spread che, pur rimanendo misterioso nelle sue dinamiche, comunicava per certo che quando esso saliva le cose andavano male, quando scendeva andavano meglio.

Nel biennio 2010-2012 la situazione divenne catastrofica: la finanza avanzava nel proprio intento speculativo, complici i governi che, pur avendo i mezzi per poterla fermare, avevano la testa troppo intrisa di mercantilismo per utilizzarli. Convinti che le regole di mercato dovessero trionfare sopra qualsiasi altra esigenza, si guardarono bene dal porre regole, divieti e disincentivi per fermare l’offensiva posta in atto dalla grande finanza contro i titoli del debito pubblico. Così, nel tentativo di recuperare fiducia da parte dei mercati, l’unica strategia di difesa che i governi seppero mettere in campo fu quella di autoimporsi regole di finanza pubblica sempre più severe per dimostrare di saper essere debitori affidabili. Del resto, la vera preoccupazione dei governi non era cosa sarebbe potuto accadere sul piano sociale, ma i rischi che avrebbe potuto correre l’euro se anche solo uno dei paesi aderenti all’eurozona avesse dichiarato di non essere in grado di pagare gli interessi o di restituire le quote di capitale in scadenza. Un caso del genere avrebbe potuto indurre la finanza internazionale a fare di ogni erba un fascio e, prendendo le distanze da tutti i paesi che utilizzavano l’euro, avrebbe potuto provocare una svalutazione importante del valore della moneta comune.

Ricordando la Grecia

Nel 2010 la Grecia era sull’orlo della bancarotta e, per evitare che l’euro finisse nel vortice del suo dissesto, l’Unione europea decise di farsi carico dei suoi debiti. Nel contempo, però, le impose delle condizioni draconiane che la strangolavano sul piano sociale. Il patto era chiaro: l’Unione europea le avrebbe concesso nuovi prestiti per permetterle di pagare gli interessi e le rate in scadenza, ma in cambio la Grecia doveva adottare una politica rigorosissima di risparmi per risanare i propri bilanci. Con prezzi sociali altissimi. In nome del pagamento del debito la Grecia venne costretta a operare tagli drastici alla sanità, alla scuola, alle pensioni, agli stipendi stessi dei dipendenti pubblici. Gli effetti furono ospedali senza farmaci di base, masse di bimbi che andavano a scuola senza mangiare, un numero crescente di poveri, di senza tetto e di senza lavoro che potevano sopravvivere solo grazie all’intervento delle agenzie caritatevoli. In una parola era la tragedia sociale. Ma niente sembrava scuotere l’inflessibilità dei fanatici dell’austerità, in particolare i governanti dei paesi dell’Europa del Nord: Germania, Olanda, Austria. Pur di dimostrare al mondo della finanza che la priorità dell’Unione europea era la difesa dei creditori, nel corso degli anni vennero approvati una serie di provvedimenti che accrescevano il ruolo di gendarmeria assegnato all’Unione europea che ora poteva sindacare sulle scelte di bilancio effettuate dai singoli governi con diritto di veto, se non fossero state ritenute coerenti con le attese di riscossione da parte dei creditori. Ma un tarlo cominciava a insinuarsi nella fede incrollabile riposta nel rigore finanziario.

Foto Capri23auto – Pixabay.

Gli effetti dell’austerità

La minaccia avvertita si chiamava stagnazione, la consapevolezza che il taglio eccessivo delle spese governative e familiari avrebbe portato a una caduta importante della domanda, tale da fare imballare il sistema. Del resto il capitalismo è un sistema di mercato il cui epicentro è rappresentato dalle imprese, strutture produttive organizzate per la vendita: se vendono ciò che producono hanno qualche probabilità di crescere e assumere; se non vendono, interrompono la produzione e di sicuro non assumono, addirittura licenziano. Difatti le strette di bilancio si accompagnarono a un blocco della crescita del Pil, se non a una sua riduzione, specialmente fino al 2012. Assieme al blocco della produzione, ci fu anche un aumento della disoccupazione. La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 2015, ma non al ritmo voluto. Le politiche di austerità iniziavano quindi a essere viste con sospetto da parte di qualche politico, ma senza poterlo dire apertamente per paura di essere tacciato come eretico. Tuttavia, anche un’altra esigenza cominciava a farsi pressante, ma non poteva trovare attuazione finché prevaleva l’ideologia del rigore finanziario. La nuova esigenza si chiamava (e si chiama) cambio dell’infrastruttura energetica per provare ad arrestare i cambiamenti climatici. Una trasformazione che richiede investimenti per decine di miliardi, che, se dovessero essere reperiti tramite la normale via fiscale, richiederebbero un innalzamento della pressione fiscale che nessuna comunità nazionale accetterebbe. Stretta fra i due fuochi la classe politica europea rischiava la paralisi, finché non è arrivato il Covid che, con i suoi lockdown, nel 2020 ha provocato un arretramento del Pil all’Unione europea nell’ordine del 7,4%. La pandemia è, quindi, stata presa a pretesto da tutti per operare un cambio di direzione di marcia senza bisogno di lasciarsi andare a una sconfessione ideologica.

Per un’Unione europea di nuova generazione

Oggi anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce) reputano il debito una necessità per il rilancio delle economie messe in crisi dal Covid. Occasione presa al balzo da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea che, durante il suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 16 settembre 2020, ha formulato la sua proposta di rilancio europeo battezzandolo Next Generation Eu, ossia «Unione europea di nuova generazione». Un rilancio finalizzato a due grandi obiettivi: la transizione ecologica e il ritorno alla crescita economica. E come strategia ha proposto la costituzione di un fondo europeo (recovery fund) del valore di 750 miliardi di euro da mettere a disposizione degli stati membri, per la realizzazione delle loro opere di rilancio. Un piano ambizioso, facile da enunciare, ma pieno di nodi da sciogliere per renderlo operativo.

La provenienza dei soldi

Per cominciare, la costituzione del fondo: con quali soldi formarlo? L’indicazione della Commissione europea è stata di finanziarlo con soldi presi a prestito sul mercato finanziario. Una proposta insolita per l’Unione europea, ma ancora più rivoluzionaria considerato che ad essere indicato come intestatario del debito non sono i singoli stati, ma la Commissione stessa. Un vero salto di qualità sulla strada dell’integrazione europea perché è la prima volta che l’Unione europea accetta di indebitarsi in maniera collettiva. Individuata la via del debito condiviso come forma di finanziamento, si trattava di stabilire con quali risorse restituire i prestiti ottenuti. La proposta della Commissione è stata duplice: contribuzione e tassazione. Da una parte ha ipotizzato di innalzare la contribuzione annuale dei singoli stati al bilancio comunitario, facendola passare dall’attuale 1,6% del Pil fino al 2%. Dall’altra ha proposto di innalzare alcune tasse tradizionali a beneficio esclusivo della Commissione europea, o di introdurne di nuove. Fra esse una tassa sulle imprese del web, un’imposta sulle transazioni finanziarie, un nuovo dazio doganale sui livelli di anidride carbonica connessi ai prodotti importati.

Ripartizione e utilizzo

Il terzo nodo da sciogliere era la ripartizione dei fondi tra i paesi membri. Nodo che in realtà è duplice: come determinare la somma complessiva da assegnare a ogni stato membro e sotto quale forma. Per il primo aspetto si è deciso di utilizzare un mix di criteri che comprendono l’estensione della popolazione, la situazione sociale e la situazione economica. Per il secondo aspetto si è deciso che parte dei fondi sarebbero stati assegnati a fondo perduto, parte sotto forma di prestito, gravato di interessi, da restituire nel giro di un trentennio. Riferito all’Italia la conclusione è che il totale a cui può accedere corrisponde a 191,4 miliardi di euro per il 64% (122,5 miliardi) sotto forma di prestiti e il 36% (68,9 miliardi) a fondo perduto.

Il quarto nodo da sciogliere era a quali condizioni elargire i fondi agli stati richiedenti. Il regolamento approvato dal Parlamento europeo il 10 febbraio 2021 pone alcuni vincoli sia rispetto al modo di spendere i soldi ricevuti, che agli obblighi contabili e amministrativi. Rispetto all’utilizzo dei soldi, due capisaldi sono che almeno il 37% deve essere speso per investimenti utili ad abbattere l’anidride carbonica, mentre un altro 20% deve essere speso per la transizione digitale (art. 16). Quanto alla gestione contabile, il regolamento consente alla Commissione europea di sospendere i pagamenti qualora si registrino ritardi, inefficienze o altre inadempienze da parte dei paesi riceventi (art. 24).

Foto Wolfgang Eckert – Pixabay.

Positività e vecchi errori

I paesi interessati hanno fatto arrivare le loro richieste di finanziamento alla Commissione europea. La proposta italiana è stata spedita il 30 aprile e formalmente accettata il 22 giugno con la visita a Roma della presidente Von der Leyen.

Rimandiamo alla prossima puntata l’analisi del piano dell’Italia, che è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Intanto, però, è possibile avanzare alcune valutazioni sull’idea complessiva del Next generation lanciata dall’Unione europea. In particolare ne emergono tre, di cui una positiva, una parzialmente positiva e una negativa.

Quella positiva è il cambio di prospettiva della Ue. Finalmente non più gelida ragioniera attenta solo ai pareggi di bilancio e agli impegni verso i creditori, ma sensibile alle condizioni di vita dei suoi cittadini: salute, lavoro, prospettive di vita. Altrettanto positiva è la determinazione con la quale l’Unione europea conduce la sua lotta contro le emissioni di anidride carbonica. Ma questa positività è offuscata dall’uguale enfasi posta sulla ricerca ossessiva della crescita del Pil, come se la transizione ecologica fosse solo una questione di tecnologia e non una necessità molto più profonda che coinvolge la necessità di ridimensionare i nostri consumi per alleggerire la nostra pressione complessiva sul pianeta in un’ottica di equità internazionale.

Per questo ritengo che gli obiettivi del Next generation siano positivi solo parzialmente. Mentre si può definire negativa la scelta di finanziare il piano tramite prestiti. L’alternativa era ottenere quel denaro direttamente dalla Banca centrale europea (Bce), anche se ciò avrebbe richiesto una revisione dei trattati affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura. Il solo modo per sfuggire alla trappola del debito e mettersi definitivamente al riparo dall’austerità che l’Unione europea ha sospeso, ma non accantonato.

Francesco Gesualdi

 




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




Bambini ai margini:

nella trappola della povertà

testo e foto di Dan Romeo |


Conosciuta come il «Tibet delle Americhe», a causa della sua posizione ad alta quota, la Bolivia vive un forte contrasto tra i celebri e prevedibili paesaggi immortalati sui social e la realtà vissuta dalla gente, soprattutto i più giovani e i bambini.

Quasi la metà della popolazione boliviana ha meno di 18 anni, la maggioranza della quale vive al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Onu. Circa due milioni di bambini vivono in condizioni di estrema povertà. Si calcola che di questi più di 700mila siano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, e che oltre 300mila trascorrano le loro esistenze per strada.

Nell’ottobre del 2019 sono andato a Cochabamba, una delle principali città della Bolivia, per documentare l’impegno della Ong Bolivia Digna, una Ong locale che lavora con l’obiettivo di promuovere e difendere i diritti dei bambini, degli adolescenti e di altri gruppi sociali vulnerabili che vivono nell’esclusione e nella povertà. L’organizzazione offre loro la possibilità di essere e sentirsi semplicemente bambini, alleviando la pressione del lavoro infantile per alcune ore durante l’arco della giornata.

Il lavoro della Ong è reso possibile grazie al supporto di volontari locali e internazionali che si uniscono per offrire ai piccoli la possibilità di giocare, imparare e sviluppare abilità che altrimenti non sarebbero a loro disposizione. L’Organizzazione opera principalmente in alcune aree situate nei sobborghi di Cochabamba e in particolare in alcune comunità rurali del Mercado Campesino e di Arocagua.

Mercado Campesino

Cochabamba si mostra agli occhi dei turisti di passaggio come una città dalla vitalità esuberante. E in rapida crescita a causa della migrazione di migliaia di persone che vi si trasferiscono dalle aree rurali. Questi flussi migratori interni hanno causato il fiorire di una miriade di agglomerati fatiscenti nelle aree di periferia, i barrios, baraccopoli prive delle infrastrutture e servizi di base come acqua, elettricità e fognature.

Mercado Campesino è uno di questi barrios nella zona Nord della città, abitati da persone povere e spesso senza un lavoro che garantisca loro il sostentamento. Molti adulti sono analfabeti e lavorano con orari massacranti per paghe insufficienti ai bisogni della famiglia. Così i bambini soffrono di una mancanza cronica di attenzioni e cure da parte dei genitori che non sono in grado di provvedere alla loro crescita. Bambini e adolescenti sono spesso abbandonati a se stessi, impegnati a prendersi cura dei fratelli più piccoli, e a rischio di diventare vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali e di tratta di esseri umani. Mancano del sostegno necessario per poter sfuggire alla trappola della povertà.

Arocagua, situato a Est, è un altro di quei barrios. Là ho trascorso la maggior parte delle giornate con le macchine fotografiche riposte nello zaino, dedicandomi a interagire e giocare con i bambini. Le mie buffe battute e i racconti improvvisati con uno spagnolo molto elementare e spesso sgrammaticato hanno fatto il resto, rompendo gli indugi e mettendo i bambini a proprio agio. Due settimane sono trascorse veloci alla scoperta delle vite di quei piccoli bambini e delle loro famiglie. Qui ho incontrato Ester. Abbandonata appena nata dai suoi genitori, ha avuto la fortuna di essere affidata alle cure della nonna, una anziana di etnia quechua che non ha mai imparato lo spagnolo e che si prende cura di sua nipote tra le lamiere della loro «casa». Grazie al supporto di Bolivia Digna, Ester è stata adottata a distanza.

Ester con la nonna

Ester

Il Parco Nazionale di Torotoro

Cochabamba è anche la base per avventure ed escursioni ad alta quota, comprese le gite al Parco nazionale di Torotoro. Uno dei parchi più piccoli della Bolivia, Torotoro è rimasto fuori dai percorsi turistici, il che ne rende la scoperta ancora più meravigliosa. I suoi tesori sono geologici, archeologici e storici, con oltre 2.500 impronte di dinosauri incise nelle rocce del periodo paleozoico e cretaceo, canyon e gole profonde dalla vegetazione lussureggiante e grotte calcaree a decine di metri di profondità, grandi abbastanza da ospitare laghi e cascate. Tutto questo accompagnato dalla calda ospitalità, dall’umorismo e dalla curiosità del mosaico culturale e linguistico della gente di qua.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Perdenti 64.

Suor Dorothy Stang, difesa degli oppressi

testo di Don Mario Bandera |


Il 12 febbraio 2005 veniva uccisa in Brasile, in piena foresta amazzonica, una suora statunitense settantatreenne, Dorothy Mae Stang (nella cantilenante lingua portoghese-brasileira, amorevolmente chiamata Irmã Dorote) della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur.

Subito balzò agli occhi che non si era trattato di un atto violento di intolleranza religiosa, ma di qualcosa di ben più efferato che scosse, oltre che la sensibilità della grande famiglia missionaria, anche la sonnolenta coscienza collettiva dell’opinione pubblica internazionale. Ma chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili del Nord Est del paese, ella rappresentava una presenza umile e solidale a fianco dei poveri contadini «sem terra» in cerca di terra incolta da coltivare.

Era, suor Dorothy, una presenza viva e scomoda di Chiesa in un luogo dove nessun missionario aveva ancora messo piede, e punto di riferimento per tante famiglie di contadini costantemente in balìa dei grandi interessi economici che con tracotanza, e anche violenza, si contendevano ogni metro quadrato della foresta amazzonica.

Suor Dorothy, col tempo, era diventata una voce profetica in quanto ricordava a tutti che la persona va sempre difesa, in modo particolare gli esclusi della società e i più poveri fra i poveri, e che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate per ricavare più profitti economici a beneficio dei pochi ricchi fazendeiros (proprietari di enormi aziende agricole, latifondisti, ndr) e delle insaziabili multinazionali, ma rispettate, protette e amate perché sono patrimonio di tutti.

Parlaci un po’ di te, chi sei, da dove vieni, perché sei diventata suora e missionaria.

Sono nata il 7 giugno 1931 in Dayton, Ohio, Usa, nella fattoria del tenente colonnello Henry Stang, trasformato in contadino, padre di ben nove figli e figlie. Ex militare, mi ha insegnato un forte senso della disciplina e del dovere. Da lui ho preso anche una grande passione per la natura e la vita contadina. Da mia madre Edna, invece, ho preso l’allegria e la spensieratezza. A sedici anni sono entrata con la mia amica Joan nella congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Questo è successo per due ragioni: la mia partecipazione al gruppo dei Giovani studenti cristiani, dove avevo imparato il metodo del «vedere, giudicare e agire», e il fatto che avevo studiato nella Julienne, una scuola proprio delle suore di Namur, dove si respirava un forte spirito missionario.

Perché sei andata in Brasile?

Dopo gli anni di preparazione, ho fatto i primi voti nel 1951 e ho preso il nome di suor Mary Joachim. Ho passato i miei primi anni come insegnante nelle nostre scuole negli Usa, ma il desiderio della missione è andato crescendo in me, anche sotto la spinta del Concilio Vaticano II. Quando papa Giovanni XXIII ha lanciato un appello alle suore del Nord America affinché mandassero almeno il 10% del loro personale in America Latina, mi sono resa subito disponibile, incoraggiata anche dal fatto che due dei miei fratelli erano diventati missionari. È stato con immensa gioia che nel 1966 ho ricevuto la notizia di essere parte del secondo gruppo di suore di Namur destinate al Brasile.

Sei finita di nuovo nella scuola?

Sembrava la cosa più naturale visto il tipo di attività che la nostra congregazione faceva, ma le cose sono andate diversamente. Appena arrivate in Brasile, nell’agosto del 1966, siamo andate a Rio de Janeiro, nel Centro di formazione interculturale, per imparare la lingua e per l’inserimento nel paese. Là, tra le nostre guide, c’erano Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. Già da subito, l’impatto con la gente delle favelas di Rio ci ha messo in discussione, a cominciare dal nostro modo di vestire, per cui abbiamo lasciato l’abito «da suore» e abbiamo cominciato a vestirci con abiti semplici.

Dopo il corso di inserimento dove siete andate?

Appena prima di Natale siamo partite per la nostra prima destinazione, Coroatá, nel Maranhāo, accolte con calore da due missionari italiani e sistemate in una casa crollata a metà, quindi tutta da sistemare. Pensavamo di insegnare nella scuola, invece ci hanno mandato subito a visitare la gente del posto e ad animare le nascenti comunità ecclesiali di base. Era una pastorale nuova, attenta ai poveri e quindi, quasi da subito, ci siamo trovate in contrasto con i fazendeiros, che erano abituati a dominare tutta la vita dei loro contadini, anche quella religiosa (con messe celebrate solo nelle loro fazendas e feste patronali organizzate in tutto e per tutto da loro).

Un contesto carico di problemi e di tensioni sociali.

Indubbiamente. I latifondisti trattavano i contadini come gli schiavi di un tempo e impedivano qualsiasi azione di riscatto sociale. Anche costruire una scuola era visto male perché avrebbe reso i poveri più coscienti della loro situazione. Inoltre, c’era un meccanismo di sfruttamento ben oleato. Il governo prometteva lotti di terra a chiunque era disposto a entrare nella foresta e disboscare. Così molti poveri contadini senza terra si buttavano all’avventura. Disboscavano, preparavano la terra, la rendevano pronta per la coltivazione. Passati cinque anni, arrivavano i fazendeiros o le grandi multinazionali, che intanto si erano assicurati i titoli di proprietà di quelle terre, e, forti dei loro «diritti», cacciavano via tutti per impiantare le loro grandi fazendas. Nessun compenso era pagato ai contadini, anzi veniva usata la forza della polizia o di sgherri privati per costringere la gente ad andarsene, il tutto accompagnato da case bruciate, pestaggi, imprigionamenti di chi resisteva e anche uccisioni.

E voi closa facevate per aiutare la gente?

La priorità era il sostegno alle comunità di base, poi abbiamo cominciato a celebrare le messe, gli incontri e le feste nei villaggi dei contadini invece che nelle case dei possidenti.

Questo è stato vero a Coroatá, la prima missione. Ma lo stesso abbiamo fatto quando ci siamo spinte ancor più nell’interno, dal Maranhāo al Pará, e ci siamo stabilite prima ad Abel Figueredo (nel 1974) e poi ad Anapu (nell’82), una zona ancora più «calda» nella diocesi di Altamira.

Con una certa audacia fondaste anche il sindacato locale dei contadini.

È stata una scelta ovvia quella di aiutarli a organizzarsi. Era importante che diventassero loro soggetti del loro riscatto. E poi c’era l’istruzione. Immagina che con loro abbiamo costruito (e ricostruito, perché spesso ci venivano bruciate) ben ventitré scuole primarie in un’area dove l’istruzione di base era completamente assente.

Insegnaste anche le tecniche di agricoltura sostenibile.

Certamente. Abbiamo cercato inoltre anche l’incontro e la collaborazione con i popoli indigeni, per renderli coscienti della situazione e far loro comprendere l’importanza di battersi per i loro diritti. Dimostrando a tutti che cosa può fare chi ha fede, coraggio e determinazione per cambiare una parte del mondo disperatamente bisognosa di giustizia.

Ma allora eravate più attiviste sociali che missionarie.

No, proprio perché facevamo ogni giorno una scelta di vita e impegno secondo il Vangelo, avevamo la forza e la lucidità per affrontare quelle situazioni. Era il confronto giornaliero con la Parola di Dio che ispirava non solo me, ma i preti con cui lavoravamo e i leader delle comunità di base.

Inutile dire che la vostra azione sociale e pastorale non era ben vista dai potenti della zona.

Fin dal mio arrivo in Brasile sono stati diversi gli avvertimenti che questi individui ci facevano giungere, mettendoci in guardia per la nostra azione in difesa degli indigeni e dei contadini più poveri. La prima minaccia risale addirittura al 5 agosto 1970. In quel tempo lavoravo a Coroatà, quando un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel centro parrocchiale minacciando le suore che in quella sede riunivano la gente per educarla ai propri diritti.

E non solo noi eravamo malviste, ma anche i sacerdoti con cui lavoravamo e i leader della comunità di base, gli insegnati delle scuole. Molti di loro, e non solo noi suore, hanno pagato con minacce, arresti abusivi, imprigionamenti, torture e anche la morte il loro impegno per la giustizia e i poveri.

In ogni caso la vostra situazione peggiorava di giorno in giorno.

I ricchi moltiplicano i loro piani per sterminare i poveri, riducendoli alla fame. Uno di essi, il sindaco di Anapu, mia ultima destinazione missionaria, se n’era uscito con una frase terribile e lapidaria indirizzata alla mia persona: «Dobbiamo sbarazzarci di questa donna se vogliamo vivere in pace».

Tu però non ne avevi nessuna intenzione di lasciare la tua gente.

So che volevano togliermi di mezzo a qualunque costo, ma io di andarmene non ci pensavo proprio. Il mio posto restava con la gente continuamente umiliata, sfruttata e calpestata».

La mattina del 12 febbraio 2005, «mentre cammina da sola nella foresta, la sua via viene sbarrata da due uomini armati. Dal borsello di plastica, che porta sempre con sé, estrae mappe e documenti per dimostrare che l’area contesa è stata dichiarata riserva per i poveri senza terra. Uno dei due uomini le chiede se ha un’arma. Lei sorride e tira fuori la Bibbia. “Questa è l’unica arma che ho”, dice, e comincia a leggere dalle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Beati gli operatori di pace; saranno chiamati figli di Dio”.

Quando si volta per ripartire, uno degli uomini la chiama. L’altro impugna l’arma, e mentre la suora si gira, le spara a bruciapelo mentre ha ancora la Bibbia in mano. Continua a sparare, sei volte. Poi i due corrono verso i cespugli e fuggono verso la tenuta di uno dei mandanti». (Da Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, Emi 2009).

Dorothy Stang, per il suo sacrificio come «testimone della fede», rappresenta uno dei più luminosi esempi ai nostri giorni di devozione al Vangelo applicata sul campo, accanto ai più umili e poveri, ai così detti «senza voce». Nella sua azione sociale e pastorale, contrastò interessi importanti; per questo venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. Ma la sua testimonianza è tutt’ora viva e la sua memoria, ripropone temi, problemi e impegni attuali più vivi che mai. Ecco perché «la sua storia è tutt’altro che terminata».

Ad ogni anniversario della sua morte, centinaia di persone si radunano attorno alla sua tomba nella foresta amazzonica. Fra esse i rappresentanti delle tante comunità di base sorte soprattutto dopo il sacrificio di Dorothy Stang, per condividere il Vangelo e viverlo sul campo, come lei aveva insegnato. La recente Esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco è un doveroso omaggio a questa piccola donna, paladina della giustizia sociale, e a tutti quelli che hanno donato la vita per difendere la loro fede. 

Ultimo, profetico segnale: nel 2004 – l’anno prima di venir uccisa – suor Dorothy viene insignita con la «Medaglia di Chico Mendes» da parte dell’Organizzazione brasiliana degli avvocati per i diritti umani. Quasi a riconoscerla erede – e tragicamente fu proprio così – del sindacalista, difensore degli ultimi, assassinato nel 1988.

Don Mario Bandera

Da leggere:

Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, EMI, 2009




Nodi da sciogliere

È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.

Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».

E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.

Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…

Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».

Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.

padre Giacomo Mazzotti


Un nome che impegna

Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.

Due nomi, ma uno solo basterebbe

Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».

Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».

Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.

Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».

Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.

Diventare ciò che il nome esprime

Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».

Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».

Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.

Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».

Figli prediletti e felici

Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.

Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».

Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.

padre Francesco Pavese

 


Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198

Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo

È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».

Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.

Biografia divulgativa

È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».

Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.

L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.

Il «mondo» torinese dell’Allamano

Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.

L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.

Apertura missionaria

Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».

Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.

Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».

padre Giacomo Mazzotti




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio




Dom, 1 agosto 2021 – XVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef4,17.20-24; Gv 6,24-35

Donaci, Signore, il pane del cielo

Gesù mette a nudo le nostre vere motivazioni. Crediamo di aver trovato in lui la soluzione dei nostri problemi, ma ne vengono fuori sempre di nuovi e la fede non funziona come una bacchetta magica. Meno male! Bisogna lasciarci condurre da Gesù stesso, come lui fa nel discorso della sinagoga a Cafarnao: “c’è un altro pane – cosa dobbiamo fare? – credere – vogliamo un segno – io sono quel segno!”. È il nostro movimento verso di lui, fatto di entusiasmi e d’incertezze. E lui sempre ci aspetta.

Da Punti Luminodi – Un pensiero al giorno del beato Allamano.

Non interessa molto il numero delle missioni e dei missionari che abbiamo, ciò che importa è la qualità, che siano perfetti o almeno che si sforzino costantemente per esserlo.