È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.
Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».
E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.
Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…
Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».
Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.
padre Giacomo Mazzotti
Un nome che impegna
Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.
Due nomi, ma uno solo basterebbe
Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».
Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».
Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.
Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».
Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.
Diventare ciò che il nome esprime
Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».
Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».
Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.
Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».
Figli prediletti e felici
Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.
Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».
Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.
padre Francesco Pavese
Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198
Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo
È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».
Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.
Biografia divulgativa
È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».
Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.
L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.
Il «mondo» torinese dell’Allamano
Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.
L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.
Apertura missionaria
Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».
Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.
Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».
padre Giacomo Mazzotti