Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano
Sforziamoci di amare la sofferenza senza lamentarci e di accettare le piccole contrarietà di ogni giorno, per abituarci a sopportare sofferenze maggiori che la vita può riservarci.
Le biografie: Romero e Câmara
testo di Sante Altizio |
Due vescovi latinoamericani. Due difensori degli oppressi. Modelli per una Chiesa che compie anche oggi la sua scelta preferenziale per i poveri.
Anselmo Palini è un insegnante bresciano di scuola secondaria che ha all’attivo una serie di pubblicazioni sui temi della pace, della nonviolenza e dei diritti umani davvero notevole.
È stato tra i primi, negli anni Ottanta, a sollevare domande sul senso della presenza della produzione di armi nella provincia di Brescia. La quasi totalità delle armi leggere italiane, infatti, arriva da quell’area.
Nel 2020, la storica Editrice Ave, fondata nel 1935 da Luigi Gedda, ha ripubblicato due testi di Palini che, a distanza di una decina d’anni dal loro primo arrivo in libreria, meritavano di tornare all’attenzione del pubblico.
Si tratta di due biografie ricche, approfondite, senza sbavature: una dedicata a san Oscar Romero, il vescovo martire del Salvador, e l’altra a Hélder Câmara, il «vescovino» brasiliano, tra i massimi alfieri della «scelta preferenziale per i poveri» compiuta dalla Chiesa latinoamericana nella Conferenza di Medellín del 1968.
Il SudAmerica al centro
Con l’elezione al soglio pontificio di José Mario Bergoglio, argentino di Buenos Aires, è diventato chiaro per molti ciò che era già evidente da diversi anni agli osservatori interessati: il mondo latinoamericano è il nuovo motore della chiesa cattolica. E se mons. Bergoglio è diventato papa Francesco, il «merito» è anche di uomini come Oscar Romero e Hélder Câmara, che quel motore lo hanno alimentato.
San Romero de America
La biografia che Palini dedica a Romero ha un sottotitolo forte: «Ho udito il grido del mio popolo», e una postfazione pregiata che porta la firma del cardinale Gregorio Rosa Chávez, il quale, quando l’arcivescovo di San Salvador venne assassinato, era rettore del seminario diocesano della capitale centroamericana.
Era il 24 marzo del 1980. Alle ore 18.25, mentre celebrava la messa, appena terminata l’omelia, mons. Oscar Arnulfo Romero venne raggiunto da un colpo di arma da fuoco in pieno petto. Si accasciò sull’altare e morì.
La biografia di Palini traccia il percorso che portò un uomo di Chiesa con una formazione teologica tutt’altro che avanzata, e nessuna voglia di diventare una celebrità, alla scelta di stare dalla parte dei deboli di fronte alla crudele repressione della dittatura militare.
Mons. Romero spiazzò tutti, forse anche se stesso, e da «vescovo malleabile» diventò la variabile impazzita che catalizzò la speranza di chi non ne aveva più. Una variabile che sarebbe stata eliminata.
Nel 1980 la Guerra Fredda si combatteva anche in America Latina, e lasciava una scia di sangue apparentemente inarrestabile.
«Le sue omelie – scrive Palini – erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che, nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in questa minuscola nazione, e per la presenza di una Chiesa […] evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per questo, violentemente colpita […] dagli squadroni della morte».
Maurizio Chierici, un grande inviato italiano (già collaboratore di MC, ndr), che conobbe e intervistò più volte Romero, scrive nella prefazione: «Un paesino da niente (El Salvador, ndr) trasformato nel poligono dove le società benestanti costruivano il prototipo necessario per non perdere il benessere; sperimentavano la paura come arma invisibile dalla quale i popoli non riescono a difendersi».
Hélder Pessoa Câmara
L’assassinio di Romero, non solo non riuscì a far tacere la sua voce, ma diventò un grido di richiesta di giustizia per un continente intero. E tra coloro che seppero far nascere una nuova speranza dalla morte di Romero ci fu sicuramente Hélder Pessoa Câmara, uno dei vescovi brasiliani più amati e coraggiosi della storia recente.
Classe 1909, morto all’età di novant’anni, dal 2017 è, grazie a una legge dello stato, patrono brasiliano dei diritti umani.
Anselmo Palini, per la biografia di dom Hélder, come sottotitolo ha scelto una sua celebre frase, quasi un manifesto: «Il clamore dei poveri è la voce di Dio».
Nella prefazione, affidata a mons. Luigi Bettazzi, che lo conobbe al Concilio Vaticano II, si legge: «Tempo fa non sarebbe stato necessario introdurre un libro su Hélder Câmara […]. Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, il suo ricordo tende a offuscarsi».
L’autore ricostruisce con cura tutti i passaggi che hanno segnato la crescita religiosa di Hélder Câmara. Il capitolo iniziale si intitola: «Gli anni dell’integralismo», ed è subito un’immersione nel suo cammino attraverso le lettere e gli scritti lasciati dal vescovo brasiliano.
C’è un passaggio, a pag. 32, che merita di essere riportato: «Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo e lo vedevo diviso tra destra e sinistra, cioè tra fascismo e comunismo. […] Scelsi il fascismo. Si chiama Azione integralista, in Brasile. […] E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava benissimo. Come giudico ciò? Con il mio semplicismo giovanile […] non c’erano molti libri da leggere, né molti uomini sani da ascoltare». Solo una persona matura può osservare con tanta franchezza il proprio passato.
Seguono due capitoli corposi: «Gli anni del cambiamento» e «Gli anni della profezia».
Câmara per i poveri
Come successo per Romero, quando la realtà bussò alla sua porta, non fu facile per lui fingere di non aver sentito. Il Brasile degli anni delle dittature militari, della povertà diffusa, del razzismo, della devastante ingiustizia sociale, iniziava a far sentire la sua voce disperata. Il giovane sacerdote brasiliano crebbe, e crebbe in lui anche una nuova consapevolezza.
Negli anni Cinquanta, Câmara arrivò a Rio de Janeiro come vescovo ausiliario, poi partecipò al Concilio e, in seguito, alla Conferenza di Medellín.
Le sue prese di posizione erano sempre più nette contro la violenza e la prepotenza del potere. E poi nacquero decine e decine di gruppi di base, sindacati, cooperative che vennero fondati per organizzare il tessuto sociale, sempre partendo dal basso, dagli ultimi.
Câmara mistico
Dom Hélder aveva doti da mistico: «Tutte le notti si svegliava per un’ora di preghiere e di orientamento della giornata», ricorda mons. Bettazzi; doti da teologo e da vero oppositore politico: cosa che alla dittatura non piacque per nulla.
«La fede, basata sulla Parola di Dio, toglie la maschera alle ideologie dei dominatori. Gesù assume l’identità degli oppressi e vuole essere amato e servito in loro».
Il merito di Anselmo Palini è quello di permetterci di ripercorrere le storie di Oscar Romero e Hélder Câmara con la consapevolezza che, se anche un po’ della loro memoria si è offuscata, i frutti della loro testimonianza ci sono ancora tutti e sono arrivati sino a San Pietro.
Sante Altizio
Oggi è storia sacra
Hai lottato con il tuo limite fin da piccolo. Per molto tempo ti sei sentito insufficiente.
Guardato. Giudicato. Deriso persino.
Questo ti ha spinto a correre.
Deciso a farti restituire ciò che ti era stato tolto, ti sei dato da fare senza guardare in faccia a nessuno e, poco per volta, il tuo sforzo ti ha premiato.
Oggi hai molto di ciò che volevi.
Sei invidiato da molti, e temuto anche.
Eppure, dentro, qualcosa ti morde.
Da un po’ hai preso a seguire le voci che parlano di una novità: un uomo che, dal nulla, si è messo a guarire malati e indemoniati e che, parlando di Dio in modo inaudito, è diventato il centro dell’attenzione di tutti.
Non sai perché, ma senti che la sua storia ti riguarda. Ed ecco, oggi passa da qui.
È per questo che ora stai sul sicomoro (Lc 19,1-10). Volevi infilarti tra la folla per vederlo, ma tu sei basso di statura e gli altri corpi erano per te come un mare agitato nel quale rischiavi d’affogare.
Allora sei corso all’albero e, senza pensarci due volte, ti sei arrampicato.
Il tuo limite ti ha spinto lassù. E ora lo vedi.
È lì che cammina verso di te. Si avvicina, si ferma, alza i suoi occhi. Ti chiama per nome.
Senti in quel momento che il morso si allenta in te. Capisci che cercavi Lui. E che se tu l’hai cercato, è Lui che ti ha trovato.
Incurante della folla che giudica, oggi stesso sarà nella tua casa. Oggi stesso la tua storia si rivela storia sacra.
Tu scendi in fretta, allora. Non c’è tempo da perdere. C’è da ristabilire un’identità: i figli di Abramo, infatti, non tengono nulla per sé di ciò che hanno ricevuto e, se qualcosa hanno tolto a qualcuno, restituiscono quattro volte tanto.
La tua casa si tramuta in dimora di salvezza.
È tempo di fermare la corsa e, assieme a Lui, sciogliere il morso.
Perdenti 63. Jan Palach, dare la vita per la libertà
testo di Don Mario Bandera |
Più di mezzo secolo fa, era il 19 gennaio 1969, Jan Palach, studente cecoslovacco si immolò dandosi fuoco nella centralissima piazza San Venceslao a Praga, per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici e il clima di repressione instaurato dall’Armata Rossa nel suo paese. Nello sbuffo di fumo legato al suo gesto estremo, che per un istante si disperse sulla sua bellissima città, era contenuto un monumento simbolico molto più solido della pietra o dell’acciaio, certamente più duraturo, perché l’uomo è nato per la libertà. La libertà è un diritto inalienabile per ogni essere umano dal giorno della nascita fino alla morte.
Alla luce delle sofferenze di Jan Palach, quello che divenne fondamentale nella «lettura sapienziale» del suo gesto fu l’autenticità della sua identità umana. Quale altra creatura sulla terra avrebbe potuto immaginare da sé la bellezza di un futuro di libertà e giustizia, fino al punto di auto immolarsi per essa? Palach con il suo gesto, ribadiva di fronte all’oppressore, che l’uomo non può vivere in schiavitù.
Le sue ultime parole sul letto di morte sono un monito ancora oggi: «Dedicatevi da vivi alla lotta».
Jan, qualche giorno prima di prendere la tua estrema decisione, scrivesti a un tuo compagno di studi, suggerendo un’azione di rivolta collettiva che non fosse più solo una testimonianza individuale.
Auspicavo una protesta di massa contro la presenza e la tracotanza dei sovietici, non più sopportabile per chi, come me e i miei compagni di università, sentiva crescere dentro di sé il «dovere» della libertà e non soltanto il bisogno.
Tu fosti anche tra i fondatori del Consiglio accademico degli studenti, studiavi filosofia, eri interessato alla storia, all’economia, alla politica; avevi partecipato a dei viaggi di studio, eri stato persino a Leningrado per conoscere meglio la cultura russa. Avevi vissuto gli effetti della «Primavera di Praga», con il vecchio apparato comunista che cercava, sciogliendosi dal diktat sovietico, di realizzare un «socialismo dal volto umano», a cui molti guardavano con simpatia.
Eravamo in molti – tra i giovani – a sognare e ad aspirare a un socialismo senza apparati centrali, che fosse veramente democratico e che ammettesse un onesto senso critico. Per un giovane studente di filosofia come me, appena ventenne, questa era una speranza che riempiva il cuore e dava senso al futuro.
I sovietici, però, infransero questo sogno col rumore assordante dei loro cingolati.
Se non ricordo male, una settimana prima dell’invasione,
Brežnev da Mosca aveva telefonato a Dubček e, dopo vari rimproveri per la mancanza di decisione del capo cecoslovacco nel reprimere le libertà che i praghesi si stavano prendendo verso il Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica) e l’Urss (con grave danno per la tenuta del Patto di Varsavia), lo aveva minacciato dicendo: «Se non interverrete voi, lo faremo noi!».
Dubček aveva risposto che non gli risultavano attacchi all’Unione Sovietica, ma Brežnev lo aveva zittito: «Come puoi dire una cosa del genere, quando tutti i giornali ogni giorno pubblicano articoli antisovietici e antipartito comunista?».
Forse Dubček – che sicuramente aveva percepito la serietà dell’avvertimento, se non altro perché Brežnev ogni tanto in tono fraterno gli si rivolgeva con «caro Saša» – aveva pensato di avere tempo, ma non ne ebbe. Una settimana dopo, il 20 agosto 1968, i carri armati sovietici entrarono a Praga.
Nelle settimane seguenti il dibattito prese toni spesso pessimisti, oppure attendisti se non opportunisti. Ma non tutti accettavano la nuova situazione. Non io e alcuni miei compagni che ci sentivamo abbandonati dal resto del mondo a una lenta agonia. Fu così che decidemmo di sfidare il potere e la morte auto-immolandoci con il fuoco. Eravamo cinque studenti universitari, e per sorte a me toccò di inaugurare il rito.
Il vostro gesto estremo si ispirava al bonzo vietnamita Thích Quang Duc che l’11 giugno 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta verso il presidente del Vietnam del Sud, il Ngô Dình Diêm, e la sua politica ostile alla filosofia buddhista.
Forse. Però, l’esempio d’immolazione attraverso il fuoco venne a noi da più vicino, sia nel tempo che nello spazio: l’8 settembre 1968 Ryszard Siwiec, impiegato polacco di 59 anni, si era dato fuoco nello stadio di Varsavia per protesta contro la partecipazione delle truppe polacche all’occupazione della Cecoslovacchia. Il 5 novembre 1968 anche il dissidente ucraino Vasyl Makuch si cosparse di benzina e s’immolò in una delle strade principali di Kiev, contestando l’azione dei sovietici nel suo paese e in Cecoslovacchia.
Il tuo gesto era già forte in se stesso, ma hai anche lasciato uno scritto per spiegare la tua scelta.
Certamente. Ho lasciato nel mio zaino una lettera in cui spiegavo: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zpravy” (il notiziario delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».
Il 16 gennaio 1969, verso il tramonto, Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo nazionale, inzuppò i suoi abiti di benzina e si trasformò in una «torcia umana». Non morì subito, la sua agonia durò altri tre giorni.
Il 25 gennaio ai funerali parteciparono seicentomila persone, con una processione lungo tutte le principali vie di Praga.
Dopo più di mezzo secolo da quella tragedia ci si ricorda sempre di lui e di altri giovani che scelsero lo stesso destino. Quattro giorni dopo il sacrificio di Jan Palach, l’operaio ventiseienne Josef Hlavatý, si cosparse di petrolio e si diede fuoco morendo cinque giorni dopo con una lenta e dolorosa agonia. Jan Zajíc, diciannovenne studente moravo, si autoimmolò il 25 febbraio 1969; il 4 maggio 1969, toccò a Evžen Plocek, operaio trentanovenne, che s’incendiò in un sottopassaggio della cittadina di Jihlava.
Per chi lo conobbe, Jan era sano di mente e «aveva un carattere calmo, razionale, voleva diventare filosofo e partecipare al dibattito politico», forse sentiva troppa rassegnazione attorno a sé. A quel punto, credette non restasse altro che l’oblazione della propria vita per scuotere il suo popolo.
Alexsander Dubček, segretario del partico comunista cecoslovacco e allora primo ministro, durante i funerali disse: «Il sacrificio di Jan Palach ha traumatizzato tutto il nostro paese, una cosa del genere non era mai accaduta prima in Cecoslovacchia e, per quanto ne so, in Europa».
Per anni, la notizia dei gesti estremi di questi giovani, non trapelò in Occidente, la ferrea censura del Partito comunista ne impediva la diffusione. Erano esempi scomodi per chiunque, non soltanto per i sostenitori del governo filosovietico di Gustàv Husàk (subentrato a Dubček), che sotto le direttive di Mosca cercava di «normalizzare» il paese. Ma l’oscurità che avvolgeva i paesi gravitanti nell’orbita sovietica, grazie a questi coraggiosi testimoni, cominciava a dare i primi segni di cedimento, e il sacrificio di Jan Palach, come quello di altri numerosi giovani, avrebbe alla lunga portato alla riacquisizione della libertà e della democrazia per troppo tempo soffocate.
Don Mario Bandera
I vent’anni di Missioni Consolata Onlus
testo di Chiara Giovetti |
La Fondazione Missioni Consolata Onlus compie vent’anni. Nata nel 2001 per accompagnare nel nuovo secolo i Missionari della Consolata, diventata Ong nel 2007 e, oggi, organizzazione della società civile riconosciuta dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, incarna, con le sue iniziative, i tratti peculiari dei missionari che l’hanno fondata.
Il 26 luglio del 2001 nasceva la Fondazione Missioni Consolata Onlus (Mco), costituita dall’«Istituto missionari di Maria Ss.ma Consolata», come si chiamava davanti allo stato la «filiale» italiana di quello che, quasi dalle origini, era registrato nei libri del governo come il «Collegio internazionale della Consolata per le missioni estere». Lo scopo della fondazione, si legge nello statuto, è quello di «informare, sensibilizzare e promuovere l’interesse» verso i paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione alle attività dei Missionari della Consolata.
Fin dai suoi esordi, Mco ha avuto uno spettro di attività piuttosto ampio che abbraccia ambiti anche molto diversi fra loro, come gli aiuti umanitari e la tutela dei beni di interesse storico e artistico. Anche gli interventi che la Fondazione intende svolgere per realizzare i propri scopi statutari sono molto vari – dalla cooperazione allo sviluppo alla salvaguardia della pace e dei diritti dell’uomo, dall’allestimento e gestione di musei e biblioteche alla promozione di servizi per favorire l’inserimento della popolazione immigrata -, e prevede non solo azioni dirette, ma anche il sostegno a iniziative svolte da altri enti idonei.
Questa grande varietà è solo apparentemente una frammentazione. È, viceversa, la coerente traduzione in termini operativi e laici di quello che i Missionari della Consolata indicano come elemento chiave del proprio carisma, cioè il tratto che hanno ereditato dal loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e che più li definisce e li identifica: l’ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questa missione richiede uno sguardo talmente ampio e articolato su popoli, culture, religioni, visioni del mondo, che non può che trasferirsi anche alle organizzazioni al servizio del lavoro dei missionari, come è, appunto, Mco.
Un po’ di storia
Alla fine del secolo scorso, i Missionari della Consolata avevano già all’attivo diverse attività che potevano dirsi di cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale. Un ufficio cooperazione era presente in Casa Madre a Torino fin dal 1970 e aveva gestito le primissime adozioni a distanza a partire dagli anni Ottanta. Campagne come quella del 1980 per la creazione del «Parco Yanomami» con la raccolta un milione di firme (reali, non digitali), e quella di «Una mucca per l’indio» in favore dei popoli indigeni dell’Amazzonia negli anni 1988-89, avevano proposto una visione dello sviluppo che cercava le cause della povertà nell’ingiustizia e nelle diseguaglianze.
I primi contatti con il mondo del volontariato impegnato in attività di cooperazione cominciarono ancora negli anni Cinquanta con l’invio in Kenya di medici del Cuamm di Padova, passarono attraverso la collaborazione alla nascita e sviluppo di Mani Tese a metà degli anni Sessanta e nel 1967 videro l’Lvia di Cuneo inviare una sua volontaria in Kenya con missionari della Consolata in Meru@.
Inoltre, diversi missionari, ad esempio nella regione colombiana del Cauca, avevano cominciato ad affiancare alle attività realizzate con il sostegno di singoli benefattori anche diversi progetti finanziati con fondi di istituzioni pubbliche e private, dando un contributo cruciale al riscatto del popolo indigeno Nasa. La rivista Missioni Consolata ospitava con regolarità, fin dagli anni Settanta, articoli di riflessione sulla cooperazione e sullo sviluppo.
Tutte queste iniziative, quasi sempre lanciate da missionari pionieri, riflettevano i cambiamenti in atto nei rapporti fra paesi ricchi e quello che all’epoca era chiamato Terzo Mondo. Questi cambiamenti, alla fine degli anni Novanta, richiedevano una maggior professionalizzazione della cooperazione ed evidenziavano la necessità di superare i fallimenti degli anni Ottanta, a cominciare dalla crisi del debito, che si era tradotta per l’Africa e l’America Latina in quello che viene ricordato come il «decennio perduto» dello sviluppo@.
Nasce la fondazione
I missionari che lavoravano con i popoli indigeni dell’America Latina o con le aree più isolate dell’Africa, si erano affacciati al mondo della cooperazione allo sviluppo e dei progetti spesso appoggiandosi ad altre organizzazioni e associazioni. Avevano condiviso poi queste loro esperienze, che di fatto erano diventate anche competenze, con i confratelli in Italia, rendendo sempre più urgente e concreta la necessità di darsi uno strumento come la Fondazione per poter portare avanti le iniziative in prima persona.
All’inizio di questo secolo, dunque, era tempo per i membri della Regione Italia dell’«Istituto missionari di Maria SS.ma Consolata» di trarre le conseguenze di questi cambiamenti e di mettere a frutto le intuizioni di tanti confratelli attivi sul campo e in Italia. La Fondazione avrebbe organizzato le conoscenze e l’esperienza che l’Istituto aveva acquisito dagli anni Settanta, e le avrebbe rese disponibili a tutti i missionari.
I finanziatori di Mco
In questi vent’anni, Mco ha realizzato progetti e iniziative, sia direttamente che come partner di altre organizzazioni, grazie a fondi di diversi enti privati e pubblici: la Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, la città di Torino, la Regione Piemonte, Roma Capitale, l’8×1000 della Chiesa valdese, la Water Right Foundation, solo per citarne alcuni.
Ma la peculiarità – e la forza – di Mco sono, da sempre, i donatori privati, oltre settemila persone nel 2020, insieme a tante realtà dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo cattolico: 79 associazioni, organizzazioni, cooperative sociali e gruppi amici, 32 aziende, 20 diocesi o loro uffici missionari, e a oltre 200 istituti o congregazioni religiose.
Gli ambiti di azione
Quanto agli ambiti della cooperazione allo sviluppo in cui la Fondazione è attiva, quello prevalente è senza dubbio l’istruzione (un ambito tipico dell’impegno missionario) che riguarda tutti i gradi scolastici dall’infanzia alla secondaria, fino ai corsi professionali (infermieristica, insegnamento …) e universitari, e comprende il sostegno a distanza concentrato, ma non limitato, sulle scuole primarie.
Seguono poi l’educazione allo sviluppo, realizzata sulle pagine della rivista Missioni Consolata, di cui Mco è editore, il diritto alla salute promosso da quattro ospedali e tanti dispensari in Africa, oltre diversi centri di salute in Amazzonia. L’accesso all’acqua, la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni, lo sviluppo economico, la difesa dell’ambiente sono gli altri ambiti.
Mco realizza i propri progetti e le iniziative in collaborazione con i Missionari della Consolata o con organizzazioni partner indicate da questi. I responsabili operativi dei progetti, dei programmi di sostegno a distanza, delle strutture sanitarie ed educative che Mco sostiene sono missionari che lavorano e risiedono nei paesi nei quali si svolgono le attività. A loro, la Fondazione offre servizi tecnici nella raccolta fondi, nella stesura, presentazione e rendicontazione dei progetti, nelle relazioni con i donatori, nella promozione e comunicazione del loro lavoro tramite la rivista, i siti web e i social.
Nel 2020 Mco ha raccolto fondi e svolto attività in 18 paesi: Italia, Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Uganda, Costa d’Avorio, Eswatini, Angola, Mozambico, Sudafrica, Madagascar, Mongolia, Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Venezuela.
In Africa, a beneficiare maggiormente dei fondi raccolti sono stati Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya ed Etiopia, mentre per l’America Latina è stato il Brasile – e specialmente le attività in Amazzonia con i popoli indigeni di Roraima – che ha ricevuto il sostegno maggiore.
Le prospettive per il futuro
L’anno del ventesimo anniversario dalla fondazione ha coinciso anche con quello in cui Mco è stata chiamata a preparare e pubblicare il suo primo Bilancio sociale. Questo esercizio ha finito per trasformarsi anche in un’occasione per riflettere proprio su questi vent’anni e, inevitabilmente, sulle prospettive per il futuro. Come scrive il coordinatore di Mco, padre Ugo Pozzoli, nella lettera introduttiva al Bilancio sociale@, «la rivista che deve aprirsi maggiormente a un pubblico più giovane attraverso un più forte impulso sul web e sui social; la formazione dei nostri missionari, soprattutto quelli sul campo, che deve garantire un sempre migliore accompagnamento di progetti e programmi di cooperazione e solidarietà; la Certosa di Pesio, storico luogo di fede immerso nel verde di un bellissimo parco naturale, che deve trasformarsi in luogo di educazione alla spiritualità della missione e dell’ambiente: sono soltanto alcune fra le sfide che ci attendono nel prossimo futuro e verso cui guardiamo speranzosi».
Quanto poi al campo della cooperazione allo sviluppo, occorrerà chiedersi quali siano, oggi, quei territori inesplorati che possono dare sostanza a quell’ad gentes che plasma l’Istituto Missioni Consolata e Mco con lui, come negli anni Sessanta lo furono l’esperienza con i popoli indigeni dell’America Latina e, all’inizio del Novecento, l’invio in Kenya dei primi missionari.
Un esempio efficace sono le parole che padre Matteo Pettinari ha affidato a questa rivista nel marzo del 2020@: «Si può dire che la salute mentale sia l’ad gentes del mondo della sanità: sono i malati mentali quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Mco e i missionari si sono sempre impegnati nella sanità, ma è presente da anni nell’Istituto la consapevolezza che per farlo con efficacia oggi, forse, non si tratta più solo di costruire un ospedale en brousse, nella foresta, dove nessuno è ancora arrivato, bensì di riuscire a immaginare qual è la nuova brousse nel 2021 – si tratti di un luogo fisico o di un ambito, come appunto la salute mentale – per raggiungerla e non lasciare al margine le persone che la abitano.
Non c’è un manuale tecnico che possa aiutare a sviluppare uno sguardo al tempo stesso lucido e coinvolto per vedere le brousse di oggi e capire come affrontarle. Probabilmente quello sguardo è lo stesso che un missionario come fratel Carlo Zacquini ha condiviso con chi scrive raccontando il suo primo contatto con gli Yanomami e con la foresta amazzonica al suo arrivo a Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, ormai più di cinquanta anni fa: «Rimasi a bocca aperta: vedevo bellezza, armonia, e pensavo che volevo capirla ed esserne parte. Così pian piano, in punta di piedi, cominciai ad avvicinarmi».
Chiara Giovetti
Mco – carta d’identità
Nome: Fondazione Missioni Consolata Onlus
Data di nascita: 26 luglio 2001
Riconoscimento come Ong idonea: 17 dicembre 2007
Iscrizione all’elenco delle Organizzazioni della società civile (Osc): 4 aprile 2016
Sede legale: Torino, Corso Ferrucci, 14
Sedi operative: Certosa di Pesio a Chiusa di Pesio (CN), fraz. San Bartolomeo e Roma, Viale della Mura Aurelie, 16
Sito web: www.missioniconsolataonlus.it
Personale: Diciotto persone, di cui quattro missionari, tredici laici e una volontaria
Attività principali: sostegno a distanza, progetti di cooperazione, informazione e formazione, rivista Missioni Consolata
Ambiti principali: istruzione, educazione allo sviluppo, sanità e nutrizione, accesso all’acqua, diritti dei popoli indigeni, sviluppo economico, pace e cura del creato
Debiti e debitori: l’avarizia non conviene
testo di Francesco Gesualdi |
Il debito pubblico italiano continua a crescere, ma la questione non riguarda soltanto il nostro paese. Tutti hanno i loro debiti: gli stati, le imprese, le famiglie. Il debito può essere il motore del capitalismo. O il generatore delle sue crisi.
Secondo l’Institute of international finance, nel 2020 il debito mondiale è cresciuto di 24mila miliardi di dollari, per oltre la metà imputabile ai governi che hanno dovuto affrontare la triplice crisi sanitaria, sociale ed economica provocata dal Covid. Solo in Italia, il debito pubblico è cresciuto di 160 miliardi di euro passando da 2.410 miliardi, nel dicembre 2019, a 2.570 miliardi al 31 dicembre 2020 (e 2.700 a giugno 2021). A livello europeo, l’aumento si colloca attorno ai mille miliardi di euro, mentre negli Stati Uniti supera i 4mila miliardi di dollari.
I nuovi deficit, aggiunti ai debiti preesistenti, hanno portato il debito cumulativo dei 190 governi mondiali a 82mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non ci fa dormire la notte, se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce, se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. In effetti, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti. Messi tutti assieme, i debiti esistenti a livello mondiale, a fine 2020, ammontano a 281mila miliardi di dollari, ma quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 29%. Allo stesso livello troviamo le imprese non finanziarie che registrano un debito complessivo di 81mila miliardi. Al terzo posto, si collocano le imprese finanziarie (banche, assicurazioni e quant’altro), indebitate per 68mila miliardi di dollari pari al 24% del totale. Per ultime, arrivano le famiglie, che contribuiscono per il 18% con 51mila miliardi di debito.
Debiti e mercato
Potremmo dire che il debito è il motore del capitalismo: è la benzina della sua crescita perché permette alle aziende di espandersi anche quando non hanno i soldi per farlo. È il meccanismo che mette il sistema al riparo dal rischio di fallimento perché gli permette di vendere tutto ciò che produce, anche quando la ricchezza è distribuita talmente male da mettere miliardi di persone fuori mercato. E non è certo un caso se in un momento in cui il 50% della ricchezza mondiale è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, il debito totale sia diventato un mostro grande tre volte e mezzo il Prodotto lordo mondiale.
Banche e Finanza
Il debito può tenere il sistema in piedi, e aiutarlo a correre nonostante i suoi squilibri, solo se i debitori pagano. Altrimenti si trasforma in un meccanismo alla rovescia che inceppa tutto. Ne abbiamo avuto una dimostrazione nel 2008, quando negli Stati Uniti l’incapacità delle famiglie più povere di ripagare i propri mutui provocò una delle più drammatiche crisi conosciute dal capitalismo a livello globale. Anche se va detto che il sassolino provocò la frana per colpa di una finanza creativa che aveva usato i mutui come matrice per fabbricare una montagna di prodotti fantasiosi più simili a scommesse che a investimenti finanziari. Ma, al di là delle degenerazioni, la massiva insolvenza debitoria si trasforma in crisi economica perché il sistema bancario è il cuore pulsante dell’economia capitalista. Ricordandoci che i prestiti sono elargiti anche da altre strutture finanziarie che, pur non essendo banche, usano l’attività creditizia come forma di investimento. Se i prestiti non rientrano, le prime a subirne le conseguenze sono le strutture creditizie, ma a catena anche i risparmiatori che hanno messo a disposizione i propri soldi e in subordine le imprese produttive che dalle banche ricevono copertura quotidiana per le proprie esigenze finanziarie. In condizioni normali, le banche rispondono alle richieste di finanziamento delle imprese, ma non quando si trovano a corto di denaro. Così, le crisi debitorie producono i loro effetti sul sistema produttivo che, in assenza di un adeguata lubrificazione finanziaria, va anch’esso incontro a crisi.
Due aree critiche
Oggi due sono i comparti che destano maggiore preoccupazione in rapporto ai loro debiti: le imprese produttive e i governi del Sud del mondo. Nel mondo della finanza è stato coniato il termine «zombie companies» a indicare tutte quelle imprese sovraindebitate che hanno difficoltà con gli interessi e la restituzione del capitale. Secondo uno studio della International bank of settlements su 14 paesi occidentali, le imprese zombie sono passate dal 2% nel 1990 al 12% nel 2016. Un’accelerazione dovuta in larga misura al basso costo del denaro che ha spinto anche le imprese più deboli a indebitarsi. E, nel 2020, si è aggiunto il Covid. Dall’inizio della pandemia negli Stati Uniti la lista delle grandi imprese zombie si è allungata di altre 200 unità fra cui Boeing, Carnival Corp, Delta Air Lines, Exxon Mobil. Del resto Bloomberg conferma: quasi un quarto delle 3mila grandi società quotate in borsa negli Stati Uniti rientrano fra le imprese zombie. E il recente fallimento dell’impresa mineraria statale Yongcheng mostra che il problema esiste anche in Cina. Intanto uno studio della Banca mondiale informa che, tra il 1991 e il 2014, il ricorso al debito da parte delle imprese operanti nei così detti mercati emergenti (Africa, Asia e America Latina per intenderci) è cresciuto 30 volte con prestiti ottenuti non solo sui mercati locali, ma anche internazionali.
I debiti in dollari ed euro
L’Institute of international finance stima che nel 2021 la spesa dei paesi emergenti per il debito (interessi e restituzione del capitale in scadenza) sarà di circa 7mila miliardi di dollari e per il 15% sarà in valuta estera. Il che allarma la Banca mondiale che, nel suo studio, precisa: «Questa rapida crescita del debito solleva preoccupazioni perché le crisi finanziarie nei paesi emergenti sono spesso precedute da alti livelli di indebitamento da parte delle imprese. Specie se si tratta di debiti contratti in valuta estera, perché può bastare una svalutazione per aggravare la loro situazione debitoria». Come è successo a molte imprese turche che, nel corso del 2020, hanno visto la moneta del proprio paese svalutarsi del 30% rispetto al dollaro. Molte di loro non sono fallite solo grazie ai sostegni finanziari e fiscali concessi dal governo. Uno scenario analogo potrebbe ripetersi in Pakistan, Argentina, Marocco, Egitto, ma non si sa con quale esito dal momento che i governi stessi sono fortemente indebitati.
Va detto che in rapporto ai rispettivi Pil, i governi del Sud sono mediamente meno indebitati di quelli del Nord. Ciò non di meno devono compiere uno sforzo maggiore non solo perché sono più deboli, ma anche perché devono pagare tassi di interesse più elevati. Nei paesi emergenti il debito cumulativo di tutti i governi corrisponde al 60% del Pil complessivo, nei paesi maturi al 131%. Ma lo sforzo dei primi è doppio rispetto ai secondi considerato che nei paesi emergenti la spesa per interessi assorbe il 10% delle entrate fiscali, nei paesi a economia matura il 4%. E si tratta di medie. Analizzando i casi specifici si trova che, in alcuni paesi (come Ghana e Sri Lanka, ad esempio), la spesa per interessi assorbe percentuali che variano fra il 30 e il 40%. Peggio di tutti il Libano che, nel 2019, ha speso per interessi il 50% delle proprie entrate fiscali. Ed è notizia del novembre 2020 che il governo dello Zambia ha dovuto dichiarare default non avendo di che pagare la rata di un prestito denominato in euro.
Il debito dei paesi poveri
In questo scenario, una notizia positiva è la decisione dei governi del G20 di sospendere, per la durata della pandemia, la riscossione dei pagamenti relativi ai prestiti che essi hanno concesso ai paesi più poveri, per intendersi quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In ambito ufficiale, essi sono anche detti «paesi Ida», in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca mondiale denominata International development assistance. In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale.
Secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2019, complessivamente i governi dei paesi Ida detengono un debito di 523 miliardi di dollari, ma solo il 34% è bilaterale, ossia è nei confronti di altri governi. Il resto è verso organismi multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (46%) e verso banche commerciali e altri soggetti privati (20%). Pertanto, la sospensione si applica solo a un terzo degli importi, quelli riferibili al debito bilaterale che è l’unica parte su cui i governi del G20 hanno potere decisionale. A conti fatti, si tratta di 27,4 miliardi di euro per il biennio 2020-2021.
L’aspetto bizzarro è che solo una quarantina di paesi ha chiesto di poter beneficiare della sospensione. Fra i motivi avanzati dagli esperti per spiegare una risposta così poca entusiastica, c’è la circostanza che le cifre sospese dovranno essere rimborsate fra il 2022 e il 2024. Un periodo molto breve che rischia di creare un sovraccarico di esborsi che a molti paesi fa paura. Considerato che una buona metà dei paesi più poveri è già in stato di insolvenza, o è vicina a diventarlo, è abbastanza comprensibile che molti di loro non vogliano sottoscrivere patti che sanno di non poter onorare. Del resto, mancano informazioni sulle contropartite che i governi debitori dovrebbero dare in cambio delle sospensioni, né si sa quali misure scatterebbero in caso di inadempienze. Considerato che la consulenza è del Fondo monetario internazionale, non ci sarebbe da sorprendersi se l’offerta fosse condizionata al rispetto di regole che, in passato, si sono rivelate altamente destabilizzanti sul piano sociale e politico.
Senza lungimiranza
Il che conferma che l’unica strada da perseguire per liberare i paesi più poveri dalle catene del bisogno è l’annullamento del loro debito, esattamente come ha ribadito papa Francesco nella lettera che ha inviato l’8 aprile scorso alla Banca mondiale: «Lo spirito di solidarietà globale impone di ridurre in maniera significativa il debito delle nazioni più povere, un peso che la pandemia ha ulteriormente esacerbato. Scegliendo di alleggerire il loro debito compiremmo un gesto di grande umanità perché permetteremmo a quelle popolazioni di accedere ai vaccini, alla sanità e all’istruzione».
Generalmente, si invoca il senso di generosità per indurre a comportamenti di rinuncia, ma in questo caso basterebbe appellarsi alla lungimiranza perché l’avarizia non conviene a nessuno in un momento in cui basta un focolaio di non vaccinati per fare divampare di nuovo la pandemia a livello globale.
Francesco Gesualdi
Tu, «padrecito», non capisci niente
testo di Renzo Marcolongo |
Ero sinceramente convinto che una laurea in psicologia mi avrebbe dato una marcia in più al servizio della missione, aiutandomi a capire le persone senza problemi. In realtà le persone sono molto di più di quanto i manuali scientifici riescono a codificare. C’è sempre qualcosa da imparare.
Un pomeriggio a San Vicente del Caguán, una donna mi chiamò al cellulare chiedendo un appuntamento per sua figlia quindicenne che soffriva di depressione. Le ricevetti (la madre, la figlia e la nipotina di 3 mesi) lo stesso pomeriggio, e ascoltai ciò che la madre – molto preoccupata e nervosa – mi diceva: sua figlia non mangiava, non dormiva, si chiudeva in se stessa, si isolava e non voleva parlare. Tutto questo a causa di una vicina che le aveva mandato una maledizione, un incantesimo o una stregoneria, perché invidiosa della ragazza che aveva dato alla luce una bella bambina.
Chiesi alla madre di uscire dal mio studio per poter parlare con la figlia. Dal dialogo capii che la ragazza stava soffrendo di depressione post-partum. In più non era assolutamente felice di essere rimasta incinta a 14 anni e abbandonata dal padre della bambina. Il suo futuro non sembrava per niente roseo. La mia diagnosi di depressione post-partum mi sembrava molto azzeccata (quasi da manuale) e, in questo caso, aggravata da fattori personali.
Con questa diagnosi in mente, invitai la madre a entrare nel mio studio e le spiegai in modo semplice che lo stato di sua figlia non dipendeva da una maledizione e che non c’era motivo di preoccuparsi. Tutto si sarebbe sistemato abbastanza presto. La signora ascoltò incredula le mie parole e, con mia sorpresa, mi disse: «Tu padrecito non capisci niente e troverò un’altra soluzione».
La soluzione alternativa fu quella di consultare i «fratelli» (curanderos tradizionali) che le promisero di eliminare l’incantesimo mettendo sotto il letto della figlia un bicchiere d’acqua benedetta da un sacerdote (probabilmente benedetta da me), per tre notti, e chiedendo un contributo «volontario» di 150mila pesos (35 euro) per ogni bicchiere d’acqua.
Sorriso sotto i baffi
Non so se la neomamma, poi, sia stata meglio. Penso di sì, non tanto a causa dei benefici dell’acqua benedetta posta sotto il letto, quanto perché la depressione post-partum non tende a durare a lungo, a meno che non subentrino complicazioni.
La replica della madre alla mia diagnosi mi sembrò divertente e sotto i baffi mi scappò un sorriso, perché le sue parole avevano messo in discussione i miei 32 anni di esperienza come terapeuta. Tuttavia, con il passare del tempo, le parole di quella donna continuavano a risuonarmi nella mente come un chiodo fisso. Iniziai a chiedermi allora se per caso non mi fosse sfuggito qualcosa nella mia diagnosi, forse un’interpretazione della realtà diversa da come io l’avevo percepita che mi avrebbe permesso di offrire alla ragazza una cura più consona alla sua cultura.
Dal punto di vista della psicologia «scientifica» del mondo occidentale, la depressione post-partum ha una soluzione terapeutica collaudata con un percorso di recupero eccellente.
Però, perché non prendere in considerazione le convinzioni e le credenze delle persone che vivono esperienze emotive in culture diverse da quella del mondo occidentale, cose tutte che influiscono sul benessere della gente?
Qual è l’impatto che il mondo del «sacro» e del «simbolico», che ognuno inconsciamente porta dentro di sé, ha sulla vita quotidiana e sul benessere della persona? Il mondo sacro e simbolico è un serbatoio di senso e significati che le persone usano per vivere1.
Identità e culture
Il mondo personale e intimo di ogni essere umano possiede una sinfonia, un insieme di valori, miti, visioni sulla natura umana, su ciò che è «normale e anormale», su ciò che è «salute e malattia» (fisica o mentale), sulle cause di essere sani o malati, sul significato di «maturità», su come ricostruire i rapporti familiari e sociali distrutti e scoprire chi o cosa li ha distrutti. È una sinfonia trasmessa dalle generazioni passate e interpretata nel presente da persone che condividono e assumono ciò che è importante per il gruppo di appartenenza che, a sua volta, offre un’identità.
Identità: un termine che viene dal latino idem, che significa «lo stesso – medesimo» e si applica alla persona. La mia identità dice chi sono io con le mie caratteristiche che mi distinguono dagli altri; e si applica anche all’identità di un gruppo che crea e modella ciò che è importante per il gruppo stesso e i suoi membri. Comprendere l’identità di un gruppo significa entrare più profondamente nella mente di una persona che ne fa parte e ccapire le visioni e le percezioni del suo mondo. E questo favorisce la diagnosi e il cammino terapeutico.
Il contributo della psicologia scientifica occidentale può «guarire» la mente spiegando le dinamiche psicologiche che sono in gioco. Ma in un mondo non occidentale, non sempre la psicologia riesce a «guarire» l’insieme della mente e del cuore che formano un’unità nella persona. Il limite della psicologia scientifica è quello di non dare la dovuta importanza ai mondi simbolici e diversi che creano e organizzano tutta la vita delle persone nella loro mente, nella loro salute e nelle loro relazioni.
Un mondo di relazioni
Quella donna che scelse di avvicinarsi ai «fratelli» e non a uno psicologo «qualificato», fece una scelta culturale, sociale e religiosa, attingendo alle sue percezioni del mondo e ai suoi valori. Cercava un «significato» per quello che stava accadendo a sua figlia, e il significato offerto dalla psicologia non possedeva il peso affettivo, né il valore emotivo che i «fratelli» le offrivano. Le emozioni e il cuore furono più potenti ed efficaci della scienza e del cervello.
Quello che per me era un disturbo interno, mentale, personale e passeggero, per la donna era la conseguenza di un mondo esterno che entrava nella persona; un mondo di relazioni sociali negative segnate dall’invidia. E questo mondo esterno era percepito come la causa della sofferenza e di lì la necessità di sconfiggerlo.
Incontro tra Psicologia e cultura
Possiamo parlare di incontro tra psicologia e cultura? Possiamo incoraggiarlo? Sarà possibile?
Credo che per favorire l’incontro tra il cosmo (che significa ordine) scientifico e quello dell’esperienza culturale, sia necessario un «interprete», pur cosciente che l’interprete è, per forza di cose, sempre un po’ un traditore: è impossibile, infatti, tradurre da un universo culturale a un altro in modo fedele il significato profondo di una parola, un’espressione, un sentimento, un’esperienza sociale, emotiva e strutturale di un gruppo. L’ordine sociale espresso a parole, in culti e musica è ben compreso solo da coloro che appartengono a quel gruppo. Gli altri possono capirlo teoricamente ma non emotivamente.
Quello che imparai personalmente fu che la mia diagnosi era stata parziale perché non aveva incluso il mondo culturale di madre e figlia, mondo che formava e interpretava le manifestazioni delle malattie fisiche e mentali.
Ora mi rendo conto che lè importante nella guarigione della persona, per restituirla alla sua comunità sana e ristabilita, scoprire, assieme alla diagnosi psicologica, qual è la sua visione del mondo. In questo modo si può ricostruire quell’identità specifica che appartiene alla grande sinfonia di identità individuali che formano la persona e che la fanno sentire parte di un gruppo.
Questione di armonia
Ricostruire l’identità significa ricostruire l’armonia del gruppo ed eliminare quella dissonanza che danneggia la melodia dello stesso.
Ognuno ha dentro di sé un equilibrio emotivo che gli permette di vivere con tranquillità la propria esistenza, interpretando il suo mondo. Questo equilibrio può apparire fragile agli occhi di uno straniero, ma non alla persona che lo vive.
Ora ho imparato che, come psicologo, non posso più fidarmi solo del quadro interpretativo della malattia mentale offerto dalla psicologia. Se veramente mi sta a cuore la guarigione completa della persona è essenziale comprendere il mondo interpretativo (quadro di riferimento) del suo cosmo, collegando così la guarigione a tutta la persona.
La storia di Teresa
E fu così che, con questa esperienza e riflessioni, affrontai, alcuni mesi dopo, il caso di Teresa (un nome fittizio per proteggere la sua identità).
Teresa mi aveva chiesto un incontro, perché si sentiva agitata da uno spirito che non le permetteva di vivere bene (era depressione), e lo spirito proveniva da una persona che la malediceva e la odiava senza che Teresa ne sapesse le ragioni. Le prime sessioni, durante le quali Teresa acquistò fiducia in me, furono seguite da incontri nei quali lei entrava in trance cambiando tono di voce, personalità e raccontando episodi dolorosi della sua vita. Al risveglio Teresa diceva di non ricordare nulla, però lo «spirito» del trance mi dava informazioni importanti su avvenimenti passati e su sentimenti percepiti come troppo dolorosi per accettarli coscientemente.
Ciò mi diede la possibilità di affrontare emozionalmente situazioni del suo passato dolorose e traumatiche.
Il cammino verso la guarigione sembrava stesse funzionando bene, fino a quando, in una delle sue ultime sessioni, lo «spirito» mi chiese – durante un trance – che, come sacerdote, andassi nel suo campo per rimuovere e distruggere una ciotola sepolta lì dal «nemico» che conteneva le maledizioni e lo «spirito» stesso, e per esorcizzare il terreno.
Accettai di andare, e pur non trovando alcuna ciotola, nonostante il figlio avesse scavato in vari posti indicati dallo «spirito» (mentre Teresa era in trance), spiegai che senza dubbio la ciotola di cocco si era sciolta, consumata dopo cinque anni sotto terra e che, con quella, era sparito anche lo «spirito» e la maledizione.
Feci l’esorcismo del terreno, e la presenza calma e silenziosa di un cane confermò che non c’era più nulla di malefico nella tenuta (secondo la cultura spiritica dei «fratelli», i cani abbaiano quando sentono la presenza di uno spirito o di una maledizione).
Teresa entrò e uscì dalla trance ancora una volta, dopo di che si sentì integralmente libera. Ringraziò e abbracciò i presenti e da allora la sua guarigione fu completa.
Darsi una mano
Ho incontrato Teresa molte altre volte camminando per le strade del paese, e ho notato che è ben inserita nella sua famiglia e nella sua comunità.
Mi sono convinto che il semplice intervento psicologico non sarebbe stato sufficiente se non avessi percepito gli aspetti emotivi, sociali e spirituali di Teresa. L’esorcismo ha dato un’ulteriore risposta al malessere e disagio di Teresa completando così il lavoro terapeutico.
Credo sia fondamentale per ogni disciplina (scientifica o tradizionale) saper riconoscere i propri limiti, liberandosi dalla pretesa di sapere tutto e risolvere tutto.
Scoprire il mondo delle immagini, del divino e del simbolico di una cultura, collegandolo con la storia vissuta della persona, ci porta a una visione più completa delle persone e quindi a inventare nuovi cammini per risanare e curare.
Dandosi la mano, scienza, mondo tradizionale e spirituale, possono favorire un benessere più profondo e significativo nella gente. E questo è il mio ministero qui, a San Vicente del Caguán.
Renzo Marcolongo
(1) Sono grato a David W. Augsburger che con il suo libro «Pastoral counselling across cultures» (WP Philadelphia, 1986), mi ha molto aiutato a diventare culturalmente sensibile e aperto a nuove interpretazioni della realtà.
Filippine: 500 anni di evangelizzazione
1/ Cristianità nello spirito filippino
Cosa si celebra? Cinque secoli dall’arrivo del Vangelo o dalla conquista coloniale? Il dibattito è aperto. Il popolo filippino ha talmente integrato valori e usanze cristiane da farli diventare parte della propria identità. Ce ne parla un noto storico.
Perché celebrare i 500 anni dall’arrivo della cristianità? Non è una celebrazione del colonialismo? Non si è detto che la fede ci libera?
Abbiamo sempre pensato che, quando gli spagnoli arrivarono, e portarono il cattolicesimo nel paese, 500 anni fa, la gente delle Filippine, senza una propria volontà precisa, fu forzatamente convertita in cattolica. Sebbene san Giovanni Paolo II abbia chiesto scusa e abbia domandato di perdonare il fatto che la chiesa è stata un tempo utilizzata per il colonialismo, questa è solo una parte della storia.
C’è stata, infatti, la Pag-aangkin, ovvero «appropriazione». Come la maggior parte delle influenze straniere arrivate nel nostro paese, abbiamo reso filipino il cattolicesimo, facendolo diventare parte della nostra identità, come i negozi e le case di pietra. Lo abbiamo reso tanto filippino quanto può esserlo.
Abbiamo accettato il cattolicesimo perché esso riflette la fede che la maggior parte dei filippini aveva già, prima del contatto con gli spagnoli nel 1521. Noi vedevamo «anitos» (spiriti degli antenati, ndt) nei santi, vedevamo collane e orecchini nei rosari e croci, vedevamo la nostra morte nel Santo Entierro (processione del Venerdì santo, ndt), e pulivamo la statua con fazzoletti per avere il suo potere di guarigione. Cantavamo il Pasiong Mahal (racconto epico in filippino della passione, morte e resurrezione di Cristo, ndt), come cantiamo i nostri poemi epici.
La fede reale
Davvero l’amore dei filippini per Dio e Gesù è reale. Gli storici sottolineano che la storia evangelica del Dio che sacrifica il suo unico figlio per diffondere luce, che soffre tenebre e morte e risorge nella gloria, è stata anche riletta dai nostri eroi nazionali, come José Rizal e Andrés Bonifacio, nella storia della nostra gente: siamo stati un tempo liberi e prosperi come un’isola [felice], poi abbiamo sofferto disuguaglianze e schiavitù e ora dobbiamo risorgere e riconquistare la nostra libertà (Rizal è forse il maggiore eroe nazionale, la sua esecuzione nel 1896 ne ha fatto un martire della rivoluzione filippina, ndt).
I Katipunteros (membri del Katipunan, società clandestina anti coloniale fondata nel 1892 per liberare il paese dalla Spagna, ndt) tennero un incontro in una grotta nella provincia del Morong, un Venerdì santo, non solo perché era un giorno sacro, ma perché ricordava loro che, proprio come Gesù, essi dovevono essere pronti a sacrificare le proprie vite per salvare il loro popolo dalla schiavitù.
In quell’occasione scrissero con un pezzo di carbone sul muro della grotta: «I figli del popolo sono venuti cercando la libertà. Lunga vita alla libertà!». Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto (eroi e padri della rivoluzione filippina del 1896-99, presidente del Katipunan il primo e alto ufficiale il secondo, ndt) pensavano che per avere una vera «Kalayaan» (libertà) e stare in armonia, fosse necessario avere una buona volontà. Bonifacio ci ricorda che amare Dio è come amare la propria patria natia e i propri compagni.
La narrativa del luce-buio-luce, della tragedia e redenzione, della vita di Gesù Cristo, era la narrativa dei padri e delle madri di questa nazione, usata per immaginare la creazione della nazione stessa. Per sperare in una vita migliore nel futuro.
Ispirazione di vita
In tempi più recenti il fervore religioso ha ispirato anche leader come Hermano Puli e i cattolici del People power revolution (la rivoluzione del 1896-99) per lottare per i propri diritti.
Nelle Filippine, le rivoluzioni sono al di là della politica e sono espresse in molte maniere diverse, tanto che possiamo manifestare la nostra «himagsikan» (ribellione) anche attraverso la nostra fede.
I cinquecento anni passati hanno visto la storia della Chiesa cattolica filippina identificarsi non solo con quella di padre Mamasols e padre Salvis, ma anche con quella di personaggi come il vescovo Domingo de Salazar (primo vescovo di Manila, 1579-94) che lottò contro gli abusi nei confronti degli indigeni perpetrati dai conquistatori spagnoli, o con quella dei padri Pelaez, Gomez, Burgos e Zamora che lottarono per i diritti dei filippini e la loro partecipazione nella direzione della chiesa locale. Nella nostra storia fu un prete cattolico, Gregorio Aglipay, che guidò la prima repubblica costituzionale democratica asiatica (sacerdote, rivoluzionario e nazionalista, partecipò alla guerra di liberazione contro l’occupazione statunitense 1899-1911, ndt). Poi molti religiosi e laici cattolici hanno partecipato alla costruzione della [nostra] storia.
«Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa», una frase che ogni cattolico recita in ogni messa, significa che i figli e figlie del paese possono avere sbagliato ma la fede dei filippini sostiene la sopravvivenza della cristianità nella nostra nazione. La nostra fede in Dio ci fa sopravvivere a ogni calamità e vicissitudine, e mentre le chiese europee stanno chiudendo una dopo l’altra, i filippini continuano a riempire i luoghi di culto per esprimere la propria fede e gratitudine, qui, e all’estero.
Quindi come non possiamo celebrare 500 anni di cristianità nelle Filippine, quando questa è diventata parte della nostra esperienza nazionale e di quello che noi siamo? Come non possiamo celebrare tale ricorrenza quando questa è la fede della maggioranza dei filippini? Certo è una chiesa umile abbastanza per ammettere di essere sempre bisognosa di purificazione (semper purificanda), e di imparare dalle lezioni dal passato. Ma non dovremmo mai privarci dell’opportunità di celebrare i nostri trionfi.
Rizal disse: «Per predire il destino della nazione, è necessario aprire i libri che parlano del suo passato». Io dico, per celebrare 500 anni della nostra fede in Gesù Cristo dovremmo riflettere sul regalo che questo ci ha dato nell’ispirarci a creare la nostra propria nazione, e mostrare il nostro amore per ogni filippino.
Xiao Chua
Due domande al professor Xiao Chua
Come vive il filippino medio le celebrazioni dei 500 anni?
«Anche se ci dichiariamo un paese cattolico, molta gente pratica la propria fede in Dio senza partecipare alla vita della Chiesa, quindi può anche non essere a conoscenza delle commemorazioni.
Ma per chi è attivo nelle parrocchie, la Conferenza episcopale delle Filippine e anche Radio Veritas, hanno parlato dei 500 anni di evangelizzazione fin dal 2011.
La pandemia ha reso la celebrazione di basso profilo: il giorno preciso del cinquecentenario, la città di Cebu, centro dei festeggiamenti, era in lockdown, e la basilica di Santo Niño ha ammesso un numero limitato di persone durante la santa messa per la rievocazione storica del primo battesimo. A Manila, inoltre, c’è stato solo un rosario virtuale.
La decisione di lasciare che ogni diocesi si organizzasse indipendentemente, ciascuna con un proprio logo e inno, ha rischiato di mostrare una chiesa delle Filippine disunita. I social media, nonostante la pandemia, hanno aiutato, perché la complicata storia della chiesa è stata discussa nei webinar, ad alcuni dei quali sono stato invitato, e ha anche generato interessanti dibattiti tra chi vede questa come la celebrazione del colonialismo e chi invece la celebra come un tributo alla nostra fede».
Come sono state viste queste celebrazioni dal potere in carica, e dal presidente in particolare?
«Sebbene il presidente Duterte avesse esitato a commemorare i 500 anni di cristianità, il governo ha incluso l’anniversario nella triplice commemorazione del Cinquecentenario: Filippine parte della prima circumnavigazione del globo, l’arrivo della cristianità e la vittoria a Mactan di Lapulapu contro Magellano.
Il Comitato nazionale del cinquecentenario (National quincentennial committee, Nqc), incaricato dal presidente di supervisionare gli eventi commemorativi del 1521, si è strettamente coordinato con la gerarchia ecclesiastica, e ha incluso anche aspetti della fede nei resoconti storici, nelle esibizioni e nei materiali prodotti.
Gli storici della chiesa sono stati pure invitati a fare parte del Mojares Panel, che ha preparato il sito della prima messa di Pasqua.
Quindi, nonostante il fatto che la chiesa abbia avuto le sue proprie celebrazioni, non è stata esclusa dallo stato grazie agli sforzi del Nqc e al suo segretariato».
Marco Bello
2/ Dallo sbarco di Magellano al lockdown di Duterte
Il popolo delle 7.641 isole
Paese particolare, galassia di isole, sovrapposizione di culture. Dopo aver subito la colonia e l’occupazione, cerca la sua via. Con lo specifico di aver avuto due presidenti donna, e forse una terza è in arrivo.
Le Filippine sono un paese particolare, composto da 7.641 isole sparpagliate a Sud di Taiwan e a Nord del Borneo e dell’Indonesia. A Est sono lambite dal Mare Cinese meridionale e a Ovest dal Mare delle Filippine. La popolazione, di circa 110 milioni di abitanti, vive prevalentemente su alcune di esse. Esiste tuttavia una grande diaspora, ovvero filippini che vivono, per brevi o lunghi periodi, all’estero, che si stimano essere oltre dieci milioni.
Il paese si può suddividere in tre gruppi di isole: quelle del Nord, regione chiamata Luzon, le isole del centro, Visayas, e le isole del Sud, Mindanao. A Sud Est si trova, inoltre, la lunga isola Palawan.
La storia di questo paese ha visto una lunga colonizzazione spagnola, un’occupazione statunitense e una breve presenza militare giapponese durante la Seconda guerra mondiale. La sfera d’influenza geopolitica è rimasta quella degli Stati Uniti, anche se, in tempi recenti, ci sono state frizioni. Nel frattempo la Cina continua il suo approccio aggressivo in quel tratto di mare.
Cerchiamo di vedere gli aspetti più importanti di questa lunga storia.
Colonia delle colonie
Popolazioni locali (Aeta e Igorot) vivono sulle isole da millenni, quando dal II secolo iniziano le migrazioni di altri popoli dalle attuali Indonesia e Malesia. Anche commercianti cinesi si stabiliscono sulle isole. Nel corso del XV secolo le isole del Sud sono popolate da gente islamica, che si organizza e si costituisce in alcuni sultanati.
È nel 1521 che l’esploratore portoghese Fernando Magellano si imbatte nell’arcipelago, approdando nell’attuale isola centrale di Cebu. Qui stabilisce una base, che chiama San Labaro, e dichiara il territorio annesso al Regno di Spagna. È proprio a Cebu che avvengono i primi battesimi e ha inizio ufficialmente l’evangelizzazione dell’arcipelago. Magellano muore in seguito a uno scontro con un gruppo locale, comandato dal condottiero noto come Lapulapu.
I viaggi dalla Spagna si susseguono, ma le isole interessano anche a olandesi, inglesi e portoghesi i cui avventurieri scorrazzano nella regione. Solo nel 1564 il navigatore Miguel Lopez de Lagazpi, giunto dalle colonie spagnole del Nuovo Mondo (attuale Messico) stabilisce il primo possedimento stabile. Le Filippine per lungo tempo non dipendono dalla madrepatria spagnola, ma dalle sue colonie americane, con capitale Acapulco. Il nome Filippine è dato inizialmente alle isole Leyte e Samar da un altro navigatore, Ruy Lopez de Villalobos, nel 1543, in onore del futuro re Filippo II di Spagna.
Da notare che gli spagnoli non riusciranno mai a sottomettere i musulmani che controllano le isole del Sud, Mindanao e Sulu, e che, con le loro milizie, compiono scorribande nelle altre zone a danno della colonia.
Il dominio spagnolo dura fino alla fine del XIX secolo, quando cresce un movimento indipendentista che lotta per liberare le isole. Sono di questo periodo i maggiori eroi nazionali: José Rizal, Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto. Il primo, poeta, scrittore, rivoluzionario e oculista, viene catturato e ucciso nel 1896, all’età di 35 anni. È il vero ispiratore del movimento nazionalista filippino, e influenza in particolare di Bonifacio e Jacinto, tra i fondatori del Katipunan, il movimento rivoluzionario che porta avanti l’insurrezione.
L’occupazione Usa
L’indipendenza (la prima) è proclamata nel giugno del 1898, e il primo presidente si chiama Emilio Aguinaldo, un altro protagonista della ribellione. Da subito, gli Stati Uniti si interessano all’arcipelago. La Spagna, al termine della guerra ispano-statunitense nelle Americhe (1898), oltre a perdere Cuba, che rientra sotto l’influenza Usa, cede le Filippine, insieme a Porto Rico e Guam (isola del Pacifico, oggi territorio non incorporato degli Usa) in cambio di un indennizzo.
Inizia così l’occupazione statunitense che molto influenzerà la società e la cultura filippina.
Il movimento indipendentista riprende la guerra di liberazione contro il nuovo oppressore, ma questa volta non ha gioco facile. Dopo dodici anni sono circa un milione i filippini morti a causa del conflitto.
Gli Usa si ritirano solo durante la Seconda guerra mondiale, quando il Giappone attacca le isole (1941) e le occupa sconfiggendoli. Famosa è la marcia di 80mila prigionieri nel 1942 sulla penisola di Baatan. Si stima che, per raggiungere a piedi i campi di prigionia, muoiono circa 10mila filippini e 1.200 americani.
L’esercito Usa sbarca nel paese nel 1944 e ne riprende il controllo alla resa definitiva del Giappone il 2 settembre 1945.
L’indipendenza viene poi concessa dagli Usa nel luglio del 1946, ma l’influenza economica e militare della superpotenza, che conserva diverse basi nell’arcipelago, continuerà.
Va ricordato che l’economia è prettamente rurale e la gestione della terra avviene attraverso il grande latifondo. La maggioranza della popolazione, impiegata in agricoltura, è sfruttata con il sistema della mezzadria.
Il periodo Marcos
Ferdinand Marcos, già presidente del Senato, viene eletto capo di stato nel 1965.
Grazie all’appoggio finanziario statunitense, riesce ad avviare nel paese una grande crescita economica. Viene quindi rieletto nel 1969. Intanto, a Mindanao, è attiva una guerriglia indipendentista musulmana, il Fronte di liberazione nazionale dei Moro (Flnm), e in altre zone è presente un altro movimento armato, il Nuovo esercito del popolo, di ispirazione maoista. Marcos sempre appoggiato dai militari Usa, opera una repressione che porterà alla dichiarazione della legge marziale nel 1972, con la quale sospende diritti civili e libertà. Molti oppositori sono costretti all’esilio.
Nel 1973 entra in vigore la nuova Costituzione che permette a Marcos di ricandidarsi e vincere alle elezioni del 1981. Nel nuovo decennio, però, finisce la crescita economica degli anni ‘70.
L’oppositore Benigno Aquino jr., detto Ninoy, di rientro da un lungo esilio, viene assassinato all’aeroporto appena entrato nel paese. La vicenda colpisce la popolazione e inizia il declino del dittatore. Anche gli alleati di sempre lo abbandonano, e gli Stati Uniti spingono Marcos a elezioni anticipate nel 1986. Contro di lui Corazón Aquino, la vedova di Benigno. Marcos sostiene di aver vinto, ma la Aquino, forte dei dati degli osservatori internazionali, contesta i risultati ufficiali. Marcos si vede costretto a lasciare e opta per un esilio negli Stati Uniti.
La presidenza Aquino
Corazon «Cory» Aquino ha il merito di far modificare la Costituzione (1987), riducendo i poteri del presidente, e di cercare una mediazione con gli indipendentisti, dando più autonomia alle isole del Sud e a quelle del Nord. Tenta pure di avviare una riforma agraria. Durante il suo mandato, nel 1991, i militari statunitensi lasciano definitivamente l’arcipelago, dopo quasi un secolo di presenza.
Le succede, nel 1992, il segretario alla difesa, Fidél Ramos, che continua la via per la pacificazione con i gruppi ribelli. Nel 1996 firma un accordo di pace con il Fronte di liberazione nazionale dei Moro. Il leader del Flnm diventa governatore della regione autonoma del Mindanao.
Intanto, la crisi economica che ha coinvolto l’Asia non risparmia le Filippine.
Nel 1998 viene eletto il cantante Joseph Estrada alla presidenza, ma ben presto è coinvolto in importanti casi di corruzione e perde il consenso popolare. La gente scende in piazza contro di lui, e il parlamento inizia un processo di destituzione. Estrada sarebbe titolare di milioni di dollari in conti bancari protetti. Lo stesso presidente si dimette nel gennaio 2001 e viene sostituito con la sua vice, Gloria Macapagal Arroyo.
Gloria Arroyo, figlia d’arte
Gloria Arroyo è figlia del nono presidente delle Filippine, Diosdato Macapagal, predecessore di Marcos. Sotto la sua presidenza, l’economia cresce e l’inflazione diminuisce.
Nel 2004 viene rieletta, ma anche accusata di brogli elettorali. Nonostante questo, la Arroyo resta in carica fino alle elezioni del 2010. La sua figura è controversa. Grande alleata degli Stati Uniti, riesce a fare crescere l’economia anche durante il secondo mandato presidenziale, ma la povertà delle classi basse del paese, al contrario, aumenta.
Nel 2006 elude un tentativo di colpo di stato da parte dell’esercito e proclama la legge marziale. Durante i suoi due mandati continua la lotta, mai estinta, contro i fronti ribelli interni, il Flnm e i comunisti del Nuovo esercito popolare.
Le organizzazioni per i diritti umani rilevano un incremento di omicidi politici di oppositori e di giornalisti durante i due mandati della Arroyo.
Nel 2010 le succede Benigno Aquino III, figlio di Corazón Aquino e Ninoy. Aquino, pur essendo oppositore di Arroyo, si appoggia sulle sue riforme e porta il paese in costante crescita economica. Nonostante questo, è criticato per la cerchia dei suoi collaboratori, accusato di conduzione clientelistica, e per la cattiva gestione di momenti di crisi, come calamità naturali (nel 2013 il tifone Yolanda causa la morte di 8mila persone) o la recrudescenza della guerriglia islamista.
Il candidato del suo partito per le elezioni del 2016 perde contro Rodrigo Duterte.
Duterte, il duro
Rodrigo Duterte, già sindaco di Davao, è il primo presidente delle Filippine originario del Midanao (il Sud). Impone subito una politica di «tolleranza zero» su alcune tematiche, come il traffico e consumo di droga (cfr. MC marzo 2019), utilizzando metodi repressivi al limite della legalità.
Anche nella gestione delle pandemia da Covid-19 Duterte si rivela particolarmente duro. Nel marzo scorso ordina alla polizia di arrestare chiunque non indossi in modo opportuno la mascherina (ad esempio sotto il naso). Altre punizioni sono già state decise e apllicate, per violazioni come quella del coprifuoco.
Il primo lockdown scatta nel marzo 2020 nell’isola centrale Luzon (dove si trova Manila) per 53,3 milioni di persone. Altre chiusure si susseguono nelle diverse isole, mutuate dai governi locali. Il «Time magazine» riporta che, in alcuni casi, i poliziotti possono arrestare, picchiare o anche sparare su chi si trovasse in strada senza permesso.
Nel 2022 gli abitanti delle 7.641 isole si recheranno alle urne. Rodrigo Duterte sta cercando di convincere sua figlia Sara, che gli è già succeduta come sindaco di Davao, a candidarsi. La Costituzione limita, infatti, la presidenza a un solo mandato di sei anni. Sara, trainata dalla popolarità del padre, sta vincendo tutti i sondaggi elettorali, ma non ha ancora deciso.