Patriota e scrittore piemontese conosciuto soprattutto per il suo libro «Le mie prigioni», pubblicato nel 1832, che contiene le sue memorie di dieci anni di carcere duro prima a Venezia e poi nel carcere dello Spielberg nella Repubblica Ceca (allora territorio dell’Impero austroungarico).
Identificato spesso nella memoria collettiva come «carbonaro», cioè come attivista per l’unità d’Italia contro ogni dominio straniero, Silvio Pellico in realtà fu molto di più: scrittore, drammaturgo, educatore e soprattutto un cristiano profondamente convinto e impegnato nel sociale.
Nato il 25 giugno 1789 a Saluzzo, nella provincia di Cuneo, dal piemontese Onorato Pellico e dalla savoiarda Margherita Tournier, aveva due fratelli e due sorelle. Tutti, fin dalla più tenera età, ricevettero una robusta educazione cattolica a opera della mamma.
Suo fratello Francesco diventò in seguito un gesuita, mentre le sue sorelle presero i voti. Il primogenito, Luigi, fu molto impegnato nella politica. Il padre era un commerciante di spezie con alterne fortune, che aveva aperto un negozio a Pinerolo e poi, fallito, si era trasferito a Torino.
La prima educazione di Silvio avvenne tra queste due città, ma la difficile situazione della famiglia lo costrinse a interrompere gli studi e fu mandato in Francia, a Lione, presso un parente per imparare da lui il mestiere del commerciante.
L’esperienza francese gli fece capire che non era tagliato per il commercio. Si appassionò invece di lingue, di studi classici e degli autori italiani allora emergenti, come Ugo Foscolo e Vittorio Alfieri. L’atmosfera post Rivoluzione francese e l’euforia dei nuovi tempi napoleonici, gli fecero mettere in secondo piano la sua formazione cristiana.
Quando il padre finalmente trovò un lavoro stabile a Milano, come impiegato del ministero della guerra del Regno d’Italia voluto nel 1805 da Napoleone, nel 1809 lasciò la Francia e si stabilì in quella città diventando insegnante di francese nel collegio militare.
Entusiasta di letteratura, frequentò i circoli letterari della città e diventò amico di Ugo Foscolo, che già ammirava, e altri letterati. Affascinato dalle tragedie, cominciò lui stesso a scriverne alcune. La sua seconda, Francesca da Rimini, ispirata a Dante, fu rappresentata il 18 agosto 1815 ed ebbe grande e inaspettato successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo.
Nel frattempo, il Regno d’Italia era caduto insieme a Napoleone nel 1814 e la Lombardia era tornata sotto il dominio dell’Austria.
Come sei sopravvissuto a Milano dopo il ritorno degli austriaci?
Grazie al successo della mia tragedia e di altri scritti che andavo pubblicando, sono stato assunto come precettore dei figli del conte Porro, e mi sono trasferito ad Arluno, vicino a Milano. Così ho potuto frequentare un gruppo vivace di letterati come Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi e Giovanni Berchet, come già facevo prima, appena arrivato a Milano, quando avevo stretto amicizia con letterati e scrittori come Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, che già ammiravo dai miei studi in Francia. Sono stato anche in relazioni con personaggi della cultura non italiana, come la scrittrice francese Madame de Staël e il filosofo tedesco Friedrich von Schlegel, considerato uno dei fondatori del Romanticismo.
Un circolo di letterati, non di agitatori politici. Com’è che ti sei fatto arrestare e addirittura condannare a morte?
Nel nostro circolo venivano sostenute e sviluppate idee tendenzialmente risorgimentali, volte alla possibilità di ottenere l’indipendenza totale dell’Italia da qualsiasi potenza straniera. Nel 1818 ci siamo anche avventurati nella pubblicazione di una rivista, «Il Conciliatore», di cui ero il direttore. La rivista non voleva avere posizioni radicali né in politica né in letteratura, ma di fatto eravamo di tendenza romantica e antiaustriaca. È stata un’esperienza breve perché nel 1819 la polizia ci ha obbligato a chiudere. Ero anche entrato in un gruppo carbonaro, chiamato «i Federati».
Ovviamente io e i miei amici eravamo dei sorvegliati e quando gli austriaci sono riusciti a intercettare alcune lettere compromettenti spedite da uno di noi, Pietro Maroncelli, siamo stati arrestati. Era il 13 ottobre 1820. Ci hanno rinchiusi prima nella prigione dei Piombi di Venezia e poi in quella di Murano, e il 21 febbraio 1822 siamo stati condannati a morte.
La sentenza è stata poi commutata a venti anni di carcere duro per Maroncelli e quindici per me, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in quella che oggi è la Repubblica Ceca. Nel 1830 ci hanno graziati e siamo tornati in libertà.
In famiglia avevi ricevuto una forte formazione religiosa, ma in gioventù te ne eri allontanato. Che è successo in carcere che ti ha fatto tornare alla fede?
Il periodo francese e quello milanese, con tutti gli entusiasmi rivoluzionari e gli influssi romantici, mi avevano allontanato dalla pratica della fede. Ma in prigione sono stato costretto a riflettere e ho avuto la grazia di avere con me alcune persone sinceramente credenti, come il conte Antonio Fortunato Oroboni, compagno di sventura in quel carcere e sincero cristiano che era stato arrestato nel 1819 nel suo paese di Fratta Polesine dove aveva fondato uno dei primi gruppi carbonari. C’era anche il mio amico Pietro Maroncelli, anche lui credente convinto.
Dal carcere ho scritto a mio padre nel 1822: «Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m’aveva quasi rapito». È stata un’esperienza profonda. Ogni domenica partecipavo alla messa, meditavo assiduamente la Bibbia, avevo la possibilità di leggere libri devoti. La religione mi ha aiutato ad abbandonarmi alla volontà di Dio, a essere paziente nel sopportare le prove, e mi ha dato la capacità di perdonare e amare tutti.
Tornato in libertà hai scritto il libro «Le mie prigioni», che ti ha fatto conoscere in tutta Europa.
Volevo ringraziare la Provvidenza per l’esperienza che avevo vissuto e mi aveva cambiato la vita. Per questo ho concluso il libro con queste parole: «Ah! Delle mie passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà ancora serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti [sic] ch’ella sa adoprare a fini degni di sé».
«Le mie prigioni», che hanno visto la luce nel 1832, erano per me soprattutto la testimonianza del mio cammino interiore e di come la fede fosse stata la fonte della mia resilienza. Non volevo vendicarmi di nessuno o denigrare qualcuno, ma certo desideravo raccontare semplicemente la verità di quanto avevo vissuto, anche non proprio tutto. Il libro è stato accolto con grande favore, oltre ogni mia aspettativa, soprattutto per l’attenzione e la correttezza che avevo avuto nel giudicare i miei stessi carcerieri e per la nitidezza dell’ambientazione, lontanissima dal vaporoso sentimentalismo allora di gran moda quando si trattavano questi argomenti.
Ma ti aspettavi che diventasse quasi la bandiera del patriottismo, prima in Italia e poi anche in altre nazioni?
Il libro ha avuto in Europa parecchie ristampe e numerose traduzioni, suscitando ovunque simpatie e appoggi nei confronti del Risorgimento italiano e una generale ripulsa contro le potenze straniere che occupavano il nostro paese. Di ciò ben si è accorto il Cancelliere della Corte di Vienna, Klemens von Metternich, che invano ha tentato più volte di confutare la mia testimonianza vissuta in carcere e di far mettere all’Indice il mio libro. Certamente non hanno avuto torto coloro che hanno detto che esso aveva danneggiato l’Austria più di una battaglia perduta.
Con i tuoi scritti e con il tuo atteggiamento ti sei però tirato addosso le diffidenze dei cattolici reazionari e dei liberali più accesi.
In molti il patriottismo andava di pari passo con massoneria e anticlericalismo, cose che ovviamente non trovavano in me. I liberali poi si sono sentiti anche più maldisposti verso di me quando sono diventato amico e poi segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionari. Io però ho continuato la mia attività di scrittore e nel 1837 ho pubblicato due volumi di «Poesie inedite», sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso; in quel periodo ho anche iniziato a scrivere, senza condurla mai a termine, la mia autobiografia.
Perché con i marchesi di Barolo?
Tornato in libertà, sono stato accolto dalla mia famiglia, ma non riuscivo a trovare un lavoro stabile e dignitoso. A un certo punto ho ricevuto l’offerta di andare a Parigi come istitutore del figlio del re Luigi Filippo, ma mi dispiaceva tantissimo lasciare i miei genitori proprio quando avevano più bisogno di me. Saputolo, la marchesa e il marito, di comune accordo, mi hanno offerto l’impegno di bibliotecario. Ho accettato con gioia. Con loro avevo una forte amicizia, la marchesa era stata una delle prime persone a congratularsi con me dopo la lettura de «Le mie prigioni», e condividevamo lo stesso spirito di fede e di impegno sociale per i più poveri. Per me erano «anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio».
I marchesi sono stati i fondatori delle Suore di sant’Anna, ancora oggi ben attive a Torino, e hanno avuto una attenzione particolare per l’assistenza alle carcerate e per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Hanno promosso le scuole per i più poveri, aiutato i malati (durante il colera del 1835, il marchese stesso ne è stato contagiato) e dato sostegno economico a tante attività caritative e alla costruzione di chiese.
Nel 1851 Silvio Pellico e Giulia Colbert Faletti entrarono nel laicato francescano come terziari. Pellico si spense il 31 gennaio 1854. Le sue spoglie riposano nel Cimitero monumentale di Torino, fondato proprio dai marchesi di Barolo.
Don Mario Bandera