Mosè in Egitto (Es 4,18-7,7)

Mosè è fuggito dall’Egitto e si è sposato con la figlia di un sacerdote madianita. Mentre ne porta il gregge al pascolo, incontra Dio, che lo invia a liberare il popolo ebraico dall’oppressione egizia.

È già iniziato per Mosè un percorso che in queste pagine dell’Esodo viene proposto come modello di un cammino di fede per tutti.

Mosè si mette in moto per curiosità. La meraviglia, però, comporta anche la disponibilità a lasciarsi scomodare, e Mosè, sia pure con tutti i suoi difetti e tentennamenti (che non contraddicono, ma semmai danno profondità alla fede), decide, alla fine, di partire.

Dopo averne chiesto al suocero il permesso, presi moglie e figli, ritorna verso il Nilo (Es 4,18-20).

Può sembrare una (piccola) carovana di nomadi, ma Mosè non vaga senza meta, percorre a ritroso la stessa strada che ha percorso molti anni prima. Allora era da solo e a piedi, oggi è con la sua famiglia e viaggia a dorso d’asino. Soprattutto, allora era un fuggiasco spaventato verso luoghi sconosciuti, ora viaggia con un obiettivo: parlare con il faraone e convincerlo a lasciare espatriare un popolo di schiavi. Un compito affidatogli da Dio, che gli ha anche fornito argomenti e strumenti per portarlo a termine (4,21-23): riuscirà nella missione?

Un episodio enigmatico

Proprio all’inizio del cammino di Mosè verso l’Egitto per compiere la missione ricevuta, si colloca un episodio enigmatico che tanto ha fatto scrivere ai commentatori: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione».

Sembra che Dio cerchi di far morire il suo inviato, che viene salvato dalla moglie tramite la circoncisione del figlio (Es 4,24-26). Qui rinunciamo a prendere posizione sulle decine di spiegazioni possibili di questo brano, nessuna delle quali abbastanza convincente da imporsi sulle altre. Ci limitiamo a quattro considerazioni.

a) Un uomo in «debito»

Mosè sarà presentato più avanti come la guida, il punto di riferimento, il riassunto della legge. Si corre il rischio di esaltarlo troppo. Per questo, il libro dell’Esodo, che pure lo tiene sempre al centro della scena, sottolinea come lui non agisca da solo, non sia perfetto, come abbiamo già fatto notare, e debba riconoscere il proprio debito nei confronti di altri: la propria sorella e la figlia del faraone alla nascita, un compatriota che (per liberarsene) lo mette in guardia sul fatto che il suo assassinio è conosciuto, un sacerdote madianita, e ora la moglie.

b) Tra dubbio e fiducia

Non tutto riusciamo a capire, nella nostra vita. Neppure in quelle circostanze che più sembrano guidate dalla volontà di Dio. Occorre accettare che ci siano aspetti e particolari della nostra esperienza che restano apparentemente staccati dal quadro generale. Anche le vicende che più sembrano muoversi in un orizzonte chiaro, definito, sostenuto dalla grazia divina, restano segnate dall’incertezza, dal dubbio, dal sospetto. Continuano a chiamarci alla fiducia, a metterci in gioco, sapendo che non tutto dipende da noi. E che molto non riusciamo neppure a capirlo.

c) Fidarsi della «promessa»

Ci potrebbe anche essere un invito a non fidarci troppo di coincidenze e calcoli. Se Mosè fosse superstizioso, potrebbe dire che quel suo viaggio di ritorno inizia sotto pessimi auspici, e che farebbe bene a tornare indietro. Ma Mosè non si fida di brutti segni, si fida di una parola che gli ha promesso grandi cose, anche se la promessa non garantisce dagli inciampi. L’essere umano compiuto deve restare lontano da scaramanzie e presagi, che sono ingannevoli. Dio non passa da quelli, ma da promesse e appelli alla ragionevolezza umana. Certo, non ci invita ad affidarci semplicemente al calcolo e alla ragione (ad esempio, c’è poco di ragionevole nelle relazioni e negli affetti, che pure ci danno da vivere), ma di sicuro Dio non parla per enigmi: si rivolge al nostro «io» più autentico e completo, ragionevolmente padrone di sé.

d) Legame con Abramo

La circoncisione è segno dell’alleanza tra Dio e Abramo. Dio aveva chiesto ad Abramo che circoncidesse i figli. Mosè tornava al suo popolo Israele senza averlo fatto. Non è che Dio punisca Mosè, ma simbolicamente, l’episodio sottolinea il legame tra la vita e missione di Mosè e la promessa fatta ad Abramo. Nell’ottica dei redattori finali del Pentateuco è, inoltre, anche un modo per legare il ciclo di Mosè con quello dei patriarchi che, in origine, erano due cicli narrativi separati.

Al punto di partenza

Nel suo cammino verso l’Egitto, sul monte di Dio, Mosè ritrova Aronne, di cui noi lettori abbiamo sentito parlare per la prima volta in Es 4,14, nell’episodio del roveto ardente, e che forse abbiamo immaginato più giovane di Mosè. Invece Es 6,20 ci informerà che è Aronne il primogenito, e sappiamo da Es 2,4 che anche Maria, la sorella, è più vecchia di Mosè. Questi, insomma, è il più giovane dei tre.

Quello che sarà il grande condottiero del popolo, colui che parlerà faccia a faccia con Dio, per il momento ci è presentato come assassino, pavido, incerto, balbuziente, nonché il più giovane della sua famiglia.

Come in molti altri casi nella Bibbia, Dio non ha paura di fare grandi cose con persone che noi uomini magari non sceglieremmo (tipici i casi di Giuseppe e poi di Davide). E questo non per insinuare che l’umanità non conta niente (Dio, infatti, non fa nulla senza Mosè), ma, al contrario, per indicare che anche chi si reputa scarso, insieme a Lui, può raggiungere grandissimi risultati.

Aronne, chiamato dal Signore, va incontro a Mosè, il quale gli spiega tutto ciò che gli è successo. I due vanno dagli anziani del popolo di Israele, coloro che detengono la sapienza e sono chiamati a guidare la propria gente, e questi li ascoltano e credono in Dio (Es 4,27-31). Ci troviamo di fronte a una situazione che sarà rarissima nel resto dell’Esodo. Come succederà ben poche volte in futuro, Mosè, Dio e il popolo sono in accordo, in piena sintonia. Tutto sembra risolto, deciso, chiaro.

Anche se, in verità, nulla è ancora fatto e compiuto, anche se quell’armonia è destinata a rovinarsi presto.

Primi inciampi

Mosè e Aronne, a questo punto, si presentano al faraone. Questi, come è stato preannunciato da Dio a Mosè, oppone il suo rifiuto alle richieste. Non solo, però, non acconsente al progetto divino di lasciare uscire il popolo, ma dichiara di non conoscere per nulla quel dio che ne avrebbe ordinato l’uscita, e stabilisce di appesantire le condizioni di lavoro degli ebrei, che da ora dovranno consegnare lo stesso numero di mattoni senza averne a disposizione le materie prime (Es 5,1-11).

Il faraone, comprensibilmente, fa il proprio interesse, puntando a delegittimare il sedicente capopopolo davanti agli ebrei. E ci riesce, tanto che questi iniziano a rimproverare Mosè per la nuova peggiorata condizione (Es 5,20-21).

Mosè, d’altronde, non fa quello che il popolo si aspettava: ha convocato gli anziani, le persone più sagge ed esperte, i rappresentanti di tutto il popolo, ma poi non li ha portati davanti al faraone, dove è andato, invece, accompagnato dal solo Aronne. In più, non ha riferito al faraone ciò che Dio gli aveva suggerito di dire, né si è premurato di operare quei prodigi che gli erano stati consigliati (Es 4,21-23). Semplice disattenzione o mancanza?

Di fronte alla contestazione degli anziani, poi, Mosè sembra prendersela con Dio, riversando su di lui la responsabilità dell’accaduto e accusandolo di non aver ancora fatto niente (Es 5,22-23). Come succede in tanti altri passi, Mosè non sembra proprio essere l’eroe senza macchia e senza paura che ci si poteva aspettare.

Eppure, Dio si appoggia a lui, si fa rappresentare proprio da lui.

Il discorso di Dio

È a questo punto (Es 6,1) che Dio reagisce e conforta Mosè rivolgendogli un altro discorso. Immaginiamoci al suo posto: se fossimo Dio e dovessimo rassicurare il nostro inviato, probabilmente sottolineeremmo la nostra forza davanti alla debolezza del faraone, destinata a essere sconfitta. Dio però non parla così. Lascia da parte la forza, e insiste su altre due ragioni per cui Mosè può fidarsi: la prima è la promessa di una discendenza e di una terra fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, la seconda è l’oppressione degli ebrei.

Entrambe le ragioni si muovono sul filo delle relazioni personali. Per Dio l’unico motivo di saldezza è il credere alla sua promessa, che non è radicata nella sua forza, ma nella sua fedeltà.

È quasi un invito a Mosè e al popolo a cambiare modo di pensare: non è perché Dio è più forte del faraone che gli israeliti possono essere sereni. Questa è un’osservazione vera (di fatto, Dio è più forte del faraone), ma non è quella più significativa. Se il centro dell’azione di Dio fosse la sua forza, gli ebrei passerebbero da una schiavitù a un’altra (e, in un certo senso, è proprio quello che continueranno sempre a desiderare). Essi possono invece fidarsi di Dio, perché lui ha conosciuto i loro antenati, ha percorso un tratto di strada con loro, li ha accompagnati e ha rivolto loro una promessa. E ora vede i loro discendenti oppressi.

A guidare i pensieri di Dio non è la potenza o l’orgoglio, ma l’amore. Dio si muove perché gli ebrei stanno male, e perché ha garantito ai loro antenati che ciò non sarebbe successo.

Così inizia a cambiare il modo di ragionare di Mosè e dei suoi compatrioti, con un appello che continua a parlare anche a noi. Dio non cerca un popolo che lo lodi o gli offra sacrifici. Dio vuole la relazione, e vuole che questo popolo viva bene. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, ma di noi, del legame con noi. Quello che vuole stringere con l’umanità non è un contratto, ma una relazione di amicizia profonda. Potremmo addirittura dire che persino Dio non sia libero, perché è legato dall’affetto: non può tirarsene fuori!

Mosè… e noi

Chissà se è questo che Mosè intuisce quando si definisce, per ben due volte, «uomo dalle labbra incirconcise» (Es 6,12.30). La circoncisione era un segno del patto con Dio, del fatto di essere riservati per lui. Quando Mosè dice di avere le labbra non circoncise, può forse semplicemente ricordare che non è un buon oratore, e che anzi balbetta (cfr. Es 4,10). Ma questa interpretazione sembra superficiale e incoerente confrontata con tanta insistenza, e proprio in questo punto.

Si direbbe quasi che Mosè ammetta di non aver ancora capito fino in fondo qual è la relazione di Dio con il suo popolo, di non saperla spiegare. È vero che Dio gli suggerisce, di nuovo, di mandare Aronne a parlare al posto suo (Es 7,1), ma è come se Mosè, pur essendo ormai coinvolto nel progetto, riconoscesse di non averlo ancora compreso fino in fondo.

Perché i progetti di vita, le interpretazioni esistenziali, la relazione con Dio, non funzionano come una professione, per la quale devo essere stato promosso all’esame di laurea e a quello abilitante per poterla esercitare. La vita (ma in realtà è così persino per le professioni), la si capisce, se va bene, mentre la si vive, non prima. E più spesso dopo.

Questo però non toglie che il percorso possa essere fruttuoso, utile, e possa cambiare la vita anche agli altri. Mosè non ha capito ancora tutto, ma ha capito la cosa fondamentale: che la via d’uscita dalla situazione pesante in cui sono lui e il popolo si trova ascoltando Dio, fidandosi di lui. Allo stesso tempo, sente di non avere ancora imparato, lui per primo, a fidarsi fino in fondo, ma sa che, persino così, Dio gli concede di essere una guida per gli altri: incerta, limitata, ma autentica.

Perché Dio non fa nulla senza l’uomo, ma accompagna e sostiene l’uomo che è disposto a collaborare con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 04 – continua)




Abitare insieme, diversamente

testo di Daniele Biella |


Storicamente presente nel Nord Europa, è arrivato da anni anche nel nostro paese. Abitare in comune, condividere, supportarsi. È difficile definire il cohousing. La cosa migliore è conoscere e raccontare le esperienze vissute.

«La compagnia, la conversazione, la condivisione, il sapere che qualcuno c’è nel momento del bisogno: la vita risulta più facile se hai qualcuno che la percorre al tuo fianco». Quando Eric Klinenberg, sociologo e scrittore statunitense, pronuncia questa frase, sa bene che c’è in corso un cambiamento epocale e virtuoso del modo in cui l’uomo può «abitare» la comunità nella quale vive. C’è la persona, certo, magari con il proprio partner, la propria famiglia, con cui condivide gli spazi di una casa. Ma in molte zone del mondo, Italia compresa, si fa strada qualcosa di più ampio: «Al tuo fianco», infatti, possono percorrere il cammino quotidiano anche altre persone e famiglie con cui nel corso del tempo hai fatto una scelta importante e, per certi versi, rivoluzionaria: la coabitazione.

Abitare condiviso, cohousing, ecovillaggi, sono i nomi che possiamo avere sentito da qualcuno o in qualche media. Nomi che rappresentano un contenitore – di varie dimensioni – il cui contenuto è dato da chi ci abita e, quindi, ogni volta diverso, deciso in piena collaborazione, particolare. Ma di cosa stiamo parlando? Ecco un esempio da cui partire, preso nel mucchio (le esperienze attive e censite in Italia sfiorano il centinaio).

Porte aperte

Siamo a Velate, paesotto di tremila abitanti unito a Usmate, alle porte di Monza, Lombardia. Qui sei famiglie, 12 adulti più 16 bambini da 2 a 13 anni, conosciutesi per la maggior parte negli ultimi 6-7 anni, stanno per realizzare il loro sogno: vivere sotto un unico tetto, nel cohousing «Uno e sette» (www.unoesette.it).

Costruito – nel vero senso della parola, perché in questo caso si è partiti dall’acquisto del terreno – attraverso una miriade di incontri e decisioni comuni, Uno e sette prende forma in un edificio nel quale ogni nucleo avrà il proprio appartamento, i propri indispensabili spazi famigliari, a cui però si aggiungono una serie di spazi comuni concepiti come un tutt’uno con le abitazioni. Ovvero da vivere ogni giorno dalla singola famiglia come allargamento della propria casa: un salone comune in cui ritrovarsi e far ritrovare la comunità del paese promuovendo eventi, una zona di coworking (postazioni di lavoro condivise) e una lavanderia comune, un giardino collettivo, una postazione dove fare musica, e terrazze nelle quali la parola d’ordine è «assieme». «Uno stare assieme non forzato, che rispetta i tempi di tutti, basato sul mutuo aiuto e su relazioni di qualità, elementi che riteniamo importanti sempre, tanto più in un periodo delicato e drammatico come quello che stiamo vivendo durante la pandemia», spiega Sabrina Curzi, membro di Uno e sette. Lei è assistente sociale e lavora a Milano per la cooperativa Farsi prossimo. Nel gruppo ci sono anche due professori, un ingegnere, una musico terapista, una libraia e altre figure unite dalla volontà di un vicinato improntato all’altruismo: Il nome, Uno e sette, parte dall’omonima favola di Gianni Rodari («Ho conosciuto un bambino che era sette bambini»), e si riferisce al fatto che nel cohousing c’è un settimo appartamento dedicato ad accogliere, in collaborazione con enti pubblici e privato sociale, persone in temporaneo stato di necessità come anziani, persone disabili o non autosufficienti, famiglie monogenitoriali. «Ora siamo alla scelta dei pavimenti per gli spazi comuni, ma alla base ci sono confronti settimanali su ogni tema, sia pratico che valoriale», continua Curzi. I cohousers hanno fondato una cooperativa edilizia, ottenuto un finanziamento da Banca Etica, ed entro giugno 2021, a prescindere dal colore dell’emergenza sanitaria, inaugureranno la loro nuova dimora, passiva e solidale. Nel frattempo hanno lanciato sulla piattaforma GoFundme.org una raccolta fondi per chi volesse aiutarli nel sostenere il progetto di accoglienza.

Anche in pandemia

L’esempio di Uno e sette è solo una delle tante esperienze virtuose presenti in varie zone d’Italia. Che si tratti di recuperare un casolare abbandonato o di costruirne uno ex novo con forte attenzione alla sostenibilità ambientale, l’importante è impostare il proprio modello su una convivenza attiva e attenta a chi ti sta accanto. «Il lockdown, in questo senso, ci ha riportati a casa: conosciamo di più chi vive attorno a noi, andiamo più spesso al negozio specializzato del quartiere, ci interessiamo a forme di relazione più significative rispetto alla frenesia con cui siamo abituati a vivere», ragiona Nicholas Bawtree, nato nel 1978 nell’agriturismo toscano dei genitori e oggi direttore responsabile di «Terra Nuova» (www.terranuova.it), il mensile cartaceo con l’occhio attento ai temi del consumo critico, del biologico e delle scelte di vita sostenibili.

La curiosità verso i cohousing e gli ecovillaggi è in aumento da anni, la pandemia ha dato ulteriore spinta: «Spesso questi sono progetti con un’intenzionalità molto forte, in ogni caso sono sempre di più le esperienze di persone che aprono le proprie case verso l’esterno, anche in vie di mezzo come i Gas, Gruppi di acquisto solidale, o altre esperienze di cohousing diffusi e servizi condivisi», aggiunge Bawtree.

L’approccio comunitario ha una propria innegabile storia: basti pensare alle centinaia di case famiglia attive da decenni in tutta Italia, ma anche a diversi contesti religiosi nei quali si pratica vita comunitaria.

Nel caso delle recenti nuove forme dell’abitare, esse nascono anche dai mutamenti in atto nella società: il costo della vita in forte aumento e il consolidamento di un individualismo legato alla società dei consumi, per esempio, stanno motivando migliaia di persone a cercare modelli alternativi, dal ritorno alla natura, tipico degli ecovillaggi, alla condivisione di spazi abitativi nei cohousing, più diffusi nei centri a forte urbanizzazione.

Daniel Tarozzi, giornalista e videomaker, oltre a scegliere in prima persona uno stile di vita sobrio nell’entroterra ligure (progetto Altopia – La casa del cambiamento), ha fondato nel 2012 la testata web «Italia che cambia» (www.italiachecambia.it), e da allora viaggia appena può in camper in ogni regione italiana a scovare le esperienze di buone pratiche: «Sono anni che non mi fermo, e ancora mi sembra di avere visto poco, data la quantità di esempi virtuosi che ci sono», sottolinea.

Per quanto riguarda il cohousing, «di solito nasce da gruppi di coppie con o senza figli. Ma non sono poche le esperienze di condivisione nate da over 65 – efficace alternativa alla casa di riposo – e da giovanissimi che dopo avere vissuto insieme come studenti decidono di continuare a farlo cercando una struttura idonea», ragiona Tarozzi.

Anche la visione degli ecovillaggi sta mutando: «Si sta superando lo stereotipo che li vede come comunità stravaganti. Esse in realtà rappresentano modelli virtuosi di ripopolamento borghi e buon vicinato». Per capire nel dettaglio quanti sono e come stanno evolvendo sia cohousing che ecovillaggi, ecco due voci autorevoli: Housinglab, associazione di Milano che mappa da anni le coabitazioni in piccole e grandi cittadine, e la Rive, Rete italiana villaggi ecologici.

Anche in città

Dal 2014 HousingLab (www.housinglab.it) setaccia le città d’Italia alla ricerca dei nuovi gruppi che vivono l’abitare collaborativo, continuando a tenere stretti rapporti con le realtà già esistenti. «Nel 2018, quando abbiamo pubblicato il libro “Cohousing, l’arte di vivere insieme” (Altreconomia editore), abbiamo contato 40 esperienze attive. Da allora, il numero è in costante aumento e anche durante questi mesi della pandemia si stanno formando ulteriori gruppi», spiega Liat Rogel, ricercatrice di origini israeliane che oggi ha tre figli, vive in un condominio solidale a Milano e ha alle spalle tre anni di studi a Berlino e un dottorato in design di servizi e abitare collaborativo conseguito al Politecnico milanese. È lei che, assieme a Chiara Gambarana, ha fondato HousingLab, associazione che si occupa anche di facilitazione e accompagnamento di chi sceglie la strada del cohousing. «Di solito si parte da 2-3 persone, con le rispettive famiglie, che poi coinvolgono altri, creando quella relazione di fiducia necessaria per prepararsi a una vita di coabitazione fatta di decisioni prese in comune». Sul sito di HousingLab si può trovare una mappatura delle coabitazioni, completa di statistiche di ogni sorta, dall’età dei componenti – la fascia 36-65 anni è la più rappresentata, al 38%, seguita al 28% da quella dai 19 ai 35 – alla costituzione dei nuclei: per il 46,5% sono coppie con figli, per il 32,5% senza figli, il 21% single (a fronte di una media generale in Italia che vede i single al 38%, le coppie con figli al 28% e senza figli al 34%).

«Ogni cohousing è diverso dall’altro, ha le sue peculiarità. Di certo li accomuna il fatto che le persone condividono oggetti e spazi in una relazione che non è di condivisione forzata ma basata sul mutuo aiuto», continua Rogel. A volte, infatti, in chi si affaccia al tema, c’è la preoccupazione che vivere in cohousing sia troppo coinvolgente e che limiti gli spazi personali e famigliari, ma non è così: «Spesso è un antidoto all’isolamento che si vive nelle città, perché negli spazi in comune si riscopre la socialità».

Andare a vivere in cohousing non significa risparmiare sul costo della casa: «I prezzi delle abitazioni rimangono spesso quelle di mercato», conferma la fondatrice di HousingLab. Ma il guadagno è, appunto, nelle relazioni profonde che si instaurano fra i membri del gruppo.

I primi modelli di abitazioni condivise nascono nell’Europa del Nord e in quella centrale, dalla Danimarca fino a Vienna, e ancora oggi è là che ci sono le esperienze più solide. Ma anche in Italia, soprattutto sull’asse Milano e Torino ma anche in Emilia Romagna, Toscana e nella città di Trento, se ne trovano molte. Ecco qualche nome: attorno al capoluogo lombardo si trovano Base Gaia, Urban village Bovisa, Cenni di cambiamento, Cohousing Terracielo, mentre a Torino il Cohousing Numero Zero, Abitare la fabbrica, il Condominio solidale Casa di via Gessy e la rete di Coabitazioni giovanili solidali. Spesso, come accade nel caso di Uno e sette, la realtà solidale sceglie di riservare spazi per accogliere persone in situazione di disagio: in questi casi, se nel progetto di accoglienza è coinvolta la Pubblica amministrazione o una Fondazione di comunità, l’azione portata avanti dal cohousing rientra in quello che viene chiamato housing sociale (tra le fondazioni più attive a livello nazionale c’è proprio la Fondazione housing sociale).

Dentro gli ecovillaggi

Uscendo dai centri abitati si apre il mondo degli ecovillaggi, realtà dinamiche dalle mille sfaccettature spesso immerse nella natura o in piccoli borghi recuperati nei quali si mette in atto una «rialfabetizzazione» delle relazioni, una condivisione di potere, spazi e decisioni che affascinano anche molti giovani.

Da qualche tempo c’è una proposta di legge sulle «comunità intenzionali» che vorrebbe dare un riconoscimento più formale a tale modo di vivere.

A fare da collettore di esperienze in questo caso è la storica Rive (www.ecovillaggi.it), di cui Francesca Guidotti è stata per anni presidente, ancora oggi uno dei maggiori punti di riferimento a livello nazionale: «Per spiegare gli ecovillaggi parto sempre da una metafora: la vita comunitaria è come un vestito, i cui colori e forme vengono scelti da chi lo indossa, ovvero dalle persone che vivono la comunità. Quindi ogni ecovillaggio è unico, è come la vita di una persona: dall’infanzia in cui si inizia, alla gioventù in cui si esplora la nuova modalità di vita, alla fase adulta dove l’identità diventa ben radicata».

Guidotti ha 35 anni, è diventata madre da poco, ed è autrice del libro guida «Ecovillaggi e Cohousing», Terra Nuova edizioni). Ha iniziato a occuparsi di questi temi più di un decennio fa, durante la tesi in antropologia culturale, e oggi si occupa di formazione per team di realtà collaborative con l’ente Campus del cambiamento, oltre a essere portavoce della Rete di reti (www.retedireti.org), struttura leggera nella quale convergono gruppi informali e associazioni di ecologia ed economia solidale, e in cui rientra a pieno titolo il coabitare. «Confermo che il fenomeno del vivere assieme è in espansione, e il coronavirus ha dato ulteriore spinta a cercare forme di relazioni alternative, in cui si genera benessere sociale per una vita a minore impatto sull’ambiente con uno stile di vita solidale», continua Guidotti, che ha cofondato l’ecovillaggio La Torre di Mezzo, in Toscana. Nel caso dei villaggi ecologici l’asse portante si sposta dal Nord verso il Centro Italia: Torri Superiore vicino a Ventimiglia, Bagnaia nei pressi di Siena, Tempo di Vivere e Lumen a Piacenza, Alvador a Reggio Emilia, La città della Luce ad Ancona sono alcuni dei nomi da conoscere per capire.

Si può fare

Entrando nelle case e conoscendo chi vive realtà di coabitazione, una cosa risulta chiara: è una scelta che si può fare, alla portata di gran parte di noi. Bisogna volerlo, certo. «La base è accorgersi dell’altro. Ancora di più in tempi di costrizione come quelli attuali», riflette Nicholas Bawtree. «Ognuno di noi può essere una risposta a un bisogno altrui, dobbiamo andare in profondità nel “deep web” dell’essere umano per vedere l’altro non come entità minacciosa, ma come risorsa per stare meglio noi stessi». Con un consiglio finale. «Diciamo più spesso buongiorno e buonasera a chi incontriamo in strada, soprattutto ora che abbiamo le mascherine: sciogliamo la tensione salutandoci, è davvero un toccasana». Anche questo è un approccio comunitario alla vita.

Daniele Biella

  




Ribelli, mercenari ed eserciti

testo di Marco Bello |


Pare strano che uno dei paesi più poveri dell’Africa sia di tanto interesse per potenze mondiali e continentali. Il conflitto che dura dal 2013 e si sta riattizzando, sotto forme diverse, suscita non pochi interrogativi. La risposta, come sempre, sta nel sottosuolo.

«La gente è demoralizzata. La cosa più brutta è che manca la speranza», ci racconta una nostra fonte da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, che richiede l’anonimato.

Nel grande paese nel cuore dell’Africa (esteso due volte l’Italia, con 5 milioni di abitanti), senza sbocchi sul mare, negli ultimi mesi da sotto le ceneri di una mai spenta guerra civile, è venuta una fiammata.

Tutto è iniziato a metà dicembre 2020, quando sei gruppi ribelli, attori del conflitto che ha insanguinato il paese tra il 2013 e il 2018, sono tornati allo scoperto uniti sotto il nome di Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc) e ha attaccato l’esercito regolare, le Faca (Forze armate centro africane), prendendo il controllo di diverse città. Si dice che siano arrivati a controllare i due terzi del paese. È stata la ripresa della guerra,che, dopo gli accordi di Karthoum del 2019 tra governo e alcune fazioni ribelli, si era placata, lasciando di fatto irrisolti molti problemi.

«Una mossa che in qualche modo ci si aspettava con l’approssimarsi delle elezioni», rivela la nostra fonte. Il 27 dicembre scorso, si è infatti tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative. Elezioni perturbate appunto dagli attacchi della Coalizione in diverse zone del paese. Il 14 marzo, poi si è svolto il secondo turno delle legislative, ma anche il recupero del primo turno nei seggi dove non era stato possibile votare. Le presidenziali, invece, avevano già dato un risultato al primo turno, con la rielezione del presidente Faustin-Archange Touadéra, in carica da cinque anni, con quasi il 54% dei voti.

La rinascita dei ribelli

Ma chi sono questi ribelli? Come sono organizzati? Chi li arma? E quali sono le altre forze in campo?

Nella Coalizione si assiste a un «matrimonio contro natura», commenta la nostra fonte, in quanto si trovano gli anti Balaka con gli ex Séléka, feroci avversari negli anni 2013-2018. Inoltre a metà marzo la Coalizione ha chiesto al generale François Bozizé, di diventare il suo coordinatore, e lui ha accettato. Bozizé, presidente dal 2003 al 2013, che era stato cacciato dal potere proprio dai Séléka.

La nostra fonte mette in evidenza alcune anomalie dell’attuale ribellione: «I ribelli di oggi sembrano diversi da quelli del periodo precedente. Sono bene armati e organizzati. Non compiono saccheggi efferati come facevano prima. Sembra che ci sia qualche finanziamento dietro. Questo è un primo elemento». Inoltre, continua, «la coalizione nasce contro il presidente Touadéra, però ha disturbato le elezioni in zone del paese dove questi difficilmente avrebbe vinto. Anche questo elemento è strano».

I ribelli, intorno al 20 dicembre, oltre a conquistare diverse città, hanno pure bloccato la Rn3, strada principale che collega Bangui con il Camerun, e quindi con lo sbocco sul mare, il porto di Douala, e il resto del mondo. Tutte le merci principali, compresi i beni di prima necessità, arrivano nel paese attraverso la Rn3, che passa da Bossembélé, Baoro, Bouar. «È il cordone ombelicale del paese, ed è rimasto bloccato due mesi. Così i prezzi in capitale e nel resto del paese sono aumentati», ci racconta padre Federico Trinchero, delegato provinciale dei Carmelitani Scalzi in Rca, raggiunto telefonicamente a Bangui.

Intorno al 13 gennaio i ribelli hanno attaccato Bangui, e sono stati a un passo dal conquistarla. «C’è stato un tentativo, che però non ha convinto nessuno, di prendere la capitale. È sembrata una finta. Erano pochi e male organizzati, al contrario del solito. Un altro elemento quanto meno strano». La nostra fonte sembra quasi ipotizzare degli accordi segreti tra ribelli e presidente.

Il Presidente Faustin-Archange Touadera (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Nuovi alleati

La mossa del presidente Touadéra, già a dicembre, è stata quella di chiedere aiuto a due alleati fondamentali e insoliti per un paese da sempre «feudo» della Francia: il Rwanda di Paul Kagame e la Russia di Vladimir Putin.

Il Rwanda era già presente nel paese con un contingente nella Minusca (i caschi blu dell’Onu), per la quale, tra l’altro, fornisce il numero più elevato di uomini (1.686, dato di agosto 2020), ma ha prontamente schierato militari sotto i colori nazionali, circa 800 uomini ben armati e addestrati. «Il Rwanda da tempo aveva interesse a estendere la sua zona d’influenza in un paese ricco di oro e diamanti come la Rca», e si sa, il piccolo Rwanda è uno dei maggiori esportatori di minerali e preziosi (oro, coltan, ecc.), sottratti a paesi terzi (in particolare la Repubblica democratica del Congo).

I russi invece sono presenti in Rca con mercenari, o paramilitari, una milizia privata, assimilabile alla Wagner, compagnia militare privata, che avrebbe legami diretti con il ministero della Difesa russo, e che è stata impiegata in Siria e in Ucraina. Ufficialmente, l’ambasciatore Vladimir Titorenko, in un’intervista rilasciata a Radio France internationale, li chiama «istruttori», al servizio del ministero della Difesa russo, che in nessuno caso sono coinvolti in scontri armati. Chi li ha visti in azione dice che sono piccoli gruppi di militari esperti, sui 35-40 anni, che non stanno nelle caserme, ma si mischiano con la gente, occupando delle case vuote, dove stabiliscono le loro basi. Sono ben armati, forniti di risorse economiche, «pieni di dollari», e affiancano le truppe della Faca in operazioni di combattimento. L’ambasciatore conferma un incremento di 300 unità sulle 235 già presenti nel paese e pure quattro elicotteri da combattimento.

Grazie a questi potenti alleati, le Faca hanno potuto respingere i ribelli della Coalizione, riconquistando città dopo città, a partire da fine gennaio. «In effetti i ribelli si sono ritirati mano a mano che gli altri risalivano. Il problema è che non si è fatta pulizia, queste milizie si sono solo spostate», dice la fonte. In questo modo però è stata liberata anche la strada verso il Camerun, il 22 febbraio, e i camion hanno ripreso a circolare.

Ma la gente ha paura, i ribelli sono nelle campagne. «Nella nostra scuola di Baoro, gli alunni sono passati da 1.700 a 800, perché i genitori non vogliono mandarli. L’ospedale nei pressi di Bouar è inattivo, perché il personale e i pazienti non si fidano ad andarci», ci dice padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano a Bouar.

Bangui, durante le elezioni del dicembre 2020 (Photo by Nacer Talel / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Caschi «blu stinto»

Poi c’è la missione delle Nazioni Unite in Rca (Minusca), presente nel paese dal 2014, una delle tre più grandi missioni Onu al mondo. Oggi può contare su circa 13.200 effettivi (di cui 10.800 militari, gli altri polizia e staff tecnico) e ha recentemente chiesto e ottenuto dal Consiglio di sicurezza un aumento di 3.700 unità. Le loro regole d’ingaggio non prevedono di attaccare il nemico, ma di rendere sicuro il processo elettorale.

La gente li accusa di immobilismo. «I ribelli sanno che i militari Minusca non possono andare oltre un raggio di cinque chilometri dalla loro postazione, per cui mettono il posto di blocco per fermare la gente a sei, e fanno quello che vogliono. Molti pensano che la richiesta di aumento sia una vergogna, perché aumenteranno le spese, ma continueranno a non fare niente».

Le vittime dei recenti scontri sono soprattutto i civili, di cui si contano circa 200mila profughi. La metà sono sfollati interni, secondo l’Ocha (Organizzazione delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario). Circa 105mila si trovano invece in Rdc, Ciad, Camerun e Congo.

Il primo ministro Firmin Ngrebada (al centro)  saluta la truppe mentre un elicottero russo vola sopra. (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Cuori uniti

Il presidente Touadéra non è molto amato dalla popolazione: «In cinque anni non ha fatto granché – dice la nostra fonte -. Adesso è stato rieletto con poco più di 300mila voti, ovvero meno del 20% degli aventi diritto. Questo ci dice che è una presidenza debole e che la situazione non è per nulla stabile, potrebbero esserci recriminazioni».

Anche le legislative non sono state tanto favorevoli al partito del presidente, il Mcu (Movimento cuori uniti) che, pur restando maggioritario, è inseguito da indipendenti e opposizione. Anche il 14 marzo, in diverse zone del paese non si è potuto votare, ma l’Autorità nazionale elettorale ha assicurato che il 96% dei seggi è stato aperto.

Il maggiore concorrente di Touadéra, arrivato secondo alle presidenziali, è Anicet-Georges Dologuélé. È stato rieletto all’Assemblea nazionale, ma non brilla per iniziativa. «Le opposizioni, in particolare Dologuélé, hanno molto deluso. Non hanno reagito in tempo, avrebbero potuto creare delle alleanze, negoziare qualcosa di politico, ma non sono state all’altezza», sostiene la nostra fonte.

Secondo padre Federico: «Al contrario che nel 2013, nei recenti scontri non c’è l’elemento confessionale. Il tentativo di destabilizzare il paese è solo una guerra per il potere, quelli che erano nemici sono diventati alleati, uniti per prendere il potere». E continua: «Abbiamo passato due mesi nei quali la gente era disperata, se ci fosse stato un colpo di stato, saremmo tornati al punto di partenza. Adesso, dopo la controffensiva di regolari e alleati, la gente reagisce e cerca di riprendere le proprie attività».

Marco Bello


Intervista al cardinale Dieudonné Nzapalainga

L’instancabile ricerca della pace

Il giovane cardinale del Centrafrica percorre senza sosta il paese. Spesso con i «colleghi» musulmani e protestanti. Vuole parlare al cuore e alla coscienza. Perché crede fermamente che una uova società si possa costruire. Ma solo con l’impegno e la partecipazione di tutti.

Abbiamo contattato telefonicamente il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, per chiedergli il suo punto di vista sulla ripresa della guerra. Monsignor Nzapalainga è anche un religioso della Congregazione dello Spirito Santo.

Cardinale, quali sono i maggiori problemi della Rca oggi?

«Il problema più importante è il raggiungimento della pace, perché quando c’è insicurezza, i bambini non vanno a scuola, i genitori non possono lavorare nel campo, la gente vive nascosta.

Affinché ci sia la pace occorre che i dirigenti si riuniscano, inizi un dialogo, e chi combatte riprenda a fare il lavoro che faceva prima di pensare che prendendo le armi si può diventare ricchi, distruggendo, saccheggiando. La pace inizia nel cuore di ognuno».

Lei sta percorrendo il paese per incontrare la gente.

«Sono appena rientrato da un’area di campagna, dove ho chiesto alla gente cosa è successo alla loro vita. Mi hanno spiegato dell’arrivo dei ribelli, di cosa hanno fatto, poi dell’arrivo dei regolari. Ho chiesto a tutti come potremmo ripartire, imparando da quanto è successo.

Quando sono andato a Banagassou ho parlato con i ribelli. Li ho incontrati, ho chiesto loro da dove venivano, e perché erano venuti qui e a fare cosa. All’inizio erano nervosi.

Quando si va a cercare la pace occorre farsi piccoli. Io e il mio gruppo abbiamo camminato per due chilometri e mezzo per incontrarli. Poi abbiamo aspettato che ci ricevessero. Hanno sparato in aria, ma io ho detto che se avessimo avuto paura, e fatto dietro front, non avremmo potuto costruire la pace. Forse era il modo per darci il benvenuto. Finalmente ci hanno ricevuto e abbiamo parlato con un generale e alcuni suoi collaboratori. Noi pensiamo che siano il nemico, il diavolo, ma bisogna andare a incontrarli, parlare con loro, alle loro coscienze, mendicare la fraternità e l’abbandono delle armi, affinché tutto torni normale.

Poi ci hanno detto che erano venuti a difendere il paese ed erano pronti a morire per esso. Ho chiesto al generale se aveva una madre, mogle e figli, e mi ha risposto di sì. Ho detto che loro non hanno chiesto di essere vedova, orfani. È una questione di responsabilità. Ho anche detto loro che il villaggio si era svuotato, la gente dormiva dispersa all’addiaccio, senza sicurezza, e che non è così che possiamo costruire un paese.

Andando via un giovane ufficiale mi ha accompagnato, e, in disparte, mi ha detto che le mie parole lo avevano toccato, che voleva lasciare il gruppo, che però lo avrebbero ucciso.

Ho poi saputo che tre giorni dopo la nostra visita, i ribelli hanno lasciato la posizione. Questo vuol dire che un cammino di pace è iniziato».

Ma come fare per mettere tutti d’accordo?

«Come in tutto il mondo, non possono esserci due capitani sulla stessa nave. Oggi abbiamo un presidente, si aspetta la fine del suo mandato, e si fanno altre elezioni. Ma se vogliamo cacciarlo con le armi, domani verrà un altro che le userà per mandare via noi. Bisogna che tutti accettino di deporre le armi e tornino alle proprie occupazioni. Quando vedo questi giovani armati, cerco di parlare ai loro cuori, alle loro coscienze».

In generale qual è dunque il ruolo della Chiesa?

«È fare mediazione, perché Dio unisce, mette insieme, e così dobbiamo fare noi. Il ruolo della Chiesa è anche asciugare le lacrime, perché ci sono delle vittime. Gente che ha perso tutto, può avere l’istinto della collera, dell’odio. Noi dobbiamo dire loro che Dio non li ha abbandonati, e non devono cadere nel circolo vizioso della violenza. C’è impunità, ma ci deve essere giustizia. Chi ha sbagliato deve essere fermato, occorre spiegargli che ciò non è bene.

In Rca c’è la Piattaforma delle confessioni religiose, della quale fanno parte musulmani, protestanti e cattolici. Quando riusciamo, andiamo a fare le visite insieme, io, un imam e un pastore. Se ad esempio un ribelle musulmano dice: “Il vostro ruolo è pregare Dio, perché vi immischiate in politica?”. L’imam  cita un versetto del Corano nel quale si dice che i fedeli che soffrono e sono divisi, sono figli di Dio e il sacro libro domanda loro di unirsi, dialogare, trovare soluzioni. Questa è una citazione che io non potrei fare. È insieme che cerchiamo il cammino per la pace, non ci sono riferimenti solo nella Bibbia. Insieme costruiremo la nostra società».

Il presidente Touadéra e il suo governo stanno cercando la pace?

«Sì, lo abbiamo incoraggiato a cercare la pace. Io sono andato con altri vescovi a parlargli, dicendo: anche se avete vinto la guerra, occorre fare la pace con il nemico, altrimenti chi ha perso si preparerà per vendicarsi. Abbiamo piuttosto interesse a integrare tutti, affinché ognuno abbia il suo posto e si costruisca il paese insieme. L’aspetto militare non basta, occorre anche quello politico. Noi parliamo con i ribelli e parliamo con il governo. Interpelliamo anche la comunità internazionale».

E a livello internazionale, la missione dei caschi blu cosa fa?

«Vengono da tanti paesi, è difficile metterli tutti insieme. Hanno un ruolo di interposizione, non devono sparare. Ci sono cose che funzionano, ma anche dei limiti, bisogna avere il coraggio di dirlo. La loro presenza permette di proteggere la gente, ma per contro sono passivi, quando ci sono conflitti non intervengono e la popolazione non capisce perché siano venuti così armati se poi non possono difenderli dagli attacchi».

In Centrafrica che misure sono state prese per la pandemia da Covid-19?

«Le autorità hanno preso delle misure, ma posso dire che qui c’è la mano di Dio. Qui ci sono state sensibilizzazioni che non hanno portato la gente a usare le mascherine, eppure le vittime sono state poche. Così la gente ha iniziato a dire che la malattia non è qui».

Cardinale Nzapalainga, secondo lei cosa impedisce che la guerra finisca?

«In Centrafrica non si fabbricano le armi, c’è qualcuno che le vende e si arricchisce. Vengono qui per comprare in modo illecito diamanti, oro e altri preziosi. Questi trafficanti non vogliono che la guerra finisca. Per via normale dovrebbero pagare concessioni, rendere conto del loro operato. Ma vogliono andare direttamente dai produttori. Occorre combattere questo traffico».

Marco Bello


Archivio MC

● F. Trinchero, Solo Dio può salvare il Centrafrica, agosto 2018.
● F. Trinchero, M. Bello, S. Turrin, Il convento dei rifugiati, luglio 2014.
● Marco Bello, Il cuore (malato) del continente, ottobre 2013.

Soldati del Minusca in un villaggio vicino a Bangui (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)




Se l’acqua dipende dai «futures»

testo di Francesco Gesualdi |


I «futures» sono scommesse di borsa per speculare sulle variazioni di prezzo di una merce. Un’idea (perversa) di quell’economia finanziaria che ora ha preso di mira anche l’acqua, cioè un bene e un diritto essenziale.

Si sono aperte le scommesse anche sul prezzo dell’acqua. Si tratta di una minaccia non solo economica, ma pure politica. Al momento succede solo negli Stati Uniti per iniziativa della Chicago mercantile exchange (Cme), la più potente società mondiale specializzata nell’intermediazione di prodotti finanziari connessi alle commodities: minerali, prodotti agricoli, prodotti energetici e ora anche l’acqua. Oltre a innumerevoli piattaforme informatiche, il gruppo Cme gestisce quattro borse valori di dimensione internazionale: due a Chicago e due a New York. Il compito di Cme è fare incontrare ogni giorno milioni di attori interessati a stipulare contratti di acquisto o di vendita con consegna a data futura secondo prezzi concordati nel tempo presente. Operazioni spesso svolte senza l’interesse reale a vendere o comprare ciò che è stato pattuito, ma con la speranza di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo che, secondo le proprie previsioni, dovrebbero intervenire fra il momento della firma e la consegna. Genericamente tali contratti vanno sotto il nome di futures, alla lettera «futuri».

Contrattazioni

I futures nacquero a metà Ottocento assieme alla borsa di Chicago, lo spazio mercantile creato per favorire lo scambio di derrate agricole. Un luogo di contrattazione di livello nazionale dove i grandi produttori agricoli potevano incontrare i grandi mercanti di derrate alimentari per concludere accordi di compravendita.

Inizialmente si trattava di un mercato spot, un luogo cioè in cui si trattavano quantità fisiche giacenti nei magazzini. Potevano essere sacchi di grano, di mais, di riso, di zucchero, che gli acquirenti si sarebbero portati via una volta concluso l’accordo. Ma, andando avanti, subentrò anche l’abitudine di avviare contrattazioni su quantità ancora da raccogliere. Forse per interesse di entrambe le parti: di chi comprava per garantirsi la continuità delle forniture e di chi vendeva per avere la certezza che i suoi raccolti sarebbero stati venduti. Ma anche per avere garanzie rispetto ai prezzi. In fondo l’agricoltura è sempre piena di incognite: basta una pioggia in più o in meno, lo sviluppo di insetti di un tipo o di un altro e si può avere un raccolto scarso o abbondante con inevitabili ripercussioni sul prezzo: in crescita se i raccolti sono scarsi, in diminuzione se sono abbondanti. Comprare in anticipo a prezzo prefissato mette entrambe le parti al sicuro, anche se qualora dovessero intervenire variazioni importanti, una delle parti contraenti si mangerà le mani per la perdita potenziale subita, l’altra se le fregherà per lo scampato pericolo.

Sia come sia, i futures si affermarono così tanto che vennero addirittura accettati dalle banche come forme di garanzia per i prestiti che concedevano. In fondo se si trattava di futures di vendita la banca aveva la garanzia che, alla data prestabilita, sarebbe arrivato del denaro. Se si trattava di un future di acquisto la banca aveva la garanzia che sarebbe arrivato un carico di raccolto. Ma il vero elemento di novità che venne avanti con l’affermarsi dei futures fu l’entrata in campo degli speculatori, soggetti che non sono interessati a comprare e vendere nessun tipo di merce, ma solo a scommettere sull’andamento del suo prezzo in modo da guadagnare nel caso si sia visto giusto. Tradizionalmente le scommesse si fanno rispetto a delle gare, siano esse sportive, politiche, o di altro tipo, ed hanno come parti lo scommettitore e il botteghino che tiene il banco. Lo scommettitore punta una certa somma sulla vittoria di un giocatore e, in caso di successo, il banco si impegna a restituire la somma versata maggiorata di un premio. In caso di sconfitta, lo scommettitore perde tutto a vantaggio del botteghino.

L’acqua non è una merce da contrattare alla Borsa valori. Foto Gerd Altmann-Pixabay.

Scommesse dannose

Le scommesse attuate nell’ambito della speculazione finanziaria funzionano diversamente. Per cominciare, il rapporto si tiene fra due soggetti e si concretizza tramite un contratto di compravendita a consegna futura. L’abilità delle due parti sta nella capacità di indovinare come si muoverà il prezzo e, a seconda delle proprie previsioni, collocarsi nella posizione di compratore o di venditore. Chi avrà visto giusto guadagnerà, chi avrà visto sbagliato perderà. Per una migliore comprensione del meccanismo si vedano i semplici esempi contenuti nel box qui a sinistra.

La scommessa è una forma di gioco d’azzardo altamente discutibile da un punto di vista morale e sicuramente dannosa da un punto di vista umano e sociale. Ma quando si viene alla speculazione finanziaria, molti pensano che possiamo disinteressarcene perché riguarda solo i ricchi. Della serie: che si derubino pure fra loro, tanto noi non ne siamo toccati. Ma non è così. Le conseguenze delle scommesse realizzate tramite futures difficilmente rimangono confinate alle due parti contraenti, molto più spesso ricadono su tutti perché alcuni soggetti finanziari hanno una tale potenza di fuoco da poter spingere, con le proprie scelte, i prezzi nella direzione voluta. Così i mercati finanziari determinano le sorti dell’economia reale. Varie volte in passato i prezzi del petrolio hanno subìto bruschi rialzi o ribassi a causa delle scelte effettuate dagli speculatori. Lo stesso dicasi per il caffè, un settore che ogni anno vede la stipula di contratti a scopo puramente finanziario per volumi di merci anche venti volte più alti di quelli stipulati a scopo commerciale. Con somma gioia di chi gestisce le borse perché l’attività di intermediazione rende bene: complessivamente nel 2019 Cme ha registrato una media quotidiana di 19 milioni di contratti che le hanno procurato commissioni per quasi cinque miliardi di dollari. Detratte le spese e le tasse, i suoi azionisti, principalmente fondi di investimento come Capital Research & Management, Vanguard, BlackRock, si sono spartiti profitti per oltre due miliardi di dollari.

Penuria e tariffe

L’idea di promuovere i futures sull’acqua, a Cme è venuta in mente osservando la penuria di acqua che, da qualche tempo, colpisce la California. Uno dei periodi di maggior siccità è stato quello fra il 2012 e il 2016, durante il quale molte parti della Central Valley sono sprofondate anche di 60 centimetri come risultato della scarsità di piogge e della sete insaziabile di acqua da parte degli agricoltori. Per decenni le aziende agricole hanno pompato acqua in maniera indiscriminata fino a provocare un tale abbassamento delle falde acquifere da fare sprofondare strade, ponti, edifici. Ora lo stato della California ha deciso di proteggere i suoi acquiferi tramite una tripla strategia: migliore irreggimentazione delle acque piovane, limiti ai prelievi da parte dei pozzi privati, aumento dei prezzi applicati sull’acqua prelevata dai corsi d’acqua superficiali. Il tutto tenendo presente che anche negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, le acque di fiumi e laghi sono gestiti da autorità pubbliche che però consentono, a chi ne fa richiesta, di prelevare acqua in cambio di una concessione a pagamento. Solitamente le richieste sono avanzate da imprese (siano esse pubbliche o private) che gestiscono i servizi idrici urbani, da industrie e centrali elettriche o anche da aziende private che poi rivendono l’acqua agli agricoltori a scopo irriguo. In California, la tariffa di concessione per il prelievo di acqua è passata approssimativamente da 224 dollari ogni mille metri cubi, nel 2009, a 446 nel 2015. E, dopo alcuni mesi di retrocessione, nel luglio 2020 la tariffa è tornata a impennarsi raggiungendo 703 dollari ogni mille metri cubi.

L’acqua è un diritto

Un andamento che ha attirato l’attenzione degli esperti finanziari di Cme i quali si sono convinti che l’acqua è ormai entrata in una fase di scarsità che la destina a un aumento costante del prezzo, seppur con lievi contrazioni transitorie interpretabili come le classiche eccezioni che confermano la regola. E sono giunti alla conclusione che i tempi erano maturi per avviare un mercato dei futures dedicato all’acqua, perché quando i prezzi si fanno instabili, emergono due gruppi di attori che si rivolgono al mercato dei futures: le aziende commerciali in cerca di meccanismi di stabilità e gli speculatori che sperano di guadagnare dai prezzi in movimento.

Così nel dicembre 2020 Cme ha inaugurato il mercato dei futures per l’acqua. Ma l’iniziativa non è piaciuta a tutti. Fra i critici Pedro Arrojo-Agudo, rappresentante speciale della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con delega particolare all’attuazione del diritto all’acqua potabile. In una nota dell’11 dicembre afferma con forza che «l’acqua non si può quotare a Wall Street alla stregua dell’oro o del rame. L’acqua è di tutti, è un bene comune. È direttamente connessa alle nostre vite e al nostro benessere». E ha continuato: «Sul mercato dei futures operano anche banche e fondi speculativi che usano i futures come strumento di scommessa. Se il loro interesse dovesse essere quello di spingere il prezzo dell’acqua sempre più su, si assisterebbe a una bolla speculativa come si ebbe nel mercato dei cereali nel 2008. Se dovesse succedere, milioni di famiglie e di piccoli agricoltori perderebbero l’accesso ad un diritto fondamentale come l’acqua».

Non è una merce

L’iniziativa di Cme minaccia l’acqua come diritto non solo per le ripercussioni economiche, ma anche per quelle culturali e politiche. Visto da questo punto di vista, il mercato dei futures è un altro tassello aggiunto al castello delle privatizzazioni, affinché pezzo dopo pezzo ci abituiamo a considerare l’acqua una merce qualsiasi da fare gestire al mercato. Tanto più che il mercato si presenta come il migliore gestore delle risorse scarse. E qui scopriamo che oltre all’inganno c’è anche la beffa perché lo stato di crisi profonda in cui si trova l’acqua non è dovuto solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovra sfruttamento e all’inquinamento che ha reso l’acqua inservibile. L’acqua, insomma, è una delle tante vittime di una concezione economica che dando valore solo a ciò che ha prezzo, maltratta tutto ciò che è comune semplicemente perché è gratuito. Ma, ciliegina sulla torta, dopo aver trasformato le risorse abbondanti in risorse scarse, il mercato pretende di essere lui a gestirle, sostenendo di essere l’unico a disporre dei mezzi per farlo. Il mezzo è quello del prezzo, altamente classista, perché dà non a chi ha bisogno, ma a chi ha denaro da spendere. L’unica alternativa possibile è quella di papa Francesco che, al punto 158 della Laudato si’, scrive: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante ingiustizie e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

 Francesco Gesualdi




Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




I Perdenti 61. Salvo D’Acquisto, donare la vita

 

testo di don Mario Bandera |


Dopo le convulse settimane che fecero seguito all’8 settembre 1943, periodo nel quale la macchina bellica italiana si sfasciò, prima ancora che il paese potesse riprendersi dal collasso, uomini e donne dal carattere nobile seppero trovare nelle loro coscienze e nelle loro qualità di fondo le forze che permisero al nostro paese di risollevarsi e di guardare con fiducia al futuro. In questo contesto, il giovane vicebrigadiere Salvo D’Acquisto fu capace di assumere il ruolo gigantesco e pur umile di un martire cristiano. Per capire meglio la vicenda di questo giovane bisogna ricostruire l’episodio accaduto il 23 settembre di quell’anno a Palidoro, una località sulla costa tirrenica a pochi chilometri da Roma. Truppe naziste avevano occupato la zona e un reparto di paracadutisti tedeschi della 2ª Fallschirmjäger-Division (2ª divisione cacciatori) era accasermato presso alcune vecchie postazioni già in uso alla Guardia di Finanza nelle vicinanze della località Torre Perla di Palidoro.

Qui, nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1943, alcuni di loro, mentre ispezionavano l’antica torre saracena in riva al mare, usata dalla Finanza come deposito di materiale illegale sequestrato ai pescatori, furono investiti da un’esplosione, probabilmente causata da un ordigno rudimentale usato da pescatori di frodo, a suo tempo sequestrato dai finanzieri. Due paracadutisti morirono e altri due rimasero feriti.

Quel che realmente accadde non si conosce ancora con precisione, ma certo la reazione dei soldati fu immediata e dura, pensando a un attacco di partigiani.

Salvo, com’era la situazione generale in quel momento?

Nella zona, abitata prevalentemente da gente impoverita dalla guerra, non operavano gruppi partigiani. A Torrimpietra si tirava avanti con fatica, tanto che io stesso avevo spesso condiviso le razioni della caserma con i più poveri.

Che ci faceva un napoletano come te in quella zona?

Nato nel ‘20, ero cresciuto nel quartiere del Vomero. Avevo cercato di studiare, partecipavo alla vita della parrocchia e mi piaceva cantare, ma presto avevo dovuto cominciare a lavorare con un mio zio. Quando a 18 anni ho ricevuto la cartolina di leva, ho scelto di entrare nei carabinieri, come già diversi miei parenti avevano fatto. Entrato nel ’39, nel 1940 mi hanno mandato con il mio reparto in Libia, dove sono anche stato ferito a una gamba. Rientrato nel 1942, a settembre ho frequentato il corso accelerato per allievi ufficiali a Firenze e ne sono uscito come vicebrigadiere. Ho chiesto io stesso di essere mandato in una stazione di periferia per essere più vicino ai poveri. Mi hanno mandato a Torrimpietra, non lontano da Fiumicino. In breve avevo conosciuto quasi tutti. Poi è successo quel terribile incidente.

Dopo la morte dei soldati, che accadde?

Quel 22 settembre 1943, la sera tardi, dopo lo scoppio della bomba, poiché i soldati non parlavano italiano, hanno cercato del personale della polizia italiana per fare le indagini e trovare i colpevoli. A Palidoro non c’era la stazione dei Carabinieri, il comando più vicino era a Torrimpietra. Là mi hanno prelevato, perché al momento ero il militare più alto di grado in quanto il maresciallo comandante era assente.

Cosa hai fatto, allora?

Pressato dal comandante tedesco, che mi aveva dato tempo solo fino al mattino, ho provato a fare delle ricerche per capire cosa fosse successo, ed è apparso subito chiaro che si era trattato di un incidente e non di un attentato. Ma il comandante dei parà tedeschi non ne volle sapere. Era un tipo che aveva già usato violenza sulla gente in altri luoghi e voleva un colpevole a tutti i costi. Ha quindi scatenato i suoi che hanno prelevato 22 ostaggi tra la popolazione della borgata, assolutamente presi a caso. Tra loro, nella retata, c’erano perfino un venditore ambulante e un commerciante di Santa Marinella che passavano casualmente in quel momento sull’Aurelia.

Quindi, ti venne ordinato di individuare tra i prigionieri l’autore dell’attentato.

Dopo aver interrogato gli ostaggi, cercai in tutti i modi di far capire al comandante tedesco che nessuno di loro poteva essere un attentatore, perché era chiaro che era stato un incidente. La loro risposta fu rabbiosa. Mi presero a pugni e a calci, lasciandomi svenuto sul pavimento. Mi ripresi qualche momento dopo, in tempo per ascoltare questa affermazione urlata da un ufficiale nazista: «Se il colpevole non salta fuori, morirete tutti».

Quindi, portarono via gli ostaggi?

Anch’io fui costretto a salire sul camion con loro. Ci portarono ai piedi della Torre di Palidoro. Sulla sabbia erano già piantate, rigorosamente in fila, cinque vanghe di modello militare; dietro di esse un drappello di soldati con i mitra imbracciati. Dovevamo scavarci la fossa.

Condannati senza nemmeno un processo?

No, ci fu una farsa di processo: l’ufficiale passò davanti a tutti noi ostaggi ben allineati, e a ciascuno domandò se fosse l’autore dell’attentato. Ottenne evidentemente una serie di «no» terrorizzati. Dopo questa parodia, l’ufficiale nazista tracciò una lunga riga sulla sabbia col frustino e disse: «Va bene, scavatevi la fossa».

© Report Difesa

Il lavoro di scavo durò quel tanto da far maturare nella coscienza di Salvo D’Acquisto la sua decisione. D’Acquisto aveva quasi 23 anni, ma era già una personalità decisa, anche se «prima» appariva perfino timido e incolore.
Fece chiamare l’ufficiale e si proclamò autore dell’attentato e unico responsabile di tutto. Quindi, Salvo ebbe appena il tempo di gridare «Viva l’Italia», e una raffica di mitragliatore lo colpì. Il suo corpo cadde senza vita nella fossa già scavata. Un ufficiale si chinò sulla vittima e sparò il colpo di grazia alla testa del giovane; alcuni soldati tedeschi poi coprirono con terra e sabbia il cadavere.

Il suo corpo rimase sepolto lì per una decina di giorni, poi due donne della zona lo dissotterrarono e gli diedero degna sepoltura presso il cimitero di Palidoro.

L’autoaccusa di Salvo D’Acquisto è stata considerata un grande atto di eroismo che gli è valsa una medaglia d’oro al valor militare e il processo di canonizzazione iniziato nel 1983. Le sue spoglie, riportate a Napoli nel 1947 e tumulate presso il sacrario militare di Posillipo, si trovano oggi nella basilica di santa Chiara a Napoli.

Don Mario Bandera

 


Diventerà davvero beato?

 

Una risposta possibile da questi passaggi tratti da articoli di due giornali cattolici (il testo completo è reperibile online).

 

Sin qui dunque l’eroe. Per giunta l’eroe morto disarmato invece che con le armi in pugno. E il santo? La questione della santità? Il 23 settembre 1983, quarantesimo anniversario della morte, l’allora ordinario militare Gaetano Bonicelli disse: «Salvo D’Acquisto ha fatto il suo dovere in grado eroico, ben oltre quello che il regolamento gli chiedeva. Ma perché l’ha fatto? Forse, in quel momento tragico, gli sono risuonate nel cuore le parole di Cristo: “Non c’è amore più grande che dare la vita per chi si ama”. Ma anche se la memoria del testo evangelico non l’ha aiutato, la forte educazione cristiana ricevuta in famiglia e nella scuola gli ha fatto cogliere l’essenziale del Vangelo». Parole con le quali il presule avviava la causa di canonizzazione di quel giovane autore di un gesto da martire che, come afferma oggi anche il fratello Alessandro, ebbe certo presente l’onore dell’Arma, la fedeltà alla patria, ma pure si abbandonò a Dio che quel «giorno di amore supremo» attinse in un campo dove aveva seminato. Una semina iniziata in famiglia, nelle scuole e negli ambienti religiosi delle Figlie di Maria Ausiliatrice, poi dei Gesuiti e dei Salesiani, frequentati sin dall’infanzia e dall’adolescenza. Dove affiora la prima educazione, non sfuggita nella documentazione per la causa di beatificazione svoltasi presso l’Ordinariato militare d’Italia, con un supplemento d’inchiesta nella diocesi di Napoli, dal 1983 al 1991, mentre nel 1999 si è resa necessaria una nuova inchiesta per indagare la possibilità del martirio (come per Massimiliano Kolbe). […]

Di lui, le cui spoglie riposano nella basilica di santa Chiara a Napoli dal 1986, resta in ogni caso la sintesi fatta da Giovanni Paolo II: «Ha saputo testimoniare la fedeltà a Cristo e ai fratelli. Ecco perché può definirsi un santo che ha contribuito per costruire la civiltà dell’amore e della verità».

Marco Roncalli
da Avvenire 14/10/2020

 

Dopo un rallentamento, sembra che la causa di beatificazione per «offerta della vita» abbia ripreso slancio. Mons. Gabriele Teti, postulatore della causa ed ex carabiniere, racconta che Salvo «a Roma incontrò un amico con il quale aveva fatto il corso da carabiniere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ci fu un grosso gruppo di Carabinieri che passò alla clandestinità, per combattere i tedeschi a Roma. un commilitone lo invitò a lasciare la divisa per unirsi ai partigiani. Rispose che il suo dovere era tutelare l’ordine, la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli erano state affidate e che il suo compito non era di andare via». Salvo era nato e cresciuto in una famiglia molto religiosa. Confida il postulatore: «Già nell’infanzia piccoli episodi fanno capire la sua indole. Tornando da scuola, donò le sue scarpe a un bambino che incontrava e che era scalzo. Un’altra volta si avventò a salvare un bambino che stava per finire sotto un treno». La causa di beatificazione si è arenata sul problema del martirio. Ora il sacrificio di Salvo rientra più facilmente nella categoria «offerta della vita», criterio introdotto da Papa Francesco l’11 luglio 2017 con il motuproprio Maiorem hac dilectionem: «Sono degni di speciale considerazione e onore quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri e hanno perseverato fino alla morte in questo proposito. L’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità, esprime una vera, piena ed esemplare imitazione di Cristo ed è meritevole di quella ammirazione che la comunità dei fedeli è solita riservare a coloro che volontariamente hanno accettato il martirio di sangue o hanno esercitato in grado eroico le virtù cristiane». Il «dono della vita» è simile ma non uguale al martirio.

Pier Giuseppe Accornero
da La Voce e Il Tempo, 19/10/2020




Il tempo del vento

testo di Luca Losusso |


Questo è il tempo di un nuovo patto d’amore. È il tempo delle primizie del raccolto, del rinnovo dell’alleanza tra te e il tuo Dio, riscritto con il vento sul tuo cuore, e non più con il dito sulla pietra.
Oggi è il tempo nel quale lo Spirito si mette in ascolto della tua vita. Più intimo a te di te stesso, Lui abita in te, opera insieme a te, prega con te, attesta che sei figlio di Dio, e che, se sei figlio, sei anche erede, coerede di Cristo, suo fratello (cfr Rom 8). Non erede di oggetti lasciati da un morto, ma di vita trasmessa dal Vivente.

Lo Spirito ti dice la verità su di te e sul mondo. Anche il maligno, a volte. Questi per condannarti e condannare, lo Spirito per liberarti e liberare e promuovere la vita. Lo Spirito ti conduce alla verità tutta intera, non solo a una parte, non solo al male e al peccato, e alla tua incapacità di risolverli, ma alla tua condizione di creatura compresa nel progetto d’amore del Padre, alla tua dispersione ricapitolata con l’intera creazione in Cristo.

Lo Spirito santo ti santifica. Non sei tu, infatti, che ti rendi santo. È Lui. Non hai ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura. Lo Spirito rende figli adottivi, e per mezzo di Lui tu gridi Abbà, Padre. Chi potrà separarti dal suo amore? Chi muoverà accuse contro di te? Chi condannerà?

Oggi è il tempo nel quale le nazioni sapranno che Dio Padre è il Signore, perché mostrerà la sua santità in te (cfr Ez 36,23). L’ardente aspettativa dell’intera creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.

Questo è il tempo dello Spirito che soffia. Con Lui e secondo le sue vie cammini.

Anche il tempo di pandemia è tempo di vele spiegate al vento dello Spirito.

Buona Pentecoste da amico

Luca Lorusso

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On demand

testo di Sante Altizio |


Con le sale chiuse per Covid, il cinema è più che mai domestico, magari su «piattaforme», come quella tutta italiana che offre contenuti originali. Vale la pena, poi, fare i conti anche con lo smartphone, che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi.

VatiVision

È metà marzo mentre scrivo, e l’Italia è tornata a essere quasi tutta (di nuovo) «zona rossa».

Una delle conseguenze inevitabili è il perdurare della chiusura dei luoghi di ritrovo, cinema compresi. Nessuna nuova uscita nelle sale, nessun nuovo film da guardare sgranocchiando popcorn. In Italia.

In Cina, invece, il paese da cui la pandemia ha preso il volo, i cinema sono tornati a essere affollatissimi. Da metà marzo nelle sale cinesi è tornato un film uscito nel 2009: il pluripremiato e già campione d’incassi Avatar, di James Cameron. In poco più di un fine settimana ha incassato quasi 9 milioni di dollari. Un segno positivo per il futuro prossimo della settima arte.

Con le sale chiuse, l’attenzione del pubblico, che continua a vivere il proprio tempo libero soprattutto in casa, si concentra sulle piattaforme che offrono contenuti in streaming.

Netflix ha annunciato da poco di avere superato i 200 milioni di abbonati nel mondo. Calcolando a braccio, possiamo dire che sul pianeta Terra, non c’è palazzo che non abbia almeno un abbonato al colosso statunitense. Ed è lì, o su Amazon Prime, l’unico vero competitor di Netflix, che le «prime cinematografiche» arrivano puntuali, mese dopo mese.

In mezzo ai giganti nascono realtà piccole e di qualità che vale la pena segnalare. Ce n’è una tutta italiana, nata da meno di un anno, a suo modo interessante: VatiVision, presieduta da Luca Tomassini, classe 1965, insegnante alla Luiss e, ricorda Wikipedia, uno dei padri della telefonia mobile di casa nostra.

Il nome VatiVision, in realtà, è in parte fuorviante, perché, anche se apprezzata dalla Chiesa, non è un’iniziativa del Vaticano. La piattaforma ha un catalogo piuttosto nutrito di film, serie tv, cartoon e documentari con una dichiarata impronta educational e di ispirazione cattolica. È una piattaforma on demand dove è possibile sia acquistare che noleggiare i contenuti.

Molti titoli sono di produzione recentissima e toccano temi come i diritti civili, l’immigrazione, i conflitti dimenticati, le relazioni sociali. Con uno sguardo decisamente europeo, aperto, per nulla italocentrico.

Se dovessi consigliarvi come spendere i 4,99 € di un noleggio, sicuramente suggerirei Est, dittatura last minute, film del 2020 di Antonio Pisu, ambientato nella Romania del 1989. Racconta di un viaggio che parte da Cesena e vede coinvolti tre venticinquenni (uno dei quali interpretato da Lodo Guenzi, giovane frontman di uno dei gruppi musicali più in vista della scena italiana, Lo stato sociale) che decidono di fare dieci giorni di vacanza oltre la cortina di ferro, proprio mentre la cortina va in frantumi.

All’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia ha fatto molto parlare di sé.

Est, dittatura last minute, non è un’esclusiva VatiVision (lo trovate anche sulle maggiori piattaforme specializzate). Tuttavia fate «due passi» sul sito www.vativision.com, resterete sorpresi dalla qualità dei titoli proposti. Il livello è alto. Tra essi si possono ritrovare titoli importanti del passato e piccole esclusive, soprattutto interessanti reportage dal Sud del mondo.

Sante Altizio

Alberto Ravagnani

Vale la pena fare i conti anche con un altro strumento che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi: lo smartphone.

TikTok è uno dei social network più recenti e diffusi con oltre un miliardo di utenti nel mondo. È l’unico basato esclusivamente su contenuti video non più lunghi di 30 secondi.

Nato in Cina, al centro di numerose polemiche in tema di sicurezza informatica, bloccato negli States, la app è scaricata e utilizzata soprattutto da giovanissimi.

TikTok è il terreno ideale per un giovane sacerdote che, durante il lockdown dello scorso anno, quando l’imperativo categorico era #iorestoacasa, si è chiesto in quale modo continuare a parlare con i ragazzi della sua parrocchia, anch’essa «chiusa per Covid».

Alberto Ravagnani, sacerdote di 27 anni, dall’Oratorio San Filippo Neri di Busto Arsizio, ha così iniziato a cimentarsi con YouTube, poi Instagram e infine è sbarcato su TikTok, diventandone, in pochi mesi, una vera star. Ha oltre 90mila followers (550mila se si considerano tutti i suoi social), e ogni suo TikTok raccoglie decine di migliaia di like.

Il suo canale merita di essere visto e colpisce perché don Alberto, forte delle sue poche primavere, ha un gran dono: fonde con naturalezza linguaggio alto e linguaggio basso. Usa con sapienza la tecnologia, la postproduzione video, cura l’audio, gli effetti, la color correction. E poi ci sono i testi, le brevi sceneggiature che scrive lui prima di girare.

Il suo studio è diventato un piccolo set, semplice ma curato fin nei dettagli. È bravo.

«Sono un prete, vivo in oratorio, insegno a scuola. Ogni tanto faccio cose sui social. La fede mi fa godere di più la mia vita. Per questo ne parlo. W la fede». Questa la sua breve bio su YouTube.

In una sua recentissima intervista su «Avvenire» ha detto: «I social network non sono il male. Sui social può capitare il male perché dietro ci sono anche persone che fanno il male».

Su YouTube, il suo video più gettonato (650mila visualizzazioni in 10 mesi) s’intitola: A cosa serve pregare (non è una perdita di tempo), il suo TikTok più visto, Ora di religione, conta 2,4 milioni di visualizzazioni.

«Se non impariamo a “essere tutto a tutti”, come diceva San Paolo – ha raccontato don Alberto in un’intervista alla tv della svizzera italiana che si trova in rete – come arriviamo alle persone? Se non ci facciamo “social”, come arriviamo ai ragazzi che stanno sui social? Più di qualcuno ce lo perderemo per strada».

Sante Altizio

 




Sab, 1 maggio 2021 – s. Giuseppe lavoratore (mf)

Gen 1,26-2,3; opp. Col 3,14-15.17.23-24; Sal 89; Mt 13,54-58

Rendi salda, Signore, l’opera delle nostre mani


Da Pensieri Luminosi, un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

San Giuseppe è il patrono di tutte le classi sociali e di tutte le categorie di persone, specialmente degli operai. E’ patrono anche delle comunità religiose che portano il suo nome e gli rendono omaggio.