testo e foto di Alberto Sachero |
Reportage dalle isole Canarie, dove la Spagna e l’Europa parcheggiano a forza i migranti africani, trasformando i grandi alberghi per turisti in domicili coatti per migliaia di persone in fuga da guerre e povertà.
La rotta migratoria atlantica è quella che dal Nord Ovest dell’Africa conduce all’arcipelago delle isole Canarie, territorio spagnolo.
È una rotta marittima solcata dagli africani in cerca di una vita migliore dall’inizio degli anni ‘90 ed è ritenuta molto pericolosa in quanto attraversa le acque insidiose dell’Oceano Atlantico. È stata la prima via d’acqua verso l’Europa a essere percorsa ben prima di quella mediterranea, ma a causa della sua difficoltà e delle valide alternative, solamente nel 2020 è tornata in auge con ingenti arrivi.
Una rotta più sicura
La rotta mediterranea difatti, o meglio le tre rotte mediterranee (Libia/Tunisia-Italia, Marocco-Spagna e Turchia-Grecia), sono più brevi e meno pericolose. Negli ultimi anni, però, sono diventate sempre più difficili da percorrere.
In Italia il decreto Minniti prima e i decreti sicurezza Salvini poi, criminalizzando le Ong e ostacolando l’assistenza e soccorso nel Sud del Mediterraneo, hanno ridotto le partenze da Libia e Tunisia. Anche il secondo governo Conte, per mano della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha stretto patti e sovvenzionato il governo libico e quello tunisino per limitare il più possibile il flusso migratorio. Inoltre, le umiliazioni e le atroci torture inflitte nelle carceri libiche scoraggiano i migranti a percorrere questa via.
Più a Ovest, sulla rotta mediterranea occidentale tra Marocco e Spagna, sono state costruite, nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, chilometri di reti per arginare il passaggio. Il governo spagnolo ha pagato quello marocchino per disincentivare le partenze.
Idem nel Mediterraneo orientale, dove i pattugliamenti greci, scaduto il patto miliardario con il dittatore turco Erdogan, si sono intensificati aumentando di fatto i respingimenti.
Un altro motivo che ha spinto le persone verso le Canarie, è il costo del viaggio. Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 70 km dal Marocco, le altre poco più. Mentre nel Mediterraneo si arriva a spendere fino a 5mila euro, oltre al denaro per raggiungere il posto di imbarco (in Marocco, Libia o Tunisia), nell’Atlantico il costo è decisamente inferiore: tra i 400mila e i 700mila franchi Cfa, moneta utilizzata da 14 paesi africani ex colonie francesi, equivalenti a 600-1.000 euro.
No options
La storia insegna che le migrazioni non si possono fermare, si possono solo temporaneamente limitare. Per tanti non ci sono alternative. No options, come mi hanno sempre ripetuto i migranti incontrati. Rese più difficilmente praticabili le rotte mediterranee a suon di euro e motovedette, le attenzioni di chi cerca miglior futuro si sono rivolte, nonostante l’elevata pericolosità, alla rotta atlantica, porta d’ingresso occidentale dell’Europa.
Al 20 dicembre, data del mio arrivo sulle isole, si calcola che nel 2020 siano sbarcati circa 23mila migranti, molti dei quali tra ottobre e dicembre, nove volte in più rispetto al 2019. Provengono da paesi nei quali è difficile vivere e lavorare come Marocco e Senegal, o dove vi è una grossa crisi politico-sociale come Mali, Mauritania, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia.
Da pescatori a profughi
La maggior parte dei migranti sono ragazzi molto giovani che lasciano i propri paesi per disperazione e mancanza di futuro. Il loro sogno è quello di arrivare in Europa e costruirsi una nuova vita aiutando così la famiglia rimasta nel paese di origine.
Per arrivare alle Canarie partono dalle località di mare di Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania e Senegal. Il viaggio può durare da 4 a 20 giorni, a seconda della distanza e delle condizioni dell’oceano. Si stima che sui 25mila partiti, più di 2mila non siano mai arrivati, ma finiti in fondo al mare in quella grande tomba che, come il Mediterraneo, non sappiamo esattamente quanti corpi accolga.
Le imbarcazioni utilizzate sono quelle in legno variopinte dei pescatori locali. Possono ospitare da 10 a 40 persone, a seconda della grandezza dello scafo.
Parcheggiati sul molo
Negli ultimi mesi, la maggior parte degli arrivi sono avvenuti nel Sud dell’isola Gran Canaria, nella zona delle località turistiche comprese tra Maspalomas e Puerto Rico. Di norma le imbarcazioni vengono avvistate dagli elicotteri, che danno l’allarme alle vedette di salvataggio spagnole ormeggiate nel porto di Arguineguin. Queste salpano per recuperare i migranti che vengono portati sul molo, identificati e smistati nei centri di accoglienza dell’isola.
I barconi, chiamati patera in spagnolo, vengono poi trainati e ormeggiati in fondo al molo.
Tra ottobre e dicembre 2020 il numero degli arrivi si è impennato. Le autorità spagnole si sono fatte trovare completamente impreparate e hanno deciso di parcheggiare 2.300 persone sul molo stesso, trattandole di fatto come bestiame. In condizioni igienico-sanitarie precarie, buttate a terra senza possibilità di lavarsi, sono state ospitate in questa sorta di campo gestito dalla Cruz Roja, la Croce Rossa spagnola, per circa 15 giorni.
Il Covid-19 per loro non conta, si è scelto di non far rispettare le distanze di sicurezza. Giornalisti e fotografi sono stati tenuti alla larga, con le buone o le cattive maniere, ufficialmente per proteggere la privacy dei migranti. In realtà, per tentare di occultare le pessime condizioni dei campi e il mancato rispetto delle regole sul diritto internazionale.
La popolazione locale si è divisa su questo tema: alcuni portavano aiuti alimentari, altri inveivano contro i ragazzi. Ci sono state manifestazioni pro e contro, come sulla vicina isola di Tenerife.
Dopo due settimane, le autorità hanno finalmente trasferito i migranti: una parte in un campo tendato nella periferia di Las Palmas, capitale di Gran Canaria, e l’altra, dopo una lunga trattativa con gli albergatori dell’isola, nelle stanze solitamente occupate dai turisti europei, ma ora vuote a causa del Covid-19.
Incontri
Il giorno del mio arrivo nella capitale Las Palmas, incontro Kamal, un ragazzo marocchino ospite nella Fabrica, un hotel gestito da Cruz Blanca, che ospita circa 150 migranti. Ha 28 anni e un figlio che vive con la nonna a Safi, la citta marocchina da cui proviene, affacciata all’Oceano Atlantico. Per imbarcarsi è sceso fino a Dakhla, una località nel Sud del Marocco. In tutto ha viaggiato per sette giorni.
Mi dice che la vita nel suo paese è impossibile. Non si trova lavoro e le condizioni sono sempre più difficili.
Vuole andare in Spagna, trovare lavoro e aiutare il figlio e la madre. Il padre e il fratello sono annegati in un naufragio nel 2019 poco distanti da Lanzarote, isola nel Nord Est dell’arcipelago. In pochi anni ha perso 21 amici della sua stessa città, annegati. Mi mostra il lungomare di Las Palmas, dove alcuni migranti vivono, preferendo la strada all’accoglienza. Si sentono meno comodi, ma più liberi. Bivaccano in tende sulla spiaggia, rifugi di fortuna dietro al porto, angoli desolati sotto i cavalcavia.
Il giorno successivo mi reco ad Arguineguin. Fortunatamente i migranti non ci sono più, ma trovo una ventina di barconi ormeggiati in fondo al molo, tra le barche a vela e i catamarani dei turisti. Con qualche difficoltà riesco a salire a bordo.
Sembra di entrare in una casa dove è appena passato un uragano e da cui la gente è fuggita in fretta e furia. Sul fondo dello scafo trovo di tutto. Bidoni di benzina, alcuni vuoti altri ancora pieni, teloni di plastica, giubbotti salvagente, guanti, stivali di gomma, mantelle e pantaloni antipioggia, crema solare, fusti da cinque litri di acqua da bere, cartoni ancora pieni di latte, tantissima frutta secca, barrette energetiche, chili di pane. Tutto ciò che serviva per sopravvivere alla traversata. Quel che più mi colpisce è la presenza di oggetti personali. Probabilmente nella fretta di scendere dai barconi, i migranti li hanno lasciati a bordo, o forse il personale addetto al salvataggio li ha obbligati ad abbandonarli.
Trovo vestiti, zainetti pieni, beauty case, giochi per bimbi, mappe geografiche, persino un paio di mutandine colorate nuove con l’etichetta ancora attaccata.
Due abitanti del paese salgono a bordo e recuperano tele cerate, giacche antipioggia e salvagenti che possono servire. Mi chiedono di non essere fotografati. Trovo giusto recuperare indumenti che possono essere ancora utilizzati. Alcuni turisti si fanno selfie con i barconi come sfondo, altri ancora strappano una luce di emergenza e se la portano via. Intorno, barche a vela ancorate, turisti che pagaiano sulla tavola da surf, moto d’acqua che solcano le onde e gente che prende il sole in topless sulla spiaggia.
«Turisti» per forza
Mi reco poi a Puerto Rico, il penultimo paesino al termine dell’autopista GC1, unica grande strada che unisce la capitale Las Palmas con il Sud dell’isola.
Questa località turistica in mezzo al nulla è costituita da grandi alberghi e casette a schiera per turisti, con relativi servizi come negozi, bar e ristoranti. Quest’anno 2020, l’alta stagione invernale è partita male e prosegue peggio. Solo i pochi turisti europei residenti sulle isole, o che vi lavorano, sono giunti alle Canarie. Gli alberghi sono vuoti, quindi il governo iberico, vista l’emergenza di Arguineguin, ha deciso di riempirli di migranti. Gli hotel Servator, Holiday Club e Canema concedono loro le stanze ma non l’accesso a sala da pranzo, piscina e spazi comuni.
La spiaggia di Puerto Rico sembra un’arena, circondata sui tre lati da immensi alberghi e strutture ricettive di colore bianco. Il quarto lato è il mare.
Quattro senegalesi fanno ginnastica sul bagnasciuga per tenersi in forma, mentre alcuni turisti sovrappeso li osservano meravigliati. Chiacchiero mentre faccio un po’ di ginnastica con loro.
Aliou mi racconta che in Senegal facevano i pescatori e lavoravano sulle stesse barche utilizzate per arrivare alle Canarie. Un milione e mezzo di persone vivono di pesca, in uno dei mari più ricchi del mondo. Negli ultimi dieci anni la quantità pescata dai locali è diminuita di circa l’80%. I grandi pescherecci provenienti da mezzo mondo svuotano con le loro reti il mare, dopo aver stipulato accordi vantaggiosi con i governanti locali. Ai senegalesi restano le briciole.
L’ultima volta sono stati in mare tre giorni pescando cinque cassette di pesce, mentre pochi anni prima ne pescavano fino a otto volte di più. Hanno quindi deciso di arrivare in Europa per tentare un futuro migliore. Così non potevano sopravvivere.
Braccialetti gialli
Conosco poi Mussa, un ragazzo del Gambia, mentre attraversa col semaforo rosso. Un turista italiano gli urla dall’auto: «Cannibale! Guarda cosa fai!». Lui mi spiega che non sa cosa sono i semafori: nel suo villaggio in riva al fiume Gambia non ne ha mai visti.
A 15 km da Puerto Rico sorge il villaggio di Maspalomas, la meta turistica più frequentata dell’isola, nota per le bellissime dune di sabbia sulla spiaggia. Una distesa di negozietti discoteche e bar costeggia la bella «Playa des Ingles».
Qui alcuni migranti vivono stabilmente da alcuni anni, visto che i controlli della polizia sono molto più rari che a Las Palmas. Vendono ricordini e gadget ai turisti, che però ora scarseggiano. I migranti arrivati recentemente occupano invece anche qui i mega hotel svuotati dal Covid-19.
Nella piazzetta centrale conosco una ragazza senegalese che fa treccine ai capelli per 10 euro, e un ragazzo della Guinea che vorrebbe trovare una donna bianca un po’ «più grande» di lui e sposarla, per rimanere a vivere a Maspalomas. Parlo con quattro ragazzi del Mali, dove una guerra interna dura da anni. Ci scambiamo i numeri di telefono. Vorrebbero venire in Italia e incontrarmi al loro arrivo. Come tutti i migranti ospitati negli hotel dell’isola, hanno al polso un braccialetto giallo con un codice identificativo.
Campo o prigione?
Altri migranti purtroppo sono stati meno fortunati, e sono stati rinchiusi a Barranco Seco, un campo costruito velocemente alla periferia sud della capitale Las Palmas, nei pressi dello stabilimento della birra «Tropical», la «cerveza» prodotta in Gran Canaria. Il campo è costruito in un sito militare dismesso e può contenere circa mille persone. Qui sono stati portati la maggior parte dei migranti rimasti due settimane sul molo di Arguineguin. Dormono nelle tende, non possono uscire e sono sorvegliati da un ingente numero di poliziotti.
La situazione creatasi di recente alle Gran Canarie risulta piuttosto complessa. Il 2020 passerà alla storia come l’hanno del Covid-19 e dei migranti. Mentre a causa delle restrizioni sui viaggi all’estero sono presenti pochissimi turisti, circa 23mila migranti sono sbarcati sulle isole, 7mila dei quali sono stati sistemati proprio nei grandi hotel occupati fino al marzo scorso dai turisti. Una volta terminata l’emergenza Covid-19 e riaperte le porte al turismo, i migranti dovranno «sparire» dalla circolazione e verranno probabilmente rinchiusi nei nuovi campi che l’esercito sta costruendo. La Spagna (e quindi l’Europa) sta di fatto utilizzando le isole Canarie come parcheggio, come le isole di Lesbo e Kios in Grecia. Nel frattempo, sta cercando di firmare accordi con Marocco e Senegal, per limitare le partenze e aumentare i rimpatri, che per il momento faticano a essere stipulati. Dei 23mila migranti arrivati nel 2020, pochissimi riusciranno ad arrivare dove vorrebbero: Spagna continentale, Francia, Germania, Nord Europa. La maggior parte continuerà a essere trattenuta in queste isole, senza futuro. In un limbo: senza tornare indietro e senza poter andare avanti.
Strategia discutibile
La strategia anti migratoria europea è chiara: sigillare le frontiere e non concedere, se non in pochi casi eccezionali, il diritto di asilo politico. Una strategia sbagliata che mostra come i governi europei non hanno alcuna intenzione di aiutare le popolazioni in difficoltà. Ritengono più giusto bloccare i migranti, spesso provenienti da luoghi impoveriti da politiche economiche succubi degli interessi di multinazionali e paesi ricchi, invece di permettere loro la ricerca di una vita migliore lontano dal proprio paese.
Alberto Sachero,
da Las Palmas