Storia di Zam, giornalista impiccato
Il regime sciita di Teheran non perdona. Ruhollah Zam, giornalista e oppositore, è stato giustiziato. Il clero al potere interpreta e impone la sharia a tutti i propri cittadini. Ma non a se stesso.
Lo scorso 12 dicembre è arrivata una delle tante lugubri notizie che attraversano l’etere: un giornalista iraniano è stato impiccato a Teheran. Si chiamava Ruhollah Zam e viveva in esilio volontario in Francia con la famiglia. Da quanto si è letto sulla stampa, è caduto in una trappola tesa dai servizi d’intelligence iraniani. Nell’ottobre del 2019, con un pretesto, è stato indotto a recarsi in Iraq, paese in cui la Repubblica islamica esercita una notevole influenza. Appena arrivato, è stato fermato dalle forze di sicurezza irachene, che l’hanno poi consegnato alle Guardie della rivoluzione. I mezzi d’informazione iraniani hanno salutato con entusiasmo la cattura di uno dei nemici della Repubblica, avvenuta grazie a una «meticolosa operazione di intelligence» (Press Tv, 14 ottobre 2019).
La notizia ha suscitato commenti soddisfatti da parte delle autorità, che hanno lodato l’abilità delle Guardie e hanno manifestato orgoglio per il grande successo da loro ottenuto (Teheran Times, 14-15-16 ottobre 2019).
Chi era Ruhollah Zam
Perché le Guardie della rivoluzione ritenevano questo giornalista un nemico così pericoloso da mobilitare tutte le proprie risorse d’intelligence pur di snidarlo dal suo rifugio in Francia e riportarlo in Iran? Perché le autorità hanno tanto esultato per il successo dell’operazione?
Ruhollah Zam era il figlio di Mohammad Ali Zam, un eminente chierico sciita che, dopo la rivoluzione, ha diretto la sezione relativa alle arti dentro l’Organizzazione per la propaganda islamica. Era, dunque, figlio di un attivo sostenitore del nuovo Iran inaugurato da Ruhollah Khomeini, del quale portava il nome. Nel tempo, suo padre si era collocato all’interno della fazione politica genericamente definita «riformista», in opposizione a quella altrettanto genericamente definita «conservatrice».
Il conflitto tra le due anime del clero sciita è emerso con particolare evidenza subito dopo le elezioni presidenziali del 2009, quando la denuncia da parte del candidato riformista Mousavi di massicci brogli ha dato origine alle proteste popolari dell’Onda verde. Verde era il colore scelto da Mousavi per la campagna elettorale.
Tra i manifestanti arrestati dalla polizia durante quelle proteste c’era anche Ruhollah Zam che, dopo la liberazione, ha deciso di lasciare il paese e ha ottenuto asilo politico in Francia. In esilio ha continuato la lotta attraverso internet e le reti sociali. Nel 2015 ha fondato su Telegram un canale d’opposizione chiamato Amad News.
Tra il dicembre 2017 e il gennaio 2018 l’Iran è stato sommerso da un’altra ondata di proteste che, a differenza di quelle del 2009, hanno interessato soprattutto le province, dove inferiore è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. Le manifestazioni, infatti, questa volta hanno avuto come causa scatenante il rincaro di generi di prima necessità, sebbene gli slogan siano subito divenuti anche politici. I manifestanti, soprattutto giovani, gridavano la propria frustrazione per le promesse economiche non mantenute, ma anche il proprio malcontento contro il sistema.
Ci sono stati atti di vandalismo, assalti a stazioni di polizia, si sono bruciati ritratti della Guida suprema. Pur condannando le violenze, persino il presidente Rohani ha riconosciuto fondate le motivazioni economiche all’origine delle proteste, ma la Guida suprema le ha attribuite alle trame di governi stranieri e dell’opposizione iraniana all’estero, e questa è rimasta la versione ufficiale.
Reti sociali e proteste
Già nel 2009 i manifestanti avevano utilizzato internet, sia per organizzarsi, sia come cassa di risonanza delle proprie rivendicazioni. Nel frattempo, l’utilizzo delle reti sociali e, in particolare, di Telegram, che funziona bene anche con una connessione lenta, tra gli iraniani si era moltiplicato, e internet era sempre di più divenuto una fonte d’informazione alternativa alla Tv di stato. Nel dicembre del 2017, la gente stabiliva su Telegram dove e quando uscire in strada. Non c’era un movimento organizzato, non c’erano leader o figure carismatiche, c’era Telegram. Anche Amad News ha fatto la sua parte, ma per poco, perché già a fine dicembre (le proteste sono iniziate il 28) è stato chiuso da Pavel Durov, il fondatore di Telegram, per avere postato istruzioni su come costruire bombe molotov. Zam ha fondato allora un altro canale, Voce del popolo, che ha continuato ad amministrare fino alla cattura.
Dopo questi avvenimenti, le autorità hanno cominciato a vivere nel timore di altre proteste e del pericolo costituito dalla rete. La possibilità che internet offre a chiunque di mettere in circolazione materiale non censurabile è percepita come una sfida aperta, che le autorità non riescono a neutralizzare per quanti sforzi facciano, perché nell’era di internet non c’è più il monopolio dell’informazione. Viste le precedenti esperienze, quando nel novembre del 2019 nuovi rincari hanno riacceso la miccia delle rivolte, i collegamenti internet sono stati immediatamente interrotti ovunque. Ciò ha messo in difficoltà i manifestanti e ha ostacolato la diffusione d’informazioni su quanto stava avvenendo, ma ha anche ostacolato il funzionamento di ogni forma di attività nel paese, governativa e non. Il problema, dunque, è più che mai aperto.
Condannato a morte
Di quanto è successo nel novembre del 2019 non si poteva accusare Ruhollah Zam, che era già sotto processo in patria. Contro di lui sono stati comunque sollevati diversi capi d’imputazione: spionaggio per conto di Israele e della Francia, collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, diffusione di notizie false, istigazione alla rivolta, blasfemia, insulti alle autorità islamiche, diffusione della «corruzione sulla terra». Il processo ha fatto il suo corso e il 30 giugno 2020 è arrivato il verdetto: condanna a morte per impiccagione. L’8 dicembre la Corte suprema ha confermato la sentenza e, solo quattro giorni dopo, il giornalista è stato giustiziato.
Alla storia di Ruhollah Zam è stata assicurata in Iran ampia copertura mediatica: doveva essere esemplare, servire da avvertimento. «Non è che l’inizio», avevano postato le Guardie della rivoluzione sul loro canale Telegram subito dopo la cattura. La soddisfazione che quella morte ha suscitato è significativamente espressa nelle amare parole pronunciate da suo padre dopo l’esecuzione e riportate dall’organo dei Guardiani, per confutarle: «La vicenda umana di Ruhollah è finita. Congratulazioni a quelli che erano in agguato di una tale gioia» (Nournews, 15 dicembre 2020). La storia di Zam dava occasione di ribadire e «provare» con le «ammissioni» pubbliche del giornalista, che la causa dei disordini interni al paese è da ricercarsi nei disegni dei nemici esterni e dei loro collaboratori, uno dei quali aveva ora ricevuto la meritata punizione.
I crimini secondo la sharia
Non entro in merito all’accusa di avere fatto circolare su Telegram notizie false per fomentare rivolte antigovernative. Non sarei in grado di confermarla, né di smentirla. È noto che la disinformazione è strumento di lotta politica e manipolazione delle coscienze da molto prima dell’arrivo di internet. Lo sanno bene anche le autorità iraniane, che, a ogni anniversario, per raccontare la storia della rivoluzione selezionano i documenti, ritoccano foto storiche, tagliano filmati.
Vorrei, però, soffermarmi sull’accusa mossa a Zam di «corruzione sulla terra», che ai nostri orecchi suona strana.
La sharia contempla un tipo di crimini definito con un termine che si può tradurre come «corruzione, marcio, disordine in senso morale». Chi diffonde questa corruzione sulla terra deve essere perseguito. Sono crimini commessi da nemici di Dio e dell’ordine da Lui voluto sulla terra, persone ingiuste e malvagie che mettono a repentaglio il buon essere, sia sociale, che morale, degli uomini.
Nel libro in cui illustra la propria idea di governo islamico, Khomeini afferma che esso deve rimuovere dalla società dei fedeli ogni traccia di corruzione. È difficile per il fedele, argomenta Khomeini, mantenersi puro e coltivare la propria fede in un ambiente corrotto. Invariabilmente finirà per corrompersi a sua volta, a meno che non scelga di distruggere la fonte stessa della corruzione e abbattere i regimi oppressivi. È chiaro a che cosa si riferisse l’autore in quest’opera, uscita nel 1970, quando si trovava in esilio in Iraq e faceva parte dell’opposizione, non solo islamica, allo scià. Anche lui, come Zam, poi ottenne esilio politico in Francia. Una storia che si ripete.
Dunque, per Khomeini è legittimo opporsi a un regime oppressivo, in quanto esso è corruttore di uomini. Questa parte del suo pensiero non è sbandierata in Iran, dove sono anche censurati i discorsi da lui stesso tenuti dopo il ritorno in patria, là dove affermava che è diritto del popolo decidere attraverso un referendum la forma di governo che preferisce. Ma, in quel caso, naturalmente, il voto avrebbe dovuto rimuovere la monarchia; com’è effettivamente avvenuto col referendum del 30-31 marzo 1979, che ha istituitoì la Repubblica islamica.
Un potere che non garantisce al fedele musulmano un ambiente propizio alla sua crescita spirituale, come per Khomeini era quello dello scià, è illegittimo ed è giusto fargli guerra. Al contrario, un potere che si basa sulla sharia e ha al proprio vertice una Guida spirituale, ossia il rappresentante di Dio in terra, dovrebbe creare le condizioni migliori perché quella crescita avvenga nel migliore dei modi. Qui è l’ubi consistam (il fondamento) del Governo islamico e la sua giustificazione.
Clero sciita, l’ipocrisia al potere
Dopo più di quarant’anni di governo assoluto del clero sciita, bisogna constatare che queste condizioni non ci sono ancora. Al contrario, la fede dei musulmani iraniani è stata, ed è messa a dura prova dal comportamento della classe politica al potere, che è continua fonte di scandalo, perché contraddice apertamente gli insegnamenti di pietà, giustizia, austerità impartiti dalla religione.
Una delle figure più care ai fedeli sciiti è quella del primo imam, Ali, genero di Maometto, che fu il quarto califfo dell’islam, capo politico, oltre che spirituale, dei musulmani. Di lui s’insegna che era uomo di grande pietà e giustizia, e che riteneva proprio dovere assicurare a tutti una vita dignitosa. Per se stesso considerava disdicevole vivere meglio dell’ultimo dei musulmani e viaggiava in incognito per vedere dove era il bisogno, e soccorrerlo. Di lui si raccontano molte storie devozionali.
In una di esse Ali giunge non riconosciuto a casa di una vedova, vede la miseria in cui vive con i suoi figli e si mette a servirli, poi porta loro del cibo, e, quando quella lo ringrazia, si schermisce, chiede perdono per non aver saputo compiere a tempo debito il compito di provvedere a loro. A questo punto la vedova capisce che il suo ignoto benefattore è, in realtà, il califfo.
Che cosa vede, invece, il cittadino della Repubblica islamica? Vede che religiosi e politici influenti, sebbene predichino la necessità di una vita modesta al servizio dei poveri, vivono in un lusso mal celato; vede che i più redditizi settori dell’economia sono monopolizzati da organizzazioni legate al clero; vede intorno la miseria di tanti che non hanno il necessario per vivere, mentre ingenti risorse sono utilizzate per finanziare una politica estera ambiziosa; quando ha a che fare con le istituzioni a qualsiasi livello, conosce l’umiliazione di dover ottenere grazie a conoscenze, o al denaro, diritti e servizi che gli dovrebbero essere garantiti. Il cittadino vede la corruzione, vede l’ingiustizia e il mal governo, ma non può parlare, perché ha paura, perché criticare la Repubblica islamica può essere equiparato a bestemmia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come abbiamo visto, blasfemia è una delle accuse sollevate contro Zam.
Insofferenza, astio e frustrazione
Tutto ciò ha nel tempo logorato la fede degli iraniani. Un governo che si presenta come la voce di Dio in terra, con il comportamento dei suoi servitori ha discreditato l’idea stessa di Dio, ha seminato l’agnosticismo, l’insofferenza per ogni discorso sulla religione e l’astio verso i suoi ministri. È un danno che, tra l’altro, ricade su tutto il clero, anche su quelli che non condividono le ambizioni temporali del governo teocratico. La generazione arrivata alla maturità prima della rivoluzione è in genere rimasta legata ai valori tradizionali, ma le generazioni venute dopo, cresciute in un mondo in cui la difformità tra parole e realtà è la regola, in cui l’ipocrisia è premiata, sono disorientate e vivono un forte disagio interiore. In estrema sintesi: l’immoralità dei teocrati ha generato un’amoralità diffusa. Sempre di più nei giovani ai riferimenti tradizionali si sostituisce la ricerca dei valori materialistici del confort personale, del denaro, dell’affermazione sociale, che si scontra, però, con la crisi economica in cui da anni versa il paese, aggravata dal regime delle sanzioni.
Le difficoltà economiche rendono molto arduo fare progetti per sé e per la propria famiglia, il futuro appare incerto, si vive in una costante preoccupazione per il domani. Sono problemi reali: la mancanza di lavoro, o la paura di perderlo, l’inflazione che moltiplica le spese, gli affitti esorbitanti, una malattia che mette in ginocchio tutta la famiglia, perché le cure sono a pagamento. Però le difficoltà sono tanto più sentite, quanto più la felicità s’immagina legata al raggiungimento di beni materiali. Questa condizione mentale, che accomuna ricchi e poveri, è una vera e propria malattia dello spirito, un’epidemia, molto peggiore del Covid. I soldi sono diventati un’idea fissa. Ormai i discorsi che si sentono in giro sono monotematici. Si parla dei prezzi che crescono, di ciò che si può comprare o vendere, di ciò che si ha o che si vorrebbe. Chi ha, vorrebbe di più, chi non ha, pensa a come fare per avere. I giovani hanno pochi strumenti per difendersi dal pensiero dominante, non riescono a elaborare un’alternativa, e ne rimangono soggetti. A causa del senso di frustrazione creato dalla distanza tra realtà e desiderio cadono in depressione, ricorrono agli stupefacenti, o si tolgono la vita. Quello dei suicidi in Iran è da anni un dato in crescita, soprattutto nelle aree urbane. Non ci sono statistiche ufficiali attendibili, i mezzi d’informazione non ne parlano, ma tra la gente questo aumento è percepito. Mi è recentemente capitato di parlare con un pompiere che fa servizio nell’area dove risiedo, poco fuori Teheran. Lui aveva ben chiara la drammaticità della situazione, perché i pompieri hanno dovuto moltiplicare gli interventi per suicidio e oramai sono chiamati più volte a settimana.
Maria Chiara Parenzo
Archivio MC:
- Maria Chiara Parenzo, Nati dopo la rivoluzione, dossier Teocrazia e petrocrazia, aprile 2020.
- Maria Chiara Parenzo, Teheran, di lotta e di governo, aprile 2018.
- Maria Chiara Parenzo, Donne iraniane, più mondo, meno cielo, maggio 2016.
- Maria Chiara Parenzo, Donne ai tempi del «mehrieh», aprile 2016.