Abitare insieme, diversamente

Piccolo viaggio nel mondo del cohousing

testo di Daniele Biella |


Storicamente presente nel Nord Europa, è arrivato da anni anche nel nostro paese. Abitare in comune, condividere, supportarsi. È difficile definire il cohousing. La cosa migliore è conoscere e raccontare le esperienze vissute.

«La compagnia, la conversazione, la condivisione, il sapere che qualcuno c’è nel momento del bisogno: la vita risulta più facile se hai qualcuno che la percorre al tuo fianco». Quando Eric Klinenberg, sociologo e scrittore statunitense, pronuncia questa frase, sa bene che c’è in corso un cambiamento epocale e virtuoso del modo in cui l’uomo può «abitare» la comunità nella quale vive. C’è la persona, certo, magari con il proprio partner, la propria famiglia, con cui condivide gli spazi di una casa. Ma in molte zone del mondo, Italia compresa, si fa strada qualcosa di più ampio: «Al tuo fianco», infatti, possono percorrere il cammino quotidiano anche altre persone e famiglie con cui nel corso del tempo hai fatto una scelta importante e, per certi versi, rivoluzionaria: la coabitazione.

Abitare condiviso, cohousing, ecovillaggi, sono i nomi che possiamo avere sentito da qualcuno o in qualche media. Nomi che rappresentano un contenitore – di varie dimensioni – il cui contenuto è dato da chi ci abita e, quindi, ogni volta diverso, deciso in piena collaborazione, particolare. Ma di cosa stiamo parlando? Ecco un esempio da cui partire, preso nel mucchio (le esperienze attive e censite in Italia sfiorano il centinaio).

Porte aperte

Siamo a Velate, paesotto di tremila abitanti unito a Usmate, alle porte di Monza, Lombardia. Qui sei famiglie, 12 adulti più 16 bambini da 2 a 13 anni, conosciutesi per la maggior parte negli ultimi 6-7 anni, stanno per realizzare il loro sogno: vivere sotto un unico tetto, nel cohousing «Uno e sette» (www.unoesette.it).

Costruito – nel vero senso della parola, perché in questo caso si è partiti dall’acquisto del terreno – attraverso una miriade di incontri e decisioni comuni, Uno e sette prende forma in un edificio nel quale ogni nucleo avrà il proprio appartamento, i propri indispensabili spazi famigliari, a cui però si aggiungono una serie di spazi comuni concepiti come un tutt’uno con le abitazioni. Ovvero da vivere ogni giorno dalla singola famiglia come allargamento della propria casa: un salone comune in cui ritrovarsi e far ritrovare la comunità del paese promuovendo eventi, una zona di coworking (postazioni di lavoro condivise) e una lavanderia comune, un giardino collettivo, una postazione dove fare musica, e terrazze nelle quali la parola d’ordine è «assieme». «Uno stare assieme non forzato, che rispetta i tempi di tutti, basato sul mutuo aiuto e su relazioni di qualità, elementi che riteniamo importanti sempre, tanto più in un periodo delicato e drammatico come quello che stiamo vivendo durante la pandemia», spiega Sabrina Curzi, membro di Uno e sette. Lei è assistente sociale e lavora a Milano per la cooperativa Farsi prossimo. Nel gruppo ci sono anche due professori, un ingegnere, una musico terapista, una libraia e altre figure unite dalla volontà di un vicinato improntato all’altruismo: Il nome, Uno e sette, parte dall’omonima favola di Gianni Rodari («Ho conosciuto un bambino che era sette bambini»), e si riferisce al fatto che nel cohousing c’è un settimo appartamento dedicato ad accogliere, in collaborazione con enti pubblici e privato sociale, persone in temporaneo stato di necessità come anziani, persone disabili o non autosufficienti, famiglie monogenitoriali. «Ora siamo alla scelta dei pavimenti per gli spazi comuni, ma alla base ci sono confronti settimanali su ogni tema, sia pratico che valoriale», continua Curzi. I cohousers hanno fondato una cooperativa edilizia, ottenuto un finanziamento da Banca Etica, ed entro giugno 2021, a prescindere dal colore dell’emergenza sanitaria, inaugureranno la loro nuova dimora, passiva e solidale. Nel frattempo hanno lanciato sulla piattaforma GoFundme.org una raccolta fondi per chi volesse aiutarli nel sostenere il progetto di accoglienza.

Anche in pandemia

L’esempio di Uno e sette è solo una delle tante esperienze virtuose presenti in varie zone d’Italia. Che si tratti di recuperare un casolare abbandonato o di costruirne uno ex novo con forte attenzione alla sostenibilità ambientale, l’importante è impostare il proprio modello su una convivenza attiva e attenta a chi ti sta accanto. «Il lockdown, in questo senso, ci ha riportati a casa: conosciamo di più chi vive attorno a noi, andiamo più spesso al negozio specializzato del quartiere, ci interessiamo a forme di relazione più significative rispetto alla frenesia con cui siamo abituati a vivere», ragiona Nicholas Bawtree, nato nel 1978 nell’agriturismo toscano dei genitori e oggi direttore responsabile di «Terra Nuova» (www.terranuova.it), il mensile cartaceo con l’occhio attento ai temi del consumo critico, del biologico e delle scelte di vita sostenibili.

La curiosità verso i cohousing e gli ecovillaggi è in aumento da anni, la pandemia ha dato ulteriore spinta: «Spesso questi sono progetti con un’intenzionalità molto forte, in ogni caso sono sempre di più le esperienze di persone che aprono le proprie case verso l’esterno, anche in vie di mezzo come i Gas, Gruppi di acquisto solidale, o altre esperienze di cohousing diffusi e servizi condivisi», aggiunge Bawtree.

L’approccio comunitario ha una propria innegabile storia: basti pensare alle centinaia di case famiglia attive da decenni in tutta Italia, ma anche a diversi contesti religiosi nei quali si pratica vita comunitaria.

Nel caso delle recenti nuove forme dell’abitare, esse nascono anche dai mutamenti in atto nella società: il costo della vita in forte aumento e il consolidamento di un individualismo legato alla società dei consumi, per esempio, stanno motivando migliaia di persone a cercare modelli alternativi, dal ritorno alla natura, tipico degli ecovillaggi, alla condivisione di spazi abitativi nei cohousing, più diffusi nei centri a forte urbanizzazione.

Daniel Tarozzi, giornalista e videomaker, oltre a scegliere in prima persona uno stile di vita sobrio nell’entroterra ligure (progetto Altopia – La casa del cambiamento), ha fondato nel 2012 la testata web «Italia che cambia» (www.italiachecambia.it), e da allora viaggia appena può in camper in ogni regione italiana a scovare le esperienze di buone pratiche: «Sono anni che non mi fermo, e ancora mi sembra di avere visto poco, data la quantità di esempi virtuosi che ci sono», sottolinea.

Per quanto riguarda il cohousing, «di solito nasce da gruppi di coppie con o senza figli. Ma non sono poche le esperienze di condivisione nate da over 65 – efficace alternativa alla casa di riposo – e da giovanissimi che dopo avere vissuto insieme come studenti decidono di continuare a farlo cercando una struttura idonea», ragiona Tarozzi.

Anche la visione degli ecovillaggi sta mutando: «Si sta superando lo stereotipo che li vede come comunità stravaganti. Esse in realtà rappresentano modelli virtuosi di ripopolamento borghi e buon vicinato». Per capire nel dettaglio quanti sono e come stanno evolvendo sia cohousing che ecovillaggi, ecco due voci autorevoli: Housinglab, associazione di Milano che mappa da anni le coabitazioni in piccole e grandi cittadine, e la Rive, Rete italiana villaggi ecologici.

Anche in città

Dal 2014 HousingLab (www.housinglab.it) setaccia le città d’Italia alla ricerca dei nuovi gruppi che vivono l’abitare collaborativo, continuando a tenere stretti rapporti con le realtà già esistenti. «Nel 2018, quando abbiamo pubblicato il libro “Cohousing, l’arte di vivere insieme” (Altreconomia editore), abbiamo contato 40 esperienze attive. Da allora, il numero è in costante aumento e anche durante questi mesi della pandemia si stanno formando ulteriori gruppi», spiega Liat Rogel, ricercatrice di origini israeliane che oggi ha tre figli, vive in un condominio solidale a Milano e ha alle spalle tre anni di studi a Berlino e un dottorato in design di servizi e abitare collaborativo conseguito al Politecnico milanese. È lei che, assieme a Chiara Gambarana, ha fondato HousingLab, associazione che si occupa anche di facilitazione e accompagnamento di chi sceglie la strada del cohousing. «Di solito si parte da 2-3 persone, con le rispettive famiglie, che poi coinvolgono altri, creando quella relazione di fiducia necessaria per prepararsi a una vita di coabitazione fatta di decisioni prese in comune». Sul sito di HousingLab si può trovare una mappatura delle coabitazioni, completa di statistiche di ogni sorta, dall’età dei componenti – la fascia 36-65 anni è la più rappresentata, al 38%, seguita al 28% da quella dai 19 ai 35 – alla costituzione dei nuclei: per il 46,5% sono coppie con figli, per il 32,5% senza figli, il 21% single (a fronte di una media generale in Italia che vede i single al 38%, le coppie con figli al 28% e senza figli al 34%).

«Ogni cohousing è diverso dall’altro, ha le sue peculiarità. Di certo li accomuna il fatto che le persone condividono oggetti e spazi in una relazione che non è di condivisione forzata ma basata sul mutuo aiuto», continua Rogel. A volte, infatti, in chi si affaccia al tema, c’è la preoccupazione che vivere in cohousing sia troppo coinvolgente e che limiti gli spazi personali e famigliari, ma non è così: «Spesso è un antidoto all’isolamento che si vive nelle città, perché negli spazi in comune si riscopre la socialità».

Andare a vivere in cohousing non significa risparmiare sul costo della casa: «I prezzi delle abitazioni rimangono spesso quelle di mercato», conferma la fondatrice di HousingLab. Ma il guadagno è, appunto, nelle relazioni profonde che si instaurano fra i membri del gruppo.

I primi modelli di abitazioni condivise nascono nell’Europa del Nord e in quella centrale, dalla Danimarca fino a Vienna, e ancora oggi è là che ci sono le esperienze più solide. Ma anche in Italia, soprattutto sull’asse Milano e Torino ma anche in Emilia Romagna, Toscana e nella città di Trento, se ne trovano molte. Ecco qualche nome: attorno al capoluogo lombardo si trovano Base Gaia, Urban village Bovisa, Cenni di cambiamento, Cohousing Terracielo, mentre a Torino il Cohousing Numero Zero, Abitare la fabbrica, il Condominio solidale Casa di via Gessy e la rete di Coabitazioni giovanili solidali. Spesso, come accade nel caso di Uno e sette, la realtà solidale sceglie di riservare spazi per accogliere persone in situazione di disagio: in questi casi, se nel progetto di accoglienza è coinvolta la Pubblica amministrazione o una Fondazione di comunità, l’azione portata avanti dal cohousing rientra in quello che viene chiamato housing sociale (tra le fondazioni più attive a livello nazionale c’è proprio la Fondazione housing sociale).

Dentro gli ecovillaggi

Uscendo dai centri abitati si apre il mondo degli ecovillaggi, realtà dinamiche dalle mille sfaccettature spesso immerse nella natura o in piccoli borghi recuperati nei quali si mette in atto una «rialfabetizzazione» delle relazioni, una condivisione di potere, spazi e decisioni che affascinano anche molti giovani.

Da qualche tempo c’è una proposta di legge sulle «comunità intenzionali» che vorrebbe dare un riconoscimento più formale a tale modo di vivere.

A fare da collettore di esperienze in questo caso è la storica Rive (www.ecovillaggi.it), di cui Francesca Guidotti è stata per anni presidente, ancora oggi uno dei maggiori punti di riferimento a livello nazionale: «Per spiegare gli ecovillaggi parto sempre da una metafora: la vita comunitaria è come un vestito, i cui colori e forme vengono scelti da chi lo indossa, ovvero dalle persone che vivono la comunità. Quindi ogni ecovillaggio è unico, è come la vita di una persona: dall’infanzia in cui si inizia, alla gioventù in cui si esplora la nuova modalità di vita, alla fase adulta dove l’identità diventa ben radicata».

Guidotti ha 35 anni, è diventata madre da poco, ed è autrice del libro guida «Ecovillaggi e Cohousing», Terra Nuova edizioni). Ha iniziato a occuparsi di questi temi più di un decennio fa, durante la tesi in antropologia culturale, e oggi si occupa di formazione per team di realtà collaborative con l’ente Campus del cambiamento, oltre a essere portavoce della Rete di reti (www.retedireti.org), struttura leggera nella quale convergono gruppi informali e associazioni di ecologia ed economia solidale, e in cui rientra a pieno titolo il coabitare. «Confermo che il fenomeno del vivere assieme è in espansione, e il coronavirus ha dato ulteriore spinta a cercare forme di relazioni alternative, in cui si genera benessere sociale per una vita a minore impatto sull’ambiente con uno stile di vita solidale», continua Guidotti, che ha cofondato l’ecovillaggio La Torre di Mezzo, in Toscana. Nel caso dei villaggi ecologici l’asse portante si sposta dal Nord verso il Centro Italia: Torri Superiore vicino a Ventimiglia, Bagnaia nei pressi di Siena, Tempo di Vivere e Lumen a Piacenza, Alvador a Reggio Emilia, La città della Luce ad Ancona sono alcuni dei nomi da conoscere per capire.

Si può fare

Entrando nelle case e conoscendo chi vive realtà di coabitazione, una cosa risulta chiara: è una scelta che si può fare, alla portata di gran parte di noi. Bisogna volerlo, certo. «La base è accorgersi dell’altro. Ancora di più in tempi di costrizione come quelli attuali», riflette Nicholas Bawtree. «Ognuno di noi può essere una risposta a un bisogno altrui, dobbiamo andare in profondità nel “deep web” dell’essere umano per vedere l’altro non come entità minacciosa, ma come risorsa per stare meglio noi stessi». Con un consiglio finale. «Diciamo più spesso buongiorno e buonasera a chi incontriamo in strada, soprattutto ora che abbiamo le mascherine: sciogliamo la tensione salutandoci, è davvero un toccasana». Anche questo è un approccio comunitario alla vita.

Daniele Biella

  

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