testo di Luca Lorusso |
- Sui fiumi di Babilonia
- Le chiese irachene
- Mosaico di religioni
- Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī
Sui fiumi di Babilonia
Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.
«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.
Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.
In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.
La terra di Ur dei caldei
«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.
«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.
In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».
Terra di persecuzione
Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.
A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.
«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.
Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».
Forte simbolismo
Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.
«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.
L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.
Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».
al-Sīstānī, Sako e il papa
Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.
Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.
Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.
Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.
Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.
L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».
Il viaggio e la pandemia
In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.
«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.
Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.
Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».
Luca Lorusso
Le chiese irachene
In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.
Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.
Pluralità di confessioni
In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.
Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.
Esodo e timori
Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.
E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».
L.L.
Mosaico di religioni
Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.
La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.
All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).
Gli sciiti
All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.
Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.
Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.
Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).
In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.
I santuari
I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.
Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.
L.L.
Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī
Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.
Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.
Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?
«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.
Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.
Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.
La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.
In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.
Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.
Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».
La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?
«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».
Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?
«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.
Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.
L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.
Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».
Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.
«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».
Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.
«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.
Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.
Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.
Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».
Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.
«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».
L.L.
Archivio MC:
● Valentina Tamborra, Iraq: la rivolta e la speranza, agosto 2020.
● Angelo Calianno, I sopravvissuti (alla follia dell’Isis). Reportage da Kirkuk, maggio 2019.
● Angelo Calianno, Le bombe non conoscono religione. Reportage da Mosul, aprile 2019.
● Marta Petrosillo, Ricostruire dopo l’Isis. Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, aprile 2019.
● Simone Zoppellaro, Kurdistan: Orgoglio Kurdo. Reportage dal Kurdistan iracheno, dossier, luglio 2017.
● Simone Zoppellaro e Paolo Moiola, Popolazioni perseguitate: Yazidi, dossier, marzo 2017.