Fratelli tutti: per un mondo senza scartati

testo di Francesco Gesualdi |


A ottobre 2020, è uscita la terza enciclica di papa Francesco. Tratta di convivenza e fratellanza. Visto che la qualità dell’esistenza dipende anche dall’economia, il pontefice ne esamina le problematiche. Facendo critiche precise e proponendo soluzioni.

Fratelli tutti: è questo il titolo dell’ultima enciclica di papa Francesco che ha un obiettivo, una motivazione e una strategia. L’obiettivo è quello di sollecitarci a costruire un mondo fraterno senza scartati. La motivazione è la convinzione, condivisa anche con il grande imam Ahmad Al-Tayyeb, secondo la quale Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». La strategia è il dialogo.

Economia e povertà

L’enciclica si apre con un’analisi della situazione che, oltre a concentrarsi su aspetti morali, culturali e sociali, inevitabilmente comprende anche aspetti economici, perché la qualità della nostra esistenza dipende in gran parte da come l’economia è organizzata. L’enciclica lo dice chiaramente: «Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati». E precisa: «Questo scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. […] Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che nascono nuove povertà».

La proprietà privata

Tra i fondamentali capitalistici che papa Francesco torna a mettere in discussione c’è il primato della proprietà privata. Una puntualizzazione che conviene riportare in maniera integrale, perché su questo tema, dentro la Chiesa, ci sono ancora troppe ambiguità: «Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che “non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro”. Come pure queste parole di San Gregorio Magno: “Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene”. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno”. In questa linea ricordo che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il “primo principio di tutto l’ordinamento etico sociale”, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, “non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione”, come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».

Il mercato

Parole altrettanto chiare sono riservate al mercato: «Qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro […]. Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti». E facendo riferimento alla così detta teoria del trickledown, dello sgocciolamento, secondo la quale se si accresce la ricchezza prodotta – non importa cosa, né in quali condizioni, né a vantaggio di chi -, qualcosa arriverà anche ai poveri in virtù del fatto che i ricchi richiederanno un numero di servitori sempre più ampio, il papa aggiunge: «Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” (sgocciolamento) – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a “promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale”, perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».

Per papa Francesco, dunque, la soluzione risiede nella solidarietà e nella gratuità, principi da vivere ad ogni livello, da quello interpersonale e di quartiere fino a quello statale: «Alcuni nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno di uno stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica».

Le migrazioni

L’enciclica non rinuncia ad affrontare anche un altro tema su cui oggi c’è grande fermento: come orientarsi fra locale e globale? Prendendo come riferimento il «vicinato» papa Francesco indica la dimensione regionale, intesa come dimensione continentale, come livello ottimale di collaborazione economica, mettendo in guardia dall’interesse che le grandi potenze hanno a impedire che i paesi poveri stringano alleanze fra loro: «Ci sono paesi potenti e grandi imprese che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun paese separatamente. Al contrario, per i paesi piccoli o poveri si apre la possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze. Oggi nessuno stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione».

Un’enciclica dedicata alla fratellanza non poteva certo ignorare il tema delle migrazioni a cui dedica un intero capitolo. E dopo avere sottolineato come i migranti contribuiscano all’arricchimento umano e culturale della società, papa Francesco sente il bisogno di sgomberare il campo dal rischio che il tema sia valutato solo in termini di convenienza. Per cui afferma senza mezzi termini che la stella polare deve essere la gratuità: «Tuttavia, non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile».

La nuova politica

La sintesi del pensiero di papa Francesco è che «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ma «per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune». Una politica, cioè, che non sia sottomessa all’economia. E una delle vie intraviste da papa Francesco per ottenere una nuova politica è la nascita di una nuova cultura che si può ottenere solo attraverso il dialogo. «Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». E in particolare, dialogo con i movimenti popolari, definiti da papa Francesco come «poeti sociali, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli. Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».

Dialogo e lotta

Il dialogo sollecitato da papa Francesco è verso tutti e in forma gentile. «La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società, trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti».  Nel contempo papa Francesco ci tiene a precisare che dialogo non significa rinuncia al conflitto se serve a fare trionfare i diritti: «Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama».

Francesco Gesualdi




Il ruolo della Cina e i primi passi di Biden

testo di Chiara Giovetti |


Il disinteresse della scorsa amministrazione Usa per la cooperazione ha contribuito all’espansione dell’influenza cinese, specialmente nelle organizzazioni internazionali. L’aiuto allo sviluppo, ma soprattutto gli investimenti cinesi, infatti, sono in forte crescita già da un ventennio. Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, dovrà trovare una mediazione fra la fermezza verso Pechino e il riparare e ricostruire quanto cambiato o demolito da Trump.

Quattro delle principali quindici agenzie delle Nazioni Unite hanno un cittadino cinese come direttore o segretario generale: al primo mandato sono Fang Liu, che guiderà l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) fino al prossimo luglio, e Qu Dongyu che sarà fino al 2023 il direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si concluderà invece alla fine di quest’anno il secondo mandato di Li Yong all’Agenzia per lo sviluppo industriale (Unido), mentre Houlin Zhao, riconfermato nel 2018 alla testa dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), occuperà la posizione fino alla fine del 2022.

Una maggior presenza di una potenza come la Cina nelle istituzioni internazionali è del tutto fisiologica; ma per farsi un’idea del peso che Pechino sta acquisendo basta pensare che le altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia hanno loro cittadini alla guida di una sola agenzia ciascuno@.

Honk Hong /AfMC

Centri d’influenza

Le agenzie Onu non sono molto note ai non addetti ai lavori, ma il loro operato riguarda ambiti con i quali milioni di persone vengono a contatto quotidianamente e non solo nei paesi in via di sviluppo. L’Unione internazionale per le telecomunicazioni, ad esempio, ha fra i suoi incarichi quello di elaborare le norme tecniche per il funzionamento delle reti dell’informazione e della comunicazione senza le quali, si legge sul sito dell’organizzazione, «non sarebbe possibile fare una telefonata o navigare in Internet. Per l’accesso a Internet, la compressione vocale e video, le reti domestiche e molti altri aspetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, centinaia di standard Itu consentono ai sistemi di funzionare, a livello locale e globale»@.

Un esempio delle diatribe che possono sorgere intorno ai temi di cui si occupa l’Itu si è avuto assistendo allo scontro fra l’amministrazione guidata da Donald Trump e la Cina a proposito delle tecnologie di telefonia mobile e cellulare di quinta generazione, o 5G, e del ruolo che l’azienda cinese Huawei ha nella produzione della componentistica e nella costruzione dell’infrastruttura necessaria a far funzionare queste tecnologie. I timori avanzati dal governo statunitense, spiegavano in un articolo del 2019 Alberto Belladonna e Alessandro Gili del centro di ricerca Ispi, riguardavano principalmente la possibilità che i dispositivi Huawei vengano usati per attività di «sorveglianza o spionaggio sulle reti digitali americane» e il fatto che «utenti, aziende e istituzioni sempre più interconnesse saranno più vulnerabili a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese». A questo, sottolineavano gli autori, va aggiunta la competizione relativa alla definizione delle norme di riferimento: «l’International telecommunication union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori»@.

A prendere posizione a favore di Huawei è stato proprio il direttore dell’Itu, Houlin Zhao: quelle statunitensi sono preoccupazioni generate dalla politica e dagli interessi commerciali, ha detto il funzionario cinese, non dalla presenza di prove concrete.

Il pasticcio alla Fao

Anche la Fao, precisa un’analisi di Colum Lynch e Robbie Gramer apparsa nel 2019 sulla rivista Foreign Policy, ha un ruolo importante che riguarda tutti i paesi del mondo, non solo quelli a basso e medio reddito. L’agenzia, infatti, contribuisce a definire la regolamentazione internazionale per la sicurezza degli animali e la salubrità del cibo, e svolge un ruolo chiave nell’elaborazione di risposte alla fame globale, ai cambiamenti climatici causati dalla produzione alimentare e alle esigenze delle agroindustrie@.

L’elezione a direttore della Fao di Qu Dongyu è stato un altro evento indicativo dell’intenzione della Cina di ottenere più posizioni di potere nelle agenzie Onu, e avrà conseguenze anche sulla nomina del prossimo direttore del World food programme (Wfp, Programma alimentare mondiale), l’agenzia che si occupa di assistenza alimentare e che dal 1982 è guidata da un cittadino statunitense. Sarà il direttore della Fao, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a scegliere nel 2022 il prossimo direttore del Wfp e ad «approvare tutte le nomine del personale di alto livello presso l’agenzia, complicando i futuri sforzi degli Stati Uniti per mantenere il loro ruolo dominante».

L’elezione di Qu – figlio di un coltivatore di riso e biologo con alle spalle anche una solida carriera in scienze agrarie e ambientali – è la conseguenza di tre fattori, il primo dei quali è la campagna elettorale molto decisa che la Cina ha fatto per il proprio candidato. Foreign Policy riporta un articolo della Cnn secondo il quale nel febbraio del 2019, pochi mesi prima dell’elezione del direttore generale, un alto funzionario cinese si è recato in Camerun per annunciare la cancellazione di 78 milioni di dollari dal debito del paese africano con Pechino. Un mese dopo il candidato camerunese alla direzione della Fao si è ritirato, facendo sospettare a molti osservatori un legame fra i due eventi.

Il secondo fattore è la confusa e maldestra gestione della vicenda all’interno dell’amministrazione Trump, dove si è consumato uno scontro fra i funzionari più vicini all’ex presidente – cristallizzati sull’appoggio a un candidato debole come l’ex ministro dell’agricoltura georgiano Davit Kirvalidze – e i funzionari più aperti a considerare altri profili da sostenere. Il terzo fattore è stato la mancanza di collaborazione, se non l’aperta ostilità, fra gli Usa di Trump e i paesi europei, compatti invece nel sostegno alla candidata francese, l’agronoma Catherine Geslain-Lanéelle.

«La leadership cinese non è intrinsecamente cattiva», ha spiegato a Foreign policy kristine Lee, del centro studi Center for a new American security, «in una certa misura, gli Stati Uniti dovrebbero essere contenti che Pechino stia cercando di assumersi maggiori responsabilità nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che sta abusando di questa responsabilità. I funzionari cinesi riferiscono a Pechino e prima di tutto servono gli interessi ristretti del Partito comunista cinese, invece di promuovere veramente il multilateralismo e rafforzare la trasparenza e la responsabilità alle Nazioni Unite».

Piazza Tienanmen a Pechino /AfMC

L’aiuto cinese e la nuova agenzia

Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 la cooperazione allo sviluppo internazionale della Cina ha raggiunto 4,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2017. Un miliardo e quattrocento milioni sono andati alla cooperazione multilaterale, cioè alle banche di sviluppo regionale, specialmente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), e alle agenzie delle Nazioni Unite@.

Il dato Ocse è inferiore a quello fornito dall’Agenzia per la cooperazione giapponese, secondo la quale l’aiuto (stimato) della Cina è aumentato da 5,1 miliardi di dollari nel 2015 a 5,9 sia nel 2018 che nel 2019. L’aiuto sarebbe costituito da donazioni bilaterali e prestiti senza interessi per circa la metà, mentre un quinto andrebbe in prestiti agevolati del governo cinese ai paesi beneficiari e il restante 30% in contributi alle organizzazioni internazionali@.

Il dato più alto è quello calcolato dal sito Aiddata, che considera però anche gli impegni dichiarati (commitments) e non soltanto i fondi effettivamente sborsati; secondo Aiddata l’aiuto cinese è aumentato da un miliardo e 300 milioni del 2000 ai 6,9 miliardi del 2014, con una punta di quasi 14 miliardi nel 2009. Nel quindicennio, quindi, la Cina avrebbe fornito aiuti allo sviluppo per 81 miliardi. Nello stesso periodo, il dato per gli Usa – principale donatore mondiale – è di 366 miliardi di dollari@. La China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University presenta invece cifre più basse, che vanno dai poco più di 600 milioni del 2003 ai 3 miliardi del 2019@.

Il motivo delle discrepanze tra i dati delle diverse ricerche è che la Cina non riporta i propri dati a nessun ente internazionale e tutte le stime si basano dunque su complesse ricostruzioni che raccolgono e incrociano i dati pubblicati da ministeri, ambasciate, aziende, banche e altri enti cinesi con quelli messi a disposizione dalle agenzie Onu e da altre organizzazioni alle quali la Cina contribuisce. Tutte le stime dell’aiuto cinese, comunque, puntano nella direzione di una crescita decisa.

Inoltre, la Cina ha creato nell’aprile 2018 l’Agenzia cinese di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Cidca). Secondo diverse analisi, fra cui quelle del centro di ricerca Brookings@ e del Centro per lo sviluppo globale@, l’agenzia è nata con lo scopo di riorganizzare e dare maggiore coerenza alla cooperazione allo sviluppo cinese. Fino al 2018 era l’ufficio per l’aiuto estero del ministero del Commercio a fare da coordinatore, ma i progetti e gli interventi veri e propri venivano affidati a numerosi ministeri e istituzioni finanziarie cinesi, generando così una dispersione delle responsabilità sulla gestione dei fondi e notevoli difficoltà di coordinamento.

Se, da un lato, Cidca ha effettivamente un ruolo centrale nella definizione della strategia e nella formulazione dei progetti, oltre che nel monitoraggio di lungo termine alla fine degli interventi; la gestione dei fondi e le fasi centrali della progettazione rimangono al ministero del Commercio. Per il momento, quindi, l’agenzia appare come la faccia della cooperazione cinese da mostrare ai partner internazionali più che l’ente che effettivamente organizza e gestisce i fondi dell’aiuto.

Per farsi un’idea del ruolo di Cidca basta pensare che i fondi su cui ha contato nel 2019 sono stati, secondo Brookings, l’equivalente di 18 milioni di dollari, a fronte dei 2,63 miliardi ancora gestiti dal ministero del Commercio per aiuto allo sviluppo. Nello stesso anno Usaid, l’agenzia per la cooperazione degli Stati Uniti, ha amministrato 20 miliardi di dollari dei circa 35 destinati all’aiuto allo sviluppo nel bilancio americano.

Il grosso dei flussi finanziari della Cina a sostegno dello sviluppo è sempre stato e continua a essere costituito non dal cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, o Oda nell’acronimo inglese), ma da quelli che, nella classificazione dell’Ocse, si chiamano altri apporti del settore pubblico (Oof, Other financial flows). Sono transazioni che comprendono una percentuale di dono – cioè di fondi che non devono essere restituiti al donatore – inferiore a quella che l’Ocse richiede per classificarli come aiuto@ e operazioni finanziarie bilaterali che hanno principalmente uno scopo di facilitazione delle esportazioni. Secondo Aiddata, questi flussi cinesi sono stati pari a 216,3 miliardi di dollari complessivi fra il 2000 e il 2014, mentre quelli degli Usa sono stati di 28,1 miliardi.

Casa Bianca. /AfMC

L’amministrazione Biden

I primi atti del nuovo presidente americano Joe Biden per quanto riguarda la cooperazione internazionale sono stati di decisa rottura rispetto alla precedente amministrazione. Biden ha ordinato il rientro degli Usa nel trattato di Parigi sul clima e ha annullato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità@.

Tuttavia, secondo Devex, piattaforma online che si occupa di sviluppo@, alcune iniziative lanciate dall’amministrazione Trump hanno buone probabilità di rimanere in piedi, a cominciare dalla riforma di Usaid e dalla Development finance corporation (Dfc), l’ente che usa fondi pubblici per sostenere gli investimenti privati americani in paesi a basso e medio reddito. La Dfc, spiega Daniel Kilmann del Center for a new American security@ disporrà di più risorse, rispetto agli enti che l’hanno preceduta, per «stimolare la partecipazione del settore privato nei progetti all’estero» e va utilizzata in modo efficace se si vuole competere con la Cina e la sua iniziativa nota come Nuova via della seta. Ma, puntualizza Devex, i sostenitori della cooperazione ritengono anche fondamentale assicurarsi che siano le esigenze dello sviluppo e non gli interessi economici e di politica estera a guidare la strategia della Dfc.

Chiara Giovetti




I Perdenti 59. Il «cura gaucho», san José Gabriel Brochero

testo di Don Mario Bandera |


José Gabriel del Rosario Brochero nacque a Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) probabilmente il 16 marzo 1840, sebbene sia stato registrato all’anagrafe un giorno dopo, quando ricevette il battesimo. I genitori, Ignacio Brochero e Petrona Dávila, erano poveri ed ebbero dieci figli. José, il quarto nato, si fece prete e tre delle sue sorelle seguirono la vita consacrata, entrando tra le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli.

Morì contagiato dalla lebbra il 26 gennaio del 1914. È stato beatificato da papa Francesco (suo conterraneo) il 14 settembre 2013, e successivamente canonizzato, sempre da papa Francesco, il 16 ottobre 2016.

Il discernimento vocazionale di Brochero, iniziato nell’infanzia, fu lungo e travagliato. Un suo amico, Ramón José Cárcano, testimoniò di averlo spesso udito esprimere dubbi e incertezze sul suo diventare sacerdote. Alla fine, José Gabriel entrò nel collegio seminario «Nuestra Señora de Loreto» a Cordoba il 5 marzo 1856, a sedici anni. Il 4 novembre 1866, fu ordinato sacerdote dal vescovo José Vicente Ramírez de Arellano.

Da novello sacerdote, José Gabriel fu impegnato su tre fronti:

  • fu collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba;
  • fu instancabilmente attivo nel soccorso agli ammalati e nell’assistenza ai moribondi quando nel 1867 scoppiò nella provincia di Córdoba, come nella capitale Buenos Aires, un’epidemia di colera;
  • servì come prefetto agli studi del seminario maggiore avendo ottenuto nel 1869 il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba.

Nel novembre 1869, fu destinato alla parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Qui si dedicò anima e corpo all’evangelizzazione della popolazione della vasta zona, alla cura degli infermi e anche all’organizzazione della società civile, promuovendo la costruzione di strade, ponti in pietra e persino una linea ferroviaria, tutto per ottenere dei collegamenti più rapidi con la città capoluogo di Córdoba e non lasciare nell’isolamento la popolazione di cui si prendeva cura.

Dicono che la tua morte fu causata dalla lebbra presa visitando i lebbrosi, ma il tuo servizio di sacerdote era già iniziato mentre era in corso un’altra grave epidemia.

Proprio così. Nel 1867, l’epidemia di colera aveva devastato la città di Córdoba colpendo oltre 4mila persone. Pensai che fosse naturale per me, come sacerdote, andare di casa in casa consolando e sostenendo le famiglie, assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati, e dando una sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia.

Due anni dopo, era il 18 novembre 1869, fosti incaricato della cura d’anime in una parrocchia nel cuore della pampa.

Era la parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Vi giunsi da Córdoba dopo tre giorni di viaggio in sella alla mia mula malacara (faccia brutta). San Alberto era una parrocchia di poco più di diecimila anime, che si estendeva su un’area di oltre 4mila chilometri quadrati, popolata da gauchos, ovvero i cow boy dell’America del Sud, che erano addetti alle grandi mandrie di bovini e ovini loro affidati, sia nella pampa che sulle montagne, da semplici contadini attaccati alla loro terra e anche infestata da bande di briganti. Le comunicazioni erano molto difficili, soprattutto a causa della mancanza di strade percorribili tutto l’anno e alla presenza di ostacoli naturali come le catene montuose delle Sierras Grandes.

Un anno dopo il tuo arrivo, accompagnavi già uomini e donne a Córdoba per far compiere loro gli Esercizi spirituali secondo il metodo di Sant’Ignazio.

Una volta arrivato, la prima cosa che feci fu di dedicarmi anima e corpo alla gente, vivendo come loro e stando vicino a loro in ogni modo. Anche il mio modo di vestire si adattava all’ambiente. Mi vestivo come un gaucho con un poncho sulle spalle che copriva la talare, stretta in vita da una cintura di cuoio. In testa avevo un cappello dalle ampie falde; in mano il libro di preghiere e il messale, tenuti insieme con un nastro rosso per non perderli durante i viaggi.

Sigaretta in bocca, usavo un linguaggio semplice e diretto, molto colloquiale, e a volte forte, per farmi comprendere da gente analfabeta che parlava solo il dialetto. Mi chiamavano il cura gaucho perché sapevo cavalcare e domare muli e cavalli come loro. Così visitai tutte le famiglie e davo una mano a tutti, sia dal punto di vista materiale che spirituale. Passavo ore a confessare, e i miei preferiti erano i poveri, perché «Dio è dappertutto, però è più vicino ai poveri che ai ricchi. È come i pidocchi». I prediletti dei pidocchi sono proprio i più miseri, gli indigenti, quelli che non si lavano, né si vestono bene e non hanno cibo a sufficienza.

Oltre alla povertà materiale c’era ovviamente tanta povertà spirituale.

Per questo mi impegnavo molto nella predicazione attraverso visite nelle case, anche quelle più lontane. Mi fermavo anche due giorni in una famiglia, radunando amici e vicini, per avere tempo per confessioni, catechesi e messa. Cercavo di farmi invitare nella casa della «persona più condannata, più ubriacona e ladrona della zona, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente sarebbe venuta ad ascoltarmi. Se fossi invece andato da una buona famiglia, quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi spirituali».

Esercizi spirituali? Ma non sono cose da preti, frati e suore?

Gli Esercizi, ispirati a sant’Ignazio di Loyola, «sono una via e un metodo particolarmente prezioso per cercare e trovare Dio, in noi, attorno a noi e in ogni cosa, per conoscere la sua volontà e metterla in pratica», mettendo ordine nella propria vita. Per chi accettava la proposta, organizzavo carovane per raggiungere Córdoba. Tali carovane superavano a volte le cinquanta persone, e d’inverno erano spesso sorprese da tormente di neve. Dopo le asperità del viaggio e grazie al clima di amicizia che si creava fra loro in quei giorni di ritiro, molti decidevano di cambiar vita.

Dato che il viaggio era lungo e difficile, pensasti di fondare una casa per Esercizi spirituali a Villa del Tránsito, la cui costruzione, avvenuta con la collaborazione attiva dei tuoi parrocchiani, durò dal 1875 al 1877.

Vero, e a quella casa fece seguito, nel 1880, una scuola per le bambine, perché non sopportavo l’idea che il mondo delle ragazze adolescenti fosse tagliato fuori dal progresso che stava arrivando anche nel cuore profondo dell’Argentina.

Spronasti la gente anche a costruire nuove strade, ponti in muratura, uffici postali e persino una ferrovia, ma lo sforzo maggiore lo dedicasti alle scuole rurali. Migliorando le possibilità di comunicazione e accrescendo la loro cultura aumentavi il benessere comune.

Bisogna dire che lungo tutta la mia vita ho profuso instancabilmente il mio impegno civile e religioso per spingere i miei parrocchiani alla costruzione di infrastrutture per migliorare le comunicazioni e uscire dall’isolamento. Nelle località più isolate, soprattutto, stimolavo anche a far sorgere case di accoglienza per i poveri e gli infermi oltre a scuole rurali per i bambini e i ragazzi più bisognosi.

Nemmeno il freddo o la pioggia ti facevano desistere dal promuovere incontri di catechesi per la formazione del tuo popolo e portare I sacramenti agli ammalati.

«Altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», ripetevo alla mia gente.

Un giorno però il vescovo ti volle con sé nella città di Córdoba e ti nominò canonico della cattedrale.

Nell’aprile del 1898 accettai di essere nominato canonico della cattedrale di Córdoba e lasciai quindi la parrocchia il 30 maggio. Lo feci solo per obbedienza e perché la mia salute non era molto buona, sperando di potermi curare meglio in città. Ma la città non era per me e il 25 agosto 1902 fui nuovamente nominato parroco a Villa del Tránsito, dove rientrai il 3 ottobre, rinunciando al canonicato.

Per quanto gratificante fosse il ruolo di canonico della cattedrale, sentivo sempre più impellente la necessità di stare vicino alla gente per alimentare in essa la speranza di un futuro migliore e vivere con dignità la sua esistenza, specialmente quella dei più poveri.

Rientrato a Villa, hai continuato a scegliere quelli che erano in condizioni più difficili, senza guardare a rischi personali.

La vita dei più poveri era più importante della mia. E i più poveri erano i lebbrosi. Sì, nella mia parrocchia c’erano anche lebbrosi che erano abbandonati da tutti, ma Dio non li aveva dimenticati. Per questo li visitavo regolarmente. Tra di loro c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Riuscii ad avvicinarlo e lo visitavo regolarmente: gli portavo da mangiare, lo pulivo e bevevo il mate con lui. Era il mio modo per dimostrargli quanto valesse agli occhi di Dio.

Bevendo il mate con lui ti sei preso la lebbra.

Sì, visitando i lebbrosi sono diventato anch’io lebbroso. Ho dovuto lasciare la parrocchia e ritirarmi presso una mia nipote, perché ero diventato molto debole e quasi cieco. Io che una volta ero come un cavallo di razza, pieno di energia, dovevo farmi aiutare per le mie necessità e anche per celebrare la messa. «Ma è un grandissimo favore che mi ha fatto Dio Nostro Signore liberandomi completamente dalla vita attiva e lasciandomi solo con la vita passiva, voglio dire che Dio mi ha dato come occupazione… di pregare per gli uomini passati, per quelli presenti e per quelli che verranno fino alla fine del mondo».

Il «cura gaucho» morì, o meglio visse la sua Pasqua, a Villa del Tránsito il 26 gennaio 1914, tre mesi dopo aver scritto una lettera al suo vescovo, in cui diceva: «Ora ho tutto pronto per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

È certo, fosse anche solo per la complicità della comune origine argentina, che papa Francesco ha sempre stimato molto «el cura gaucho». Anzi, c’è da scommettere che quando nella messa crismale del 2013 (la prima nella sua nuova veste di «vescovo di Roma») ha chiesto ai preti di essere pastori zelanti con «l’odore delle pecore», pensava a lui. Come del resto ha lasciato trasparire alla sua canonizzazione, quando lo ha definito: «Pastore che odorava di pecora, che si fece povero tra i poveri, che lottò sempre per stare vicino a Dio e alla gente, che fece e continua a fare tanto bene come carezza di Dio al nostro popolo sofferente».

Nel 1916, in suo onore, la cittadina argentina di Villa del Tránsito dove morì, assunse il nome di Villa Cura Brochero.

Dichiarato venerabile da papa Giovanni Paolo II nel 2004, beatificato da papa Francesco il 14 settembre 2013 dopo il riconoscimento di un miracolo a lui attribuito, è stato canonizzato il 16 ottobre 2016. I suoi resti mortali sono venerati nel santuario della Madonna del Transito, a Villa Cura Brochero, mentre la sua festa liturgica è stata fissata il 16 marzo.

Come ultima sottolineatura segnaliamo che cresce sempre più in Argentina, come in altre parti dell’America Latina una richiesta abbastanza originale: che il santo sacerdote José Gabriel del Rosario Brochero, sia proclamato «protettore per il turismo equestre e per i cavalieri e le amazzoni che lo praticano».

I missionari e missionarie della Consolata lo hanno scelto come loro protettore e modello per questo anno 2021.

Don Mario Bandera




Amante della vita

Dio Padre, amante del creato.

Figli di Sendong https://www.flickr.com/photos/90412460@N00/7119030455/in/photostream/

Prima di invitarmi nel cammino della storia, mi hai nutrito e indirizzato; prima di insegnarmi a perdonare, mi hai perdonato; prima di darmi il potere di liberare, mi hai liberato.

Prima di chiamarmi a essere pienamente me stesso, tu stesso ti sei fatto pienamente uomo; prima di invitarmi a donare la vita, tu stesso hai donato la tua; prima ancora di tenermi per mano di fronte alla morte, tu stesso l’hai abitata, riempita di te e oltrepassata.

Dio Figlio, amante della vita.

Hai plasmato il creato e vi hai acceso la vita con il tuo soffio. Appassionato di noi, sei diventato uomo perché noi diventassimo Dio, e hai offerto te stesso come nutrimento perché la vita non morisse. Ti sei dato come Spirito d’amore, e ti dai, linfa della tua Chiesa, perché l’uomo di ogni tempo e ogni terra t’incontri e faccia di te la sua dimora, come tu dimori in lui.

Dio Spirito, amante dell’amore.

In questo tempo di preghiera, digiuno e condivisione,
 buon cammino di rinascita (dall’alto) da amico
Luca Lorusso

E molto di più:

  • amico preghiera: Vuoi guarire?
  • amico progetto: Ospedale di Neisu
  • amico Parole di corsa, con Luca Bovio
  • amico Missione e Missioni

 


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Immagini e storie

testo di Sante Altizio |


Dopo un anno di Covid, l’industria del cinema è in serio affanno, ma non il desiderio di produrlo e di fruirne. E di storie da scoprire e dalle quali lasciarsi coinvolgere ce ne sono molte.

Cinema, anno buio

Scrivere di cinema in piena emergenza sanitaria suona stonato, che più stonato non si può.

Il 2020, per chi ricava il proprio reddito da ciò che si proietta sul grande schermo, è stato un anno a dir poco terribile.

Dopo un inizio che faceva sperare in un anno da record, la chiusura forzata delle sale cine-matografiche, iniziata a marzo, e ancora in corso mentre scriviamo, ha sancito un crollo del 90% degli incassi rispetto al 2019. Un dato empirico su tutti: il profilo twitter di Cinetel, che monitora il box office italiano, ha cinguettato l’ultima volta il 9 marzo 2020 così: «05/03-08/03 -95,41% vs stesso weekend 2019. Dal 1° gennaio +5,43% rispetto anno precedente».

È trascorso un anno da allora, e oggi siamo alle macerie per esercenti, attori, sceneggiatori, registi, case di produzione, distributori.

Se poi leggiamo questi numeri da Torino, dove vivo, tutto assume il tono del grottesco.

Per ricordare il ventennale del Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, e la nascita della Film Commission Torino Piemonte, la capitale dei Savoia, avrebbe dovuto celebrare la settima arte con «Torino, città del cinema 2020». Un anno di eventi già programmati.

In giro ci sono ancora dei manifesti affissi e dimenticati.

Uno scenario apocalittico.

Botox

Eppure qualcosa si è mosso, e qualcosa vale la pena segnalare come segno di speranza per il futuro prossimo del cinema.

Prendiamo il Torino Film Festival (Tff), per giocare ancora in casa. Dal 20 al 28 novembre si è celebrata la sua edizione numero trentotto. Ovviamente in streaming, ed è andata benissimo.

Oltre 18mila biglietti venduti e 133 film in programma. Incasso superiore ai 100mila euro.

Insomma: la voglia di cinema è immune al virus. C’è luce in fondo al tunnel.

Al Tff, che rimane una delle più importanti vetrine del cinema indipendente d’Europa, ha vinto Kaveh Mazaheri, un giovane regista iraniano, al suo esordio su palcoscenici importanti.

Il suo film si intitola Botox, è una storia familiare a tinte thriller. Per la critica, ci troviamo di fronte a un talento degno dei Fratelli Coen. Per alcuni, e credo con ragione, Botox è un Fargo, girato tra le fredde montagne iraniane.

Il cinema iraniano non lo si scopre oggi, ma con Botox arriva l’ennesima conferma: là dove la vita è più difficile, la libertà in pericolo, l’espressione artistica repressa, nasce il cinema migliore.

Il sito specializzato MyMovies segnala che il film di Mazaheri non è ancora disponibile in streaming, ma lo sarà presto. Di sale, ovviamente, non si parla.

Cholitas

Rimanendo in ambito streaming, va segnalata la nascita di una piattaforma cinematografica totalmente gratuita, amerigofilm.it. Si tratta di uno spin off del Nuovi mondi film festival che da dieci anni si tiene nel piccolo comune montano di Valloriate (Cn), nell’alta Valle Stura, a due passi dal confine francese.

Il Nuovi mondi, che passa per essere il più piccolo festival di cinema di montagna del globo, è diventato un appuntamento imperdibile per i veri cinefili.

Il patrimonio che negli anni il festival ha accumulato grazie al concorso, è stato pubblicato su amerigofilm.it e offerto gratuitamente al pubblico.

Il nome Amerigo non è una scelta casuale: Amerigo Vespucci, navigatore, esploratore, cartografo, cinque secoli fa, fu il primo a rendersi conto che aveva di fronte a sé il nuovo mondo. «Visto il momento così particolare che stiamo vivendo – afferma Fabio Gianotti, direttore del festival – abbiamo pensato di condividere con il nostro pubblico, ma non solo, il nostro viaggio alla scoperta di mondi nuovi. Oggi, crediamo, sia una vera priorità. Il mondo che abbiamo conosciuto fino al marzo scorso è cambiato profondamente, e non è ancora chiaro cosa ci aspetta domani».

L’ultima edizione del festival si è tenuta a fine settembre, in presenza, nella finestra estiva che ci ha illuso che il peggio fosse passato. Ha vinto, quasi a furor di popolo, Cholitas, degli spagnoli Pablo Iraburu, Jaime Murciego. Il film strappa lacrime e sorrisi a ripetizione. È la storia di cinque donne indigene boliviane che decidono, a discapito della tradizione, dei mariti, di ciò che può dire la gente, di scalare l’Aconcagua, poco meno di 7000 m, la vetta più alta delle Ande, situata in Argentina. Lo decidono e lo fanno. Parliamo di una storia vera, di un film documentario di grande qualità, che ha vinto diversi premi in pochi mesi.

Las Cholitas sono diventate un caso e ora sono diventate un’icona per generazioni di donne andine. Ognuno ha gli/le influencer che si merita.

Tra qualche settimana potremo vedere Cholitas gratuitamente su amerigofilm.it.

Radici e le migrazioni

Chiudiamo con uno sguardo al piccolo schermo e alla tv generalista (sempre più assediata dalle piattaforme on demand). Su Rai3 dal 2011, la domenica, all’ora di pranzo, andava in onda Radici. L’altra faccia dell’immigrazione.

Davide Demichelis, autore e conduttore di valore, ripercorre a ritroso il viaggio che alcuni migranti, donne e uomini residenti in Italia, hanno fatto per arrivare nel nostro paese. Lo percorre assieme a loro, verso le loro radici, per scoprire insieme cosa si sono lasciati alle spalle.

La media di spettatori sfiora il 4% di share, parliamo di circa 700mila persone che, seguendo il programma, dimostrano interesse verso un tema nodale della nostra contemporaneità. Eppure, dal 2018 la produzione di nuove puntate si è interrotta e da domenica 24 gennaio anche la messa in onda delle repliche è stata stoppata. Oggi si possono guardare tutte le stagioni dal 2011 al 2018 su Raiplay, ma cosa aspetta la Rai a produrre nuove puntate?

Sante Altizio




Sommario MC marzo 2021


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Lun, 1 marzo 2021

Dn 9,4b-10; Sal 78; Lc 6,36-38

Signore, non trattarci secondo i nostri peccati


Da Punti luminosi
un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Nella vita fraterna non siamo separati gli uni dagli altri come se fossimo statue di un museo. Sarebbe una grande tristezza se i membri di una famiglia assomigliassero a delle statue, ognuno sul suo piedistallo.