La vita sospesa di Fukushima

A dieci anni dal disastro nucleare

Un piccolo altare a ricordo delle vittime dello tsunami del 2011, a Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

testo di Piergiorgio Pescali |


Oltre alle radiazioni scaturite dall’incidente nucleare del 2011, la popolazione e il territorio di Fukushima hanno dovuto sopportare alte dosi di disinformazione. Anche per questo la rinascita è difficile.

Quest’anno il Giappone ricorda il decimo anniversario di tre eventi che hanno condizionato la politica e l’assetto sociale dell’intera nazione. Alle 14.46 dell’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9.0 sconvolse le regioni orientali affacciate sull’Oceano Pacifico. Una cinquantina di minuti dopo, una serie di ondate alte tra i tre e i quattordici metri, raggiunse le coste del Tohoku penetrando per diversi chilometri nell’entroterra, e devastando ciò che il sisma non era riuscito a distruggere. Le vittime furono ventimila, il 92% delle quali causate dallo tsunami.

Le due centrali nucleari di Fukushima gestite dalla Tepco (Tokyo electric power company), la più grande compagnia elettrica della nazione, furono inondate dalla marea che invase le stanze dove erano collocati i generatori di emergenza.  Senza elettricità, le pompe non riuscirono a immettere l’acqua di raffreddamento nei reattori i quali iniziarono a surriscaldarsi. La situazione fu riportata sotto controllo a Fukushima Daini (Fukushima 2), ma a Fukushima Daiichi (Fukushima 1) tre dei sei reattori subirono una parziale fusione del nocciolo liberando radioisotopi, in particolare xeno-133, iodio-131, cesio-134, cesio-137, tellurio-132, stronzio-90 che si sparsero nell’ambiente.

I venti trasportarono tra il 70 e l’80% della radioattività sulle acque dell’oceano antistanti la centrale, mentre il restante 20-30% si depositò su una lingua di terra che si incuneò per circa quaranta chilometri nell’entroterra.

Un accumulo di sacchi contenenti terreno contaminato dalle radiazioni della centrale di Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

Troppe falsità

Migliaia fra artigiani, agricoltori, pescatori rimasero senza lavoro e l’agricoltura della zona, settima tra le prefetture del Giappone in termini di produzione totale, ma seconda per prodotti biologici, si afflosciò.

Il riso e le pesche «made in Fukushima», un tempo vanto della provincia e famosi in tutto l’arcipelago, rimasero a marcire nei campi. Sebbene la radioattività controllata per ogni lotto di raccolto, dopo il primo anno di picco, fosse scesa sotto i livelli di guardia, i consumatori erano oramai sfiduciati, da una parte dalle troppe bugie e verità nascoste del governo e della dirigenza Tepco, dall’altra dalle campagne antinucleari e ambientaliste di alcune associazioni che lanciavano allarmi preoccupanti sullo stato della radioattività. C’era chi, inventando dati e interviste, descriveva una Tokyo deserta e terrorizzata, e chi preconizzava un Giappone per la maggior parte inabitabile, dove l’intera popolazione dell’arcipelago sarebbe stata costretta a trasferirsi nelle poche aree salvatesi dalla nube radioattiva.

Dalla parte opposta, le organizzazioni pro-nucleare e la Tepco, guidate dal governo di Naoto Kan, l’allora primo ministro giapponese del Partito democratico, cercavano di minimizzare i pericoli, assicurando che la popolazione non correva alcun rischio, e che la situazione era sotto controllo. Chi aveva ipotizzato il pericolo di fusione dei reattori (come realmente accadde) venne immediatamente destituito.

In questa guerra sull’informazione, nessuno dei due eserciti aveva la piena ragione dalla sua parte e, come spesso accade nei conflitti, la popolazione civile fu quella che subì le maggiori conseguenze.

Le divergenze non si limitavano a mettere a confronto chi era pro o contro il nucleare, ma si trasmettevano trasversalmente tra chi vedeva messo in pericolo il proprio lavoro di una vita e chi soffiava sul fuoco per meri interessi economici o ideologici. Agricoltori che avevano lottato in tempi non sospetti contro la presenza delle centrali atomiche, si trovarono all’improvviso a contestare gli stessi movimenti antinucleari che propagandavano la propria azione pubblicando rapporti allarmistici, raffazzonati e zeppi di dati privi di fondamento scientifico, illustrati con fotografie falsificate. In questo scenario surreale, Fukushima tentava di rimettersi in piedi.

Oggi, a distanza di dieci anni, si può dire che vi sia riuscita, almeno in parte.

La difficile rinascita

Dal 2014 le zone interdette alla popolazione sono state ristrette sempre più, ed oggi l’area di evacuazione totale si è ridotta a 337 km2 rispetto ai 1.653 km2 del 23 aprile 2011. Al contempo, la popolazione evacuata è scesa da 165mila (maggio 2012) a 37mila (novembre 2020). Le ultime zone riaperte, alla fine del 2020, sono quelle di Futaba, Tamioka e Okuma, tra le più colpite in quei tragici giorni del marzo di dieci anni fa.

Nonostante circa un milione di cittadini e 443mila imprese abbiano ottenuto o stiano ottenendo rimborsi per un totale equivalente a 76 miliardi di euro, le difficoltà a cui vittime e residenti devono far fronte sono ancora evidenti.

E sono problemi che non possono essere risolti con alcun tipo di indennizzo economico.

Anni e anni di sradicamento dalle proprie comunità, dalla terra natia, di convivenza con estranei in case di fortuna che impedivano una pur minima privacy, la consapevolezza di non potere più lavorare come prima, l’emigrazione verso altre prefetture con la conseguente frammentazione delle famiglie, hanno trasformato Fukushima in un baratro psicologico per molte delle vittime.

Un terremoto, uno tsunami, per quanto devastanti e terribili possano risultare, lasciano la speranza della ricostruzione. Al contrario, le invisibili particelle radioattive sprigionatesi da una centrale nucleare, spazzano anche questa eventualità. Non basta più solo ricostruire. Bisogna rivoltare il terreno, raschiare centinaia di chilometri quadrati di superficie, ripulire il suolo, filtrarlo, ridistribuirlo. E il sale marino, che ha impregnato i campi, li ha inariditi diminuendo la fertilità, sconvolgendo l’equilibrio chimico che rendeva così preziosi e unici i raccolti.

Radiazioni e tumori

Gli studi dell’Unscear – United Nations scientific committee on the effects of atomic radiation – confermati anche da altre ricerche scientifiche, affermano che la dose effettiva di radiazioni assorbita dalla popolazione che viveva nelle zone contaminate durante l’incidente è stata inferiore a 10 mSv (millisievert; il «sievert» misura gli effetti provocati dalla radiazione su un organismo), una quantità paragonabile alla dose radioattiva naturale annua assorbita in media dai giapponesi.

Tra i tipi di cancro sensibili alle radiazioni, solo quello riconducibile alla tiroide, causato dallo iodio-131, può essere imputabile con relativa certezza a Fukushima. Per tutte le altre insorgenze tumorali non possono essere tratte conclusioni certe sulla correlazione con le radiazioni rilasciate. Questa forte ambiguità causale aggiunge un altro elemento di scontro scientifico nell’ambito medico riguardante gli incidenti nucleari.

Nel giugno 2011 è iniziato un programma di monitoraggio sanitario trentennale a cui partecipano più di due milioni di cittadini giapponesi, 360mila dei quali di età inferiore a 18 anni. L’obiettivo è quello di monitorare l’andamento dei tumori tiroidali. Nel marzo 2020 la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato i primi risultati della ricerca stabilendo la bassa incidenza dei casi di cancro alla tiroide a Fukushima correlati al contenuto di iodio-131 nel suolo e nell’aria.

È comunque difficile convivere con l’incertezza di cosa riserverà il domani: le radiazioni possono manifestare i loro effetti anche a distanza di anni e questa «vita sospesa» influisce pesantemente nei rapporti interpersonali, sia in famiglia che in società.

Specialisti misurano le radiazioni attorno alla centrale di Fukushima. Foto Susanna Lööf / IAEA Imagebank.

Dalla terra al mare

Non sono solo gli agricoltori e gli artigiani a soffrire per l’incidente di Fukushima. I pescatori delle coste limitrofe alla centrale hanno subito perdite e devastazioni altrettanto pesanti. Il Grande terremoto del Giappone orientale e il successivo tsunami hanno danneggiato circa 29mila pescherecci, circa il 10% della flotta totale giapponese, e 319 porti. Nella sola prefettura di Fukushima sono state 873 le imbarcazioni danneggiate.

A causa dei venti, la maggior parte delle radiazioni fuoriuscite dalle Unità 1, 2, 3, 4 di Fukushima Daiichi sono state sospinte sull’oceano portando la Fukushima fisheries cooperative association a vietare la pesca nelle acque antistanti la centrale tra il marzo 2011 e il giugno 2012. Successivamente le attività sono state gradualmente riaperte, ma ancora oggi il pescato totale è il 10% di quello antecedente il disastro nucleare.

Anche in questo caso, come avviene per i prodotti agricoli e pastorizi, tutta la merce è analizzata per misurare la quantità di radionuclidi contenuta. La fetta di mercato nazionale (pari all’1% del totale) che occupavano i pescatori della prefettura prima dell’incidente nucleare è stata riempita da altre comunità e sarà difficile che possa essere riconsegnata alle cooperative di Fukushima. Per sopravvivere ci si è affidati al senso di comunità: come è successo tra i piccoli coltivatori, anche i pescatori hanno potuto contare sulla solidarietà dei concittadini che nei periodi più critici hanno acquistato i prodotti invenduti permettendo una difficile sopravvivenza.

Esperti raccolgono campioni d’acqua nelle acque di mare antistanti la centrale nucleare. Foto NRA / IAEA Imagebank.

Lo sversamento delle acque

Ora però un altro pericolo si sta profilando all’orizzonte. Un pericolo più concettuale che reale: l’annunciato sversamento delle acque di contenimento radioattivo nell’oceano. Per evitare che il «corium» (la massa altamente radioattiva di combustibile nucleare fusa durante l’incidente ed oggi solidificatasi) liberi radioisotopi nell’aria, viene insufflata acqua nei reattori 1, 2 e 3. Successivamente, questa acqua è filtrata e depurata da tutti i radioisotopi tranne per il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile e costoso da eliminare. Ad oggi circa 1,24 milioni di tonnellate di acque sono immagazzinate in 1.061 serbatoi e ogni giorno se ne aggiungono 160 tonnellate. L’Iaea (International atomic energy agency) prevede che la capacità di stoccaggio si esaurirà nel 2022, ed entro tale data bisognerà decidere come smaltire se non tutta, almeno parte dell’acqua. Già nel 2013, dopo che le prove per eliminare il trizio erano fallite, il governo aveva avvisato che, tra le opzioni considerate, quella dello scarico in mare era la più probabile compatibilmente con la sicurezza ecologica e l’economicità dell’operazione. Nel 2020 la decisione finale è stata accolta con preoccupazione non solo dalle associazioni ambientaliste, che hanno riproposto la visione apocalittica di un oceano Pacifico radioattivo e privo di vita, ma anche dai pescatori locali, preoccupati più per l’impatto negativo di tanto clamore sui consumatori che per l’effettivo inquinamento provocato dal trizio.

Il rilascio programmato delle acque ha una tempistica che durerà tra i sette e i trentatré anni (la durata dipende dal limite di radioattività massimo che si vuole raggiungere e dall’anno in cui si inizierà a sversare l’acqua) e comunque è stata scaglionata in modo da non superare mai il limite imposto dalla legge giapponese. Tenendo conto che la contaminazione da trizio nelle acque da versare in mare è di circa 1 PBq (da 0,5 MBq/l a 4 MBq/l)  e che nei complessivi 1,3 milioni di metri cubi di acqua da scaricare sono presenti in totale circa tre grammi di trizio, è stato calcolato che, se l’intera quantità di acqua oggi presente nei serbatoi venisse scaricata nel giro di un solo anno, l’impatto nelle acque marine sarebbe di 0,00081 mSv/anno. Ben poco se paragonati ai 360 TBq/anno di trizio rilasciato tra il 2008 e il 2011 dalle sole centrali giapponesi o alla quantità di trizio scaricata nelle acque marine da altri impianti nucleari sparsi per il mondo.

Il futuro del nucleare in Giappone

Il disastro di Fukushima accese il dibattito sul futuro energetico del Giappone. L’autosufficienza energetica nazionale, che nel 2010 era pari al 20,3% di cui la quasi totalità proveniente dal settore nucleare, nel 2013, dopo la chiusura dei reattori, era scesa al 6,6% per risalire al 9,6% nel 2017 a causa della parziale ripresa dell’attività atomica e dell’aumento dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, potenziate dai forti incentivi concessi dal governo e dal sensibile miglioramento delle tecnologie dedicate a questo campo di sviluppo.

Già alla fine del 2012, quando Shinzo Abe succedette a Yoshihiko Noda alla guida del governo del Giappone, fu chiaro che il nucleare avrebbe avuto ancora un futuro nella politica energetica giapponese. Un futuro incerto e di transizione, in linea con il modello descritto dall’Ipcc (International panel on climate change), ma che lasciava spazio all’energia atomica almeno fino al 2050 secondo i piani del primo ministro per ottemperare anche agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 che la nazione si è proposta di raggiungere entro quella data.

All’inizio del 2021, secondo l’Iaea, in Giappone sono di nuovo operativi trentatré reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione. Due reattori, che aggiungeranno un totale di altri 2.653 MWe, sono in fase di costruzione, mentre sono stati chiusi definitivamente ventisette reattori.

La disastrosa condotta dei governi che hanno gestito l’incidente nucleare di Fukushima (in particolare quello di Naoto Kan), si ripercuote ancora pesantemente nell’opinione pubblica giapponese: solo l’1,9% dà credito al governo e ancora meno (1,2%) all’industria nucleare. Il motivo è da ricercarsi nella reticenza da parte di queste due entità nazionali (governo e industria) nel dare notizie veritiere alla popolazione, nell’insufficiente preparazione del personale, nella condotta della dirigenza delle compagnie energetiche e nelle numerose bugie rilasciate sia dagli apparati governativi che dai vari protagonisti privati sul pericolo radioattivo e sul modo con cui è stata gestita l’emergenza.

Nel 2019 un grosso scandalo che ha coinvolto la Kansai electric power company (Kepco), membri della prefettura di Fukui, del Partito liberaldemocratico e dello stesso ex sindaco di Takahama, ha sconvolto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta l’industria nucleare nipponica.

Lo scandalo ha riportato alla ribalta i loschi interessi del «villaggio nucleare» nazionale, un problema già più volte sollevato da numerosi gruppi antinucleari e che viene spesso associato alla mancanza di controlli adeguati nel campo della sicurezza all’interno delle centrali.

Proprio questo sistema perverso e pericoloso avrebbe dovuto mettere in guardia i vari dicasteri preposti alla sorveglianza nucleare, cosa che in Giappone non è avvenuta ed è uno dei motivi per cui oggi molti cittadini si sentono defraudati della propria sicurezza.

È anche per questo che i giapponesi faranno fatica ad accettare un ritorno al nucleare che sembra oramai già deciso

Piergiorgio Pescali

Archivio MC

● Piergiorgio Pescali, Atomi di pace, atomi di guerra, dossier, agosto-settembre 2018;
● Piergiorgio Pescali-Mirco Elena-Tiziano Tosolini, Giappone. Viaggio nel disastro nucleare, dossier, dicembre 2015.

Esperti della IAEA in visita alla centrale di Fukushima. Foto Greg Webb / IAEA Imagebank. 

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