testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |
Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.
«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.
Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.
Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.
A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.
A corte, dalla regina
Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.
Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.
Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.
Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.
Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.
Uniti si può
Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».
Lo spedizioniere
Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.
La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.
Riciclo e circolazione
Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.
Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.
Dentro al container
Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.
Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.
Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è una pratica illecita).
L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.
Piccoli commerci
Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.
Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.
Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.
Tutti in discarica
Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».
Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.
Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio
Le autrici
Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/