Una crisi di sistema come quella del coronavirus richiede soluzioni di sistema. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio, nei suoi bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di impresa al servizio di piccole realtà, ma anche di quartieri di grandi città.
Sulla vetrina dello storico forno di San Leo c’era un cartello che diceva «chiuso per ferie». Nel piccolo paese di cento anime in Valmarecchia, provincia di Rimini, tutti sapevano, però, che Vittorio Giorgini, fornaio da sessant’anni, non aveva chiuso «per ferie», ma «per cessazione».
Nell’ottobre del 2018 è venuto così a mancare un servizio importante per le famiglie del borgo, ma soprattutto un luogo affettivo e simbolico per l’identità dell’intera comunità leontina.
È stato questo nuovo strappo, in un tessuto sociale già in grande difficoltà per lo spopolamento, che ha spinto una trentina di cittadini tra i 24 e gli 80 anni a iniziare un percorso che ha portato alla nascita, il primo agosto del 2019, di Fer-Menti Leontine, una delle ultime nate tra le cooperative di comunità. Oggi in Italia, secondo un rapporto Euricse del maggio scorso, sono 109 le imprese nate dal basso per rispondere ai bisogni dei cittadini.
Il toscano di San Leo
«Nel 1939 a San Leo c’erano due forni a legna del comune», ha raccontato Vittorio Giorgini a Stefano Rossini, giornalista del settimanale cattolico locale «Il ponte», nel settembre scorso. «Uno lo prese mio padre. Nel ’40 fu richiamato in guerra e poi rimase prigioniero fino al 1942. In quegli anni furono le mie due zie a lavorare. Appena tornato riprese il lavoro, e nel ’51 ha fatto il primo forno a carbone e legna. Ricordo la fatica del forno a legna. Era un lavoro tremendo. […]. Il forno attuale lo abbiamo fatto nel ’59. È stato il lavoro della mia vita. […] Fare il pane è un lavoro molto impegnativo. Se lavori con la fretta le cose vengono male!».
La storia del toscano di San Leo sta tutta in queste parole. Una storia che rischiava di terminare, ma che oggi è ancora aperta: il cartello «chiuso per ferie» è stato simbolicamente riscritto dagli abitanti di San Leo con le parole «torno subito».
Dopo un anno di vita, l’impatto della cooperativa sul territorio è positivo, non solo per il buon pane, ma soprattutto per il senso di comunità che ha contribuito a far crescere. Si pensi ad esempio all’aiuto offerto ai leontini durante l’emergenza coronavirus, attivando, tra le altre cose, un servizio di «spesa e farmaci a domicilio», assicurando capillare attenzione a tutti.
Il percorso
Il percorso per la costituzione della cooperativa di comunità a San Leo inizia quando, nell’autunno del 2018, Confcooperative Ravenna-Rimini, insieme all’associazione Figli del Mondo e all’acceleratore di start up Primo Miglio, organizzano una serie di incontri informativi sulle coop di comunità in diversi comuni della Valmarecchia, tra cui San Leo.
Il forno storico del paese ha appena chiuso. Durante i cinque incontri organizzati in paese, anche grazie all’amministrazione comunale, i leontini, aiutati da Giovanni Teneggi di Confcooperative, comprendono le potenzialità della proposta e iniziano a mettere sul piatto sogni e progetti a favore dell’intera popolazione della zona.
Durante gli incontri emergono le numerose criticità del tessuto sociale ed economico locale.
I fili conduttori sono due: da un lato lo spopolamento che porta alla chiusura delle poche e piccole attività commerciali presenti, dall’altro gli effetti negativi dei flussi turistici che hanno una fisionomia ciclica molto marcata.
Il centro storico di San Leo, infatti, grazie alla millenaria fortezza che lo sovrasta e che costituisce il quinto monumento più visitato di tutta la regione Emilia-Romagna con oltre 71mila visitatori all’anno, subisce un turismo «mordi e fuggi», con flussi elevati alternati a periodi di bassa stagione con presenze minime che scompaiono quasi completamente nel periodo invernale.
Voci di speranze
Alla prima riunione organizzata per parlare del futuro del forno, e quindi del paese, per rispetto al fornaio, tutti ne parlano sottovoce: una domanda di troppo sarebbe imbarazzante. Però gli occhi sono desiderosi e le mani pronte a rimpastare speranze.
«Abito qui, sono curiosa di capire cos’è la cooperazione di comunità», ci dice una cittadina.
Un giovane aggiunge: «Produco grani antichi e farro, vado piano perché sono da solo».
Di fronte al timido approccio dei leontini, noi pensiamo che spesso si ha timore a dire cosa si spera davvero per il futuro, soprattutto se l’attesa nasce dall’intimo e chiede agli altri una condivisione. E che, in fondo, quello che i sogni chiedono, è semplicemente di credere in loro e di farne un cammino comune.
Una giovane mamma racconta che per amore della sua famiglia ha lasciato il lavoro in città, e vorrebbe dare una mano a San Leo, perché lì sono le sue radici, lì batte il suo cuore.
C’è un pensionato che è tornato a San Leo e dedica il suo tempo a curare i luoghi di tutti, per curare se stesso, e sa che se rimane da solo, né lui, né il paese potranno resistere a lungo.
C’è un giovane professionista che vorrebbe tornare da Milano alla sua terra nativa, e la mamma di una famiglia giovane che non se ne vuole andare, e si adatta a fare la pendolare, perché una casa e un sogno rimangano accesi la sera.
Quella luce, quell’odore di camino acceso, nelle sue parole, parlano del desiderio di una casa comune per tutti.
Economia affettiva
In occasione della nascita di Fer-menti Leontine, Andrea Zanzini, dell’associazione Figli del Mondo, racconta a «il Ponte»: «Una delle ferite più dolorose della comunità è stata la chiusura del forno […]. Una volta compreso il legame affettivo con questa attività abbiamo proposto ai cittadini di costituire la cooperativa di comunità partendo proprio dal [suo] recupero».
Fin dall’inizio, nel progetto, è coinvolta la proprietà del vecchio forno che decide di mettere a disposizione la propria esperienza, cioè quel valore aggiunto che è il «segreto» del pane di San Leo, oltre agli storici locali della bottega in affitto.
La cooperativa, dalla sua costituzione, inizia un percorso di scoperta, condivisione, formazione e costante lavoro.
Le persone che partecipano agli incontri, sono una trentina in tutto. Alcune di loro saranno coinvolte attivamente nella gestione del forno, altre daranno il loro supporto alla progettazione di nuovi servizi per il paese: attività agricole, la cura degli spazi del borgo, il supporto all’amministrazione per il mantenimento di servizi essenziali. Al centro, la promozione di un turismo sempre più orientato al rispetto del territorio e del suo tessuto sociale, capace di far riconoscere San Leo come un gioiello da vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura.
Soluzioni di sistema
Una crisi come quella del coronavirus o, più in piccolo, come quella di San Leo e di altri borghi simili, sono crisi di sistema che richiedono soluzioni di sistema, non iniziative prese a compartimenti stagni. C’è bisogno di connettere tutti i bisogni e le opportunità del territorio. Occorre rivalutare i luoghi nei quali viviamo, e dare valore alla prossimità.
Le persone che appartengono alle comunità, possono promuovere imprese che mettano al centro i bisogni di ogni cittadino. Imprese che superino la distinzione tra profit, non profit, pubblico. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio e quindi conoscitrice profonda di bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di imprese multifunzionali che possono adattarsi anche a quartieri di grandi città.
Fenomeno in crescita
In Italia, dieci milioni di persone vivono in 5.683 comuni con meno di 5mila abitanti. Centri abitati spesso di dimensioni ridotte, in territori difficili da raggiungere, disagiati e con scarsi collegamenti e infrastrutture.
In questo contesto, il fenomeno della cooperazione di comunità è in crescita e si sta diffondendo in tutta Italia con più di cento esperienze, in risposta a sfide e difficoltà dei territori interni e montani, e la crisi da Covid-19 ci ha fatto capire che il modello sarebbe adatto anche ai centri urbani più grossi.
Le coop di comunità nascono per valorizzare aree impoverite o vulnerabili, per ripristinare e salvaguardare beni comuni o funzioni pubbliche, per cogliere opportunità economiche nascoste, o avviare processi di innovazione in senso comunitario.
Sono protagoniste della rinascita dei servizi più disparati: dal turismo al welfare, alla cultura, alla produzione agricola, e così via.
Il venir meno di un servizio o di un’attività economica in un paese, dunque, fa aguzzare l’ingegno e sperimentare nuove forme di collaborazione. «Le cooperative di comunità sono costituite da imprese e abitanti di un territorio, in genere con dei problemi di impoverimento sociale ed economico, che intendono collettivamente intraprendere attività o servizi che né il mercato né lo stato riescono a garantire, al fine di migliorare la vivibilità di quella realtà», spiega Giovanni Teneggi, animatore delle maggiori cooperative di comunità in Italia. «Sono cooperative nelle quali i soci, riunendosi, non attivano solo iniziative finalizzate alla mutualità interna, ma rispondono anche a interessi più generali della collettività».
E l’Italia non è l’unico paese che sperimenta queste forme di collaborazione dal basso. Secondo lo «Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità», pubblicato nel 2016 dal Mise (ministero dello Sviluppo economico), «a livello internazionale, in altri paesi europei esistono da anni alcuni modelli di impresa “comunitaria” che presentano specificità e caratteristiche che possono essere paragonate alle cooperative di comunità italiane […]. Tra queste le esperienze più significative si trovano nel Regno Unito, in Francia e in Germania».
Quindi cosa sono?
Le cooperative di comunità sono vite, sogni, culture, conversazioni, voglia di fare, genuinità, semplicità, volti, competenze, e tutto questo tradotto in economie possibili. Costituire una coop di comunità significa: «Fare qualcosa / per la comunità / con la partecipazione della comunità / attraverso un’impresa».
Fare qualcosa, cioè riaprire un bar o un hotel abbandonato, organizzare percorsi turistici, pulire i boschi, cucinare quel piatto che la tradizione del territorio conosce e riconosce, riprendere in mano alcune vocazioni specifiche che ogni territorio ha e che erano andate perdute, o scoprirne di nuove.
Per la comunità: quali sono le vocazioni del territorio? Quali sono i sogni che abitano dietro le porte e le finestre dei cittadini? Quali sono le competenze degli anziani che potrebbero essere portate alla luce e diffuse? Quali sono i bisogni dei cittadini? Cosa sta venendo a mancare?
Con la partecipazione della comunità, ossia di Carlo, il contadino burbero che al momento del bisogno ti viene a prendere con il suo trattore; di Giovanni che ha un’azienda di pellame ed esporta in giro per il mondo; di Maria, professionista che vive a Milano e che desidera tornare nel suo paese nativo per mettere in pratica lì ciò che ha imparato; ma anche di Chiara, mamma da qualche mese che ha perso il lavoro a causa della crisi; di Paola che con il suo negozio di alimentari vorrebbe fare qualcosa di più ma non sa come.
Attraverso un’impresa: la parola «impresa» per Treccani «indica per lo più azioni, individuali o collettive, di una certa importanza e difficoltà». Si usa in espressioni come «impresa ardua», «impresa eroica», «l’impresa di Cesare». L’impresa è anche un soggetto economico che lavora e dà lavoro, e che, a tutti gli effetti, ha di fronte un cammino arduo con i suoi rischi.
Welfare dal basso
Lo spirito di queste organizzazioni, che agiscono come «risvegliatrici di sentimenti», è quello d’incentivare l’innato istinto di ognuno di offrire il proprio contributo per permettere a tutti di crescere in una società migliore, creando sinergie tra le persone.
In giro per l’Italia, da Nord a Sud, sono nati piccoli presidi sanitari che garantiscono ad anziani e malati prelievi e assistenza medica di base, senza dover percorrere chilometri; servizi scolastici integrativi che potenziano l’offerta formativa a favore di una maggiore libertà oraria per i genitori; attività di compagnia per anziani soli, di pulizia e mantenimento degli spazi pubblici e di quelli del vicinato, di manutenzione della proprietà di chi, ad esempio per cause di salute, non riesce a farla; filiere turistiche in sinergia con l’enogastronomia locale e la riscoperta e tutela territoriale; presidi aggregativi per lo sviluppo delle abilità pratiche e culturali dei cittadini.
Il beneficio di queste iniziative si misura in termini di ripopolamento e di nuovi posti di lavoro.
Tutto questo rientra in una più vasta idea di welfare home made-self made (benessere fatto in casa) che nasce direttamente dai cittadini.
Alcuni esempi
La prima cooperativa di comunità fondata in Italia – e nel mondo – è quella di Succiso (Reggio Emilia), piccolo borgo di 65 abitanti dove, nel 1991, dopo la chiusura dell’ultimo bar e dell’ultima bottega, alcuni giovani della Pro Loco hanno costituito la Cooperativa Valle dei cavalieri. In 28 anni, la cooperativa ha creato nove posti di lavoro, e fattura 700mila euro, creando un ecosistema che favorisce a cascata gli altri indotti locali.
Secondo lo «Studio di fattibilità» del Mise, già citato, «la cooperativa, nel corso degli anni ha promosso l’attività del suo agriturismo e ristorante sperimentando anche nuove offerte turistiche in collaborazione con il Parco Nazionale del quale è centro visita. La cooperativa è cresciuta sviluppando un’azienda agricola che ha consentito la produzione di pecorino Dop. Ha poi ampliato i suoi ambiti acquistando un pulmino per il trasporto alunni, il rifornimento dei medicinali per gli anziani, e realizzando un importante investimento per […] un impianto fotovoltaico».
Altra esperienza è quella della Cooperativa Pracchia che, nel pistoiese, lavora in diversi settori: dalla gestione dei servizi per gli anziani alle attività di cura del patrimonio naturale e urbanistico (gestione di giardini, parcheggi, rive dei corsi d’acqua, bagni pubblici), al ripristino e alla cura dei castagneti abbandonati per il rilancio dell’economia e della filiera delle tipicità locali.
Biccari e Cerreto
In Puglia, a Biccari, nell’entroterra foggiano, la Cooperativa Biccari ha valorizzato gli immobili comunali poco usati e ha costruito un progetto turistico di alta qualità nel rispetto della natura. Tra le proposte turistiche più originali della cooperativa pugliese, c’è una «mini casa pop up», cioè una stanza temporanea a forma di bolla trasparente, immersa nella natura del Lago Pescara di Biccari, nella quale poter «dormire sotto le stelle». Nello stesso contesto c’è anche una stanza in tessuto sospesa tra gli alberi, chiamata «Atomo».
All’interno del progetto turistico, la cooperativa organizza uno «scambio culturale» offrendo a giovani tra i 18 e i 35 anni di essere ospitati gratuitamente in cambio di tre ore di volontariato giornaliere: una proposta che crea un turismo consapevole a beneficio del territorio.
Infine, possiamo citare, come ultimo esempio, la Cooperativa dei Briganti di Cerreto, a Cerreto Alpi, frazione del comune di Ventasso, in provincia di Reggio Emilia, nell’appennino tosco emiliano. Anch’esso un borgo a rischio estinzione dove ora, con la presenza della cooperativa, tutto viene gestito in comunità: dall’ostello al castagneto, dal pecorino al ristorante, perché un’attività da sola non può reggere, ci vuole un legame tra tutte le iniziative. Questo legame fa da supporto all’esperienza del turista: dormire in un vecchio mulino ristrutturato ascoltando alla sera le storie degli anziani del paese, pescare la trota o avventurarsi nei boschi insieme agli abitanti del borgo, visitare l’essiccatoio delle castagne, assaggiare la cucina locale a base di prodotti del luogo, dalla ricotta al pecorino, dai dolci di castagne al cinghiale.
Ripartenza cooperativa
Tutte queste esperienze hanno in comune la resistenza delle persone e dei territori, e possono essere di esempio per altre realtà. Grazie a esse possiamo capire bene che la risorsa più importante dei centri «emarginati» è proprio la comunità che li abita, e che lo strumento migliore è la cooperazione.
La crisi del coronavirus ci invita a guardare i paesi, ma anche i quartieri delle nostre città, con occhi nuovi, pone l’attenzione sul ruolo fondamentale dei servizi di prossimità.
La ripartenza è un bene comune, e come tale va trattata.
Uno sguardo trasversale, cooperativo, che connetta tutti gli attori, che sia sistemico e inclusivo, aiuta a trovare la strada.
Non si può quindi prescindere, nella ripartenza, dal prezioso sapere sociale che parte dal basso, dai cittadini.
Le esperienze delle cooperative di comunità mostrano un modello di welfare di comunità che è possibile riadattare in luoghi differenti con differenti esigenze e capacità. Come dice Aldo Bonomi: «Se non vogliamo che il virus produca più solitudine, occorre che oltre al vaccino si valorizzino anticorpi sociali capaci di produrre inclusione sociale».
Dai dodici anni vissuti in Amazzonia è nato il suo «amore per la giustizia» e per la «sobrietà felice». Adriano Sella coordina dal 2007 la «Rete interdiocesana nuovi stili di vita». L’abbiamo sentito sull’anno speciale Laudato si’ e sull’ambizioso programma di ecologia integrale che l’accompagna.
L’anno speciale per la Laudato si’ è iniziato il 24 maggio scorso, quinto anniversario dell’enciclica di papa Francesco «sulla cura della casa comune». Avviato un po’ in sordina, promette di far parlare di sé. Nelle intenzioni di chi l’ha pensato, l’anno speciale sarà un tempo nel quale dare forma a un programma ambizioso di cambiamento basato sulle istanze dell’ecologia integrale.
Dalla sua pubblicazione, la Laudato si’ ha già prodotto molto fermento, a livello teologico, ecclesiale, pastorale, ma anche culturale, sociale, politico, e nella vita quotidiana di molti.
«Il fatto che il quinto anniversario dell’enciclica coincida con […] una pandemia mondiale», scrive il Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale, «rappresenta uno spartiacque e fa sì che il messaggio della Laudato si’ sia oggi tanto profetico quanto lo era nel 2015. […] Il Covid-19 ha messo in luce […] la profonda interconnessione […] tra tutti noi. Per iniziare a immaginare un mondo post-pandemia, abbiamo bisogno anzitutto di adottare un approccio integrale […]. L’urgenza della situazione è tale da richiedere risposte immediate, olistiche e unificate a tutti i livelli, sia locali che regionali, nazionali e internazionali. In particolare, è necessario creare “un movimento popolare” dal basso, e un’alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà».
Dare ascolto «al grido della Terra e al grido dei poveri» è possibile. Mettere in atto cambiamenti profondi che promuovano una vita bella nella casa comune è una strada percorribile.
Ce lo dicono da anni le molte voci che, provenienti spesso dal mondo missionario, propongono il cambiamento all’insegna di «nuovi stili di vita».
Ne abbiamo parlato con Adriano Sella, «laico missionario nella custodia del creato», promotore e coordinatore dal 2007 della Rete interdiocesana nuovi stili di vita.
Adriano, come nasce il tuo impegno per i nuovi stili di vita?
«Dal 1990 al 2002 sono stato in Amazzonia. Lì mi sono innamorato della giustizia, ho capito che bisogna smettere con l’assistenzialismo e costruire rapporti giusti.
Nel 1995 ho portato in Italia un documento elaborato in Amazzonia dalle comunità cristiane e i movimenti popolari. Diceva: “Noi del Sud chiediamo a voi del Nord giustizia, e non elemosina”. Da lì è nato a Vicenza, dove vivo oggi, il movimento “Gocce di giustizia”, persone con la voglia di mettere assieme i gruppi che già lavoravano in quella direzione, e abbiamo iniziato a educarci a cambiare stili di vita».
Cos’è la Rete interdiocesana?
«Quando sono tornato in Italia nel 2002, la diocesi di Padova mi ha coinvolto in un lavoro pastorale sui nuovi stili di vita. Allora sono andato in altre diocesi, dove sapevo di alcuni percorsi già in atto: Verona, Trento, Bolzano-Bressanone, Venezia, Brescia. Da quei contatti è nato il desiderio di metterci insieme, scambiarci esperienze, e, nel 2007, è nata la Rete che oggi conta circa novanta diocesi.
Fare rete è importante, perché ci si rafforza a vicenda. È uno dei nostri 10 obiettivi: “La narrazione dell’alternativa”. Il male fa notizia. La gente è impregnata di pessimismo, e parla sempre di quello che non va. Per questo è necessario narrare la speranza, far vedere che ci sono alternative possibili.
L’obiettivo della società dei consumi è quello che io chiamo “la nuova rassegnazione”, come dice la Laudato si’: “Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare” (LS 204). Noi dobbiamo tirare fuori il bene, raccontarlo, farlo vedere».
L’anno speciale sulla Laudato si’ propone una conversione ecologica che chiama in causa i nuovi stili di vita. Tra le iniziative previste, c’è quella della «giornata per la custodia del creato» del 1 settembre. Nel messaggio che l’accompagna, in riferimento alla pandemia, si legge: «Abbiamo toccato con mano tutta la nostra fragilità, ma anche la nostra capacità di reagire solidalmente ad essa. Abbiamo capito che solo operando assieme – anche cambiando in profondità gli stili di vita – possiamo venirne a capo».
«Gli umani cambiano molto per necessità e poco per virtù, ma i cambiamenti procurati dalla paura, ad esempio del Covid-19, durano poco. Quando il pericolo passa, si torna a vivere come prima. Quando, invece, il cambiamento è motivato, è maturato per amore, quando capisci che è più bello vivere sobriamente, con meno oggetti e più relazioni, la vita cambia ed è più libera.
Quando è uscita l’enciclica nel 2015, abbiamo fatto un balzo di gioia. Ci siamo sentiti confermati nel lavoro che stavamo facendo già da tempo. La Laudato si’ è diventata subito un faro per noi. È un pozzo inesauribile. Non è solo teoria, ma una spinta a mettere in atto comportamenti belli.
La Cei ha indetto la prima giornata del creato nel 2006, mossa dal movimento ecumenico: è, infatti, nata nell’89 dalla Chiesa ortodossa di Costantinopoli per la quale il primo settembre è l’inizio dell’anno liturgico. È bella l’idea d’iniziare l’anno all’insegna della custodia del creato».
Altra iniziativa compresa nell’anno speciale, è quella denominata «il tempo del creato»: un mese, dal 1 settembre al 4 ottobre, dedicato alla spiritualità ecologica. Possiamo dire che la spiritualità è il punto di partenza di una conversione ecologica che sia profonda e duratura?
«Anche il mondo laico lavora nella promozione dei nuovi stili di vita. Qual è l’approccio cristiano rispetto a quello laico? Per i cristiani c’è un primato della fede sull’etica, c’è un cambiamento che parte dall’interno, da una conversione del cuore.
L’enciclica lo sottolinea. Riprende la spiritualità dei profeti, quella del cuore nuovo, fino alla Pentecoste quando avviene il passaggio dal cenacolo all’uscita. Il cambiamento parte da dentro, dalle cose che ti toccano profondamente. Pensiamo alla figura evangelica di Zaccheo.
Se il cambiamento parte dall’interno, il cambiamento esterno è più radicato. Le proposte che facciamo, se non partono dal profondo, rischiano di ridursi a elenchi di comportamenti e rischiano di portare al moralismo».
A proposito di cambiamenti profondi, la Laudato si’ ne ha già prodotti secondo te?
«Sì. A livello teologico e pastorale ad esempio. L’enciclica ci ha aiutati a capire che all’origine di tutto c’è il bene, non il male.
Nella nostra visione tradizionale, tutto parte dal peccato originale, seguito dal processo di redenzione. Scoprire, invece, che all’origine di tutto c’è un bene, significa scoprire che c’è un grande bene in ogni creatura. Nella prassi educativa, allora, si lavora per tirare fuori il bene che c’è.
Nella parabola del figliol prodigo, c’è un padre che non punta il dito, ma apre le braccia.
Se noi lavoriamo con un metodo educativo repressivo, pensando che la paura (del castigo, dell’inferno) aiuti a cambiare, produciamo un cambiamento superficiale, che dura poco. Se invece facciamo emergere la bellezza, facendo capire quanto è bella la vita quando è piena di relazioni, quando ti gusti le cose belle, allora aiutiamo il cambiamento.
La vita cristiana è bellezza. La sobrietà non è sacrificio, ma liberazione. Non è austerità, privazione, ma liberazione da tutto quello che è inutile. Se mostriamo una vita cristiana felice, allora la proposta viene accolta.
Il Giubileo sulla misericordia e tutto quello che il papa sta facendo, ci parlano di questo: Dio è amore. Su questo dobbiamo lavorare, e l’enciclica ci aiuta molto, ad esempio rivelandoci che il creato è la prima manifestazione dell’amore del Padre.
Ci eravamo dimenticati anche di questo! Nella Bibbia ci sono i libri sapienziali che lo dicono. I padri della chiesa hanno passaggi bellissimi. La Laudato si’ lo ha riproposto in modo forte.
Se noi trasformiamo il creato in una pattumiera, come fanno i bambini a percepire l’amore del Padre? Dicono subito: “Che schifo questo mondo!”. Se invece si trovano davanti la grande bellezza, possono sentire la carezza di Dio.
La cura del creato quindi non è solo una questione ambientale, socio-economica, politica, è anche una questione teologica: abbiamo a che fare con il dono di Dio. Se usiamo la creazione in una pattumiera, impediamo a Dio di manifestare il suo amore».
L’anno speciale prevede iniziative come «il patto globale sull’educazione» e «l’economia di Francesco», entrambe previste inizialmente nella prima metà del 2020 e poi rinviate a causa della pandemia. Poi la tavola rotonda vaticana al forum economico mondiale di Davos, un raduno di leader religiosi e altro.
Quello che ci ha colpiti però è la piattaforma pluriennale di iniziative «per rendere le comunità di tutto il mondo totalmente sostenibili, nello spirito dell’ecologia integrale della Laudato si’», cioè il progetto di far partire ogni anno per dieci anni un «gruppo» di famiglie, parrocchie, diocesi, scuole, università, ospedali, imprese, ordini religiosi, che s’impegnino pubblicamente per 7 anni in un percorso di conversione ecologica.
Cosa pensi di questo programma ambizioso che copre un arco di tempo di addirittura di 17 anni?
«È una metodologia importante dal punto di vista educativo. L’idea dei sette anni, che porta in sé la dimensione biblica del numero sette, è bella. È un periodo sufficiente per lavorare bene e per mettere in atto dei percorsi concreti di cambiamento. In un settennio c’è il tempo per coinvolgere, si possono fare verifiche, riorganizzare le cose, ecc. La prospettiva di questo tempo lungo ci aiuterà a far diventare l’enciclica una prassi della vita».
È una scommessa anche per il prossimo papa.
«Sì, questo processo diventa irreversibile. Se avviato bene, con la spiritualità al centro, è come costruire la casa sulla roccia.
È un segno bello di speranza. Io credo che la Laudato si’ sia l’unica enciclica che ha cambiato anche lo stile ecclesiale. Tutte le encicliche producono una bella attenzione quando escono, ma questa ha cambiato anche il modo di essere chiesa, di programmare a livello di parrocchie, di gruppi, e a livello culturale».
Anche nella società laica l’enciclica è un riferimento.
«Qualche tempo fa, Paolo Cacciari, fratello del filosofo, giornalista e leader di movimenti ambientalisti, mi ha detto che l’enciclica è stata molto importante per il mondo laico, soprattutto per aver connesso le due facce della stessa medaglia: il grido della Terra e il grido dei poveri. Non esiste una priorità ambientale, o una priorità sociale, ma un’unica grande questione».
Una connessione che tu hai vissuto in Amazzonia.
«Sì, il grido della Terra e dei poveri in America Latina è da anni una questione unica. Proporre al mondo intero di vedere la Terra come madre e sorella è una rivoluzione. La Terra non può essere vista solo come un contenitore di risorse. Deve essere vista come madre. Per i laici è Gaia, un super organismo vivente. Per i cristiani è parte del creato, è dono di Dio. La Terra non è merce, non è da spremere. Se cambia la nostra visione culturale sulla Terra, cambia il nostro modo di relazionarci con lei».
Luca Lorusso
Tanti profitti, zero tasse (senza la «digital tax»)
testo di Francesco Gesualdi |
È un fatto che Google, Apple, Facebook, Amazon («Gafa») incamerino profitti senza pagare il dovuto. Un’elusione fiscale enorme e intollerabile a cui da tempo alcuni governi cercano di porre rimedio. Inutilmente, viste le minacce di ritorsioni (e l’arroganza) di Donald Trump.
In tempi di pandemia e di elezioni statunitensi (a novembre), è difficile trovare un accordo con Donald Trump sulla tassazione («digital tax» o «web tax», con sottili differenze tra l’una e l’altra) delle multinazionali del digitale.
Lo scorso 20 giugno è stata pubblicata una lettera datata 12 giugno nella quale il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, minaccia di ritorsioni commerciali (dazi) Italia, Francia, Spagna e Gran Bretagna se non rinunceranno alla «web tax» a carico dei colossi del digitale.
Anche a livello globale i negoziati in seno all’Ocse – chiamati «Inclusive Framework on Beps» (Piano d’azione sull’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti) – sono in stallo a causa degli Stati Uniti. Trump considera qualsiasi tassazione un atto di ostilità verso gli Stati Uniti perché colpirebbe in particolar modo Google, Apple, Facebook, Amazon e altre multinazionali del web con casa madre statunitense. In realtà, la web tax è solo un timido tentativo di recupero fiscale verso imprese esperte, oltre che in tecnologie digitali, anche in tecniche di elusione fiscale.
Nell’agosto 2016 la Commissione europea decretò che, dal 2003 al 2014, Apple aveva evitato il pagamento di 13 miliardi di imposte, grazie alla legislazione compiacente dell’Irlanda. L’aspetto interessante è che, a mettere la pulce nell’orecchio, era stata una Commissione d’indagine del Senato americano che, nella seduta del 13 maggio 2013, aveva ricostruito per filo e per segno le strategie utilizzate da Apple per evitare di pagare le tasse. Un sistema che le aveva permesso di accumulare più di 100 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, con un danno per l’erario statunitense calcolato in 12 miliardi di dollari per il solo 2012.
Lotta tra Sistemi fiscali
Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) del 2015, ogni anno l’elusione fiscale sottrae agli stati 650 miliardi di dollari. Un vero crimine contro l’umanità considerato che 200 di essi sono sottratti a paesi molto poveri che, per mancanza di soldi, non riescono a fornire neanche i banchi di scuola. Il punto è che le imprese sono riuscite a globalizzarsi, mentre le nazioni continuano a gestire i sistemi fiscali in maniera separata, ciascuna per conto proprio, a volte addirittura in concorrenza fra loro per attrarre investimenti e capitali. Per cui abbiamo paesi come le Isole Cayman e un’altra decina di paradisi fiscali, senza alcun tipo di imposta sui profitti, fino agli Emirati Arabi con una tassazione del 55%, passando per l’Ungheria che applica un’imposta del 9%, l’Irlanda del 12,5%, gli Usa del 21%, l’Italia del 24%, la Germania del 30-33%.
In uno scenario tanto variegato, molte imprese sono tentate di mettere in atto strategie, formalmente legali, di fatto fraudolente, per contabilizzare i loro profitti in paesi a bassa fiscalità. Una di queste si basa sulla creazione di società fantasma che fanno da cerniera fra imprese dello stesso gruppo. Tipico il caso di una multinazionale calzaturiera con stabilimenti produttivi in Indonesia e negozi di vendita in Europa. La logica vorrebbe che le scarpe fossero vendute direttamente dagli stabilimenti indonesiani alle filiali europee che poi, una per una, dovrebbero dichiarare al fisco del proprio paese quanto hanno guadagnato. In una logica di elusione, invece, può essere utilizzato come intermediario una società fantasma domiciliata in Ungheria che finge di comprare e vendere con metodi di fatturazione che puntano a trattenere il massimo del valore in Ungheria dove vige uno dei sistemi più bassi di tassazione dei profitti. È stato accertato che un meccanismo del genere è stato utilizzato dal gruppo Kering, proprietario fra gli altri del marchio Gucci, che nel maggio 2019 ha patteggiato col fisco italiano il pagamento di oltre un miliardo di euro a sanatoria di ricavi non dichiarati per un valore di 14,5 miliardi di euro. Secondo gli investigatori, il gruppo utilizzava la Svizzera come cerniera di intermediazione fra Gucci, che produce in Italia, e i negozi del gruppo che vendono nei vari paesi europei. Verosimilmente la società svizzera acquistava fittiziamente beni sottocosto dalla società italiana e li rifatturava a prezzi gonfiati ai negozi europei per accrescere artificiosamente i profitti dichiarati in Svizzera, che nel caso specifico erano sottomessi a un regime fiscale inferiore al 9%. E, a conferma del meccanismo occulto, le Fiamme gialle avevano accertato che la maggior parte delle funzioni di commercializzazione dei prodotti non avveniva in Svizzera, ma a Milano, dove ha sede l’unità locale di Gucci. Meccanismo riconosciuto da Kering che, a conclusione del patteggiamento, ha diffuso una nota in cui ammette «la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia nel periodo 2011-2017», come sostenuto dalla Procura di Milano.
L’utilizzo del marchio
Un altro metodo di elusione si basa sul trasferimento di prezzo tramite licenze d’uso. Si prenda come esempio Ikea. Nessun punto vendita può esporre l’insegna se prima non ha stipulato un contratto di licenza con la società che risulta formalmente proprietaria del marchio. E annualmente tutti i punti vendita Ikea versano una parte dei loro ricavi alla società proprietaria del logo, anch’essa facente parte del gruppo, che però è domiciliata in Liechtenstein dove i redditi da capitale sono tassati al 12,5%. Più alto il compenso pattuito per l’uso del marchio, più alti i profitti trasferiti in Liechtenstein. E se giochetti del genere sono possibili a imprese commerciali vecchio stile, ancora di più lo sono per imprese che gestiscono servizi informatici.
Un tipico servizio informatico è la creazione di piattaforme commerciali, luoghi virtuali concepiti come punti di incontro fra imprese che offrono beni e consumatori (ne abbiamo parlato su MC di luglio). Alcuni esempi sono Amazon Marketplace, Ebay, Leboncoin, Alibaba, Apple Appstore. Altre piattaforme, invece, sono organizzate per permettere l’incontro fra chi offre un servizio e chi lo richiede. Alcuni esempi sono Uber per il servizio taxi, Booking per le prenotazioni alberghiere, Deliveroo per la consegna di pasti a domicilio. In cambio del servizio di visibilità e connessione le piattaforme pretendono delle commissioni dai loro inserzionisti, magari il 15% sull’intero volume di transazioni che effettuano sulla piattaforma.
Algoritmi e pubblicità
Un’attività che si è sviluppata enormemente in internet è quella delle inserzioni pubblicitarie che, a differenza della vendita di beni e servizi, non viaggiano solo su piattaforme dedicate, ma su ogni pagina web. Per esperienza, tutti sappiamo che, se consultiamo un qualsiasi sito on line, prima dobbiamo sorbirci un video pubblicitario. E lo stesso accade sia che si entri in una pagina Facebook, che si guardi un film o che si ascolti della musica. Per cui i veri re delle riscossioni pubblicitarie sono i gestori dei grandi motori di ricerca, come Google, o i gestori di social network come Facebook, che oltretutto utilizzano sofisticati algoritmi per spiare i nostri interessi e propinarci la pubblicità su tutto ciò che ruota attorno ad essi: libri piuttosto che utensili, cibo piuttosto che viaggi. Non a caso la vendita di dati è diventata un’altra attività fiorente delle imprese del web, spesso condotta in maniera totalmente occulta, e quindi totalmente estranea al fisco, come insegna il caso di Cambridge Analytica.
Ad oggi la pubblicità rappresenta la maggiore fonte di incasso per molti operatori internet. Per Google rappresenta l’85% del suo giro d’affari: 116 miliardi di dollari su 136 miliardi nel 2018. Nel caso di Facebook, la pubblicità rappresenta addirittura il 98,6% degli introiti: 55 miliardi di dollari su 55,8 nel 2018. Dedotte le spese, Facebook nel 2018 ha ottenuto profitti lordi per 25 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 3 miliardi di tasse, un’aliquota media del 12%. Idem per Google che, detratte le spese, ha avuto un profitto lordo di 35 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 4 miliardi di tasse. Eppure negli Stati Uniti, l’imposta sui redditi di impresa è del 21%. Però, sia Facebook che Google hanno eletto domicilio fiscale nel Delaware, paradiso fiscale statunitense dove l’imposta sui redditi da capitale è dell’8,7%. Inoltre, approfittano della diversità fiscale fra stati, della loro mancanza di collaborazione e della virtualità di internet per convogliare gli incassi verso i paesi a più bassa fiscalità. Talvolta, tramite strategie talmente creative da essersi guadagnate appellativi fantasiosi come «doppio sandwich irlandese imbottito all’olandese», una metodica che permette di trasferire i profitti alle Bermuda passando per l’Irlanda e l’Olanda. E se, alla fine, i paradisi fiscali qualche briciola la intascano, a rimetterci in maniera pesante sono i paesi in cui i profitti si realizzano, ma non compaiono per i trucchi contabili attuati dalle imprese. Lo dimostra il fatto che, per il 2018, Google ha dichiarato introiti in Irlanda pari a 38 miliardi di euro, pur disponendo solo di 3,6 milioni di utenti, in Italia solo per 106 milioni di euro, pur disponendo di 30 milioni di navigatori.
Uno studio di Mediobanca rivela che, fra il 2014 e il 2018, le prime 10 imprese digitali del mondo hanno risparmiato 49 miliardi di dollari, a livello globale, grazie al ricorso massiccio ai paesi a fiscalità agevolata. Lo studio ci dice anche che, in Italia, le prime 25 multinazionali del web (non solo statunitensi, ma anche cinesi) hanno dichiarato un fatturato 2,4 miliardi di euro, ma hanno versato al fisco solo 64 milioni, il 2,7% del fatturato. Il rapporto non indica quanto sarebbe dovuto essere il gettito dovuto, ma specifica che, a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, le imprese del web hanno pagato sanzioni per 39 milioni nel 2018 e 73 milioni nel 2017. Ed è sempre del 2017 il patteggiamento di Google col fisco italiano che ha accettato di versare 306 milioni di euro a sanatoria di mancati pagamenti relativi al periodo 2002-2015.
L’arroganza di Trump
Il rapporto di Mediobanca insiste anche sul fatto che, in una maniera o nell’altra, le imprese del web riescono a travasare gli incassi verso altre filiali estere facendoli passare come spese per servizi, commissioni su licenze o brevetti e altre fantasie contabili. In gergo la distribuzione degli incassi fra filiali del gruppo è definita «cash pooling» e, nel caso delle imprese del web, è gigantesca. Mediobanca stima che, in Italia, rimane solo il 14% della liquidità totale realizzata, l’altro 86% finisce come cash pooling nei paesi a fiscalità agevolata. E non va certo meglio in Francia, dove solo le «Gafa», le quattro grandi multinazionali Usa (Google, Apple, Facebook, Amazon), nel 2017 hanno avuto un giro d’affari di un miliardo e mezzo di euro, ma hanno versato al fisco solo 43 milioni. È così che, in Europa, si è cominciato a chiedere come fare per arginare questa mostruosa perdita.
Tuttavia, stentando ad arrivare una soluzione condivisa, alcuni paesi hanno deciso di muoversi autonomamente con provvedimenti fiscali propri. Fra questi Francia e Italia, con provvedimenti che, accogliendo le indicazioni della Commissione europea, hanno introdotto una tassa del 3% sui ricavi generati da alcune attività digitali prodotte da imprese con un fatturato mondiale superiore ai 750 milioni di euro.
Tutto sommato una misura piuttosto modesta, ma sufficiente a innervosire Trump che, tacciando l’iniziativa francese e italiana come provvedimenti discriminatori verso le imprese del web statunitensi, ha minacciato ritorsioni sui vini francesi e i prosciutti italiani se le misure non saranno ritirate. Ancora una volta si scrive protezionismo, ma si pronuncia arroganza.
Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.
Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.
Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.
I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.
Piergiorgio Pescali
Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato
Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..
Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.
La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.
L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.
Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga
Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».
Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.
Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.
Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.
Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.
Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.
Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.
Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.
Le minoranze rom e turca
I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.
Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.
Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.
La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.
La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.
Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.
Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».
L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.
Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.
L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.
La storia del «cacciatore di migranti»
Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.
Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».
Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.
«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.
A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.
Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.
La Bulgaria e l’Unione europea
L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.
A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.
Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).
È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).
L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.
Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.
Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.
Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».
Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.
Politici di ieri, politici di oggi
Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.
Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.
Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.
Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.
«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.
Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.
In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.
Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.
L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.
Il paese più corrotto dell’Unione
La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue, ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.
Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.
La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.
Il secondo paese più inquinato
Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali, la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.
I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.
Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.
Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.
L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.
Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.
Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.
Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.
Tanti media, poca libertà
Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.
Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.
Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa. Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).
Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.
In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.
Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.
Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».
Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.
Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».
La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».
Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.
Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.
I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.
Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.
Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.
Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).
Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.
Una nuova Bulgaria?
L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».
Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.
I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.
Piergiorgio Pescali
I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi
Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.
Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.
I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.
L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.
A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.
I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.
Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.
Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto
La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.
Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.
È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.
Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.
Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.
Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.
È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.
Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.
Piergiorgio Pescali
Ha firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.
Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.
ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.
Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.
Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.
Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).
A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.
Il cammino delle lacrime
Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.
La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.
Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).
Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).
Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).
Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.
A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.
Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).
Supremazia bianca
La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.
«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».
Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.
(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).
(Pa.Mo.)
Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).
Cosa dice la scienza
Vulnerabilità indigena
La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:
maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
carente accesso alle strutture sanitarie.
(a cura di Paolo Moiola)
Fonti:Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.
Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*
superficie: 71.000 km2*
stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
popolazione: 173.000*
presidente: Jonathan Nez
tasso di disoccupazione: 40 per cento
tasso di povertà: 40 per cento
(*) La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.
Tab. 3 / Principali norme di legge (Acts) tra governo Usa e popolazioni native
1830: The Indian Removal Act
1851: The Indian Appropriations Act
1887: The General Allotment (Dawes) Act
1924: The Indian Citizenship (Snyder) Act
1934: The Indian Reorganisation Act (Ira)
1968: The Indian Civil Rights Act (Indian Bill of Rights)
2010: The Tribal Law and Order Act
(Pa.Mo.)
Fonti:www.law.cornell.edu; Andrew Boxer in «History Review», settembre 2009.
Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)
testo di Angelo Fracchia |
Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.
In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.
Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.
Uno storico accurato
Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.
Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.
Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.
Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.
I collaboratori
Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.
Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.
Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.
A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.
Formazioni incomplete
Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.
In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.
Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.
Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.
Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.
Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.
Rapporto con i poteri
Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.
In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.
Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).
Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.
E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.
Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.
Angelo Fracchia
(17-continua)
Brasile. Vita di favela (con o senza virus)
testo e foto di Gianluca Uda |
Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.
Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.
In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.
È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.
Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.
La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.
Favela Che Guevara
Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.
Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.
La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.
La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.
È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.
Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.
In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.
Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.
Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.
Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.
Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.
Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.
Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.
Storia di Luiziana
Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.
I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.
Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.
Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.
Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.
Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.
Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.
Chiese e famiglie
Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.
La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.
Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.
La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.
In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.
Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia, spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.
La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.
Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.
Storia di George
Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.
George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.
Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.
Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.
Gianluca Uda*
(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.
L’uomo e il virus: non è finita
testi di Rosanna Novara Topino |
In Italia e in Europa la pandemia ha allentato la morsa. Sul terreno sono rimasti migliaia di morti e grandi macerie. Il futuro rimane ancora incerto e i pericoli incombenti.
Quali sono state le misure adottate per contenere la pandemia? Le misure di contenimento sono variate da paese a paese. Si è passati da quelle molto leggere della Svezia al completo lockdown di altri paesi, come l’Italia. Nel nostro paese, nella cosiddetta «fase 1», durata dal 23 febbraio al 17 maggio (introduzione delle misure di contenimento e della gestione dell’emergenza epidemiologica della Covid-19 con decreto legge del 23 febbraio 2020), si sono interrotte le normali attività lavorative, fatta eccezione per quelle che permettevano il rifornimento dei generi di prima necessità alla popolazione, e le possibilità di movimento dei cittadini sono state limitate al rifornimento di generi alimentari, di farmaci e alle visite mediche con il limite di una sola persona per famiglia fuori casa, per favorire il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I controlli sui movimenti di persone all’aperto si sono intensificati, fino ad arrivare all’utilizzo di droni e di elicotteri.
Dopo la «fase 2» (18 maggio – 14 giugno), con la riapertura delle attività produttive e il progressivo ritorno a una maggiore libertà di movimento, dal 15 giugno al 14 luglio, l’Italia è entrata nella «fase 3», che ha consentito spostamenti tra regioni diverse (già dal 3 giugno), la partecipazione ai funerali senza il limite di 15 persone, gli esami di maturità in presenza, mentre sono rimaste sospese fiere, congressi, processioni, manifestazioni sportive con pubblico e tutte le altre forme di assembramento.
In questo momento (luglio 2020), in Italia è notevolmente diminuito il numero dei pazienti Covid in terapia intensiva e molti reparti dedicati sono stati chiusi. Inoltre, i nuovi casi positivi non presentano più i gravissimi quadri clinici riscontrati tra febbraio e aprile. Questo tuttavia non è il momento di abbassare la guardia, perché potrebbe esserci una recrudescenza dei contagi, come è già avvenuto a Singapore per la Covid e come avvenne a San Francisco (Stati Uniti) nel 1918 per la spagnola. Eppure una ripartenza è necessaria, perché mesi di sosta forzata hanno portato a un tracollo economico in diversi settori. Molte persone sono finite in cassa integrazione e qualcuno ha perso il posto di lavoro. Purtroppo, c’è chi si è già suicidato e molti sono coloro che sono diventati vulnerabili sotto il profilo psicologico. Inoltre, è necessario tornare quanto prima alle lezioni scolastiche e universitarie in presenza, perché le lezioni a distanza hanno portato ad acuire la disparità tra studenti con più risorse e quelli con meno (non solo con riferimento al digital divide, cioè alla maggiore o minore disponibilità di mezzi informatici).
La strage degli anziani
Quello che è stato chiaro fin dall’inizio della pandemia è che la Covid-19, nelle persone altamente suscettibili, è così aggressiva da portare nel giro di una settimana o poco più il paziente in una situazione allarmante, se non critica, con necessità di ricovero in terapia intensiva e di ventilazione meccanica. L’elevata contagiosità del coronavirus ha portato nel giro di un mese o poco più al collasso delle strutture sanitarie in diverse città del Nord Italia, tra cui Bergamo e Brescia, e il numero dei deceduti è stato così elevato da rendersi necessario il trasporto delle bare in altre città per la cremazione con mezzi dell’esercito.
In molte famiglie è scomparsa almeno una persona, se non di più. E solo dopo due mesi dall’inizio della pandemia, a seguito di indagini della magistratura, in tutta Italia è emerso chiaramente che, nelle case di riposo per anziani e nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), il numero degli ospiti e degli operatori sanitari positivi al coronavirus è stato elevatissimo. Secondo le stime dell’Iss (Istituto superiore di sanità), le morti per Covid nelle Rsa sono state tra 9mila e 10mila, ma il dato è approssimato per difetto, non essendo stato fatto il tampone a tutti. Peraltro lo stesso scenario si è presentato in tutta Europa: una strage di anziani. Inoltre, nella sola Italia sono morti sul campo 163 medici, 40 infermieri, 24 operatori socio sanitari e 14 farmacisti. E a loro si aggiungono 121 sacerdoti.
Farmaci e vaccini
A livello di prevenzione della Covid-19, sono allo studio diversi tipi di vaccini (preparati con virus attenuati o con parti di virus), ma nella migliore delle ipotesi ci vorranno non meno di 18 mesi prima di arrivare ad un vaccino, sempre che sia possibile realizzarne uno veramente efficace. Il fatto che, dopo 17 anni, non ci sia ancora un vaccino per la Sars del 2003, non è un buon segnale.
Per quanto riguarda le cure, anche in questo caso non ne esiste una specifica per la Covid-19. In alcuni ospedali stanno utilizzando con discreti risultati dei cocktail di farmaci antivirali già utilizzati nella cura di altre gravi malattie come l’Ebola. In alcuni casi in fase precoce sembra funzionare l’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, anche se c’è ancora disaccordo tra i vari studiosi sui suoi possibili effetti collaterali e sulla reale efficacia, mentre per la prevenzione delle tromboembolie, che possono portare a embolia polmonare, ischemia cardiaca o cerebrale si fa ricorso, quando il rapporto rischio/beneficio lo consente, all’uso di eparina.
Recentemente all’Università di Oxford hanno ottenuto buoni risultati con l’uso del desametasone, un antinfiammatorio steroideo della famiglia del cortisone in grado di ridurre la mortalità del 35% dei pazienti intubati. Un altro metodo di cura, che si sta rivelando molto efficace è quello del plasma iperimmune donato dai pazienti guariti da Covid e contenente quindi gli anticorpi efficaci nel contrastare la malattia. Questo metodo ha trovato inizialmente parecchi oppositori, poiché il plasma non è brevettabile, non essendo un farmaco, e la sua donazione è totalmente gratuita, quindi non consente alcun giro d’affari.
La lezione
A giugno abbiamo assistito a una ricomparsa della Covid in Cina, con un nuovo focolaio nel mercato dell’umido di Pechino. La situazione è diventata estremamente preoccupante nei paesi dell’America Latina, soprattutto in Brasile e Perù, dove intere comunità di popolazioni indigene stanno rischiando la loro sopravvivenza più di chiunque altro per le enormi difficoltà di raggiungere gli ospedali e per la continua esposizione al virus legata alla presenza dei cercatori illegali d’oro e di pietre preziose nella foresta amazzonica (si veda MC di luglio e questo numero a pp. 51-56). Altrettanta preoccupazione è data dall’aumento repentino dei casi e dei decessi in India. In Africa, gli stati maggiormente interessati dalla Covid attualmente sono l’Egitto, l’Algeria, il Sudafrica, il Marocco e la Nigeria, ma complessivamente questo continente sembra il meno colpito dopo l’Oceania, anche se le cifre sono sottostimate per la difficoltà di effettuare screening corretti in molti paesi. Tuttavia, qui l’epidemia è ancora in aumento e ciò che desta maggiore preoccupazione è la presenza di soli 5mila posti di terapia intensiva in tutto il continente (in Italia sono stati raggiunti 6.100 posti nel mese di marzo). Tutto questo dovrebbe almeno insegnarci che l’uomo non è al di sopra o al di fuori del regno animale, di cui fa parte, e che ogni sua azione contro di esso e più in generale contro l’ambiente può avere gravi ripercussioni e rivelarsi un boomerang dalle conseguenze incontrollabili. Proprio come l’attuale pandemia.
Rosanna Novara Topino (terza parte – fine)
I test
Alla ricerca di anticorpi
Per quanto riguarda i controlli sanitari, il test più utilizzato è quello del tampone naso-faringeo, che permette una prima analisi della presenza del virus mediante tecnica Pcr (Polimerase chain reaction) per l’identificazione dell’Rna virale. Un test più accurato è quello della raccolta di campioni biologici dalle basse vie respiratorie (espettorato, aspirato endotracheale, lavaggio bronco-alveolare). Per monitorare la presenza del virus nei vari distretti corporei si effettua la raccolta di campioni biologici aggiuntivi quali sangue, urine e feci. L’analisi del siero consente – inoltre – di valutare la quantità di anticorpi per il Sars-CoV-2 e grazie ad essa è possibile osservare l’innalzamento dei valori di immunoglobuline M (IgM, indicanti un’infezione allo stato iniziale) e di immunoglobuline G (IgG, infezione in stato avanzato). Oltre al prelievo rapido di una goccia di sangue mediante il pungidito, metodo che dà un risultato istantaneo, ma non sempre attendibile, attualmente la raccolta del siero viene effettuata con prelievo di sangue in vena e l’analisi viene condotta con metodo Elisa, i cui risultati sono più attendibili, soprattutto perché alcuni kit diagnostici testano gli anticorpi diretti contro la proteina spike (dominio S1), la regione più specifica e meno conservata del coronavirus della Covid-19. Altri kit individuano gli anticorpi contro la proteina N del nucleocapside del virus, una proteina più duratura e comune anche ad altri coronavirus, che infettano comunemente l’uomo (come quello del raffreddore), quindi sono possibili delle cross-reattività che danno dei falsi positivi. Per ottenere un risultato il più possibile attendibile, in alcuni laboratori hanno iniziato a testare non solo le IgM e le IgG, ma anche le IgA, gli anticorpi presenti nelle secrezioni, che hanno un ruolo fondamentale nel creare una prima risposta immunitaria al virus a livello delle mucose, tra cui quella dell’apparato respiratorio.
(RNT)
Italia, 35mila morti: com’è stato possibile?
La catena degli errori
Sicuramente è stato un grave errore, commesso peraltro da moltissimi altri paesi, sottovalutare la pandemia e non preparare per tempo un adeguato numero di posti di terapia intensiva, nonostante la Covid fosse già presente in Cina da diversi giorni. E il ritardo da parte dell’Oms nel dichiarare la Covid-19 una pandemia non ha certo aiutato a prendere per tempo le necessarie contromisure. Si è arrivati alla sospensione dei viaggi da e per la Cina troppo tardi, quando ormai erano giunte nel nostro paese troppe persone contagiate, a cui non è stato fatto alcun controllo sanitario. In ogni caso un buon numero di cinesi (o di italiani di rientro) è comunque riuscito ad eludere la chiusura dei voli diretti in Italia, arrivando in altri aeroporti europei e raggiungendo il nostro paese per via di terra, dopo essere stati a festeggiare il capodanno cinese nelle loro città natali.
Per quanto riguarda i tamponi, poiché era impossibile farli a tutta la popolazione, per mancanza di reagenti e di laboratori, inizialmente sono state seguite le indicazioni dell’Oms, che dicevano di farli solo alle persone asintomatiche, paucisintomatiche o con sintomatologia compatibile con Covid, quindi febbre alta e difficoltà respiratorie, che avessero avuto rapporti con persone provenienti dalla Cina o che fossero esse stesse provenienti da località asiatiche. In tale modo sono stati esclusi molti casi positivi, che, inconsapevoli di esserlo, hanno continuato a circolare liberamente diffondendo il virus.
Per molto tempo, pur essendo chiaro che stava aumentando in modo anomalo, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, il numero di anziani deceduti nelle Rsa, nessuno ha mai pensato di fare i tamponi agli ospiti e al personale sanitario di queste strutture. Solo adesso si stanno facendo i tamponi in tutte le Rsa e case di riposo, quando ormai i loro ospiti sono deceduti in gran numero. Tra l’altro, tali decessi spesso non sono stati conteggiati come Covid, non essendo state compiute le analisi su queste persone prima della morte. E questo è uno degli elementi per i quali si ritiene che il numero totale dei decessi per Covid sia sottostimato. Sicuramente è stato un grave errore la decisione di trasferire dei pazienti Covid in terapia sub intensiva in alcune Rsa, per fare spazio negli ospedali, senza tenere conto del pericolo di contagio (circolare del ministero della Salute del 25/03/2020). Oltre a questo, agli operatori sanitari sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale (Dpi) con grande ritardo, per non parlare del fatto che alcuni di loro hanno riferito di avere ricevuto pressioni per non indossare le mascherine in pubblico, allo scopo di non creare allarmismo.
La pressione a cui è stato sottoposto il sistema sanitario nel nostro paese per tentare di fare fronte all’epidemia, ha portato a mettere in secondo piano i malati di altre patologie, con interventi chirurgici già programmati rimandati, visite specialistiche spostate di mesi e così via. Tutto questo per alcuni pazienti può rappresentare un pericolo. Secondo uno studio dell’Università di Birmingham pubblicato sul British Journal of Surgery, a causa della Covid potrebbero essere stati cancellati finora oltre 28 milioni di interventi chirurgici programmati al mondo (3 su 4, cioè il 72,3%). In Italia, le nuove diagnosi di cancro, dall’inizio dell’emergenza, si sono ridotte del 52%, gli interventi chirurgici hanno subito ritardi nel 64% dei casi e le visite specialistiche sono diminuite del 57%. I tumori e le patologie cardiovascolari non sono certamente meno gravi della Covid e tutti questi ritardi nella diagnosi e nella cura rischiano di compromettere la possibilità di sopravvivenza di molte persone, che diventerebbero perciò vittime collaterali dell’epidemia.
Uno dei più gravi errori commessi dal nostro governo è stato quello di emanare una disposizione (circolare n. 15.280 del 2 maggio 2020 del ministero della Salute) secondo la quale, nei casi conclamati di Covid, non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie e riscontri diagnostici. Fortunatamente in alcuni ospedali come il Sacco di Milano e il Giovanni XXIII di Bergamo le autopsie sono comunque state eseguite e si è così compreso che il danno maggiore da Covid non è a carico dei polmoni, ma del sistema circolatorio con formazione di trombi, che rallentano la circolazione del sangue, il quale una volta giunto ai polmoni non consente più una ventilazione corretta. La Covid sarebbe così una malattia infiammatoria del sangue. Quindi, i farmaci che prevengono la formazione dei trombi, come l’eparina possono dare un valido aiuto. Il risultato ottenuto dalle autopsie ha pertanto evidenziato che è stato un errore prima di tutto ospedalizzare i pazienti solo quando ormai giunti alla situazione di «fame d’aria» e, quindi, intubarli per la ventilazione meccanica. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal basata sui dati del Ssn britannico, il 58,8% dei pazienti Covid intubati è morto. A New York risulta deceduto l’88% dei 320 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. Secondo uno studio del Policlinico di Milano pubblicato da Giacomo Grasselli sul Journal of American Medical Association quasi un paziente Covid intubato su due muore, questo perché la ventilazione meccanica può peggiorare il preesistente danno polmonare.
(RNT)
Burj El Barajneh
testo e foto di Daniele Romeo |
È uno dei campi profughi più pericolosi del Libano. Dove rifugiati palestinesi e siriani sono «incarcerati» e abbandonati senza speranza.
Entrato nel campo da una delle poche strade principali, mi ritrovo in un labirinto di vicoli bui. Allungando le braccia posso toccare gli edifici su entrambi i lati. I vicoli creano un senso di intimità e di comunità. Camminando tra le viuzze, posso ascoltare conversazioni, musica e il suono dei televisori. La notizia dell’arrivo di uno sconosciuto corre velocemente. Insieme al senso di comunità è forte anche il senso del controllo sociale.
Palestinesi e siriani
Burj El Barajneh è un campo profughi palestinese situato nella periferia Sud di Beirut, la capitale del Libano. Fu fondato nel 1948 dopo la «Nakba», termine che in lingua araba significa «catastrofe», quando i palestinesi furono costretti a fuggire dalle loro case e dai loro villaggi. Costruito su un chilometro quadrato di terra per ospitare 10mila rifugiati, oggi ne ospita circa 50mila, compresi alcune migliaia, soprattutto donne e bambini, fuggiti dalla guerra in Siria.
Burj El Barajneh è un campo profughi a lungo termine. Le strade sono vicoli drappeggiati da un groviglio di fili elettrici e tubature dell’acqua. I bambini giocano e vanno a scuola sotto questo «tetto» pericolosamente intrecciato sopra le loro teste e molto spesso ad altezza uomo. Ci sono decine di decessi ogni anno per elettrocuzione.
L’accesso al campo
Gli stranieri hanno bisogno di un permesso speciale per entrare nel campo. La Ong palestinese che mi ha invitato, me lo ottiene facilmente dal Mukhãbarãt, il servizio di intelligence dell’esercito. Questo mi permette di muovermi liberamente in entrata e uscita. Il sistema dei permessi scoraggia i curiosi e aiuta le autorità a monitorare la popolazione. Nello stesso tempo fa percepire il campo come una grande prigione a cielo aperto nel bel mezzo di una città cosmopolita come Beirut. Controlli di accesso rigorosi e sorveglianza costante riducono le visite di amici e familiari e ricordano ai rifugiati che la loro vita non è interamente loro.
Crisi senza fine
In Libano, la crisi (o meglio la lunga serie di crisi) è in atto dal 1948. Più di un milione di siriani e 450mila palestinesi vivono in dodici campi ufficiali e centinaia di insediamenti informali. I campi più antichi come Burj El Barajneh, una volta considerati temporanei, ospitano rifugiati di terza e quarta generazione. Non si tratta di campi tendati, ma di spazi di cemento e asfalto, agglomerati urbani in un continuo stato di emergenza i cui abitanti vivono in condizioni precarie e in piccoli appartamenti sovrapposti l’uno sull’altro.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), due rifugiati palestinesi su tre in Libano vivono in condizioni di povertà. Circa il 60% dei rifugiati è disoccupato e i posti di lavoro che ricoprono sono quasi sempre non qualificati. A causa dell’insufficiente accesso all’istruzione e alle poche opportunità di crescita personale, è estremamente difficile per loro ottenere le competenze di cui hanno bisogno. Il Libano proibisce ai rifugiati palestinesi di lavorare nelle 72 professioni più importanti, dalla medicina all’ingegneria. Molte famiglie fanno affidamento sui fondi di parenti all’estero e i giovani sognano di emigrare. Questa situazione rende i rifugiati molto vulnerabili e ciò è particolarmente vero per le donne all’interno del campo, che affrontano abitualmente discriminazioni di genere e trovano particolarmente difficile ottenere opportunità di lavoro retribuito.
Campo di «battaglia»
Il campo è disseminato dei segni di battaglie e guerriglie passate. Proiettili e fori da armi pesanti fanno da monito sulle facciate di decine di edifici, mentre poster di leader politici e «martiri» coprono pareti come cartelloni pubblicitari. Molti murales raffiguranti giovani uomini armati, insieme a emblemi che indicano alleanze e lealtà, segnano i confini territoriali delle diverse fazioni politiche. Simboli di Fatah, Hamas e bandiere gialle di Hezbollah dominano nel campo e ancora oggi ci sono ovunque immagini di Yasser Arafat, dai poster retrò del giovane leader palestinese con gli occhiali da sole ai murales del presidente, capo della Anp. Una preoccupazione recente è la possibilità che Da’esh possa infiltrarsi e minacciare l’equilibrio della comunità, poiché il campo ospita sia nuclei sciiti palestinesi che cristiani.
Le donne del campo e il progetto Soufra
Le immagini di queste pagine fanno parte di un più ampio reportage realizzato nel maggio 2018 per documentare la condizione di vita di un gruppo di donne del campo e, in particolare, un progetto legato alla loro formazione ed emancipazione tramite la cucina. Il reportage è stato realizzato in collaborazione con la Ong palestinese Women Program Association (Wpa) e con quella svizzera Cuisine sans frontières.
Mariam Shaar è nata da genitori palestinesi all’interno del campo ed è qui che attualmente vive. È un’assistente sociale da quasi vent’anni e dirige la Wpa. Mariam è stata la mia guida. Mi ha ospitato nella casa dei suoi genitori in un appartamento del campo. Ha raccontato la sua storia, quella del suo popolo, la tragedia della deportazione prima e dei rifugiati siriani poi; le guerre, le speranze, i suoi sforzi per aiutare le donne della comunità.
La Wpa ha filiali in nove dei dodici campi profughi palestinesi in Libano, incluso il campo di Burj El Barajneh. L’organizzazione offre formazione professionale per le donne, microcredito ai membri della comunità e opportunità di impiego attraverso il progetto Soufra, una start up di catering fondata dalla stessa Mariam nel 2013.
Grazie agli investimenti di alcune Ong internazionali, Wpa è riuscita a realizzare un film documentario sulla vita di Mariam, diretto da Susan Sarandon, che ha permesso di finanziare il primo progetto sostenibile di food truck in Libano: un’unità di ristorazione del progetto Soufra gestito completamente da donne palestinesi. «I rifugiati come noi sanno che la carità non è abbastanza. Ne siamo stanchi. È necessario fare in modo che le persone, le donne del campo, siano autosufficienti. Bisogna insegnare loro come pescare. Questo è ciò che il progetto Soufra e il nostro food truck rappresentano per noi».
Sono questi il pensiero e la filosofia che spingono Mariam a lottare quotidianamente per le donne del campo. A seguito delle richieste della comunità e al supporto di numerose organizzazioni internazionali, la Wpa è anche riuscita ad aprire nel campo di Burj El Barajneh la scuola materna Nawras che offre l’opportunità di istruzione a bambini palestinesi e siriani.
testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |
La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.
Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.
Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).
Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.
Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.
La perdita di posti di lavoro
L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.
Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.
A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:
nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.
La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.
Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.
La situazione nei Paesi meno sviluppati
All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.
Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.
Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.
L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.
Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.
Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.
Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.
Prima adattarsi e poi ripartire
Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.
In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.
A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.
A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.
Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.
Solo danneggiati o anche danneggiatori?
Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.
I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».
E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.
La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.
Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.
Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.
In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».
Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.
La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.