Tra persecuzioni e rinascite

testo di Giorgio Bernardelli |


Dall’Henan nel 1870 a Canton oggi. La missione che più di ogni altra ha segnato la storia del Pime (Pontificio istituto missioni estere) compie 150 anni. Dalla Cina colonia di allora alla Cina colonialista di oggi, seminare il Vangelo è sempre una sfida tra difficoltà e persecuzioni.

Mai come durante questo 2020 la Cina è stata al centro dell’attenzione del mondo: dalle notizie legate al Covid-19 fino allo scontro tutto digitale su 5G e Tik Tok, la geopolitica ha passato ai raggi X ogni mossa di Pechino. Mentre il duro confronto con i giovani dei movimenti pro democrazia a Hong Kong ha mostrato tutte le contraddizioni del modello cinese.

In Cina da 150 anni

In questi stessi mesi, anche il Pontificio istituto missioni estere si è trovato a guardare alla Cina, ma da un altro punto di vista: nel 2020 cadono, infatti, i 150 anni dall’arrivo dei primi quattro missionari dell’istituto nella Cina continentale.

Dall’Henan – la regione «a Sud del fiume (Giallo)», immenso territorio nell’area interna considerata la culla della civiltà cinese – cominciò, infatti, nel 1870, la missione che più ha segnato la storia del Pime. Un tessuto di uomini, strutture, diocesi create quasi da zero, ma soprattutto di relazioni con le persone che nel giro di qualche decennio diedero vita a quel legame profondissimo tra il Pime e la Cina che nemmeno il Calvario durissimo vissuto dai cristiani in questo grande paese durante tutto il Novecento sarebbe riuscito a interrompere.

Passando per Wuhan

Era stata Propaganda Fide a chiamare nel vicariato apostolico dell’Henan l’allora Seminario lombardo per le missioni estere, il primo nucleo milanese del Pime, fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850.

La guida ecclesiale di quel territorio era stata affidata al trentottenne padre Simeone Volonteri, un missionario cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali e con una prima conoscenza del mondo cinese alle spalle, maturata in dieci anni di missione a Hong Kong, dove il Pime era già arrivato nel 1858.

Con lui, per la nuova missione nella Cina continentale, partirono anche padre Angelo Cattaneo, bergamasco, padre Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese.

L’8 febbraio 1870 lasciarono Hong Kong alla volta di Shanghai; da lì, poi, risalito per un primo tratto lo Yangtze – il «fiume Azzurro» -, sbarcarono nell’Hubei, nel porto di Hankow, che è poi la parte più antica di Wuhan, la città che la pandemia di questi mesi ci ha fatto conoscere.

Fino a Jingang

Hankow a quel tempo era l’ultimo porto di approdo per i piroscafi e, per questo motivo, era il grande crocevia per quanti si addentravano nelle province interne della Cina. Da lì, dunque, i missionari italiani impiegarono altri venticinque giorni di navigazione sul fiume Han, un’affluente dello Yangtze, per raggiungere l’Henan. Lo fecero a bordo di due piccole barche trascinate da terra con le funi per risalire controcorrente, mentre loro trascorrevano il proprio tempo sottocoperta studiando il cinese.

Solo il 19 marzo sarebbero infine sbarcati a Lahoekou, da dove raggiunsero Jingang, la cittadina nei pressi di Nanyang dove aveva sede la missione ereditata dai missionari Lazzaristi.

Un’antica comunità

Che cosa trovarono allora i missionari del Pime nell’Henan?

Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone tra i quali esisteva già una piccolissima comunità di circa tremila cristiani.

Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare in questa regione dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che, per secoli, a Kaifeng (a circa 300 km da Nanyang, ndr.), sempre nello Henan, erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero (come testimoniato dalla celebre stele di Xi’an).

Nel Settecento, poi, ai Gesuiti erano subentrati i Lazzaristi che, nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo per reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee -, avrebbero pianto nell’Henan due martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840.

Nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero. Ma nelle province come l’Henan, lontane da Pechino, a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani non era mutato.

Un contesto difficile

I missionari dell’allora Seminario lombardo per le missioni estere sapevano quindi che la missione alla quale erano stati chiamati non sarebbe stata facile.

Vestiti con abiti cinesi, con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate e una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo».

Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo.

Da stranieri si trovavano inoltre a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso, nel 1873, dovette affrontare una pubblica umiliazione quando, recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai Lazzaristi a Nanyang, ma mai utilizzata a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.

Carità e saggezza

In un contesto così difficile, fu il cuore generoso dei missionari a scardinare i pregiudizi.

Accadde in particolare durante una terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa in Italia. Fu questo a cambiare radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, oltre alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo della regione – che ebbe sempre molta cura nel tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Per esempio, fu tra i primi vescovi cattolici in Cina ad alzare la voce contro la piaga del commercio dell’oppio, alimentato dagli interessi europei. Il missionario arrivò persino a scrivere a Propaganda Fide chiedendo un pronunciamento chiaro di condanna da parte della Santa Sede; una presa di posizione che sarebbe però arrivata solo dopo qualche anno.

Nello Shaanxi

Parallela a questa prima presenza nell’Henan, se ne aggiunse poi presto un’altra nel vicino Shaanxi. Una missione legata, questa volta, al Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’istituto romano fondato da mons. Pietro Avanzini che, nel 1926, Pio XI avrebbe unito al Seminario lombardo, dando vita al Pontificio istituto missioni estere.

Questo secondo gruppo di missionari giunse nel vicariato di Hanzhong nel 1887, sempre con il compito di far crescere una Chiesa dal volto cinese.

I primi martiri

Nello Shaanxi sarebbe però cominciata per il Pime anche l’esperienza del martirio in Cina. Capitò nel contesto della rivolta dei Boxer che nel 1900 scatenò in tutto il paese un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. Nel vicariato di Hanzhong fu colpito a morte padre Alberico Crescitelli, missionario campano originario di Altavilla Irpina, giunto in Cina dodici anni prima, e che sarebbe figurato tra i 120 martiri cinesi canonizzati da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2000. Una morte violenta che non fermò la dedizione del Pime al popolo cinese. Al contrario: le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati a servizio della gente, continuarono a crescere, accompagnati dall’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti locali capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura, e anche da uno sguardo attento alla bellezza della cultura e delle tradizioni cinesi, come testimoniano – ad esempio – le splendide fotografie di padre Leone Nani, che ha lasciato con le sue lastre uno spaccato straordinario della Cina rurale dell’inizio Novecento.

Uccisi ed espulsi

Accanto a Crescitelli anche altri missionari del Pime in Cina sarebbero stati chiamati a donare la propria vita per il Vangelo: padre Cesare Mencattini nel 1941 nell’Henan, e poi mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng, nel 1942, ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella, straziati e gettati ancora vivi in un pozzo. E padre Emilio Teruzzi, sempre in quello stesso 1942, anno drammatico per la presenza del Pime in Cina.

Tutti e sei questi missionari caddero vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta tra nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, e le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione.

Uccisi prima della prova che sarebbe poi arrivata con la vittoria di Mao e della Cina comunista.

All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, per tutti i missionari del Pime in Cina, arrivò il tempo più difficile: la persecuzione, i processi popolari, le violenze fisiche e psicologiche in carcere. Fino alle espulsioni a frotte tra il 1951 e il 1954.

Erano quelli gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione e nazionalità scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.

I frutti che rimangono

Con il 1954 si chiuse dunque la presenza fisica del Pime nella Cina continentale. Ma che cosa sarebbe rimasto di quanto seminato dai 263 missionari dell’istituto che avevano svolto il loro ministero nelle province dell’Henan e dello Shaanxi nei 74 anni trascorsi dall’arrivo di padre Volonteri e dei suoi compagni?

Nonostante il tentativo del regime comunista di cancellare le tracce degli «stranieri», e la persecuzione ancora di più dura patita dai cristiani negli anni della Rivoluzione Culturale, i frutti della loro testimonianza non svanirono.

I primi ad accorgersene sono stati i confratelli che, a partire dagli anni Ottanta, quando da Pechino sono cominciate a giungere le prime aperture per le comunità cristiane, sono potuti tornare a visitare l’Henan e lo Shaanxi.

Figure come padre Giancarlo Politi (scomparso lo scorso anno) e padre Angelo Lazzarotto, con i loro viaggi, hanno potuto toccare con mano quanto, nonostante la tempesta immane abbattutasi su queste Chiese, la memoria dei missionari fosse rimasta viva.

Con emozione, per esempio, il Pime ha potuto apprendere che nella cittadina di Zhoukou – dove in un pozzo secco erano state nascoste le spoglie dei quattro missionari dell’istituto uccisi insieme nel 1942 -, i cristiani locali avevano costruito una nuova chiesa proprio in corrispondenza di quel luogo di cui non si era persa la memoria. Esattamente come nella Roma degli inizi del cristianesimo si costruivano altari sulle reliquie dei primi martiri.

Uscire dalle catacombe

La missione del Pime in Cina negli anni più recenti è stata quella di accompagnare nelle poche modalità concretamente possibili la vita delle comunità che, un passo alla volta, provavano a uscire dalle catacombe. Ad esempio attraverso il racconto delle storie dei tanti sacerdoti, religiosi e laici cinesi che avevano subito ogni sorta di persecuzione nel furore ideologico della Rivoluzione Culturale, ma anche aiutando la Santa Sede a ricostruire la fotografia di ciò che restava delle diocesi cinesi; premessa indispensabile per quel cammino di unità tra i cattolici in Cina che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno auspicato e che l’accordo voluto da Francesco con il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, pur con tutte le sue difficoltà, sta faticosamente cercando di promuovere.

Le suore di San Giuseppe

Anche dentro la cosiddetta «Chiesa ufficiale» – pienamente riconosciuta da Pechino – ci sono segni che parlano dell’eredità lasciata dai missionari del Pime.

Ne è un esempio la congregazione delle Suore Missionarie di San Giuseppe, un istituto femminile fondato nell’Henan da un missionario del Pime – padre Isaia Bellavite -, che quest’anno ha festeggiato il suo centenario.

Queste religiose, in origine, erano un gruppo di donne che nella zona di Anyang nel 1920 si erano prodigate per il servizio a chi aveva perso tutto durante un’alluvione devastante del fiume Giallo. In quel frangente, padre Bellavite intuì quanto preziosa sarebbe potuta essere per l’evangelizzazione una congregazione di suore cinesi: un ordine religioso locale, in grado di arrivare anche là dove il missionario straniero non avrebbe mai potuto accedere. Quando arrivarono gli anni della repressione comunista con l’espulsione dei missionari, le suore furono disperse, e ciascuna tornò alla propria famiglia; ma alcune di esse, in maniera nascosta, sono rimaste fedeli per decenni alla propria vocazione, e quando è stato possibile, hanno ridato vita alla loro comunità.

A quel punto la sorpresa dello Spirito è stata vedere anche giovani ragazze cinesi unirsi a loro.

Così oggi le Suore Missionarie di San Giuseppe sono una congregazione locale della diocesi di Anyang, un ordine che conta 127 religiose, impegnate nella pastorale ma anche nel servizio agli ammalati in una piccola clinica oftalmica che avevano aperto già negli anni Trenta e che è stata loro restituita dalle autorità locali.

Nel segno della carità

Nel segno della carità si inserisce anche un altro legame tra il Pime e la Cina continentale cresciuto negli ultimi anni: l’amicizia con Huiling, un’ong al servizio dei disabili, fondata e animata da una donna cattolica cinese, Teresa Meng Weina, e oggi indicata come un modello dalle stesse autorità cinesi.

In oltre trent’anni, Huling ha infatti aperto più di cento centri in tredici metropoli cinesi, con trecento operatori che assistono oltre mille disabili. Un cammino che i missionari del Pime da Hong Kong hanno costantemente sostenuto, in alcuni casi anche tornando per lunghi periodi in Cina a condividerne l’esperienza.  Da questa collaborazione sono nati anche progetti particolarmente significativi per la promozione della cultura della disabilità: una fattoria dove i portatori di handicap di Huiling lavorano alla periferia di Guangzhou (la città che in Occidente chiamiamo Canton), o una compagnia teatrale che porta in tutta la Cina il messaggio di questa realtà.

Per questo motivo, proprio al cammino di Huiling il Pime ha voluto che fosse legato il ricordo dei suoi 150 anni in Cina, attraverso una raccolta fondi intitolata «AvviCINAbili senza barriere» promossa in Italia. Un modo concreto per andare oltre la retorica sulla Cina come grande potenza, e per ripartire invece dal volto di chi è fragile, il più adatto a gettare ponti anche nei contesti più difficili.

Per tornare a incontrare – anche in un contesto così segnato da paure e contrapposizioni – un’altra Cina, più vicina al tesoro straordinario scoperto nel 1870 dai primi missionari nell’Henan, e provare a scrivere insieme alle comunità cristiane locali una nuova pagina di speranza per il mondo intero.

Giorgio Bernardelli




Messico: Un Progetto per la vita


testo e foto di Ramón Lázaro Esnaola |


Nello stato di Jalisco, nel centro del paese, l’associazione Mati e i missionari della Consolata  hanno ideato un progetto di accompagnamento psicologico, famigliare e giovanile.


Il progetto è sostenuto dagli AMICI MISSIONI CONSOLATA.
Il supporto di altri amici è benvenuto.


I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel dicembre 2008, e vi hanno creato due comunità: una a Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, nel Sud del paese, e l’altra a San Antonio Juanacaxtle, nello stato di Jalisco, nel centro Ovest.

Il Messico è un paese pieno di contrasti. Le persone sono amichevoli, accoglienti e generose. Orgogliose della loro identità culturale. Tuttavia, la realtà strutturale del paese è molto violenta, con più di ottanta omicidi al giorno. A ciò si aggiunge la situazione dei migranti centroamericani che l’attraversano per raggiungere gli Stati Uniti, e degli stessi migranti messicani che vivono quotidianamente tragedie al confine con il loro vicino del Nord (cfr. MC luglio 2019). Il machismo e l’alcol sono abitudini che aggravano ulteriormente la convivenza familiare e sociale.

San Antonio Juanacaxtle è un quartiere (qui si chiama rancho) situato a circa 25 km da Guadalajara, la capitale dello stato di Jalisco.  Secondo  il  censimento  del  2010,  attualmente  conta  poco  più  di  1.300  abitanti.  La maggior parte della popolazione è dedita all’allevamento del bestiame, e pratica l’apicoltura. Altri si occupano di agricoltura, soprattutto di mais e sorgo. Ci sono poi anche molti artigiani, ma sono persone che vivono di lavori occasionali, mentre solo un numero molto limitato ottiene un contratto.

Molte famiglie hanno parenti negli Stati Uniti che grazie alle rimesse danno un importante contributo anche per l’economia locale.

I missionari della Consolata lavorano anche nella colonia Atlas a Guadalajara, dove hanno una piccola sede per l’accompagnamento psicologico e spirituale. Due missionari di questa comunità, infatti, sono psicologi di formazione.

Le altre zone d’intervento sono Villas Andalucia, El Faro, La Esperanza e La Aurora. Le prime due sono agglomerati di edilizia popolare, creati appena sette o otto anni fa, molto popolati, con più di diecimila famiglie in totale. Le altre sono centri abitativi più vecchi e meno popolati. Siamo presenti qui per l’accompagnamento pastorale, familiare e giovanile a cui si dedica la comunità Imc, che a San Antonio Juanacaxtle non ha la responsabilità di una parrocchia, con la collaborazione dell’associazione Mati.

L’associazione della società civile Mati è nata dalla preoccupazione di alcuni professionisti, di diverse discipline, che hanno osservato nelle famiglie diverse situazioni di vulnerabilità, come la violenza di genere e domestica, la perdita di una persona cara, il cambiamento o la perdita del lavoro, il divorzio, la perdita di senso della vita e dei valori, la mancanza di identità personale, familiare e lavorativa, e altri ancora.

Queste situazioni riflettono problemi psicologici, sociali ed economici, nonché carenze affettive che limitano l’azione di queste famiglie le quali non hanno la possibilità di lavorare in profondità su questi problemi.

Mati fornisce consulenza e formazione, lavora per rafforzare l’identità delle persone e dare un significato nuovo alle storie di vita, alla ricerca di un benessere integrale, sostenere la resilienza e soprattutto curare, proteggere e sostenere le donne vittime di violenza.

L’associazione mette a disposizione di chi frequenta i suoi corsi di formazione, uno spazio in cui vengono forniti gli strumenti per il proprio sviluppo individuale. Offre un processo di apprendimento graduale in diversi ambiti del sapere, per una continua riflessione e crescita, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e professionale.

Il progetto si propone, nel corso di un anno, di generare la consapevolezza della cura e della responsabilità verso le donne, la famiglia e la società.

Promuove, come prioritarie, le quattro dimensioni dell’essere umano  (psicologica, sociale, biologica e spirituale), in modo che ogni persona stabilisca o rafforzi il proprio progetto di vita come fondamento della propria stabilità emotiva e fisica e quindi della propria trasformazione sociale. Il progetto ha l’obiettivo di lavorare con cinquecento famiglie. Considerando che ogni nucleo familiare è generalmente composto tra le cinque e le sette persone, si vogliono raggiungere, in media 3mila individui.

I missionari della Consolata si occuperanno dell’identificazione delle famglie più vulnerabili, mentre l’associazione Mati realizzerà i corsi.

Questo progetto vuole fornire ai singoli e alle famiglie strumenti per una maggiore conoscenza di sé, per poter gestire i propri conflitti e i propri lutti e per cercare soluzioni a situazioni di violenza di genere e di violenza domestica.

La speranza è che le persone e le famiglie non solo sapranno ricostruire la propria vita, ma diventeranno anche un solido e supporto per altre famiglie che vivono esperienze di disagio simili a quelle che hanno vissuto loro.

Ramón Lázaro Esnaola

Gli Amici Missioni Consolata

sono impegnati a sostenere questo progetto con un contributo di 15mila euro anche se quest’anno – per la prima volta in oltre 30 anni – non è possibile fare la tradizionale «Mostra di solidarietà dell’Immacolata».
Chi volesse sostenere il progetto «Promuovi la vita difendi la donna», può dare il suo contributo con un versamento tramite Missioni Consolata Onlus. Grazie. Muchas gracias!






Le perdite allo stato, i profitti ai privati

Testo di Francesco Gesualdi |


Nelle privatizzazioni, la lotta è tra statalisti e liberisti. Nella realtà, il ragionamento dei liberisti è più opportunista: «no» all’intervento dello stato quando le cose vanno bene, «sì» quando le cose vanno male. La vicenda Autostrade-Benetton.

La vicenda del Ponte Morandi ha riacceso i riflettori sulle privatizzazioni, anche se alla fine tutto si è trasformato in un processo alla famiglia Benetton, piuttosto che in una riflessione sul principio in sé delle privatizzazioni. Privatizzare, la parola stessa lo dice, significa «rendere privato ciò che è pubblico». Un concetto di per sé semplice, ma complicato dal fatto che le modalità di passaggio ai privati sono molteplici e che la stessa privatizzazione si presta a molteplici interpretazioni. Volendo schematizzare, il termine può riferirsi a tre diversi scenari: la privatizzazione totale, la privatizzazione parziale, la privatizzazione ombra, di cui, però, parleremo meglio nella prossima puntata.

Liberisti e interventisti

La privatizzazione totale si ha quando lo stato vende definitivamente una sua proprietà o una sua attività a un soggetto privato totalmente indipendente. Se lo stato debba gestire o meno servizi e attività produttive ha sempre rappresentato un tema di grande contesa che ha diviso economisti e forze politiche in schieramenti contrapposti: di qua i liberisti, che vogliono limitare la presenza dello stato ai soli ambiti che tutti hanno interesse a mantenere collettivo (magistratura, polizia, difesa dei confini, anagrafe); di là gli interventisti, che pretendono di estendere la presenza dello stato a tutti quegli ambiti che condizionano la dignità dei cittadini: sanità, istruzione, alloggio, acqua, rifiuti, trasporti e molti altri. Così in teoria. Di fatto i liberisti hanno sempre avuto un atteggiamento oscillante (e opportunista): di assoluta opposizione all’intervento dello stato quando le cose per loro vanno bene, ma di richiesta di protezione in caso di mala parata. Della serie: «privatizziamo i profitti, socializziamo le perdite».

Nascita e morte dell’Iri

Quando nel 1929 le economie di tutto il mondo entrarono in crisi con fallimenti a catena di banche e imprese produttive, tutti invocarono l’intervento dei governi per salvare il salvabile. Richiesta accolta anche da Mussolini che, nel 1933, istituì l’«Istituto per la ricostruzione industriale», in sigla Iri, incaricato di sottrarre al fallimento i principali gruppi bancari e industriali che spaziavano dalla siderurgia alla produzione energetica, dalle costruzioni navali a quelle automobilistiche. Quando lo stato italiano si ritrovò proprietario dei maggiori stabilimenti industriali, pensava di detenerli in maniera transitoria, tanto quanto sarebbe bastato per superare la burrasca. Invece, la situazione si stabilizzò e nel dopoguerra il fondo venne rafforzato attribuendogli l’incarico di pilotare lo sviluppo economico del paese. In particolare, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno e potenziare la viabilità ritenuta fondamentale per la crescita dell’economia italiana. Non a caso, nel 1950, venne costituita la Società autostrade che, partendo dall’autostrada del Sole, costruì l’intelaiatura autostradale italiana. Negli anni Settanta, l’Iri fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi e si indebitò in maniera pesante. Il che fu poi usato come pretesto per avviare un processo di smantellamento dell’ente che si concluse nel 2000 con la sua liquidazione. Così tornarono in mani private aziende che, oltre a svolgere servizi importanti come la telefonia e la gestione autostradale, garantivano rendite sicure dal momento che erano in una posizione di monopolio, ossia di operatori senza concorrenti che, oltre ad avere un mercato sicuro, potevano fare i prezzi che volevano. Tesi confermata dalla Corte dei Conti che, in un rapporto del febbraio 2010, segnala come, nel caso delle utilities (energia, trasporti, telecomunicazioni), «l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe» piuttosto che a investimenti migliorativi.

Il caso autostrade

Complessivamente, dal 1991 al 2001, la vendita delle proprietà pubbliche ha fruttato allo stato 97 miliardi di euro. Sarà stato davvero un affare per il popolo italiano? I sostenitori del «sì» ritengono che sia stato conveniente perché ci siamo sbarazzati di aziende in perdita che procuravano soltanto debiti e perché abbiamo raggranellato qualche soldo per ripagare il nostro debito pubblico. Ma non tutte le aziende dismesse erano in perdita, mentre l’effetto sul debito pubblico è stato solo del 7%. Purtroppo, non si può fare a meno di constatare che, dietro al fenomeno delle privatizzazioni, c’è stata anche una buona dose di scelta ideologica. In effetti a partire da fine anni Settanta del secolo scorso, l’idea statalista cominciò a retrocedere per fare posto a quella liberista che vuole il mercato protagonista assoluto del sistema economico e perfino sociale. Prova ne sia che il processo di privatizzazione coinvolse l’intero mondo industrializzato con il suo apice nel 1999, anno in cui gli introiti da vendite delle proprietà pubbliche, raggiunsero i 140 miliardi di dollari a livello mondiale. Purtroppo, anche l’Unione europea spinse in questa direzione pretendendo dai paesi membri l’applicazione di trattati europei fondati su regole che antepongono i meccanismi di mercato all’interesse collettivo.

In Italia, l’ubriacatura liberista risucchiò nel tritacarne delle privatizzazioni molti beni e molti servizi. Fra i pochi sfuggiti, le infrastrutture stradali che sono rimaste di proprietà pubblica: le autostrade, infatti, appartengono al governo centrale per il tramite del ministero dei Trasporti. In effetti, la Società autostrade, che l’Iri mise in vendita nel 1999, ormai era solo una società di gestione, la quale, per esercitare la propria attività, doveva ottenere una concessione da parte del governo che continuava a possedere il bene autostradale. E fu così che, contestualmente alla privatizzazione totale della società, avvenne la privatizzazione parziale del bene, per la possibilità concessa alla società privatizzata di gestire gran parte della rete autostradale. In seguito, la concessione venne rinnovata più volte secondo modalità fortemente criticate dalla Corte dei Conti che, in un suo rapporto dell’ottobre 2019, parla di scarsa trasparenza, scarsa correttezza giuridica, scarsa correttezza economica. Il risultato è che, su un totale di 6.700 km di rete autostradale, oltre l’85% sono stati affidati a società private e solo il 15% sono rimasti in carico ad Anas, la società di proprietà pubblica adibita alla cura delle strade. Le società concessionarie private che gestiscono circa 5.700 km, oggi sono 25, ma la parte del leone la fa «Autostrade per l’Italia», che da sola controlla oltre il 50% della rete in concessione, fra cui l’Autostrada del Sole, l’Autostrada Adriatica, la Firenze-Mare.

Oltre a precisare l’ambito delle autorizzazioni, le concessioni definiscono i diritti e i doveri dei concessionari compresi gli investimenti che devono realizzare ai fini migliorativi e gli innalzamenti tariffari che possono operare per recuperare il capitale investito e garantirsi un guadagno. Come segnala la stessa Corte dei Conti, i rendimenti inseriti nelle concessioni autostradali sono stati fissati a livelli molto alti, in certi casi addirittura oltre il 10%, provocando una costante lievitazione delle tariffe e quindi dei profitti delle società concessionarie. E si vede. Nel 2017, l’anno prima che il Ponte Morandi crollasse, Autostrade per l’Italia aveva realizzato ricavi per quasi 4 miliardi di euro, di cui 2,5 utilizzati per spese di gestione, 465 milioni versati allo stato per il canone di concessione e più di un miliardo distribuito agli azionisti come profitti. Ed è qui che entrano in scena i Benetton che, per il tramite di Atlantia, detengono l’88% di Autostrade.

Le autostrade sono un simbolo del fallimento delle privatizzazioni in Italia. Foto: Schwoaze-Pixabay.

Lo stato e i Benetton

Nel 1999, quando la società venne messa in vendita, i Benetton si limitarono a comprarne il 30%, non avendo altri soldi da spendere. La quota restante la comprarono nel 2003 a debito, dopo che una riforma del diritto societario aveva introdotto un meccanismo che permette di comprare le aziende a debito potendosi sbarazzare del debito stesso. Il meccanismo si chiama leverage buyout, in tutto e per tutto un gioco di prestigio finanziario. L’imprenditore che intende effettuare l’acquisto lo fa attraverso una società creata ad hoc che, oltre a rappresentare lo strumento giuridico della compra-vendita, ha anche il compito di raccogliere prestiti presso terzi. Poi, ad acquisto avvenuto, la società acquirente viene fusa con la società acquistata, per cui il debito passa a quest’ultima con tutti gli obblighi che ne derivano. Nel caso specifico la famiglia Benetton creò la società NewCo28 per raccogliere prestiti pari a 6,5 miliardi di euro necessari a completare l’acquisto di Autostrade per l’Italia. Ad acquisto effettuato, NewCo28 venne incorporata in Autostrade e il debito lo stanno ancora pagando gli automobilisti attraverso i pedaggi.

Dopo la caduta del Ponte Morandi molti hanno capito che andava processato non solo chi si era reso colpevole di negligenze, ma l’intero sistema delle concessioni decisamente troppo a favore delle società di gestione. Invece di riconoscere questa necessità e proporre una riforma complessiva sul modo di gestire le autostrade, il governo ne ha fatto una questione di mala gestione da parte dei Benetton e ha annunciato di voler revocare la concessione rilasciata a loro favore, forse con l’intento di correggere almeno le storture più eclatanti. Se si fosse riusciti a togliere la concessione ai Benetton, così era il ragionamento, il governo avrebbe potuto indire una nuova gara e stipulare una nuova concessione su basi totalmente diverse con il nuovo concessionario.

Fin da subito si è però capito che la revoca era una strada impraticabile per le enormi penali che lo stato avrebbe dovuto pagare. Così, per due anni non è successo nulla, almeno in apparenza. In realtà, dietro le quinte governo e impresa hanno continuato a interloquire per trovare un’altra soluzione: il ridimensionamento dei Benetton in Autostrade, in modo da fare passare il potere decisionale a nuovi soggetti disposti a rivedere i termini della concessione. A luglio 2020 è arrivato l’annuncio: i Benetton hanno accettato di vendere una parte cospicua delle loro quote in Autostrade a una cordata diretta da Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal ministero del Tesoro e finanziata dal risparmio postale. Tuttavia, i particolari dell’accordo, compreso il prezzo di vendita, non sono stati annunciati: saranno pattuiti in privato fra le parti. Dunque, ci sarà ancora da attendere per capire se l’operazione si tradurrà in una bacchettata ai Benetton o in un ennesimo regalo a loro favore. Visti i trascorsi, è meglio non farsi troppe illusioni.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

 




La plastica è nel nostro piatto


Il problema più grave è quello non visibile a occhio nudo: le microplastiche. Ormai esse si trovano ovunque: nelle acque, nei terreni, nelle nevi ad alta quota. Nei prodotti d’igiene. E nel nostro cibo.


*la prima parte di questo articolo è in MC aprile 2020


La visione di ammassi di plastica galleggianti in acqua o dispersi per terra, solitamente suscita più clamore di una forma d’inquinamento molto più insidiosa, quella da microplastiche. La loro dispersione nell’ambiente è legata principalmente a due diverse fonti.

Una è rappresentata dalla manifattura di prodotti plastici, che usa come materia prima piccoli granuli di resina chiamati «pellets», «nibs» e «microbeads». Questi ultimi possono essere dispersi accidentalmente nell’ambiente durante il trasporto, a seguito di un uso inappropriato dei materiali da imballaggio o per deflusso diretto dagli impianti di trasformazione. In seguito al dilavamento dei terreni dovuto alle piogge, questi materiali possono finire negli ecosistemi acquatici.

La seconda fonte sono i rifiuti in plastica abbandonati nell’ambiente e soggetti a vari tipi di degradazione: la fotodegradazione ad opera della radiazione solare; la biodegradazione compiuta da organismi viventi, soprattutto microbi; la degradazione termossidativa a temperatura modesta, quella termica ad alta temperatura e l’idrolisi dovuta alla reazione con l’acqua.

I principali composti chimici presenti nelle plastiche sono il polietilene, il polipropilene, il polistirene, il polietilene tereftalato e il polivinilcloruro, costituenti di oggetti come le bottiglie, le posate e le stoviglie di plastica, i contenitori per il cibo, le reti da pesca, le pellicole.

Micro e nanoplastiche

Poiché le microplastiche e le nanoplastiche a occhio nudo non le vediamo, siamo portati a considerarle come insignificanti, mentre in realtà sono molto più insidiose per la nostra salute delle plastiche di maggiori dimensioni. Esse si trovano praticamente ovunque nelle acque di ogni latitudine, sul terreno e nelle nevi in alta quota. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è stata recentemente condotta (settembre 2019) una campagna di campionamenti delle nevi valdostane da parte dell’European research institute (con la Cooperativa Erica e la società VdATralier). La ricerca ha evidenziato come ogni anno precipitino sulle montagne valdostane, a causa degli eventi atmosferici, 200 milioni di frammenti di plastica (equivalenti a circa 25 Kg) di cui 80 milioni sono microplastiche. Questo valore è probabilmente sottostimato, considerando che parte delle nevi fondono, quando si alza la temperatura, riversando il loro contenuto nei ruscelli. È quindi chiaro che le microplastiche e le nanoplastiche in tal modo possono raggiungere tutti i bacini idrografici intermedi fino ad arrivare al mare. Lo stesso viaggio viene intrapreso prima o poi da tutti i minuscoli frammenti sparsi sul terreno, ogni volta che si verificano delle precipitazioni. A questi si aggiungono le microplastiche e le microfibre riversate quotidianamente nelle acque di scarico di ogni centro abitato e quelle generate direttamente in mare dalla frantumazione e degradazione delle reti e delle attrezzature da pesca, oltre che dei rifiuti in plastica gettati dalle imbarcazioni e di quelli giunti attraverso i fiumi. Quindi, il mare è ricchissimo di microplastiche e microfibre derivanti dagli oggetti che comunemente usiamo nella nostra vita quotidiana e nelle nostre attività. Ad esempio, la nostra lavatrice mediamente provoca a ogni normale lavaggio il rilascio di circa 1.900 microfibre per ogni capo d’abbigliamento sintetico, corrispondenti a circa 100 fibre/litro per il lavaggio di tutti i capi, quantitativo che costituisce il 180% delle fibre di un analogo abbigliamento in lana. Durante la stagione invernale, inoltre, utilizzando più indumenti, il rilascio di microfibre aumenta del 700%. A quelle rilasciate in acqua, si devono aggiungere quelle depositate al suolo. Secondo una ricerca condotta nel 2016 dall’Università di Parigi Est, sull’area cittadina (circa 2.500 Km2), ogni anno, cadono al suolo 3-10 tonnellate di microfibre provenienti dagli abiti sintetici. I microbeads e i frammenti spigolosi di polietilene sono invece contenuti in prodotti di uso quotidiano come lo scrub facciale, alcuni tipi di shampoo e di saponi, il dentifricio, l’eyeliner, le creme solari, i detergenti esfolianti, in quantità che talora raggiungono il 10% del peso del prodotto e che, negli ultimi anni, hanno sostituito i tradizionali ingredienti naturali, come le mandorle tritate, la farina d’avena e la pomice. È stato calcolato che ogni persona produce circa 2,4 mg di microplastiche al giorno.

Negli ecosistemi acquatici le microplastiche riescono a espletare tutto il loro potenziale distruttivo. Esse possono causare danni fisici come il soffocamento degli invertebrati filtratori. Oltre a questo esse sono responsabili dell’assorbimento e del bioaccumulo di sostanze fortemente tossiche con proprietà mutagene, cancerogene e teratogene come gli ftalati, i Pcb, il bisfenolo A, le organoclorine e i metalli pesanti. Purtroppo i fr ammenti di plastica in acqua si comportano come delle spugne, assorbendo le sostanze tossiche disciolte e può succedere che un piccolo frammento riesca a concentrare su di esso una quantità di sostanze tossiche pari a un milione di volte quella presente nelle acque circostanti.

Disastro marino

Non c’è più alcuna zona dell’oceano, inteso come insieme di tutti i mari terrestri, che non sia contaminata dalle microplastiche, anche laddove non si vedono rifiuti plastici galleggianti, come nel passaggio a Nord Ovest nel mare Artico, dove una serie di campionamenti delle acque ha rivelato la presenza di smog di microplastiche e di nanoplastiche. Le ricerche condotte in questo mare hanno messo in evidenza il fatto che le microplastiche qui trovate non derivano da processi di degradazione in loco di rifiuti in plastica di maggiori dimensioni, ma sono state trasportate dalle correnti oceaniche, quindi provengono dai continenti in cui la plastica viene prodotta e dispersa in acqua. Tra l’altro i sistemi di depurazione e filtraggio delle acque (laddove esistono) non riescono a trattenere le microplastiche e le nanoplastiche, per via delle loro ridottissime dimensioni. Tutti i campionamenti effettuati in diverse parti dell’oceano hanno evidenziato come solo l’8% dei frammenti trovati è più grande di un chicco di riso.

Date le loro ridottissime dimensioni, le microplastiche e le nanoplastiche entrano a fare parte della catena alimentare, rilasciando le sostanze tossiche che trasportano, le quali sono caratterizzate da un processo di bioaccumulo o biomagnificazione, cioè il loro quantitativo all’interno degli organismi aumenta man mano che si sale lungo la catena alimentare. Frequentemente gli animali a vita bentonica, cioè viventi sui fondali marini si nutrono delle microplastiche, con tutto il loro contenuto di sostanze tossiche. Tra questi animali vi sono le cozze e le vongole, che spesso finiscono nei nostri piatti, i crostacei cirripedi (balani), gli invertebrati detritivori come oloturie, isopodi, anfipodi e policheti. Le nanoplastiche possono essere ingerite invece dagli organismi planctonici, che sono il cibo per elezione della balenottera comune (Balaenoptera physalus) e dello squalo elefante (Cetorhinus maximus), animali di grossa taglia che in tal modo accumulano nel loro tessuto adiposo quantità rilevanti di ftalati (mediamente 45 ng/g di grasso nella balenottera) derivanti dal plancton contaminato. I pesci sovente ingeriscono microplastiche, contaminandosi con le sostanze tossiche trasportate e quelli predatori, che si nutrono delle specie più piccole, accumulano nel loro tessuto adiposo ingenti quantità di tali sostanze.

Un piatto «ben» condito

Secondo la Coldiretti, in Italia consumiamo mediamente 25 Kg a testa di pesce all’anno, mentre il leader europeo del consumo di pesce è il Portogallo con 56 Kg procapite all’anno. È logico pensare che, attraverso il cibo, ci ritroviamo nel piatto la plastica, che abbiamo disperso in mare qualche anno prima, per giunta condita dalle sostanze tossiche che è riuscita ad assorbire, oltre a quelle di cui è normalmente costituita. Tra le prime possono figurare anche il Ddt e i pesticidi, finiti più o meno accidentalmente in acqua. Tra i costituenti della plastica, quelli che vengono maggiormente trasferiti dalle microplastiche e che risultano particolarmente pericolosi per la nostra salute sono gli ftalati. Queste sostanze trovano impiego nella fabbricazione delle materie plastiche in Pvc, perché ne migliorano la modellabilità e la flessibilità. Essi hanno inoltre diversi altri impieghi poiché consentono la persistenza dello smalto sulle unghie, quella del profumo nei deodoranti e quella della pigmentazione delle vernici. Data la loro elevata tossicità, la loro concentrazione nei giocattoli e negli articoli di puericultura, spesso messi in bocca dai bambini piccoli, a livello europeo non può superare lo 0,1% (Dir. 2005/84/Ce). Tra gli ftalati più pericolosi per la salute riproduttiva, in quanto interferenti endocrini, ci sono il Dehp o ftalato di bis (2-etilesile) e il prodotto della sua idrolisi o Mehp, cioè mono (2-etilesile) ftalato. Inoltre, il Dbp o ftalato di dibutile e il Bbp o ftalato di butilbenzile.

Gran parte delle bottiglie di plastica finiscono nelle acque. Foto: Kate Ter Haar.

La biomagnificazione

Pericolosissimo è il cosiddetto effetto cocktail dovuto sia al bioaccumulo, causa di una maggiore concentrazione, sia alla mescolanza di più sostanze tossiche, che comportano una tossicità ancora più marcata. In molti organismi marini sono stati riscontrati alterazione riproduttiva e dello sviluppo e diminuzione della sopravvivenza.

La prima osservazione dell’ingestione di microplastiche da parte di sei differenti specie di pesci risale al 1990. Le specie maggiormente colpite da questo fenomeno sono quelle planctofaghe. Sono stati rinvenuti frammenti plastici nel 35% delle specie ittiche pelagiche del Pacifico settentrionale e nel 36% delle specie mesopelagiche e demersali costiere (come halibut e platessa) dell’Atlantico. Particolarmente problematici dal punto di vista del ritrovamento di microplastiche e microfibre nello stomaco dei pesci si sono rivelati gli estuari dei fiumi. In queste aree, i pesci bentonici, che si nutrono dei sedimenti sui fondali, risultano le specie più colpite. In questi ambienti sono particolarmente accentuati i rapporti di predazione, con l’inevitabile conseguenza del fenomeno della biomagnificazione, per trasferimento degli inquinanti tossici dalle specie di piccola taglia ai predatori di maggiori dimensioni.

Tra le specie di pesci, che compaiono comunemente sulle nostre tavole, sono risultate contaminate da ftalati le sardine (Sarda sarda), le acciughe europee (Engraulis encrasicolus), le triglie di scoglio (Mullus surmuletus), i merlani comuni (Merlangius merlangus).

Naturalmente il processo di biomagnificazione continua in tutte le specie di uccelli, rettili e mammiferi che si nutrono di pesci contaminati. Sono state rinvenute fibre plastiche nell’apparato digerente e sostanze tossiche nel tessuto adiposo di orsi polari, foche e cetacei.

Poiché all’apice della catena alimentare ci sono i grandi predatori e tra questi l’uomo, era inevitabile trovare prima o poi le microplastiche e nanoplastiche nei nostri organi e tessuti.

Un team di ricerca dell’Università statale dell’Arizona, grazie ad una tecnica di imaging chiamata spettrometria -Raman, per la prima volta ha analizzato 47 campioni prelevati da diversi organi di persone decedute, tra cui fegato, polmoni, milza e reni, trovandoli tutti positivi per la presenza di microplastiche e di nanoplastiche. Al momento non sappiamo ancora quali siano gli effetti della presenza delle microplastiche e delle nanoplastiche sulla salute umana, ma le problematiche come infertilità, infiammazione e cancro riscontrate nei modelli animali non fanno presagire alcunché di buono.

 

Misure  insufficienti

È evidente che non possiamo più limitarci al riuso della plastica, alla raccolta differenziata e al suo riciclo (che non può proseguire all’infinito, come quello del vetro o dei metalli). È indispensabile limitarne la produzione, sostituendola con materiali completamente biodegradabili, perché per quanto siano stati messi a punto dei metodi di cattura delle plastiche galleggianti nei fiumi, per impedire che esse raggiungano il mare e di eliminazione delle microplastiche (peraltro ancora a livello sperimentale) dalle acque, non sarà mai possibile ripulire le acque e i fondali di tutto l’oceano (anche perché ancora in gran parte inesplorati). Sicuramente ciascuno di noi può fare la sua parte, a cominciare dalle scelte che facciamo al momento dell’acquisto, dando la preferenza a prodotti in altro materiale, a cibi venduti sfusi, senza packaging in polistirolo o plastica, ad abiti in fibra naturale e a calzature in pelle e cuoio. È inoltre di fondamentale importanza educare i nostri ragazzi ad un minore consumo di plastica. Solo scegliendo prodotti alternativi si può influenzare il mercato e, di conseguenza, la produzione della plastica.

Rosanna Novara Topino
(Fine)

*la prima parte è in MC aprile 2020


La pandemia ha portato sul mercato prodotti monouso che hanno evidenziato l’inciviltà di troppi. Foto: Ecogreenlove-Pixabay.

L’incomprensibile ritorno dell’«usa e getta»

Tonnellate di rifiuti sanitari

La riapertura delle scuole in tempo di Covid ha portato il ministero dell’Istruzione alla decisione di imporre l’uso a tutti – docenti, operatori scolastici e studenti – delle mascherine chirurgiche monouso, per la massima tutela, secondo gli esperti del Comitato tecnico scientifico incaricato dallo stesso ministero, della salute di tutti coloro che si trovano nell’ambiente scolastico. In pratica, ogni istituto scolastico dovrà fornire giornalmente una mascherina chirurgica monouso a tutti. Secondo tale piano si dovrà giungere a una fornitura quotidiana di 11 milioni di mascherine chirurgiche per tutte le scuole italiane.
Perché la scelta della mascherina chirurgica usa e getta? Secondo gli esperti del Comitato tecnico, perché la mascherina chirurgica è certificata in base alla sua capacità di filtraggio e risponde alle caratteristiche richieste dalla norma Uni En Iso 14683 – 2019, per quanto riguarda la capacità di barriera contro i microbi di ogni tipo. Le mascherine di stoffa lavabili e riciclabili, nella maggior parte dei casi non rispondono a tale norma. In realtà però esistono in commercio anche mascherine riutilizzabili e certificate, le cui prestazioni sono del tutto analoghe a quelle delle mascherine chirurgiche. Sarebbe sufficiente cambiare tipo di fornitura.
Gli esperti del comitato tecnico non hanno tenuto conto del fatto che 11 milioni di mascherine usa e getta giornaliere corrispondono a 44 tonnellate di rifiuti in più da smaltire mediante incenerimento, l’unico modo corretto di smaltimento dei rifiuti sanitari.
Siamo proprio sicuri che questa sia la migliore forma di tutela della salute? Anche perché le mascherine chirurgiche contengono sostanze plastiche, essendo realizzate in polipropilene o poliestere (che costituiscono il «tessuto-non tessuto» o Tnt di cui sono fatte) e l’incenerimento delle materie plastiche è senza dubbio fonte di sostanze tossiche, come le diossine, che rappresentano un rischio certo per la salute pubblica, a differenza di quello potenziale da Coronavirus. Tutto ciò si aggiunge alla già elevata quantità di mascherine e guanti monouso abbandonati per terra o in mare da persone che dimostrano in tal modo il loro grado di inciviltà.
C’è poi da dire che non è corretto indossare la stessa mascherina chirurgica per più di quattro ore, altrimenti essa perde completamente la sua efficacia perciò, nelle scuole a tempo pieno dove la permanenza è di otto ore, ciascuno dovrebbe avere a disposizione un paio di mascherine al giorno. È evidente che tutto questo rappresenta una spesa enorme per le casse dello stato ed un peso enorme per l’ambiente, che si potrebbero evitare ricorrendo alle mascherine lavabili, che tra l’altro possono anche essere sterilizzate in casa mediante bollitura, mentre le chirurgiche non sono quasi mai sterili.
Oltre a questo va detto che la scuola, che dovrebbe insegnare ai ragazzi a rispettare l’ambiente, obbligandoli ad indossare le mascherine monouso, fa esattamente l’opposto. A conti fatti, questo provvedimento risulta altamente diseducativo. Anziché abituare i ragazzi al riuso e al riciclo, per diminuire l’impronta ecologica, proprio la scuola li abitua a un inutile spreco di materie prime.

R.N.T.




Ladakh, un viaggio dell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Il Ladakh è indiscutibilmente uno dei luoghi più belli in cui viaggiare e sperimentare sensazioni profonde. È un luogo che ha qualcosa da offrire a tutti, che si tratti di un appassionato di fotografia, un amante della natura o anche di qualcuno alla ricerca del vero significato della vita.

Nel grembo del maestoso Himalaya, il Ladakh è la terra della bellezza paesaggistica incontaminata, della spiritualità autentica e della natura umana più genuina.

Gran parte del paese si trova a un’altitudine superiore a 3.500 metri. Da molti è definito «Piccolo Tibet» per via della sua somiglianza morfologica, religiosa, culturale e architettonica con il Tibet. Costituisce la più grande provincia dell’India settentrionale ed è un centro spirituale del buddhismo tibetano. È anche sede di una larga comunità islamica.

Una bellezza mozzafiato

Spesso chiamato «la terra dei passi di montagna», si trova in India nella regione frastagliata del Jammu Nord occidentale e del Kashmir. La regione è circondata da catene montuose ed è nota per le sue splendide vedute himalayane. Il paesaggio arido, roccioso e aspro, è punteggiato da monasteri (gompas) e da strutture bianche a forma di cupola, chiamate stupa, contenenti reliquie buddhiste. Alberi e campi verdi e rigogliosi, sapientemente irrigati dal popolo Ladakhi con l’acqua dei torrenti glaciali, segnano gli insediamenti umani. Bandiere di preghiera tibetane pendono da ponti, cortili e recinzioni, mosse dal vento.

Il Ladakh è noto per essere autosufficiente, producendo gran parte del proprio carburante, cibo e acqua. Tuttavia, il recente rapido aumento del numero di visitatori ha minacciato questa regione ecologicamente fragile. Gli hotel di nuova costruzione consumano sempre più l’approvvigionamento idrico, già compromesso dal lento scioglimento dei ghiacciai; allo stesso tempo orde di turisti inquinano in maniera irresponsabile un’area incontaminata solo fino a un decennio fa.

Un regno Indipendente

Un tempo regno indipendente lungo la Via della Seta, il Ladakh è stato fortemente influenzato dalle vicine terre del Tibet e dai regni musulmani a Ovest (in particolare Kashmir e Turkestan orientale, ora provincia cinese dello Xinjiang). Come il Tibet, ha abbracciato il buddismo, introdotto da vari missionari indiani e monaci erranti. Mentre il Tibet è rimasto chiuso all’influenza straniera, il Ladakh ha svolto un ruolo importante nel commercio della regione. I suoi mercati erano un crocevia di mercanti che portavano con sé molte religioni e culture diverse. E sebbene lo stesso Ladakh abbia affrontato la sua dose di sconvolgimenti politici, oggi ospita anche oltre 3.500 rifugiati dal Tibet.

Un anno fa, nel 2019, l’India ha approvato un disegno di legge, noto come J&K Reorganization Bill, che ha riscritto la geografia dell’estremo stato settentrionale di Jammu e Kashmir, dividendolo in due territori indipendenti: il Ladakh e il Jammu e Kashmir. Questa decisione ha ricostituito il Ladakh come territorio autonomo, separato dal resto del Jammu e Kashmir. Nonostante questa mossa abbia raccolto critiche diffuse sia dall’interno che dall’esterno dell’India, è servita a garantire al paese una nuova identità che lo distingue geograficamente, amministrativamente e demograficamente dalle regioni vicine come uno dei territori, insieme a Sikkim e Arunachal Pradesh, con la maggior diffusione del buddismo in India.

Mentre le montagne del Ladakh collegano letteralmente terra e cielo, gli antichi monasteri forniscono un ponte spirituale tra il passato e il presente. La cultura e le tradizioni promuovono il concetto di interdipendenza e sostenibilità: due ragioni per cui le persone hanno prosperato per migliaia di anni in un ambiente pur ostile e difficile.

Il viaggio

Un viaggio in Ladakh non è per tutti. Ci sono centinaia di chilometri di terra arida e nessun segno di insediamento umano. Bisogna adattarsi costantemente al clima e imparare sul campo dopo ogni tornante.

Non si tratta semplicemente di raggiungere la meta. È come il viaggio della nostra vita, dove impieghiamo la maggior parte del tempo per raggiungere la destinazione finale ma se non ci piace il percorso, difficilmente può avere un qualche senso.

Un viaggio in Ladakh è fatto per godere del percorso, per innamorarsi delle strade, delle curve, dei sentieri sconnessi, delle difficoltà, del caos che provoca un solo camion che si incrocia, delle frane. Sbalordirsi nel vedere le strade ad altezze che si pensavano irraggiungibili, sentire la bellezza di paesaggi lunari.

Un luogo mistico. Infinite montagne rocciose, decine di monasteri, paesaggi spettacolari, temperature sotto lo zero, notti stellate, fiumi imponenti, laghi azzurri come se qualcuno li avesse dipinti, ma soprattutto persone straordinarie. Un paradiso in terra.

Ci sono emozioni che non si possono esprimere a parole. Conoscere culture remote è una di queste. Il Ladakh è un’altra, e per questo esiste la fotografia.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.com

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Clima e ambiente, adesso è il tempo per cambiare

Lo sostiene e lo argomenta il rapporto della Coalizione italiana contro la povertà – Gcap, che mostra quanto la pandemia abbia aperto spazi per un cambio radicale nelle politiche pubbliche. A patto che queste siano coerenti fra loro, altrimenti si rischia di fare con una mano e disfare con l’altra.

La pandemia da Covid-19 ha causato cambiamenti radicali e richiede provvedimenti imponenti. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se l’Italia, l’Europa, il mondo, sceglieranno di orientare questi cambiamenti e provvedimenti verso un ritorno alla situazione pre-Covid o, viceversa, in direzione di un mutamento del nostro modo di abitare il pianeta che ci permetta di affrontare – e possibilmente risolvere – i problemi che c’erano già prima dell’epidemia, a cominciare dal cambiamento climatico e dai danni all’ambiente.

Questo è il presupposto da cui muove il rapporto 2020 della Gcap – Coalizione italiana contro la povertà@, capitolo italiano della più ampia rete della Global call to action against poverty, che riunisce undicimila organizzazioni della società civile in 58 paesi.

Il rapporto mira a incidere, con una serie di raccomandazioni, sul processo decisionale che porterà l’anno prossimo alla revisione della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile@, e mette in evidenza i legami fra cambiamento climatico e crisi ambientale da un lato e, i vari settori inclusi negli Obiettivi di sviluppo sostenibile dall’altro (Sdg nell’acronimo inglese, gli obiettivi che le Nazioni unite hanno elaborato nel 2015 per il quindicennio che arriverà al 2030, da cui il nome di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile).

Al di là dei tecnicismi, comunque, la concretezza del rapporto e dei problemi che solleva emerge nella serie di domande avanzate dagli estensori del primo capitolo, cioè Maria Grazia Midulla, Responsabile Clima ed energia del Wwf, Andrea Stocchiero, responsabile delle attività di policy e advocacy della Focsiv, e Massimo Pallottino, co portavoce Gcap Italia.

«È possibile», si chiedono i tre autori, «garantire una vera transizione ecologica se si continuano a fornire sussidi per le energie fossili? È possibile avviare un vero percorso di riduzione delle disuguaglianze se si mantiene un sistema economico che proprio nell’esistenza e nell’aggravamento delle disuguaglianze trova il proprio motore principale? È possibile arrestare la corsa verso il collasso ecologico, fatto di riscaldamento climatico e di riduzione della biodiversità, se continuano ad aumentare i consumi e lo spreco di risorse?».

Il riscaldamento continua

Cominciamo dal clima: «Gli ultimi cinque anni», ricorda il rapporto Gcap, «sono stati i più caldi della storia, così come lo è stato l’ultimo decennio, 2010-2019. Dagli anni Ottanta, ogni decennio successivo è stato più caldo dei precedenti». Quanto a quest’anno, occorrerà aspettare le rilevazioni dell’ultimo trimestre, ma l’estate 2020 è risultata la più calda di sempre nell’emisfero boreale stando alle rilevazioni dell’Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica (Noaa) degli Stati Uniti, agenzia federale che studia il clima, il meteo e le condizioni degli oceani e delle coste.

Il lockdown non ha ridotto significativamente la presenza nell’atmosfera dell’anidride carbonica (CO2) e degli altri gas responsabili dell’effetto serra. Se è vero che lo scorso aprile si è registrata una diminuzione del 17 per cento nelle emissioni di anidride carbonica rispetto all’anno precedente, già a giugno la riduzione era solo del cinque per cento. Ma quel che più conta è che queste riduzioni non sono bastate per far diminuire la concentrazione dei gas serra che, anzi, ha continuato ad aumentare fra il 2019 e il 2020 come se nulla fosse successo@.

Se molte persone hanno avuto durante il lockdown la sensazione di un miglioramento della qualità dell’aria e di una riduzione dell’inquinamento, spiegava@ lo scorso 10 settembre il fisico del clima Antonello Pasini durante la presentazione del rapporto Gcap, è perché con le chiusure della scorsa primavera sono effettivamente diminuiti gli inquinanti che hanno un tempo di vita in atmosfera di quindici giorni: un blocco della attività di due mesi è quindi sufficiente a ridurli in modo molto evidente. La CO2, però, ha poi precisato Pasini, ha un tempo di vita in atmosfera di alcuni decenni. Per ridurne la concentrazione, quindi, servono prolungate e significative riduzioni delle emissioni, che possono essere solo l’effetto di decisioni politiche da parte dei governi di tutto il mondo.

L’inquinamento dell’aria

L’inquinamento dell’aria è responsabile di quasi nove milioni di morti all’anno, sottolinea il rapporto citando i dati@ della Commissione su inquinamento e salute del Lancet, prestigiosa pubblicazione medica britannica. La cifra, che è il doppio rispetto a precedenti stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), rappresenta il 16 per cento dei decessi annuali e nove vittime su dieci vivono in paesi a medio e basso reddito.

Il costo dell’inquinamento – inteso come lavoro perso, spese mediche affrontate, tempo libero non goduto a causa delle malattie legate all’inquinamento – è pari a 4.600 miliardi all’anno, equivalente a circa il sei per cento del Pil mondiale.

Guardando alla sola Europa, lo scorso settembre l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) ha pubblicato un rapporto – basato su dati 2012, i più recenti forniti dall’Oms – secondo il quale nell’Unione le morti dovute all’inquinamento sono 630mila, di cui 400mila riconducibili all’inquinamento dell’aria e dodicimila all’inquinamento acustico.

Inoltre, benché si tratti di ipotesi ancora in corso di verifica, diversi studi hanno evidenziato una correlazione fra l’inquinamento dell’aria – in particolare la presenza di inquinanti come il particolato (le polveri fini dette PM10 e PM2,5 ) – e l’aumento di infezioni e morti per Covid-19@.

Ambiente e sanità

Per affrontare cambiamento climatico e inquinamento, dicevamo sopra, sono necessarie decisioni politiche strutturali e durature. Ma, insiste il rapporto Gcap, queste decisioni possono portare dei risultati solo se non ne vengono contemporaneamente prese altre che le annullano. Questo vale per tutti gli ambiti: dal commercio alla finanza, dalla sanità all’agricoltura, dalle migrazioni alla giustizia intergenerazionale, e il rapporto dedica un capitolo a ciascuno di questi settori. Qui possiamo approfondirne solo alcuni.

Rispetto alla coerenza delle politiche nell’ambito sanitario, ad esempio, il rapporto richiama One Health (Una sola salute), un approccio che riconosce la relazione esistente tra salute umana, animale e ambientale.

Un esempio – in negativo e da correggere – della relazione fra questi tre ambiti, è quello relativo alla resistenza agli antibiotici che, secondo le stime dell’Oms, è responsabile a livello mondiale di 700mila morti all’anno, e potrebbe provocare dieci milioni di vittime entro il 2050.

Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Amr, Antimicrobial resistance) «ha cause molteplici, ma è legato in larghissima misura all’uso massiccio e improprio di antibiotici in medicina e veterinaria, all’abuso di farmaci antibiotici per uso non medico negli allevamenti intensivi, alla diffusione e dispersione nell’ambiente dei fitofarmaci usati nell’agricoltura industriale e intensiva. Gli antibiotici continuano a essere utilizzati in zootecnia per la crescita rapida degli animali e per la prevenzione delle malattie, a fronte delle scarsissime condizioni di benessere vigenti nella maggior parte degli allevamenti intensivi, anziché essere prescritti per uso medico in caso di effettiva necessità. Queste pratiche scorrette, e ampiamente documentate, contribuiscono alla comparsa di batteri resistenti agli antimicrobici negli animali, che possono poi essere trasmessi all’uomo attraverso la vendita della carne».

Clima, ambiente e cibo

Un altro esempio è rappresentato poi dal settore dell’agricoltura, dell’allevamento e della silvicoltura, responsabili di quasi un quarto delle emissioni di gas serra, specialmente il metano, generato dai processi digestivi dei bovini e dal letame immagazzinato, e l’ossido nitroso, derivante dai concimi ricchi di azoto.

In questo caso, per l’Unione europea la coerenza consisterebbe nell’approfittare della imminente riforma della Politica agricola comune (Pac) per inserire nella programmazione per i prossimi sei anni provvedimenti più decisi nella direzione di un’agricoltura più sostenibile.

Coerenza significa, inoltre, evitare di adottare politiche protettive dell’ambiente e del clima «in casa» spostando poi all’estero il problema.

A questo proposito, è stato molto dibattuto negli ultimi mesi l’accordo – ancora da firmare e, almeno alla data in cui scriviamo questo articolo, abbastanza in bilico@ – fra l’Unione europea e i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay).

L’accordo permetterebbe@, l’importazione in Europa dai paesi del Mercosur di una serie di prodotti fra cui le carni bovine. Queste potrebbero entrare a dazi ridotti (7,5 per cento) e fino a raggiungere la quota di 99mila tonnellate. L’Ue ha precisato che questa quantità è «poco più dell’1% del consumo totale di carne bovina dell’Ue, pari alla metà delle importazioni provenienti attualmente dai paesi del Mercosur. Inoltre, tale quota non sarà applicata integralmente fino al 2027 e verrà gradualmente ripartita in sei rate annuali».

Ma, nonostante le rassicurazioni@ che escludono un aumento della produzione di carne bovina nel Mercosur in conseguenza all’eventuale accordo, diversi osservatori hanno comunque obiettato@ che la firma di un accordo come questo è in netta contraddizione con il piano presentato dalla Commissione europea lo scorso settembre, che prevede una riduzione delle emissioni entro il 2030 non più del 40 per cento, come era previsto nel precedente piano, ma del 55 per cento@.

Scelta discutibile

Per semplificare, il dibattito sembra svolgersi in questi termini: l’Ue dice che le quantità importate non si tradurranno in maggiore produzione nel Mercosur, e non genereranno ulteriore deforestazione e aumento delle emissioni di gas serra; le organizzazioni della società civile, puntualizzano invece che se davvero vogliamo ridurre i danni dovuti alle emissioni di gas serra l’obiettivo è ridurre la produzione globale, non mantenerla uguale continuando, fra l’altro, a buttarne una parte.

Nell’agosto del 2019 questa rubrica aveva riportato i dati Fao sullo spreco di cibo: «Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta –, 574 miliardi di uova, tre miliardi di salmoni atlantici e undicimila piscine olimpioniche di olive». E ancora: «La produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’otto per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme»@.

Chiara Giovetti

Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre

«I più anziani si ricorderanno il colonnello Bernacca, che aspettava con ansia l’arrivo dell’anticiclone delle Azzorre, che segnava l’inizio dell’estate: bene, adesso questo anticiclone è un po’ latitante», così il fisico del clima Antonello Pasini, ospite dell’evento di presentazione del Rapporto Gcap, ha iniziato la sua spiegazione.

«Con il riscaldamento globale di origine antropica», ha continuato Pasini, «si è espansa verso Nord quella che noi chiamiamo la cellula di Hadley, cioè la cellula equatoriale della circolazione atmosferica. Espandendosi la cellula verso Nord, gli anticicloni che prima stavano stabilmente sul deserto del Sahara adesso ogni tanto entrano nel Mediterraneo, portando un caldo molto più feroce di quello dell’anticiclone delle Azzorre, con siccità e ondate di calore». (Chi.Gio.)




Paolo il romano (At 22,22-26,32)

Testo di Angelo Fracchia |


Ogni scrittore vuole intrattenerci ma soprattutto comunicarci qualcosa. Un saggista lo farà con argomenti, un romanziere, se è bravo, lo farà con suggestioni.

Luca è un bravo scrittore. Solo che nel Vangelo e nei primi due capitoli degli Atti aveva tenuto quasi sempre un po’ imbrigliato il suo genio, rinchiudendosi in formule e in uno stile narrativo che alle orecchie dei lettori non poteva che ricordare il mondo ebraico. Aveva infatti copiato lo stile con cui era stata tradotta in greco la Bibbia. Dal terzo capitolo degli Atti in poi, però, la sua lingua ha iniziato a essere più elegante, raffinata, e il racconto a farsi più articolato, avvincente. Più greco. Poco alla volta, Gerusalemme, che era diventata centrale alla fine del Vangelo e lo era rimasta all’inizio degli Atti, è diventata sempre più marginale, è stata citata sempre meno.

Luca, infatti, voleva comunicarci soprattutto due idee, peraltro collegate tra loro: che il movimento cristiano si era aperto ai non ebrei su stimolo dello Spirito Santo (e non per invenzione di Paolo), e che, pur nascendo da un mondo biblico che non avrebbe mai rinnegato, era però slanciato per raggiungere i confini del mondo (Lc 24,47; At 7,8). La prima parte della tesi Luca l’ha chiarita nei primi 14 capitoli degli Atti. Dal capitolo 15 in poi, quello che sembrava semplicemente una conseguenza (l’annuncio di Paolo ai non ebrei), ha preso sempre più il centro della scena. E ormai, al capitolo 22, è chiaro che Paolo resterà il protagonista fino alla fine.

 

Colpo di scena (At 22,22-30)

Siccome Luca sa scrivere bene, e ha una cultura greco latina che ci assomiglia più di quanto ci assomigli quella semita, alcuni dei suoi «allestimenti scenici» non sfigurerebbero nel nostro stile narrativo cinematografico.

Avevamo lasciato Paolo nel tempio, accusato ingiustamente di blasfemia e salvato dalla guarnigione romana, il cui centurione aveva già deciso di trattarlo come un qualunque agitatore di popolo, interrogandolo sotto tortura per sapere che cosa avesse combinato (At 22,24). La flagellazione era pena pesante, ma usata normalmente negli interrogatori dei potenziali «terroristi». Paolo ha però un asso nella manica. A sorpresa, svela di essere cittadino romano.

Durante il primo secolo d.C., la cittadinanza romana era appannaggio non solo degli italici (dall’89 a.C.) ma anche degli abitanti di alcune città privilegiate, di chi aveva prestato per vent’anni il servizio militare, o aveva aiutato lo stato romano in qualche modo. La cittadinanza, ereditaria, permetteva di essere trattati molto meglio di altri. La flagellazione, ad esempio, come la crocifissione, era una punizione che non si poteva infliggere a cittadini romani. E chi avesse imposto una punizione ingiusta, avrebbe subito la medesima punizione.

Si capisce, quindi, la paura del centurione e del comandante, quando Paolo svela di essere cittadino romano, e fin dalla nascita (22,25-28).

Paolo, d’un tratto, guadagna importanza e attenzione, che spiegano i privilegi di questo prigioniero speciale.

Il colpo di scena cambia anche la nostra attenzione su Paolo. Lo avevamo conosciuto ebreo persecutore di cristiani (8,1), abbiamo assistito alla trasformazione del suo nome (13,7: «Saulo, detto anche Paolo»), ora scopriamo che quel nome latino non era un soprannome casuale. Senza accorgercene, voltiamo le spalle a Gerusalemme e guardiamo al Tevere.

Cesarea Marittima. Resti della zono commerciale e amministrativa del periodo romano e bizantino, con iscrizioni in mosaico.

Drammatica sfida giudiziaria (At 23,1-11)

Ciò che Luca racconta sulla vicenda di Paolo suona a volte imprevisto ma sempre verosimile. La prima mossa di un comandante romano di fronte a un possibile agitatore politico, in effetti, sarebbe stata di interrogarlo (con tortura, era normale). Paolo si svela cittadino romano, e questo complica il quadro, anche perché le accuse sono di tipo religioso. Tendenzialmente i romani si disinteressavano di religione, a meno che avesse ricadute politiche. Ma per capire se in questo caso ce ne sono, devono sentire i capi del tempio. Ed è ciò che il comandante fa: interroga Paolo (senza tortura, il prigioniero è speciale) davanti al sinedrio.

E qui Paolo compie un gesto di rottura che, prima di lui, con la stessa gravità, era stato osato soltanto da Stefano con il suo discorso contro il tempio (At 7). Rimprovera infatti il sommo sacerdote (23,2-3), scusandosi per il fatto di non sapere chi sia (sarcasmo aggravante). Paolo infatti ammette che secondo la legge non bisogna insultare il capo del popolo (23,5), ma è chiaro che in questo contesto a guidare il popolo è Anania, anche qualora Paolo non lo conosca (il che pare improbabile). Questa risposta che sembra di scuse, in verità, sottintende che Paolo non riconoce Anania come guida, rompendo quindi nettamente con quella tradizione giudaica con cui fino al giorno prima Paolo sembrava voler scendere a patti. Ormai l’apostolo è difeso dai soldati romani, e, dopo aver tentato per anni di accordarsi con l’autorità religiosa ebraica, se ne distacca.

Complotti e fuga (At 23,12-33)

La reazione ebraica, cioè il complotto per uccidere a tradimento Paolo, ci può sembrare eccessiva, ma probabilmente non lo è. Un uomo di grande carisma, con un’ottima preparazione teologica, ha appena contestato in modo radicale l’autorità del sinedrio. Dal punto di vista ebraico, merita la morte, ma sono i romani a detenerlo, e il sinedrio non può quindi fare niente, se non cercare di ucciderlo a tradimento durante un trasferimento. Se morissero anche dei romani, dimostrandosi tra l’altro inaffidabili, tanto meglio.

A questo punto Luca inserisce un altro colpo di scena. Scopriamo infatti che Paolo a Gerusalemme ha una sorella, il cui figlio viene a sapere della congiura. Non è raro che Luca inserisca le informazioni solo quando servono. I bravi narratori riescono a farlo senza che sembri una forzatura (i narratori meno abili ci offrono tutte le informazioni all’inizio, e quando servono non ce le ricordiamo più). È sicuramente a motivo della cittadinanza romana che Paolo può ricevere in carcere dei familiari, mandarli dal centurione ed essere immediatamente trasferito a Cesarea Marittima, insieme a metà della forza armata disponibile ai romani. Il comandante ha capito che per questo personaggio il sinedrio è disposto a rischiare, ma non ha ancora capito perché, e quindi decide di proteggerlo. Inoltre, i soldati inviati a Cesarea possono essere di ritorno in due giorni.

A margine e implicitamente, Luca può suggerirci un sorriso e una lacrima. Quaranta ebrei giurano di non mangiare né bere finché non avranno ucciso Paolo… che però a sorpresa è fornito di una scorta insuperabile: non si saranno per caso condannati a morire per non aver saputo infliggere una morte? L’altra annotazione è un silenzio abbastanza sorprendente. Paolo gode di condizioni di detenzione evidentemente morbide, eppure non si dice mai che sia visitato da qualche fratello cristiano, come invece accadrà a Roma (At 28,30-31). Luca non calca la mano sulle mancanze dei credenti, ma è pronto a lasciarle intuire. Offre il quadro ideale di una chiesa, ma sa bene che imperfezioni e difetti restano sempre presenti. Sembra quasi dire anche a noi di puntare a una chiesa perfetta, ma senza pretenderla: neppure quella degli apostoli lo era!

A corte a Cesarea (At 23,34-24,27)

Non stupisca che si parli di corte. Certo, i governatori romani non erano re, rendevano conto all’imperatore e potevano essere deposti da un momento all’altro. Ma intanto, vivevano una vita quotidiana non molto diversa da quella di un re orientale, come Luca ci fa intuire tratteggiando i vari personaggi in tinte coerenti con ciò che ne dicono gli scrittori antichi.

Si parte dal governatore Felice, che abbozza non tanto un processo, quanto un’audizione informale per capire se avviare un procedimento vero e proprio. Ad accusare Paolo arriva un tale Tertullo (il nome è latino: cosa si diceva sull’intento di far dimenticare Gerusalemme?), apparentemente avvocato di mestiere, che inizia lodando Felice, per poi tentare un’accusa abbastanza mal concepita; la replica di Paolo procede liscia finché il suo discorso, da storico e filosofico, arriva a chiedere impegno da parte di chi ascolta (24,25). A quel punto Felice lo ferma. È un governatore che anche le altre fonti antiche ritengono inaffidabile: infatti, secondo Luca, il processo a Paolo non viene avviato né l’apostolo viene liberato perché Felice spera in qualche mazzetta per lasciarlo andare (24,26). Sappiamo che al termine del suo mandato, verrà poi chiamato a Roma per spiegare diversi difetti della sua gestione, ma alcuni giudei intercederanno per lui e non verrà punito. Forse l’annotazione perfida di Luca (24,27) non è campata in aria.

Cesarea Marittima.
Promontorio con colonne del palazzo inferiore, risalente al periodo romano

L’ultimo re giudeo (25-26)

A Felice succede il nuovo governatore, Festo, il quale cerca innanzi tutto di sciogliere i casi che si sono accumulati, e per questo ascolta Paolo. Evidentemente non trova nessun fondamento per le accuse politiche (altrimenti i romani non avrebbero avuto scrupoli a punirlo) e, sentendo che le dispute sono religiose, vorrebbe rimandarlo a Gerusalemme (25,9), anche come gesto di lusinga nei confronti degli ebrei che è appena arrivato a gestire. Di fronte al pericolo del viaggio e di un nuovo processo a Gerusalemme, Paolo taglia definitivamente i ponti e si appella al tribunale di Cesare. È un privilegio degli ebrei, quello di poter essere giudicati da tribunali ebrei, ma per Paolo sarebbe un rischio; i cittadini romani, a loro volta, possono in ogni momento appellarsi a Cesare, così da essere processati a Roma, dove i giochi di potere delle province non contano nulla. Non ci si può ritirare da un appello del genere: i romani sono particolarmente severi nei confronti di chi muove accuse e poi le lascia cadere. A Roma, quindi, Paolo andrà.

Non prima, però, di incontrare Agrippa e Berenice. Erode Agrippa II è un nipote di Erode il Grande, cresciuto a Roma e tenuto dai romani in un’alta considerazione che pare si sia abbondantemente meritata. C’è chi dice che se non fosse nato troppo tardi avrebbe potuto riprendere in mano lui la provincia di Giudea, evitando la rivolta del 66. Luca ce ne offre un ritratto altrettanto lusinghiero (26,3, ad esempio). Benché anche lui abbia sposato sua sorella, dopo che lei era già stata moglie di un altro (e più tardi avrebbe avuto un terzo marito), e sebbene il loro arrivo (25,23) ricordi per sfarzo e contesto il banchetto nel quale si decise la sorte di Giovanni Battista (Mc 6,21-22), Agrippa e Berenice ascoltano con attenzione l’ultima delle grandi autodifese di Paolo. Se Festo, digiuno di cose ebraiche, alla fine del discorso esplode in un «Sei pazzo, Paolo: la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24), Agrippa non si espone, come si conviene a un politico, ed è molto più rispettoso. Paolo, in realtà, tenta di coinvolgerlo con una domanda volta a fargli prendere posizione, dal momento che Agrippa conosce bene i profeti e può valutare la bontà del suo discorso (26,25-27). La risposta del re è una battuta diplomatica: «Ancora un poco e mi convinci a diventare cristiano!» (anche se l’interpretazione di questa frase abbastanza difficile potrebbe essere un po’ diversa). Così dicendo però ammette implicitamente che il discorso di Paolo ha senso, coerenza e correttezza.

E l’ultima parola registrata negli Atti da parte di un governante in Palestina è chiara: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (26,32). Con una narrazione avvincente e facilmente leggibile, Luca ribadisce che Paolo non è colpevole, e chiarisce che ormai la prossima tappa sarà Roma.

Angelo Fracchia
(19-continua)




Botta e risposta


È ormai passato anche il mese di ottobre, un mese missionario vissuto e celebrato in questo strano e confuso tempo di pandemia non ancora debellata, che ha scombussolato la vita non soltanto di qualche gruppo umano più sfortunato, ma di tutto il mondo. E capire che cosa Dio ci sta dicendo in questo tempo prolungato di disagio diventa una sfida anche per la Missione della Chiesa.

Nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020, papa Francesco scriveva: «La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga… E siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato».

In questo contesto, ritorna allora, provocante, la domanda che Dio ci rivolge: «Chi manderò?», e che attende, ovviamente, una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6, 8). Dio sembra non stancarsi di cercare chi inviare alle genti «per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male».

La chiamata alla missione diventa, allora, più incalzante in questo tempo e, mentre ci spinge a farci carico della sofferenza e della paura di tanti nostri fratelli, «guarisce» anche noi, «facendoci passare dall’io pauroso e chiuso, all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé». Il Beato Giuseppe Allamano era talmente entusiasta della vocazione missionaria, da farlo quasi «straparlare», quando diceva ai suoi missionari: «Considerate pure le varie vocazioni con cui una creatura può legarsi a Dio e non ne troverete una più perfetta della vostra. Il Signore per voi ha come esaurito il suo infinito amore in fatto di vocazione. Non saprebbe e non potrebbe darvene una più eccellente, perché vi ha dato la sua stessa missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. L’identica missione che Gesù ricevette dal Padre è da Lui trasmessa a voi».

Più chiaro di così…

padre Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Francesco Paleari

L’amicizia tra sacerdoti santi

Che l’Allamano abbia avuto un rapporto speciale con lo spirito e l’opera del Cottolengo è risaputo. Tra lui e Francesco Paleari (1863-1939), sacerdote del Cottolengo, maturò una buona amicizia sacerdotale. A questo riguardo sono significative le parole del missionario padre Alfredo Ponti: «Ma il vincolo di amicizia fra i Missionari della Consolata ed il Cottolengo si fece maggiormente vivo, maggiormente sentito nella stima grandissima e nella profonda amicizia che legava quei due santi uomini. Don Paleari e il Can. Allamano che sapevano comprendersi magnificamente, sapevano stimarsi, lavorare concordi per la gloria di Dio. Poche volte ebbi il piacere di scorgerli assieme, ma era sempre bello vederli parlare fra loro, discutere, sorridere e ridere anche, usando fra loro quella famigliarità ed anche quella franchezza che solo le grandi amicizie possono permettersi».

Reciproca collaborazione. La collaborazione tra questi due uomini di Dio fu abbastanza ampia. L’Allamano si servì molto del Paleari per le sue opere, a Torino, nel Convitto Ecclesiastico e nella Casa Madre dell’Istituto missionario, come pure al Santuario di Sant’Ignazio per gli esercizi spirituali ai sacerdoti.

Il primo biografo del Paleari, Ettore Bechis, parla di collaborazione riferendosi alle lezioni di filosofia che erano dettate nel seminario dell’Istituto. Ecco le sue parole: «Insegnò filosofia nel nascente Istituto della Consolata per le missioni estere, fondato dal Can. Allamano in Torino. La collaborazione di Don Paleari fu di molto conforto in quegli inizi e la serena calma dell’amico illuminò più che la scienza, i primi ardimenti missionari: tra i due sacerdoti correva una mutua e fraterna emulazione di virtù».

Che il Paleari collaborasse volentieri è confermato dal fatto che continuò finché gli fu possibile in questo servizio di insegnamento, anche dopo la morte dell’Allamano. Quando proprio non poté più, perché nominato Provicario generale, espresse così il suo rammarico a p. Gabriele Berruto: «Il mio rincrescimento è forse più grande del vostro, poiché sono affezionato ai missionari della Consolata e con questa piccola fatica mi sdebitavo alquanto verso la cara Madonna Consolata».

Il pensiero dell’Allamano sul Paleari.

Non c’è dubbio che per l’Allamano il Paleari era un sacerdote “speciale”. Il suo apprezzamento per il “pretino del Cottolengo” (come era chiamato il Paleari) è confermato anche da diverse sue espressioni. Per esempio, per quanto riguarda le lezioni di filosofia tenute dal Paleari agli allievi missionari, l’Allamano compiaciuto per i buoni risultati scolastici, disse: «È una grande fortuna per noi avere la filosofia da don Paleari».

Anche per la predicazione di esercizi spirituali nella comunità dell’Istituto il Paleari fu molto apprezzato. L’Allamano lo invitò a predicare il corso del 1919, subito dopo il rientro dei missionari che erano stati sotto le armi. L’Allamano dava somma importanza a questi esercizi, perché dovevano essere come un rilancio della vita di comunità. Ecco perché li affidò all’animazione del Paleari. La sua aspettativa non fu delusa, perché tutti furono grandemente soddisfatti.

Dopo un altro corso di esercizi, quando non era più lui a scegliere i predicatori, percependo tra i giovani una certa insoddisfazione, fece questo commento: «Hanno un bel cercare persone rinomate… ma uomini come Don Paleari non fanno forse tanta figura, c’è però lo spirito di Dio che parla in loro, ed è ciò che si sente e fa bene». «Di Don Paleari, a Torino, ce n’è uno solo».

La stima dell’Allamano per il Paleari è confermata anche da questo fatto: richiesto da Roma di indicare un nome per l’ufficio di direttore spirituale al Collegio Urbano “de Propaganda Fide”, l’Allamano pensò subito al Paleari. Egli, però, obbediente come sempre, gli disse: «Si rivolga al Signor Padre». Il Superiore della Piccola Casa fu di altro parere e così il Paleari fortunatamente rimase a Torino.

Il pensiero del Paleari sull’Allamano.

Per conoscere quanto il Paleari pensava dell’Allamano, basta leggere integralmente la testimonianza da lui inviata al P. L. Sales, quando stava scrivendo la biografia. Eccone qualche tratto: «Del Venerato Canonico Giuseppe Allamano io conservo tutt’ora viva e santa memoria. Da quando Lo conobbi, frequentando la Scuola di Morale al Convitto Ecclesiastico sino alla preziosa Sua morte, ebbi sempre per Lui grande stima ed affezione quasi filiale, tanta era la riverenza e la confidenza che m’ispirava la Sua Persona.

Nel 1893 Egli m’invitò a confessare i Sacerdoti Moralisti, e, sentendo la mia ritrosia, mi confortò dicendomi: “Quello che non saprà fare lei, lo farà la Provvidenza”. E incontrandomi qualche volta in sacrestia: “Ebbene, mi diceva con tutta familiarità, ebbene come va?” – “Mah!” rispondevo io. Ed Egli: “Avanti in Domino, come diceva il vostro Cottolengo”. Ed io prendevo quell’incoraggiamento come datomi da Dio, tant’era la mia fiducia in quell’Uomo di Dio.

Dieci anni dopo, m’invitò a predicare le Meditazioni al Santuario di S. Ignazio; e ricordo benissimo con quanta prudenza, vigilanza e affabilità dirigeva colà i SS. Spirituali Esercizi […].

Taccio le altre benemerenze nella ricorrenza del Centenario e allargamento del Santuario, nella fondazione dell’Istituto dei Missionari della Consolata, nella Beatificazione del suo Zio, il Cafasso, ecc. In una parola fu un vero Sacerdote, Sacerdote dell’Altissimo».

Che il Paleari si fidasse ciecamente dell’Allamano è sicuro. Lo dimostra anche questo semplice fatto con il quale concludo: quando, dopo la partenza dei primi quattro missionari, gli altri giovani, per diversi motivi, lasciarono l’Istituto, creando una situazione dolorosa e difficile per l’Allamano, il Paleari, pochi giorni dopo, volle accompagnare personalmente sette giovani Tommasini alla Consolatina, di modo che la vita della comunità riprendesse subito senza interruzione. Al vederli l’Allamano esclamò felice: «Oh! Bravi! La Provvidenza, di cui io ero sicuro, stavolta viene proprio dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza, quasi per conformarmi sempre più ad essa. Bravi, bravi! Andiamo a ringraziare la Consolata tutti assieme».

padre Francesco Pavese


Seconda conversione

Dal 25 gennaio al 29 febbraio, si è svolto a Roma un corso di formazione permanente a cui hanno partecipato 26 missionari della Consolata che compivano 25 anni di sacerdozio o di professione religiosa. Padre Ramón Lázaro Esnaola, spagnolo, racconta come ha vissuto quest’esperienza.

Riassumerei questo tempo di formazione in due parole: «Seconda conversione». Se finora ho vissuto innanzi tutto dei miei progetti, dei miei sogni, dei miei ideali e della forza che il buon Dio mi ha dato, ora mi sento chiamato a vivere soprattutto «di fede», a vivere cioè con un atteggiamento più teologico, più gratuito e contemplativo la missione, convinto che tutto è grazia e che i successi o i fallimenti possono essere assunti nella fede senza grandi alti e bassi, con la serenità di chi si riconosce chiamato e inviato, discepolo e missionario.

Durante il corso, ogni partecipante è stato invitato a scrivere la propria autobiografia come attestazione della storia salvifica di Dio nei suoi confronti e come esercizio di accettazione e assunzione di ciò che gli è stato donato: la famiglia, l’educazione e la cultura di origine; e di ciò che ha tessuto sul telaio della vita con le scelte compiute. Questa rilettura della vita mi ha fatto prendere coscienza delle mie debolezze e fragilità non come pericoli o tentazioni, ma come momenti di grazia, perché come dice San Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi: «Se sono debole, allora sono forte» (12,10).

In un secondo momento, alcuni biblisti ci hanno provocato con le esperienze dei profeti, del Cantico dei Cantici, del Vangelo e di san Paolo. Le loro conferenze sono state motivo di riflessione personale e poi di condivisione in gruppo e in assemblea.

Il terzo momento della nostra formazione è consistito nella visita ai luoghi originari dell’Istituto: Castelnuovo, il santuario della Consolata e Casa madre. La maggior parte di noi non era più tornata a Castelnuovo da quasi trent’anni e molti non avevamo visto la ristrutturazione della Casa madre avvenuta negli ultimi tempi.

Ho apprezzato molto la presenza di una comunità Imc accanto alla casa natale del beato Fondatore e l’attenzione e la cura con cui i missionari accompagnano i gruppi che vi si recano così come al luogo di nascita di san Giuseppe Cafasso. Suggestiva mi è parsa la cappellina allestita in quella che fu la stalla di casa Allamano: unione tra il Fondatore e l’Incarnazione che parla di uno stile missionario tutto nostro e che può essere descritto con parole come silenzio, semplicità, precarietà, vicinanza, opzione per l’umanità e la Casa comune.

Anche l’aggiornamento missionario che ha avuto luogo nella casa del Fondatore mi è sembrato molto suggestivo perché il suo carisma si è sviluppato nel corso degli anni a partire da qui e sono stati i suoi missionari che, come strumenti di Dio, l’hanno dispiegato facendolo diventare una ricchezza per la Chiesa e per il mondo.

Accanto alla casa natale del beato Allamano, significativa è anche la presenza delle Suore missionarie della Consolata che svolgono un servizio come centro di spiritualità e formazione per tutte le missionarie del loro Istituto.

Mi è piaciuta anche la visita alla casa natale di san Giuseppe Cafasso, zio materno del nostro Fondatore. La casa è stata completamente ristrutturata con gusto e, in questo, ho visto la scelta precisa dell’Istituto di voler valorizzare la figura del Cafasso, il quale ha rappresentato la principale fonte di ispirazione da cui Giuseppe Allamano ha bevuto e che si può riassumere in quel «Fare bene il bene e senza rumore» che permea tutta la sua spiritualità.

 

La visita al Santuario della Consolata è stato un momento carismatico, perché è lì che il beato Allamano ha ricevuto l’ispirazione di fondare i due Istituti. La condivisione dell’attuale Rettore del santuario ci ha fatto tornare al clima di santità che si viveva a Torino nel XIX secolo e ci ha reso consapevoli dell’influenza che il Fondatore ha avuto sulla formazione del clero nella diocesi di Torino.

Certamente, conoscere la sua stanza, il luogo dove ogni giorno parlava con Giacomo Camissasa e gli oggetti che gli appartenevano, così come quelli che appartenevano a san Giuseppe Cafasso, è stata una grazia per ognuno di noi.

Avere avuto l’opportunità di pregare ogni giorno e persino di celebrare l’Eucaristia sul sepolcro del Fondatore trasformato in altare, è stata occasione per ringraziarlo per il dono che ha fatto al mondo, alla Chiesa e a ciascuno di noi.

Contemplare l’icona della Consolata di fronte alla quale pregava; vedere l’urna del canonico Giacomo Camissasa che ha saputo vivere «la beatitudine di essere il secondo», e rimanere in silenzio davanti ai ritratti di quei missionari che hanno versato il loro sangue per la missione, è stata un’esperienza che ci ha riportato alle origini della nostra chiamata alla missione infondendoci coraggio e determinazione.

Ora è giunto il momento di attuare quella «seconda conversione» alla quale il Signore ci chiama nella vita quotidiana, vivendo con passione, semplicità e gioia il carisma del nostro beato Fondatore.

padre Ramón Lázaro Esnaola

 




Cinquant’anni in Sudafrica


Breve presentazione del calendario 2021, dono ai lettori di MC.

I missionari della Consolata arrivano «per forza» in Sudafrica nel 1940 quando sono prelevati dal Kenya e internati a Koffiefontein. Dopo la guerra rimangono in contatto con i molti ex prigionieri italiani ormai stabiliti nel paese e nel 1948 aprono una casa a Città del Capo per missionari che devono fare gli studi di specializzazione necessari per essere riconosciuti come insegnanti nelle colonie inglesi.

Superiore è padre Lorenzo Maletto che lavora intensamente con la comunità italiana e prepara il terreno per le future missioni tra gli Zulu e gli Swati.

Con i missionari, a Città del Capo arriva anche un quadro della Consolata (nella foto). Una tradizione dice che sia stato un dono del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari in Etiopia, e che mons. Luigi Santa, già vescovo Gimma (fino al 1941), e poi di Rimini, lo abbia conservato come caro ricordo e poi dato ai pionieri di Città del Capo, dove la casa per studi è benedetta nel 1949. Quel quadro diventerà come la «bandiera» dell’Imc in Sudafrica.

Inizio della nostra presenza di evangelizzazione

Il 10 marzo 1971 arrivano in Sudafrica i padri Giovanni Viscardi e Giovanni Berté, rispettivamente dalle missioni del Tanzania e del Kenya. La prima missione è Piet Retief, al confine con lo Swaziland, dal 2018 chiamato Eswatini (in lingua locale: Umbuso weSwatini, regno degli Swazi). Da lì l’evangelizzazione prende due indirizzi: rurale e urbano.

Damesfontein (1972-2009) è il simbolo dell’evangelizzazione rurale attraverso la creazione di piccole comunità, l’accompagnamento spirituale, la formazione di catechisti e leader, il tutto unito alla promozione umana, all’impegno per la salute e la scuola.

Quella urbana comincia con un’équipe di quattro missionari nel 1991 nella vasta zona di Newcastle, Kwa-Zulu-Natal, e partecipa attivamente al cammino del nuovo Sudafrica, inaugurato da Nelson Mandela il 27 aprile 1994. Il ministero dei missionari è un lievito che forma catechisti, leader di settori e organizzazioni di comunità sia nella parrocchia che per la città.

Animazione missionaria e vocazionale

Nel 1995 i missionari della Consolata aprono nell’arcidiocesi di Pretoria, a Waverley e Mamelodi, con lo scopo di farsi conoscere di più in Sudafrica, dare un po’ di grinta missionaria alla chiesa locale e, possibilmente, accogliere anche giovani che vogliano condividerne la missione. Nel 2004 aprono a Daveyton (township), raggiungendo così il cuore politico e sociale del paese.

Il seminario di teologia

Pur non avendo vocazioni sudafricane, i missionari fondano un seminario teologico interculturale a Merrivale (Durban), che può ospitare una dozzina di seminaristi da varie parti del mondo. È il 1° settembre 2008, primo giorno di primavera in Sudafrica. I giovani seminaristi provenienti da diverse nazioni, sono un segno della primavera dell’evangelizzazione di questa nazione multirazziale e multireligiosa.

Un vescovo della Consolata

Il 18 aprile 2009, il padre argentino José Luis Gerardo Ponce De Leon, è ordinato vescovo del Vicariato di
Ingwavuma. Nel novembre 2013 diventa vescovo di Manzini (la capitale del regno di Eswatini) 2013. Dal 2016 gli Imc sono con lui nel piccolo regno.

Missione sempre nuova

Il movimento dei popoli della terra non finisce mai. L’immigrazione è all’ordine del giorno, e tanti rifugiati e migranti da vari paesi africani confluiscono in Sudafrica. La loro presenza è significativa nelle missioni della Consolata, specialmente a Mamelodi (Pretoria), Daveyton (Johannesburg) e Manzini. Sono sfide sempre nuove, rese più impegnative oggi da crisi economiche che aumentano la xenofobia, e dalla pandemia del Covid-19, che colpisce duramente il paese.

A volte si ha la sensazione di essere impreparati di fronte a sfide così grandi, ma la paura non può paralizzare la missione.

Con il continente africano per il mondo

Per i missionari della Consolata, celebrare 50 anni di presenza in Sudafrica è anzitutto ringraziare per il cammino fatto. Tanti dei missionari dei primi giorni ci hanno lasciato e sono in cielo a ricevere il premio dei servi fedeli e, da lassù, fanno il tifo per noi. Ma la missione continua e il Signore manda forze nuove che non solo sono servi di speranza e fraternità in Sudafrica, ma seminano consolazione in tante parti del mondo, Europa compresa.

Lode al Signore e alla nostra Madre Consolata.

da appunti di padre Rocco Marra,
superiore del gruppo in Sudafrica

PS: «Sanibonani» (significa «ti vedo, riconosco la tua presenza») è il tipico saluto in lingua zulu.




Angola: Luacano vive

Padre Mark Simbeye ci manda due brevi flash di vita missionaria da Luacano, nel cuore dell’Angola.

La nostra parrocchia (di Luacano) è in festa.

Dopo due anni dalla nascita, tempo dedicato alla formazione e all’iniziazione ai sacramenti, nel giorno 11 di ottobre 2020 la parrocchia santa Maria Mãe de Deus in Luacano in Angola si è rallegrata con i suoi 13 nuovi figli e figlie, le primizie deliziose del Battesimo e Prima Comunione.

11 ottobre 2020, battesimi a Luacano

Lituta

Il 15 ottobre abbiamo fatto una visita pastorale alla cappella di san Paolo in Lituta alla distanza di 67km da Luacano.

In viaggio verso Lituta

La cappella ha cinque anni di vita.  La strada per arrivarci non è facile perché prima di tutto non esiste, bisogna crearsela. Poi, la cappella e ricca di bambini ma pochi adulti. Inoltre è molto triste constatare che in questo villaggio non esistono né scuola, né centro medico né asilo per i bambini.

Mark Simbeye,
missionario della Consolata a Luacano, Angola