Gli Atti degli Apostoli crescono: la comunità dei fratelli, o dei credenti, o dei discepoli, ha iniziato ad affacciarsi fuori dalla Giudea, ha avuto il primo martire, Stefano, un ellenista, ossia un ebreo di lingua greca (At 6-7), ma questo, lungi dallo spegnerne l’entusiasmo, ha significato l’inizio della predicazione ai samaritani (At 8,5-25), a un eunuco etiope (At 8,26-39), addirittura a un centurione romano (At 10). Nulla sembra fermare la progressione di una comunità che pare però per ora procedere quasi a caso.
Dal male, il bene
Sembra comunque che anche ciò che potrebbe essere di danno per la nuova comunità, si volga invece a suo vantaggio. La persecuzione contro i credenti (At 4-5) ha significato la possibilità di predicare Gesù anche davanti al sinedrio; un episodio di discriminazione tra i discepoli (il trascurare le vedove ellenistiche: At 6,1) ha regalato alla neonata comunità sette nuovi servitori che hanno inteso in modo molto generoso la loro chiamata; l’affacciarsi di un persecutore particolarmente accanito (Saulo, At 9) diventa l’occasione per uno dei pochi episodi degli Atti in cui Dio si mostra esplicitamente in tutta la sua forza.
Ma il cammino è soltanto all’inizio. Luca sembra quasi suggerirci che ciò che accade potrebbe anche essere interpretato in modi diversi, molto umani, anche se ci mostra in modo chiaro che in quegli snodi a muoversi e manifestarsi è lo Spirito di Dio.
Capita infatti che, in seguito all’uccisione di Stefano, sorga una persecuzione «contro la Chiesa di Gerusalemme» (At 8,1). In realtà, notiamo che gli apostoli non ne sono toccati, benché non facciano nulla per nascondersi, e che questa persecuzione si scatena subito dopo la morte di Stefano: viene da pensare che il suo bersaglio non fossero i cristiani in genere, ma proprio gli ellenisti, quegli ebrei convertiti di lingua greca che probabilmente erano guardati abbastanza male dagli antichi residenti di Gerusalemme. Sembra addirittura che chi li perseguita non abbia neppure di mira i fratelli, i credenti, ma la gente forestiera che si era trasferita a Gerusalemme portando con sé i propri (tanti) soldi, le mogli (giovani e presto vedove) e i (riottosi) figli di età minore. Costoro, quasi certamente poco legati a Gerusalemme, davanti alla persecuzione, hanno la scusa buona per ritornare in quegli ambienti di origine che erano multiculturali, variegati e ricchi di vita e in cui probabilmente preferivano vivere.
Ciò che si può dedurre sul clima ecclesiale, nonostante Luca tenti di non evidenziarlo troppo, non è simpatico. Come abbiamo già in parte ricordato, l’autore di Atti dice che «scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme» tanto che «tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). È un passaggio quanto meno strano: se voglio colpire un gruppo, la prima delle misure da prendere è punirne i capi che, tra l’altro, sono ben noti al sinedrio, che li ha già convocati due volte (At 4,1-21; 5,17-42). Perché questa volta li lascia stare?
Come dicevamo, viene il sospetto che la persecuzione non tocchi poi davvero tutti i credenti in Cristo ma solo quelli di lingua greca, i forestieri. E a questo punto si insinua anche una domanda triste e perfida: perché i dodici non sembrano muovere un dito per difendere i cristiani ellenisti o per condividerne la sorte?
Uno degli aspetti della chiesa delle origini, che Luca dissimula ma ci lascia intravedere, è che non si tratta di una chiesa perfetta. È una chiesa i cui responsabili in fondo condividono i pregiudizi del loro contesto religioso e culturale, o almeno non riescono a ribellarvisi. Verrebbe da dire che questa chiesa, lungi dall’essere ideale, assomiglia molto anche alla nostra. Oggi come allora l’adesione a Cristo non trasforma il nostro sguardo come dovrebbe. Ebbene, Luca fa notare che persino in questa situazione discutibile, lo Spirito è all’opera, e può scrivere dritto su righe storte. Anzi, è proprio ciò che fa.
Annuncio scandaloso
Da Gerusalemme, quindi, parte un certo numero di ebrei cristiani di lingua greca, che tornano verosimilmente nei luoghi da cui sono venuti. E una volta tornati là ovviamente raccontano a chi incontrano la grande novità che ha cambiato la loro vita. Luca, in verità, si premura di dire che gli espulsi annunciano Gesù solo ad altri ebrei (At 11,19). A noi può sembrare una preoccupazione eccessiva, ma per quel mondo certe divisioni erano barriere insuperabili. In Cristo «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28), scrive Paolo, e lo evidenzia in quanto si tratta di una novità inaudita, perché normalmente quelle divisioni erano nettissime. Una preghiera che forse già gli ebrei della fine del II secolo (ma probabilmente anche prima) recitavano al risveglio, diceva: «Benedetto tu, Signore, perché non mi hai fatto goi (cioè «non ebreo»), non mi hai fatto schiavo, non mi hai fatto donna». Gesù si era mostrato molto disinvolto nel valorizzare le donne e incontrarsi con loro, e dai vangeli non ci sono indizi per farci pensare che non abbia mai incontrato persone che chiaramente fossero schiave… ma non aveva quasi mai oltrepassato la barriera che lo divideva dai non ebrei. È uno dei grandi problemi, forse il più grande, che Luca negli Atti deve presentare e giustificare. E si sta impegnando ad arrivarci poco alla volta.
Ha già citato i primi casi (Filippo che battezza samaritani e poi un eunuco etiope) e ha colto Pietro in una situazione estrema (il battesimo di un centurione romano: At 10). Nel capitolo 11 sembra quasi che Luca voglia scaricare la responsabilità di un passaggio ulteriore su gente che era forestiera e, nella mentalità del tempo, forse un po’ più grezza. «Alcuni, gente di Cipro e di Cirene, cominciarono a parlare anche ai greci…» (At 11,20). Succede semplicemente che ad Antiochia semiti e greci vivano gli uni accanto agli altri. E che alcuni, non del posto, non sapendo bene chi sia ebreo e chi no, cominciano ingenuamente a parlare di Gesù ai loro vicini di casa, che ne sono affascinati. E il vangelo inizia a diffondersi ampiamente anche tra i non ebrei.
Si corre ai ripari
A Gerusalemme vengono a sapere che ad Antiochia sta succedendo qualcosa di strano e, come avevano già fatto per l’annuncio del vangelo tra i samaritani (Atti 8,14), mandano qualcuno a controllare (e chissà, forse, nel caso, a castigare). Per questo, incaricano quello stesso Barnaba che era già stato inviato in Samaria.
Dobbiamo fermarci un attimo per capire la preoccupazione del gruppo dirigente di Gerusalemme. Gesù, lo abbiamo già detto, non aveva lasciato intendere di dover ampliare l’annuncio anche ai non ebrei. In più, il momento più importante di celebrazione della fede cristiana è la «frazione del pane» (quella che oggi chiamiamo messa), che è proprio un banchetto.
Ebbene, il mondo ebraico si compattava soprattutto intorno alle norme religiose che toccavano il cibo. Mangiare era un atto religioso. E l’atto religioso privilegiato dai cristiani era un pasto. I doveri religiosi si concentravano, per il cibo, soprattutto su un’alimentazione kasher, «pura», che richiedeva, tra l’altro, il non mescolarsi con i non ebrei. Come tollerare, quindi, dei non ebrei alla «frazione del pane»? Inoltre, se anche si fosse potuto chiudere un occhio, magari ospitando i non ebrei a casa di ebrei (almeno il cibo sarebbe stato kasher, anche se in compagnia di persone non accettabili), come fare a spiegare loro che non avrebbero mai potuto ricambiare l’ospitalità? È probabile che sembrasse più semplice ribadire che si poteva essere cristiani solo se ebrei.
È con questo dilemma che Barnaba si presenta ad Antiochia. E, come era già accaduto in Samaria, Barnaba arriva, guarda, ascolta, discerne e attesta che vede i frutti dello Spirito e non può fare altro che applaudire a ciò che sta succedendo. Quanto è prezioso lo sguardo di chi sa vedere anche il nuovo con gli occhi di Dio!
Non solo. Immediatamente (Atti 11,25), Barnaba si ricorda che per quel contesto particolare, di mescolanza di due culture, lui conosce la guida giusta, un uomo che lui stesso aveva già introdotto a Gerusalemme, dove però non si era integrato bene, troppo avanti e grintoso per una chiesa forse più tranquilla e ancora legata al tempio… E di nuovo Barnaba si fa strumento dello Spirito su strade nuove: parte, va a Tarso, cerca Saulo, e lo porta ad Antiochia. Finalmente al posto suo, in una comunità mista che traccia strade nuove e, restando fedele al tracciato sicuro, ha bisogno di camminare con coraggio!
Sorvegliati dai servizi segreti
Il brano si chiude con un’affermazione che può sembrare una semplice curiosità, ma ha numerosissimi sottintesi: «Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti 11,26). Anche chi la consideri solo una curiosità, sa bene che alla fine quel nome si sarebbe imposto e quindi questo è un passaggio importante. Ma c’è di più. «-iano» è un suffisso latino, che di solito indica l’appartenente a un partito raccolto intorno a una persona-guida. Al tempo di Gesù si conoscono bene gli erodiani (cfr. Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), i pompeiani, i cesariani, e così via. Il greco non usa questo suffisso se non in prestiti dal latino. E gli Atti degli Apostoli sono scritti in greco, e il greco (insieme all’aramaico) è la lingua parlata per le strade ad Antiochia. Perché allora una parola latina per definirsi?
Perché probabilmente non furono i cristiani a trovare per sé questo nome (come d’altronde dice Luca: «Furono chiamati»). Proprio l’origine latina lascia invece intendere che si sia trattato dei romani. Questi, tra gli strumenti che utilizzavano per mantenere l’ordine pubblico, avevano anche un’importante rete di informatori, di infiltrati. Noi oggi li chiameremmo i servizi segreti. Sono questi informatori i primi ad accorgersi che sta crescendo un gruppo nuovo, originale, per il quale non si può più dire che siano semplicemente ebrei. Anzi, non lo sono perché hanno dentro anche tanti altri. E capiscono anche che a caratterizzare questo gruppo è Cristo (che lo scambino per un capo politico si può capire: gli informatori, e molto di più chi li usa, sono ossessionati dalla politica). Questo vuol dire anche che ormai «Cristo» non era più sentito come un attributo (la traduzione di «messia») ma quasi come un secondo nome proprio, come lo usa anche Paolo.
Potremmo aggiungere un’ultima considerazione. Siccome non c’è alcuna notizia di una persecuzione contro i cristiani ad Antiochia, gli informatori romani, i primi ad accorgersi in modo chiaro che i cristiani sono davvero una cosa nuova, dovevano aver deciso anche che questo nuovo gruppo non era pericoloso.
Intorno alla chiesa, fuori dal mondo ebraico, qualcuno ha cominciato a notare i cristiani. E l’esito della persecuzione contro una parte sola della comunità cristiana, che sembra quasi venire abbandonata dall’altra, è un’apertura nuova, una sfida nuova, un’opera nuova dello Spirito.
Con tutti i difetti della Chiesa d’allora o d’oggi, dobbiamo confidare che non c’è limite o cattiveria che riesca a legare lo Spirito, pronto ad agire comunque, e ad agire per il bene.
Angelo Fracchia
(12 – continua)
Acque e ladri
Testi di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. A cura di Luca Lorusso |
Per troppo tempo l’oro blu è stato considerato una ricchezza illimitata, sempre disponibile. Oggi stiamo cambiando idea, spinti dalle crisi ambientali che hanno al centro l’acqua. Prima dell’opinione pubblica, l’hanno capito coloro che, con le leve del potere politico ed economico tra le mani, hanno dato il via a una corsa spietata: quella dell’accaparramento della risorsa centrale per la vita umana.
Il 2019 ha visto un elevato numero di crisi ambientali, dagli incendi in Australia, Sud America, Centrafrica, alla crisi idrica in India, Etiopia, Somalia, la siccità in Sudafrica, le tempeste in Indonesia e Filippine.
In molti di questi casi, al centro del disastro c’era un elemento primario: l’acqua. La sua assenza, come la sua eccessiva presenza (nel caso di alluvioni) ha caratterizzato molti eventi catastrofici legati al cambiamento climatico. Con conseguenze spesso gravi sull’uomo.
In India la siccità prolungata ha lasciato milioni di persone senz’acqua per mesi, con impatto rilevante sulla salute. In Australia il caldo record ha seccato ogni cosa, rendendo possibile una serie infinita di incendi che hanno bruciato per settimane e sono costati decine di vite umane e la morte di oltre 500 milioni di animali.
Nuove geografie dell’acqua
Sempre di più il cambiamento climatico si manifesta attraverso l’acqua, in una correlazione che non è sempre compresa a livello politico né tantomeno giornalistico.
La geografia dell’acqua sta mutando con un’intensità e una velocità mai viste nella storia del-l’Homo sapiens, e ancora non ci siamo preoc- cupati di capire come affrontare il mutamento e come adattarci ai nuovi contesti che emergono.
In questa complessa equazione differenziale, le variabili sono il clima e l’inquinamento (che alterano la disponibilità idrica), e l’aumento della popolazione e dei consumi (che incrementano i prelievi).
Dunque ci troviamo in un mondo dove l’acqua è impiegata dall’uomo in quantità sempre maggiori, e dove, allo stesso tempo, non sono più disponibili le risorse idriche tradizionali su cui la nostra civiltà si è sempre sorretta, a causa, ad esempio, dell’inquinamento di falde e fiumi.
L’acqua facile è finita
Per molto tempo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il tema principale delle lotte ambientaliste relative all’acqua era quello della sua qualità. Per scienziati e cittadini, la questione della quantità non era ancora allarmante.
Oggi però, la sicurezza dell’acqua «facile» viene meno. Ci siamo finalmente resi conto che la fonte vitale data per scontata e inesauribile, in realtà è scarsa in numerose regioni del pianeta.
I volumi d’acqua disponibili per ogni abitante della Terra diminuiscono di anno in anno, mentre la richiesta pro capite aumenta.
Secondo le Nazioni Unite, entro il 2030 il 47% della popolazione mondiale vivrà in aree a elevato stress idrico.
Il cambiamento climatico, le frequenti siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, erodono le preziose riserve d’acqua dolce. La crescita della popolazione, l’impennata dei consumi e della produzione alimentare, l’industria e il bisogno continuo di energia (da petrolio, gas, centrali idroelettriche), richiedono sempre più ingenti risorse idriche.
Gli attori politici ed economici più potenti, allora, si muovono per assicurarsele, anche a discapito della sopravvivenza di comunità o intere nazioni, ovviamente le più povere.
Ed è qua che ha inizio la corsa all’oro blu. Detta anche, in inglese, water grabbing.
Water grabbing
Con l’espressione water grabbing, o «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni nelle quali qualcuno prende il controllo di risorse idriche preziose a proprio vantaggio, sottraendole a qualcun altro, comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi.
La costruzione di mega dighe, la privatizzazione di fonti idriche, l’uso forzato di fiumi e laghi per progetti di agrobusiness su larga scala, l’inquinamento dell’acqua per ridurre i costi industriali, il controllo delle risorse idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo di una popolazione nemica, una minoranza, un’etnia, sono esempi di water grabbing. Gli effetti di questo accaparramento sono sovente devastanti.
Da bene comune a bene privato
Nel cosiddetto Sud del mondo, ma anche in alcuni paesi industrializzati, l’acqua si trasforma da bene comune liberamente accessibile a bene privato o controllato da chi detiene il potere.
La geografia del water grabbing interessa ampie fasce del pianeta, le zone equatoriali, i grandi bacini idrici dell’Asia, il Medio Oriente, l’America meridionale, l’area mediterranea, le zone desertiche dell’America settentrionale e dell’Australia.
Per questa ragione un gruppo di ricercatori, giornalisti (incluso l’autore di questo dossier, ndr), fotografi ed esperti, ha creato il Water grabbing observatory, guidato da Marirosa Iannelli, con l’obiettivo di rilevare, analizzare, comunicare fenomeni sociali, ambientali ed economici legati ad acqua e clima, in Italia e nel mondo, usando giornalismo e pubblicazioni come, ad esempio, il libro Water grabbing (edito dall’Emi nel 2018) e L’Atlante geopolitico dell’acqua (Hoepli, 2019), di cui proponiamo alcuni estratti in queste pagine.
Le mega dighe e i padroni del Mekong
Uno dei principali dispositivi di controllo delle risorse idriche nel mondo è l’impiego delle mega dighe: quella delle Tre Gole in Cina ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone; la Gibe III in Etiopia sta colpendo gli equilibri geosociali della popolazione della regione dell’Oromia (400mila persone interessate); la Merowe in Sudan ha intaccato lo status di 50mila persone, senza alcun indennizzo economico.
Uno dei bacini idrici più importanti e anche più colpiti dal fenomeno del water grabbing al mondo è quello del fiume Mekong, in Indocina, dove la costruzione di decine di dighe sta modificando la vita di milioni di persone, in particolare nel delta.
Siamo andati a raccogliere informazioni su una di queste, la diga Xayaburi, la prima costruita in Laos sul Mekong nella zona Nord occidentale del paese, e l’accoglienza non è stata tra le più calorose: guardie armate ci hanno impedito di arrivarvi, sia in auto che a piedi. Abbiamo potuto intravedere dall’alto della montagna solo l’ansa del colosso completato a fine novembre 2019.
Pesca, agricoltura, turismo in secca
Costruita da un’azienda di Bangkok, la Ck Power Pcl, la diga Xayaburi venderà il 95% dell’energia prodotta a utenti thailandesi, fuori dai confini del Laos. Quello che le popolazioni di questi territori non si aspettavano, però, era che la mega diga potesse avere un impatto sul corso del fiume così forte come quello che osservano oggi. Duecento chilometri più a Sud, infatti, dove il Mekong scorre per un lungo tratto sul confine tra Laos e Thailandia, le ultime foto satellitari disponibili indicano una fortissima riduzione del regime fluviale.
Nei villaggi di pescatori thai, la secca arriva fino a 30-40 metri dalla riva. Le barche sono incagliate nel fango.
È una situazione che interessa tutto il fiume fino alla Cambogia e che ha fatto esplodere la rabbia dei pescatori thailandesi portandoli in piazza, mentre in Laos le manifestazioni sono state represse dal regime di Bounnhang Vorachith.
Oltre alla riduzione della portata del fiume, infatti, si starebbe verificando una diminuzione della quantità di pesce disponibile. «Sessanta milioni di persone traggono sostegno da questo bacino», spiega Pianporn Deetes, dell’organiz-zazione International Rivers. «Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe che impatteranno su pesca, turismo, agricoltura. Dighe come la Xayaburi saranno fonte d’instabilità, una piaga, in particolare per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i loro territori, abbandonando costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio».
Dalla Cina al Vietnam: 124 dighe
I proprietari della diga Xayaburi, a loro volta, attribuiscono il prosciugamento del letto del fiume ai monsoni tardivi e all’impatto complessivo delle dighe cinesi, ben 11 nell’alto Mekong, già finite nel mirino del segretario di stato Usa, Mike Pompeo, che le ha definite un rischio per la stabilità idrica del paese, un accaparramento del fiume da parte di Pechino.
Ulteriori preoccupazioni interessano il Vietnam, ultimo paese attraversato dal Mekong: secondo Nguyen Thu Thien, un geografo esperto di aree umide della University of Wisconsin, «il Vietnam potrebbe perdere il delta e tutta la sua produzione di riso entro il 2050. Milioni di impoveriti saranno costretti a fuggire, se le dighe andranno avanti». Dati allarmanti per Hanoi, che punta il dito contro Cina, Laos e anche Cambogia, per i progetti scellerati di sbarramento del Mekong.
Il problema, comunque, è la situazione globale dell’intero corso del fiume, non attribuibile a una diga specifica, sia essa in Laos, Cina o Cambogia. A oggi, infatti, è prevista la realizzazione di 124 dighe lungo l’intero bacino del Mekong – inclusi dunque i fiumi tributari -, con i quali si potrebbero generare 268 Gigawattora (GWh) di energia rinnovabile all’anno (l’equivalente dell’80% del fabbisogno lordo italiano). Di queste 124 dighe, 32 sono già funzionanti e 24 in costruzione, mentre la messa in opera delle restanti è prevista nei prossimi venticinque anni.
Trasferimenti forzati
Un altro sbarramento del Mekong che desta preoccupazione, è la mega diga di Pak Beng, sempre nell’alto Laos, a Est di Luang Prabang, in uno dei settori più belli del fiume: «Al momento non ci sono scavi, ma spesso ci sono ingegneri e geometri a fare misure e rilevamenti», spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. «La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere qui diventeranno un ricordo», continua Vilang. Secondo gli ambientalisti, 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga, oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente. I trasferimenti sono già iniziati.
Nei pressi della diga Lower Sesan II in Cambogia, migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni per fare spazio al nuovo bacino. Anche in questo caso le compensazioni erogate sono state irrisorie e le new town costruite per ricollocare una parte degli sfollati sono sostanzialmente invivibili.
Una situazione destinata a ripetersi per ogni progetto che verrà completato. Contribuendo ad un deterioramento generale della sicurezza alimentare nell’intera regione.
Acqua in bottiglia
«Salve, cosa desidera da bere?», è la domanda che ci sentiamo rivolgere al bar in pausa pranzo, o la sera in pizzeria. La risposta più comune è «acqua», sia essa liscia o gassata. Un gesto semplice, ed ecco che la nostra sete viene placata grazie a una bottiglietta in plastica o vetro. Il nostro bisogno primario viene così soddisfatto.
Quando si chiede l’acqua del rubinetto, troppo spesso si riceve un rifiuto, oppure si viene trattati con sufficienza. Questo perché i bar hanno contratti quinquennali con i fornitori o perché le bevande sono un margine di guadagno importante.
Un mercato in crescita
Il valore dell’acqua in bottiglia a livello mondiale nel 2019 ha quasi raggiunto i 250 miliardi di euro. Cresce ogni anno di una percentuale a due cifre, con i mercati occidentali a farla da padroni.
Sono miliardi buttati dai consumatori, poiché la qualità dell’acqua del rubinetto è spesso più alta di quella imbottigliata.
In ogni caso è un fenomeno che sta prendendo piede in Asia e Sud America, dove bere acqua in bottiglia è cool, trendy, serve «a far dimagrire». Come la Fiji, «l’acqua delle modelle».
Il colosso di questo mercato è Nestlé waters (una divisione di Nestlé corp.), che da sola detiene 51 etichette di acqua in bottiglia, incluse Panna, San Pellegrino, Deer Park e Nestlé Pure Life. Acqua che proviene da fonti che dovrebbero appartenere a tutti, ma che, grazie all’acquisizione di permessi di imbottigliamento rilasciati a prezzi stracciati, divengono di fatto private. Una forma di accaparramento idrico.
I margini di profitto sono elevati: un litro di acqua in bottiglia purificata di bassa qualità costa al consumatore circa 560 volte più dell’acqua del rubinetto. Per imbottigliare, un’azienda paga allo stato canoni di uso della fonte che raggiungono al massimo i due millesimi di euro al litro. In alcuni casi il costo è inesistente.
Dal 1° gennaio 2019, Nestlé water Canada, la divisione acque nordamericana della multinazionale svizzera, ha iniziato a estrarre 1,6 milioni di litri di acqua al giorno dal pozzo di Middlebrook, il terzo mega pozzo in Ontario dopo quelli di Aberfolyle ed Erin. Costo? Poco più di 500 dollari canadesi l’anno. Con conseguenze però molto costose. Rob MacKay, sessantaquattro primavere alle spalle, vive con il fratello e i suoi cavalli in una bellissima casa rurale dal tetto ad angolo, non lontano dal pozzo di Middlebrook. Da qualche tempo i suoi pozzi sono prosciugati. Così come vari ruscelli della zona. «Siamo rimasti senz’acqua in una delle regioni più ricche d’acqua del pianeta», dichiara Rob.
Un milione di bottiglie al minuto
L’Italia ha il primato peggiore: siamo il secondo paese consumatore di acque in bottiglia al mondo: ognuno di noi, in media, ogni anno ne beve 208 litri. E per anni siamo stati il primo. Possiamo tranquillamente dire che il mercato dell’acqua in bottiglia è nato nel Belpaese.
Se per anni in Italia si è cercato di imporre canoni uniformi che prevedessero il pagamento sia in funzione degli ettari dati in concessione, sia dei volumi di acqua emunti o imbottigliati (indicando come cifre di riferimento almeno 30 euro per ettaro e tra 1 e 2,5 euro per metro cubo imbottigliato, cioè 1.000 litri), a oggi solo alcune regioni si sono adeguate.
In un’ottica di economia circolare, molte aree del nostro paese potrebbero fare a meno di consumare acqua in bottiglia. Se l’equivalente dei soldi spesi dalle famiglie con Nestlè, San Bernardo e Ferrarelle, fosse impiegato per migliorare la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti, ne avremmo tutti giovamento. L’impatto sarebbe ingente. Basti pensare che nel 2018 si sono prodotte nel mondo un milione di bottigliette di plastica al minuto, di cui una buona fetta destinate a contenere acqua. Significa più di 16mila bottiglie al secondo che poi finiscono, se gestite in maniera virtuosa, nei pochi impianti di riciclo della plastica, o termovalorizzate, oppure, molto più probabilmente, nelle discariche o disperse nell’ambiente.
I negoziati internazionali per il clima a un bivio
Aspettando Glasgow
Il fenomeno della corsa all’acqua è parte del più vasto problema dello sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Una pratica secolare che sta rompendo l’equilibrio naturale della nostra casa comune. Se i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo, al momento pare che la comunità internazionale la stia perdendo. Dopo il fallimento del summit di Madrid, quello del 2020 a Glasgow sarà decisivo.
Il 2020 sarà l’anno chiave per il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici. «Ma come?», dirà qualcuno, «non si era concluso nel 2015 con l’Accordo di Parigi?». E qualcun altro dirà anche: «Che diavolo è l’Accordo di Parigi?».
Una cosa è certa: i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo.
Se fate parte delle schiere di coloro che credono che il climate change sia una bufala, non leggete queste pagine, tanto non cambierete idea.
Per i cittadini che, invece, sono preoccupati per la casa comune e per le generazioni che verranno, è bene capire come si può agire per cercare di arrestare le emissioni di gas serra, generate principalmente dal consumo di combustibili fossili, come gas, petrolio e carbone, e dalla deforestazione e degradazione degli ambienti naturali terrestri e marini.
Azioni individuali e collettive
Per comodità di trattazione diciamo che ci sono due livelli di azione: uno soggettivo personale che include tutte le azioni quotidiane (l’uso dell’automobile, l’energia impiegata, i consumi alimentari, i consumi in generale), e uno collettivo globale che riguarda il sistema di leggi, di trattati, di strategie internazionali per ridurre le emissioni. In mezzo naturalmente ci sono i singoli stati e i rispettivi sublivelli amministrativi.
Se rispetto all’ambito personale ognuno conosce i suoi peccati e sa cosa dovrebbe fare (e se non lo sa, ci sono migliaia di articoli online pieni di consigli intelligenti), a livello internazionale il cuore del sistema è la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), approvata nel 1992 al Summit di Rio, il principale trattato internazionale in materia di lotta ai cambiamenti climatici. Il suo obiettivo è impedire pericolose interferenze di origine umana con il sistema climatico. L’Unione europea e tutti i suoi stati membri figurano tra le 197 parti contraenti della convenzione.
Da Kyoto a Glasgow
Il primo grande accordo fu il Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997, in vigore fino al 2020. Ratificato da 192 parti della Unfccc, compresi l’Ue e i suoi paesi membri, non vede però tra i suoi aderenti alcuni dei grandi inquinatori mondiali. De facto regola solo il 12% circa delle emissioni globali. Questo fa capire come il Protocollo, sebbene sia stato fondamentale, specie in Europa, sia insufficiente per la sfida attuale.
Inoltre, allo scopo di includere Usa, Cina e altre grandi potenze dentro il quadro internazionale, si è lavorato per trovare un nuovo framework, con un diverso tipo di vincoli e basato su piani nazionali indicati dagli stessi paesi, nel rispetto della scienza e della sovranità di ogni paese.
Dopo un primo fallimento a Copenaghen nel 2009, nel 2015, a Parigi, grazie a un forte accordo politico tra Usa e Cina, le nazioni del mondo hanno approvato a larga maggioranza una nuova architettura internazionale, quella dell’Accordo di Parigi, che entrerà in vigore quest’anno, dopo cinque anni di regime provvisorio, con il negoziato di novembre 2020 a Glasgow.
Dal 2015 a oggi sono proseguiti i negoziati Onu per completare i meccanismi di attuazione dell’Accordo di Parigi e il «Libro delle regole» per evitare problemi.
Il fallimento di Madrid 2019
A dicembre 2019, però, a Madrid non si è raggiunta l’intesa finale per chiudere sull’ultimo elemento dell’Accordo di Parigi rimasto aperto: quello della finanza climatica che avrebbe permesso ai singoli paesi di scambiare quote di emissioni, comprandole da progetti di mitigazione in altre parti del mondo e facendole contabilizzare a proprio nome.
Sebbene l’architettura dell’Accordo di Parigi sia rimasta in piedi e si sia registrata la volontà delle parti di aumentare l’ambizione per il 2020, quando a Glasgow i 196 stati porteranno nuovi piani nazionali di decarbonizzazione, il summit di Madrid ha segnalato la presenza di un grosso problema politico internazionale di difficile soluzione. Si sono messi di traverso Trump, che vuole l’America fuori dall’Accordo di Parigi e che ha già presentato la richiesta formale di uscita (effettiva dal 4 novembre 2020, un giorno dopo le prossime elezioni presidenziali Usa), e Jair Bolsonaro, deciso a devastare l’Amazzonia.
Questo ha messo in allarme Cina ed Europa, che però non hanno saputo trovare la quadra all’interno di un negoziato che già era iniziato con il piede sbagliato a causa dello spostamento della sede della Conferenza delle parti (Cop) dal Cile, che inizialmente avrebbe dovuto ospitare l’incontro ma che in quei giorni era scosso da forti tensioni politiche, alla capitale spagnola.
Ostaggi dei poteri fossili
La presidenza cilena del summit di Madrid, guidata da Carolina Schmidt, considerata da tutti inadatta nella gestione del processo negoziale della Cop25, ha dovuto prendere atto del fallimento: «Oggi, come nazioni, siamo rimasti in debito con il pianeta», ha lamentato la Schmidt, nel linguaggio onusiano. «Gli accordi raggiunti dalle parti non sono sufficienti per affrontare con urgenza la crisi dei cambiamenti climatici».
Il segnale che viene fuori è pessimo: «L’Unfccc è ostaggio dei poteri fossili», spiega Serena Giacomin, presidente di Italian climate network. «Non possiamo permettere che gli interessi di alcuni possano far naufragare il negoziato e mettere a repentaglio la vita di tante persone. Serve, oggi più che mai, pressione dal basso, non solo per rimettere al centro l’importanza dell’Accordo di Parigi, ma soprattutto per raggiungere l’obiettivo necessario seguendo ciò che dimostrano i dati scientifici. L’Italia nel 2020 dovrà giocare un ruolo centrale».
Già perché il nostro paese, insieme al Regno Unito, sarà copresidente del negoziato, e ospiterà a Milano i negoziati preparatori (pre Cop) insieme a un evento per i giovani di tutto il mondo (Youth for Cop).
Quella di Glasgow 2020 sarà una sfida complessa, poiché i 197 paesi dovranno chiudere tutti i punti lasciati irrisolti a Madrid, e presentare gli impegni per ridurre le emissioni per il quinquennio 2020-2025, oltre a impostare il negoziato per aumentare l’ambizione. L’obiettivo di lungo periodo dell’Accordo di Parigi è quello di contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2° C oltre i livelli preindustriali, e di limitare tale incremento a 1,5° C. Per fare questo bisognerebbe raggiungere la neutralità delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050, e aumentare ogni cinque anni gli impegni di riduzione delle emissioni in ogni paese. Al momento l’Europa punta a una riduzione del 50-55% delle emissioni rispetto al 2005. Secondo l’Accordo, in base alle conoscenze scientifiche, gli stati dovranno rendere più ambiziosi i loro obiettivi (l’Ue, ad esempio, dovrebbe puntare alla riduzione del 60% di emissioni), e sono tenuti a riferire agli altri stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per raggiungerli e segnalare i progressi compiuti verso l’obiettivo a lungo termine attraverso un solido sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.
Di fatto ci sono dei meccanismi vincolanti non sanzionatori, che dovranno quindi essere sostenuti dai cittadini tramite pressioni (ad esempio con proteste, o il voto all’opposizione) sui governi che non fanno abbastanza.
Il ruolo di Europa e Italia
Per arrivare preparata all’appuntamento, l’Europa, che ha avuto un ruolo centrale nel salvare il negoziato di Madrid, deve subito avviare il processo di revisione degli attuali impegni di riduzione al 2030, cercando un accordo non oltre il Consiglio europeo di giugno 2020. Poi c’è il ruolo del nostro paese: «L’Italia, copresidente dei negoziati preparatori a Milano, e della Cop26 di Glasgow, avrà una grande responsabilità», ci ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. «È importante che si mobiliti anche la Farnesina, con Luigi Di Maio, per cercare accordi diplomatici al fine di chiudere i temi rimasti aperti, come l’art. 6 e spingere per l’ambizione post 2020. È una chiamata alle armi di tutti». Serve aprire canali bilaterali con Cina, India e Giappone, in comune accordo con gli altri paesi europei.
Facendo bene i compiti a Bruxelles e tramite la diplomazia, l’Europa potrà arrivare al Vertice di alto livello Ue-Cina, in programma il prossimo settembre a Lipsia, con una proposta congiunta per un accordo ambizioso in vista della Cop26 di Glasgow. E l’Italia potrebbe incassare un risultato diplomatico importante.
Si tratta infatti, dicono numerosi delegati, di ritrovare l’equilibrio multilaterale nell’Accordo di Parigi alterato dall’annuncio di uscita degli Usa.
Nel caso vincesse un democratico alle elezioni presidenziali del 3 novembre prossimo, gli Usa formalmente potrebbero cambiare rotta entro il giorno successivo, data in cui diventa effettivo l’abbandono americano dall’Accordo. Ma il tutto sarebbe così vicino al negoziato di Glasgow, il quale aprirà i battenti il 9 novembre, che sarebbe comunque difficile avere la sicurezza di un consenso tra Usa, paesi Basic (Brasile, Sudafrica, India, Cina), Cina su tutti, e Ue.
Una partita diplomatica al cardiopalma.
L’oro blu al centro dei conflitti e del dibattito giuridico internazionale
Le nuove guerre per l’acqua
La guerra in Siria è stata narrata ampiamente in questi anni. Un elemento che non è mai stato sottolineato abbastanza, però, è il peso in essa della questione idrica. Ecco un estratto dal libro Water Grabbing di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli.
In lontananza gli spari riverberano sulla valle della Beka’a. Dalla terrazza dell’edificio più alto del campo profughi di Wavel, nei pressi di Baalbeck si vede la frontiera della vicina Siria. Qua nel 1948 arrivarono i palestinesi in fuga dai territori occupati dagli israeliani durante la guerra d’indipendenza. Dal 2011 l’esodo è riniziato e le strade si sono riempite di migliaia di siriani in fuga dalla guerra civile, tanti direttamente dai campi profughi palestinesi in Siria. Nel Libano, secondo l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati, a fine 2017 trovavano rifugio oltre un milione di profughi dalla Siria, circa un quinto della popolazione del piccolo paese mediorientale. Una situazione che ha portato rapidamente al collasso di Beirut e dei tanti campi profughi esistenti e, ben presto, anche di quelli nuovi creati dall’Unhcr al confine.
«I profughi siriani hanno alterato gli equilibri del campo», racconta Intisar Hassan sul terrazzo della casa in cui è nata nel 1961 e oggi vive con il marito tassista e quattro figli. […] stiamo ad ascoltare, distratti di tanto in tanto dai colpi di fucile. «La popolazione è praticamente raddoppiata. I prezzi sono schizzati alle stelle, l’affitto di due camere è passato da 100 a 250 dollari al mese, le uova costano tre volte tanto, l’acqua è sempre più scarsa. All’inizio eravamo ben disposti, volevamo dare una mano, ma ora questa situazione ci sta strangolando». Muna, trent’anni, abita con cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senza bagno né vetri alle finestre in un edificio nelle adiacenze. Le pareti sono ricoperte dai poster dei «martiri», tanti quelli di Hamas e Hezbollah. Nel campo di Yarmuk a Damasco aveva studiato business, suo marito era un funzionario statale, possedevano una casa a due piani con il terrazzo. La sua esistenza, dice, è cambiata dal giorno alla notte. La storia della più grave guerra civile degli ultimi anni è nota. Quello che si conosce di meno sono le ragioni che hanno portato a questa crisi umanitaria, con oltre mezzo milione di morti. Tra i motivi che avrebbero favorito lo scoppio del conflitto, ci sarebbe anche la situazione idrica del paese.
Tra il 2007 e il 2010 il paese è stato colpito da una grave siccità, la peggiore registrata in Siria nell’ultimo secolo, che ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori e causato la migrazione della popolazione rurale verso le città. Una ricerca pubblicata nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences ha determinato che la siccità che ha afflitto la Siria ha acuito i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica. Non la causa, ma uno degli elementi chiave delle proteste contro il governo di Bashar al-Assad […]. A peggiorare la situazione, le temperature elevate, superiori alla media, dovute agli effetti del cambiamento climatico e una gestione insostenibile delle falde, sfruttate oltre misura fino all’esaurimento dei pozzi di irrigazione.
Quando raccogliemmo un’intervista a Mohammed Saha, ventisette anni, venditore di bibite nel quartiere di Hamra, […] Beirut, […], era il 2013 e ancora non si era confermato scientificamente il legame tra acqua e conflitto siriano. Oggi […] emerge come per anni si sia trascurato il ruolo dell’oro blu in questo grave conflitto: «Non c’era più acqua e così abbiamo iniziato a spostarci dalle zone agricole verso la città», racconta Mohammed. «La mia odissea è iniziata prima della guerra, con la prima siccità del 2006-2007. Vivevo in un piccolo villaggio vicino all’Eufrate, riconvertito dalle riforme di Assad sull’estensione delle aree agricole e la conversione da aree pastorali. Nel 2007 l’acqua era talmente poca che nemmeno spingendo le pompe al massimo si riusciva a tirare fuori qualcosa. Dovevamo portarla con le cisterne dal fiume, dilapidando tutti i nostri averi, mentre il sole divorava il raccolto. Così, con la famiglia, ci siamo spostati ad Aleppo e poi con l’inizio della guerra qua a Beirut».
Con l’aggravarsi della situazione, l’acqua in Siria è passata a essere da una delle varie cause concatenate del conflitto a una delle principali armi per indebolire le fazioni ribelli. Nella lotta per il controllo del territorio tra le milizie antigovernative, gruppi terroristici come Isis e al-Nusra e l’esercito di Bashar al-Assad, l’acqua è diventata il primo obiettivo infrastrutturale militare. Pesano le parole di Noosheen Mogadam, analista del Norwegian refugee council, secondo cui «la distruzione delle infrastrutture idriche e i frequenti black out hanno ridotto del 50% l’accesso ad acqua non contaminata». Decine di pozzi, dighe, depuratori sono diventati target, sia per ribelli che per forze governative. La città più colpita è stata Aleppo, dove la quasi totalità della popolazione a fine 2017 faticava ancora ad accedere all’acqua, dovendo contare sulle organizzazioni non governative per ristabilire una rete idrica affidabile. A ottobre 2017 nell’area metropolitana del secondo centro urbano della Siria vivevano oltre 686mila persone con accesso limitato all’acqua per igiene e sostentamento di base. La conseguenza di questa carenza di servizi? Decine di morti per la diarrea dilagante. Allo stesso tempo la scarsità d’acqua ha messo in ginocchio anche l’allevamento di bestiame (ovini, bovini e pollame), con un conseguente indebolimento della sicurezza alimentare. Per le Ong […], l’assalto alle infrastrutture idriche come obbiettivo militare è stato un atto di violazione deliberata del diritto internazionale, un crimine di guerra […].
Ma non è stata certo la prima volta che l’acqua ha giocato un ruolo centrale in un conflitto, e non sarà l’ultima. Un bene sempre più scarso e conteso, che sarà uno degli elementi strategici dei conflitti del XXI secolo e una delle cause principali delle migrazioni dai paesi più esposti all’instabilità politica ed economica causata dal cambiamento climatico. Comunemente si definiscono «water wars», guerre e conflitti combattuti per l’acqua […]. Dalla siccità in Siria, fino alla siccità globale del 2016 che ha alimentato gli scontri in Sud Sudan di inizio 2017, fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni. Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan. […].
Anche le grandi opere idrogeologiche possono costituire un grave contenzioso politico. Come la diga Grand Renassaince, costruita in Etiopia, che ha spinto il governo egiziano a minacciare ritorsioni nel caso si fosse verificata una forte diminuzione del regime idrico del Nilo […]. «Il commercio globale di derrate alimentari, i consumi iperbolici, il cambiamento climatico, la lenta trasformazione energetica: questi sono gli elementi dei conflitti di domani», raccontava Lester Brown, uno dei più grandi esperti di problemi globali, in una delle ultime interviste nel suo ufficio del Worldwatch Institute di Washington, prima di ritirarsi. «Con l’aumento della popolazione abbiamo raggiunto un “picco dell’acqua”. Paesi come Siria, Iraq, Pakistan, Messico, hanno già raggiunto o superato questo picco, prosciugando i bacini acquiferi, con conseguenze catastrofiche sulla stabilità di quei paesi».
Per capire il crescente emergere di conflitti legati all’acqua bisogna andare a New York. È un giorno freddo, il primo ottobre 2010. I reporter escono dal Palazzo di vetro delle Nazioni unite per andare a scrivere svogliatamente una notizia, che passa quasi inosservata sulla stampa italiana. L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la Risoluzione 64/292 riconoscendo l’acqua come diritto umano. Ma lo scarso interesse di media e politica fa comprendere fin da subito come l’importanza di questa Risoluzione sia sottovalutata. O addirittura si voglia tenerla sotto il tappeto. L’acqua come diritto è una questione che scotta, per governi e multinazionali in primis. […] Nel 2010 l’approvazione della Risoluzione per la prima volta dà dignità a un diritto primario, dichiarando che «il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani». Parole bellissime, cui non è seguito alcun reale riconoscimento nelle costituzioni dei singoli paesi né nei tanti ambiti del diritto e delle organizzazioni internazionali.
La questione […] giuridica rimane molto controversa. Differenti orientamenti di legge non hanno ancora permesso di affermare una normativa chiara e cogente […]. Mancando quindi un sistema globale di regolamentazione giuridica dell’acqua, le possibilità di conflitti per il suo accaparramento sono in aumento […].
Dagli abusi sulle popolazioni indigene ai conflitti legati ai bacini transfrontalieri, l’assenza di un quadro de jure impiegato per favorire una cooperazione su basi legali tra soggetti politici offre una lacuna particolarmente grave […].
La risoluzione delle Nazioni unite del 2010 appartiene a tutti gli effetti alla sfera della cosiddetta soft law, cioè a quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza, a oggi, il riconoscimento del diritto umano all’acqua passa attraverso «un invito ai governi all’impegno sia sul proprio territorio, sia in contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto».
Durante la votazione della risoluzione 64/292, in quel freddo giorno dell’ottobre 2010, furono 122 i paesi a favore, 41 gli astenuti. Nessun contrario. L’astensione tuttavia pesava come un macigno. Nella lista figuravano molti paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Austria, Israele, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Giappone. Le motivazioni? L’assenza di basi legali sufficienti a livello internazionale e la scarsa chiarezza sulle responsabilità e gli obblighi dei governi firmatari. Una posizione ritenuta dagli stati sostenitori – come Germania, Italia, Spagna e Belgio – sintomo dell’impossibilità di un impegno comune e di mancanza di visione.
[…] Dopo il riconoscimento dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, il quadro giuridico è stato integrato da risoluzioni del Consiglio dei diritti umani che hanno esplicitato formalmente il legame tra «il diritto umano all’acqua» e il livello di vita adeguato per tutti, così come la diretta relazione tra la risorsa idrica e il diritto alla vita e alla dignità. Gli stati avrebbero dunque la responsabilità primaria di assicurare la piena realizzazione di tutti i diritti umani, e la concessione della gestione dell’acqua potabile e/o dei servizi igienico sanitari a terzi non esime lo stato dai suoi obblighi sui diritti umani.
Nel 2013 però l’Assemblea generale ha declinato le modalità con cui gli stati dovrebbero garantire tale diritto, che prevedono un processo consultivo con i cittadini, il monitoraggio della diffusione dell’accesso all’acqua potabile, e la garanzia di un’accessibilità ai servizi idrici, anche se gestiti da enti terzi come i privati. Unica nota positiva: nello stesso anno viene estesa al diritto all’acqua l’opzione della giustiziabilità, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi, tramite il Patto internazionale relativo ai Diritti economici, sociali e culturali, un trattato delle Nazioni unite nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sottoscritto e ratificato da tutti i membri dell’Onu.
Pur avendo fatto dei passi avanti nello scenario giuridico con risoluzioni esplicite e strumenti interpretativi che hanno definito il diritto all’acqua come diritto umano, quindi universale, autonomo e specifico, questo riconoscimento resta a tutt’oggi sancito solo in termini «declaratori» […].
Da qualche anno il dibattito internazionale della dottrina sta cercando di superare i limiti burocratici e politici che non consentono un impegno più stringente da parte degli stati per garantire efficacemente l’accesso all’acqua potabile in ogni area del mondo, tutelando quindi la vita, la salute e il benessere di intere comunità. Secondo buona parte degli studiosi di diritto internazionale, il diritto all’acqua dovrebbe essere riconosciuto tra le cosiddette norme consuetudinarie, che presuppongono due elementi: la ripetizione costante nel tempo di un dato comportamento da parte dei soggetti e il convincimento che quel comportamento sia conforme a diritto o a necessità. A differenza dei trattati inoltre, validi solo nei rapporti tra le parti, le norme consuetudinarie obbligano in via sanzionabile tutti i soggetti internazionali al comportamento a cui si fa riferimento. Sarebbe dunque un decisivo passo avanti per poter successivamente declinare nei vari paesi vincoli precisi per gli stati.
Ha firmato questo dossier:
Emanuele Bompan
Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, ambiente, energia. È direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista. www.emanuelebompan.it/
A cura di Luca Lorusso giornalista redazione MC.
Scienza versus religione
testo di Piergiorgio Pescali |
Molti scienziati rifuggono la religione perché la considerano una superstizione. Un tempo la scienza doveva assoggettarsi ai dettami religiosi. Oggi la religione (e l’ideologia) influenza ancora il progresso scientifico? Esiste un punto d’incontro?
Il rapporto tra scienza e religione è stato sempre problematico e ha nel processo a Galileo Galilei (1564-1642) l’esempio (non unico) della lunga incomprensione che, per secoli, ha opposto due categorie del pensiero umano.
La Chiesa cattolica è sempre stata (almeno nel mondo occidentale) uno dei principali attori in questo dialogo-scontro, assumendo spesso atteggiamenti ambigui. Durante lo stesso processo a Galileo (tenutosi a Roma nel 1633) il verdetto fu aspramente combattuto tra i cardinali non tanto sulla tesi eliocentrica, che oramai sapevano essere più semplice e veritiera rispetto alla tesi geocentrica (lo stesso papa Gregorio nel 1582, 50 anni prima del processo, riformò il calendario basandosi sull’eliocentrismo), ma perché la fazione del cardinale Bellarmino, ostile a Galileo, pretendeva che lo scienziato ammettesse di parlare «ipoteticamente e per supposizione». Questa ammissione avrebbe dato alla Chiesa la possibilità di salvare capra e cavoli rimanendo ancorata al famoso versetto biblico («E il sole si fermò e la luna rimase al suo posto», Giosuè 10,12-13), ma al tempo stesso avrebbe potuto ammettere l’ipotesi che la Terra girasse attorno al Sole. Contro Bellarmino e a favore di Galileo si era posto il cardinale Barberini.
Del resto 97 anni prima, un altro astronomo, Copernico (1473-1543), aveva pubblicato il De Revolutionibus (1536), avendo però l’accortezza di far scrivere una prefazione al furbo ecclesiastico Andreas Osiander il quale, ben sapendo quanto gli aristotelici fossero potenti all’interno della Chiesa cattolica scrisse che «Non è affatto necessario che queste ipotesi siano vere, e neppure che siano verosimili: piuttosto, è sufficiente una sola cosa: che diano luogo a calcoli che concordano con le osservazioni».
Il risultato fu che le tesi eliocentriche di Copernico furono accettate senza grossi problemi (almeno da parte cattolica; i luterani furono meno indulgenti), mentre Galileo venne condannato.
I gesuiti e il big bang
Nel corso dei secoli il dialogo scienza-religione si è sviluppato tra collaborazioni e incomprensioni anche all’interno di cornici ideologiche.
Il Big Bang, ad esempio, non fu accettato dall’intellighenzia sovietica e stalinista degli anni Trenta-Quaranta in quanto teorizzava una creazione che, a parere degli inesperti tutori ideologici, assomigliava troppo alla Genesi biblica venendo bollato come teoria pseudo-scientifica e idealistica.
Uno dei motivi principali di questa emarginazione era anche il fatto che il principale teorico del Big Bang fu il belga Georges Lemaître (1894-1966), il quale, oltre che essere matematico e cosmologo, era anche un gesuita.
L’opposizione di Stalin al Big Bang si scontrava dogmaticamente anche al sostegno dato da papa Pio XI alla teoria della cosmologia relativistica.
In realtà Lemaître non concepì mai il Big Bang come una creazione, e fu sempre molto attento nel distinguere «principio» e «creazione» del mondo. Secondo Lemaître, il modello del Big Bang «resta del tutto lontano da ogni questione metafisica o religiosa (e) lascia il materialista libero di negare qualsiasi Essere trascendente». Pressoché tutti i fisici condividono la frase del gesuita belga sostenendo che, per spiegare la cosmologia del Big Bang, non è necessaria l’idea di un creatore e dal 1951 anche i papi non hanno mai usato il Big Bang per esprimere la scientifica dimostrazione dell’esistenza di Dio.
La Nasa e la Bibbia
La stessa Nasa oggi è estremamente cauta nel mischiare, anche involontariamente, la religione nelle sue imprese spaziali.
Già durante il viaggio spaziale dell’Apollo 8 nel 1968 i tre astronauti, Frank Borman, Jim Lowell e William Anders, lessero un passo della Bibbia tratto dalla Genesi. Era la vigilia del Natale e William Anders inviò un messaggio dicendo: «A tutte le persone sulla Terra, l’equipaggio dell’Apollo 8 ha un messaggio che vorrebbe inviarvi», leggendo, immediatamente dopo, dei passi biblici alternandosi con i suoi compagni di viaggio (Genesi 1, 1-4; Genesi 1, 5-8; Genesi 1, 9-10).
Lo stesso Borman, comandante della missione concluse il messaggio dicendo: «Dall’equipaggio dell’Apollo 8 vi auguriamo una buona notte, buona fortuna, un felice Natale e che Dio vi benedica tutti, tutti quanti sulla Terra».
La lettura della Bibbia scatenò una polemica guidata da Madalyn Murray O’Hair, fondatrice e presidentessa dell’Associazione degli ateisti americani, secondo cui i tre astronauti avrebbero violato il primo emendamento della costituzione statunitense che recita: «Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti».
La O’Hair citò a giudizio il governo statunitense ma, in tutti e tre i processi che seguirono, i giudici ritennero non valida l’accusa.
Sebbene il procedimento nei confronti dello stato non abbia avuto alcuna conseguenza legale, la Nasa non ritenne opportuno sfidare di nuovo l’agguerrita presidentessa degli ateisti e vietò ad Aldrin la lettura del passo biblico che si era preparato nel suo viaggio sulla Luna del 1969 («Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla», Gv 15,5) e la diretta mondiale della comunione.
Religione e scienza, oggi
Viene quindi spontaneo chiedersi quanto ideologia e religione influenzino il progresso scientifico.
Sebbene siano lontani i tempi oscurantisti in cui la scienza doveva assoggettarsi alle esigenze ecclesiastiche, esistono ancora pressioni da parte di forze estranee al sapere scientifico.
Oggi gran parte delle Chiese cristiane storiche hanno imparato a convivere con il pensiero razionale e materialistico, ma in tempi recenti lo scontro tra religione e astronomia ha coinvolto altre fedi e altri credi.
Il caso più eclatante e molto controverso nella sua dinamica lo si è avuto negli anni Ottanta con il telescopio Vaticano a tecnologia avanzata sul monte Graham, in Arizona. Fondato dal Vatican observatory research group di Tucson in collaborazione con l’Università di Arizona, l’Osservatorio di Arcetri e il Max Planck institute, il complesso astronomico sorge su un territorio considerato sacro da una parte degli Apache della riserva di San Carlos, che chiamano «Dzil Nchaa Si An» (Grande montagna seduta). Dato che nel 1873 il monte Graham venne rimosso dalla riserva di San Carlos diventando terra pubblica, il consorzio scientifico non era legalmente tenuto a negoziare la costruzione del telescopio con la comunità apache locale.
All’inizio, alcuni gruppi ecologisti avanzarono preoccupazioni per la presenza di attività umane in un territorio che ospitava una specie protetta: lo scoiattolo rosso del monte Graham. In seguito, alle proteste ambientaliste, si innestarono quelle di alcuni indiani guidati da Ola Cassadore Davis, una leader spirituale apache che, tra l’altro, non viveva neppure nella riserva e che aveva preso a cuore la vicenda del monte Graham dopo aver avuto contatti con spiriti apache durante un sogno.
Al tempo stesso, però, il Consiglio tribale San Carlos rilasciò una risoluzione di neutralità rispetto alla costruzione. La vertenza intentata da Ola Cassadore contro il consorzio scientifico si protrasse tra il 1988 e il 1994 quando la Corte d’Appello chiuse la diatriba consentendo l’inizio dei lavori.
Oggi un simile contenzioso si sta ripetendo, questa volta nelle Hawaii dove la Tmt observatory corporation, un ente che raggruppa l’Università di California, l’Istituto di tecnologia di California e l’Associazione delle università canadesi per la ricerca astronomica sta costruendo il Thirty meter telescope (Tmt), un telescopio da 1,4 miliardi di dollari sulla sommità del vulcano Mauna Kea, a 4.050 metri di altitudine. L’aria tersa, l’altitudine, la posizione geografica rendono il vulcano il miglior sito sulla Terra dal quale scrutare lo spazio profondo.
Una volta ultimato, il Tmt e la sua gigantesca lente di trenta metri di diametro permetteranno di osservare i corpi nell’Universo con una nitidezza senza precedenti consentendo così di scrutare punti che i normali strumenti non possono raggiungere.
Sul sito sono già operativi altri tredici telescopi gestiti da undici nazioni e tre istituzioni (Nasa, Università delle Hawaii, Associazione per la ricerca astronomica della California) e nessuno di questi edifici scientifici è stato costruito senza aver suscitato le proteste di ambientalisti e delle comunità religiose locali. La decisione di aggiungere un nuovo fabbricato ad un’area già congestionata e considerata sacra dalla confessione locale, ha aumentato le tensioni già esistenti facendo esplodere l’ira dei fedeli indigeni. E se, in altre circostanze, rimostranze simili erano limitate essenzialmente negli ambienti di attivisti, ora i dissensi si sono estesi anche a professori universitari, studenti, cittadini hawaiani e stessi scienziati.
Da parte loro i leader dei dimostranti, sapendo di correre il serio rischio di essere paragonati a fedeli bigotti contrari al progresso e alla ricerca, hanno ultimamente fatto sapere che il vero motivo della loro strenua opposizione alla costruzione del Tmt è quello di «lottare per una scienza etica». Una scienza in cui lo sviluppo scientifico in terre considerate sacre e inviolabili dalle singole comunità, sia discusso e condiviso con le autorità locali, i cittadini, le organizzazioni che operano nella regione, e le istituzioni intenzionate a investire energie e finanziamenti per approfondire la conoscenza per il bene dell’umanità.
Per la verità un simile raffronto è già stato fatto: la costruzione del Tmt avrebbe l’approvazione del 64% dei residenti della zona se si dovesse dar credito a un sondaggio condotto dal giornale locale Honolulu Civil Beat (in un altro sondaggio commissionato dall’Honolulu Star Advertiser, il 72% della popolazione sarebbe favorevole all’edificazione del nuovo osservatorio). Il fatto è che questi sondaggi sono pesantemente influenzati dagli enormi benefici che la presenza degli osservatori concedono a istituzioni accademiche e alla popolazione. L’Università delle Hawaii (da cui pur provengono numerosi accademici contrari alle installazioni sul Mauna Kea) gestisce il 10% del tempo di osservazione dei telescopi guadagnando prestigio e finanziamenti dagli istituti internazionali, mentre i tredici telescopi del Mauna Kea garantiscono entrate annuali per 64 milioni di dollari alle casse dello stato. Comunque stiano le cose, è però chiaro che la comunità scientifica ha valicato un confine invisibile e alquanto delicato. La situazione è peggiorata quando il governatore dello stato delle Hawaii, David Ige, ha imposto posti di blocco lungo le strade impedendo ai dimostranti di raggiungere l’area di Mauna Kea e, in pratica, militarizzando l’intera zona.
Scienza e religione: una convivenza possibile?
Sembra che, dopo il XVII secolo, l’uomo sia stato incapace di tessere un legame tra scienza e religione (il termine scienziato fu coniato solo nel 1834, mentre la parola religione è sconosciuta nel vocabolario delle lingue orientali). Molti scienziati odierni, pur con notevoli eccezioni hanno difficoltà a reputarsi religiosi in quanto ogni tipo di concezione metafisica e di credo, storicizzato o no, viene da loro contrassegnato nella categoria di superstizione.
Secondo San Tommaso d’Aquino (1225-1274), la teologia e la religione entrano in gioco quando la scienza non è in grado di spiegare ciò che accade nel mondo. E anche se la conoscenza della scienza progredisce velocemente mentre la religione ha dei concetti che rimangono fissi e immutabili nel tempo, oggi siamo ben lontani dallo spiegare cosa sia e come funziona l’universo. Probabilmente l’uomo non sarà mai in grado di svelare il meccanismo che muove il cosmo perché, come disse Galileo (nella lettera a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana del 1615), «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnare come si vada in Cielo e non come vada il cielo».
Il 13 novembre scorso, nella sala Congregazioni del comune di Torino, è stato rinnovato il «Patto di collaborazione» tra la capitale subalpina e Kharkhorin, cittadina della Mongolia che sorge sul sito di quella che, nel XIII secolo, fu la capitale del più esteso impero (di terra) della storia.
Fu lo stesso Gengis Khan, nel 1220, a dare disposizioni perché a Kharkhorin si stabilisse il cuore dell’impero, anche se la capitale prese forma solo nel 1235 con suo figlio Ögodei Khan e rimase tale fino a quando Kubilai Khan (noto in Occidente soprattutto per il rapporto con Marco Polo) nel 1264 la spostò più a Est, fondando l’odierna città di Pechino.
I come e i perché
Il «Patto di collaborazione» tra Torino e Kharkhorin, siglato nel 2016 e rinnovato nella sede del comune di Torino il 13 novembre scorso, è un atto formale che consente alle due parti, nei rispettivi paesi, di intraprendere e consolidare percorsi di collaborazione nei settori della cultura, della ricerca scientifica, del turismo e del commercio.
Questo accordo è stato possibile perché noi missionari e missionarie della Consolata abbiamo fatto da ponte affinché queste due realtà si potessero incontrare, nell’interesse delle cittadinanze che esse rappresentano. Furono le autorità locali della regione mongola di Uvurkhangai – all’interno della quale sorge la nostra missione di Arvaiheer – a chiederci, ormai sei anni fa, se fossimo disposti a favorire un’intesa ad ampio raggio con una realtà europea, in vista di una collaborazione internazionale sempre più necessaria per ottimizzare i servizi ai cittadini e anche per promuovere una maggiore apertura ai temi della interculturalità e della pace.
Pensare a Torino fu spontaneo, sia per il legame con le nostre origini di Istituti missionari sia per le curiose similitudini che cominciammo a scoprire; a partire dai nomi stessi delle due regioni. Se il nome «Piemonte» richiama immediatamente la conformazione geofisica del territorio, situato appunto ai piedi dell’arco alpino occidentale, «Uvurkhangai» significa letteralmente «a sud dei monti Khangai». I Khangai sono un’importante catena montuosa che attraversa tutta la Mongolia. Inoltre, se Kharkhorin fu la capitale dell’impero mongolo, Torino lo fu per il Regno d’Italia.
Insomma, ci sembrava che le due realtà, seppur diverse sotto alcuni profili, potessero considerarsi accomunate da interessanti analogie storiche e territoriali.
Torino e Kharkhorin
Così iniziammo a sondare il terreno delle relazioni internazionali e grazie all’impegno di entrambe le parti e alla collaborazione di molte persone fummo in grado di favorire questo incontro, finora rivelatosi molto positivo. Da tre anni ormai il museo storico di Kharkhorin ospita le attività formative del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino. Il Mao (Museo d’arte orientale) di Torino ha ospitato due mostre fotografiche dedicate al patrimonio culturale e religioso dell’antica capitale. In più, anche altri specialisti e istituzioni sono stati coinvolti nelle iniziative di ricerca, incluso il «Museo della ceramica» di Mondovì che ha accolto una mostra multimediale su Kharkhorin. In questi anni si è inoltre firmato un protocollo d’intesa tra il Centro scavi di Torino, il Museo di Kharkhorin e l’Università di Ulaanbaatar, sempre volto a favorire la ricerca scientifica su questo sito di grandissimo interesse storico e culturale.
La «Casa dell’Amicizia»
Come missionari e missionarie della Consolata già agli inizi della nostra missione in Mongolia ci era sembrato che una presenza a Kharkhorin sarebbe stata molto importante.
La cittadella che nel XIII secolo accoglieva al suo interno edifici di culto di Buddhismo, Islam e Cristianesimo nestoriano rappresenta un unicum nella storia antica, un modello da conoscere e ripresentare in chiave contemporanea; fu proprio a Kharkhorin che personaggi come fra Giovanni di Pian del Carpine e fra Guglielmo di Rubruk misero piede intorno al 1240, primi ambasciatori occidentali a entrare in relazione con gli imperatori mongoli. Inoltre, Kharkhorin ospita il più antico complesso monastico buddista del paese, dunque è considerata la patria del Buddhismo mongolo. Quale migliore collocazione per un centro dedicato al dialogo interreligioso e alla ricerca culturale?
Il progetto sta prendendo forma e ora siamo felici di avere a Kharkhorin la «Casa dell’Amicizia» come punto d’incontro, scambio e ricerca, ambiti imprescindibili per la missione in Mongolia.
L’interesse che aveva mosso papa Innocenzo IV a stringere relazioni con i dominatori dell’Eurasia di quel tempo è diventato oggi coesistenza pacifica e attiva collaborazione, sotto la nostra grande ger (la tradizionale tenda mongola) di Kharkhorin.
La Chiesa Cattolica non è estranea alla storia di questo grande paese dell’Asia centro orientale e da quando vi è stata nuovamente accolta nel 1992 è diventata un partner consolidato per promuovere una cultura di rispetto, dialogo e fratellanza universale. Siamo felici che il «Patto di collaborazione» tra le due città sia stato rinnovato e ci auguriamo possa continuare ad offrire valide occasioni di scambio e cooperazione.
Giorgio Marengo
800 anni di storia
È iniziato con i migliori auspici l’anno celebrativo dell’ottocentesimo anniversario della fondazione della capitale dell’impero mongolo, Karakhorum (1220-1260, letteralmente Montagne nere, oggi Kharkhorin). Com’è giusto e prevedibile per un paese che dà sempre molta importanza alle ricorrenze storiche, è stato pianificato un ricco programma ufficiale di iniziative, patrocinato dal presidente Khaltmaagiin Battulga, nel quale è prevista anche la partecipazione dell’Unesco (che nella riunione plenaria del novembre 2019 ha dato particolare rilievo a tale anniversario).
Lo stato che per primo ha dimostrato interesse e concreta volontà di collaborazione è stato il Vaticano. A inizio gennaio l’ambasciatore mongolo presso la Santa Sede e rappresentante permanente presso l’Onu, L. Purevsuren, ha incontrato in Vaticano il segretario per i rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. I due alti funzionari hanno parlato degli 800 anni di Karakhorum, dove uno dei primi diplomatici a recarsi per incontrare il Khan fu proprio un ambasciatore del papa, il frate Giovanni di Pian del Carpine, che raggiunse la «capitale delle steppe» nel lontano 1246.
Con il suo diario di viaggio il frate umbro contribuì in maniera decisiva a far conoscere in Occidente questo popolo, fino ad allora soltanto temuto per le sue incursioni bellicose in Europa orientale.
A lui fece seguito pochi anni dopo un altro francescano, Guglielmo di Rubruk, questa volta inviato dal re di Francia.
Il Vaticano ospiterà a maggio una mostra fotografica e una conferenza scientifica sugli ottocento anni dell’antica capitale mongola.
In vista di tale evento, il diplomatico mongolo ha anche incontrato mons. Indunil Kodithuwakku, segretario del «Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso» e il prof. Laurent Basanese dell’Università Gregoriana di Roma.
È una storia lunga quella che lega la Chiesa Cattolica al popolo mongolo, anche se non è abbastanza conosciuta.
Proprio per valorizzare questi antichi rapporti – grazie ai quali si ebbe notizia della cristianità nestoriana (oggi si direbbe siriaca) esistente nei territori mongoli già dal X secolo – e attualizzarli, i missionari e le missionarie della Consolata hanno stabilito a Kharkhorin (così si chiama oggi il comune che sorge presso le rovine dell’antica capitale) un piccolo centro per la ricerca culturale e il dialogo interreligioso.
Ed è precisamente alla convivenza pacifica e allo scambio fruttuoso tra diverse tradizioni religiose che è legato il nome dell’antica capitale: i due frati medievali e molti altri testimoni dell’epoca hanno descritto la cittadella come cosmopolita e multi religiosa, con luoghi di culto buddhisti, islamici, cristiani e taoisti. Un esempio straordinario che vale la pena riscoprire e di cui fare tesoro per l’oggi.
La città di Torino è legata a Kharkhorin per il Patto di collaborazione tra le due «capitali» (di cui abbiamo scritto in queste pagine), che ha già prodotto molti scambi culturali e significative iniziative di ricerca scientifica e divulgazione. Oltre alle due mostre fotografiche ospitate dal Mao di
Torino e alla mostra laboratorio allestita nel 2018 al Museo della Ceramica di Mondovì, vanno ricordati i laboratori
didattici offerti in questi anni dagli archeologi del Centro
ricerche archeologiche e scavi di Torino (Crast) al Museo storico archeologico di Kharkhorin.
Gio. Ma.
Apprendista «coreano»
testo di Stephano Nabgaa Babangenge |
Ho imparato a essere missionario inserendomi come assistente parroco nella vita pastorale della comunità cristiana di Eunhaeng-dong.
Mi chiamo Stephano Nabgaa Babangenge, nativo di Wamba nel Nord della Repubblica democratica del Congo. Sono diventato sacerdote dei missionari della Consolata nel 2014 e subito dopo inviato alle nostre missioni in Corea del Sud.
Dopo aver concluso, almeno a livello scolastico, i tre anni di studio della lingua, avevo bisogno di entrare in profondità sia nella cultura coreana che nella Chiesa locale che ammiravo anche se un po’ da lontano. Presto fatto. Il mio superiore ne ha parlato con il vescovo John Baptist della diocesi di Incheon, nella quale abbiamo la nostra casa di Yeogkok-dong, e mi ha mandato come viceparroco alla parrocchia di Eunhaeng-dong, una cittadina a Est di Incheon. Qui, per due anni ho goduto la bellezza del vivere in una Chiesa cattolica molto diversa da quella a cui ero abituato in Congo e la gioia dell’incontro con il popolo coreano per quel che riguarda il cibo, la cultura, la lingua e tanto altro.
Il numero di cose che ho imparato è semplicemente sorprendente. Pur con le mie difficoltà di comunicazione, ho apprezzato quanto le persone siano state pazienti e pronte ad ascoltare. Questo mi ha incoraggiato a continuare a imparare sempre di più e meglio. Oggi ho maggior confidenza nel parlare, mi sento più a mio agio nel capire e più sicuro anche nel celebrare la messa e predicare.
Viceparroco
Vivendo nella parrocchia, sono stato coinvolto in tutte le attività: messe quotidiane (con l’omelia), confessioni, visite ai malati e unzione degli infermi, benedizioni varie (macchine, uffici, acqua, case…), adorazioni mensili, incontri della Legio Mariae, degli studenti e insegnanti della scuola secondaria, dei seminaristi e visite alle famiglie.
Inoltre, essendo incaricato di curare i chierichetti, i bambini della Sunday school e la gioventù, ho preso parte in tutte le loro attività come le messe settimanali, incontri di formazione, campeggi, gite, ritiri, giochi. Tutto ciò mi ha aiutato a conoscere la struttura, l’organizzazione e i vari modi di essere della Chiesa coreana. Allo stesso tempo ha contribuito ad allargare la mia conoscenza, comprensione e rispetto della cultura e del popolo. È una bellissima esperienza che ogni missionario in Corea dovrebbe fare.
Molto positiva anche la condivisione di vita con il parroco e altri preti diocesani della nostra unità pastorale, una decina, durante gli incontri mensili nei quali si discutevano delle nostre attività pastorali e della vita di tutta la Chiesa nella circoscrizione.
È stato un tempo per imparare, osservare e inserirmi nel contesto. Anche qui mi sono sentito amato e considerato, non dicendo nulla, ma semplicemente essendo presente.
Coinvolgimento dei Miei confratelli
La mia presenza nella parrocchia è diventata anche motivo di una bella collaborazione tra la stessa e i missionari della Consolata, che sono stati coinvolti in svariate attività di animazione missionaria e pastorale della comunità. Questo ha fatto sì che molte persone siano venute a conoscerci meglio e ora partecipino alle nostre attività di animazione missionaria, al nostro programma di ritiri annuali, di esperienze nelle nostre missioni in Africa o America Latina e, ovviamente, le sostengano.
Prospettive future?
Quest’anno celebriamo il trentesimo anniversario della venuta dei missionari della Consolata nella Corea del Sud. Sono orgoglioso di essere parte di questa storia. Sogno un’attività missionaria centrata nella collaborazione con la Chiesa locale.
In questi due anni vissuti in una comunità locale ho potuto capire quanto sia importante coinvolgersi direttamente e collaborare dal di dentro. Collaborazione con la Chiesa e il clero locale, imparando come le cose si fanno e come la società si sta muovendo, è una delle cose cruciali raccomandate dal beato Giuseppe Allamano a tutti i suoi missionari. Questo ci aiuta anche a comprendere il cuore della gente e della società coreana, vecchi, giovani e anche bambini.
Stephano Nabgaa Babangenge
L’ad gentes della cooperazione
testo di Chiara Giovetti |
Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020, cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.
1. Costa D’Avorio
La malattia mentale, terra di nessuno della sanità
«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.
Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».
Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.
In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.
«Chi li aiuterà se non voi?»
In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».
A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.
Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.
«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».
Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.
Formare operatori
ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».
Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.
2. Kenya, il biogas
Energia pulita per le scuole
La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.
I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.
Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.
Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.
I vantaggi del biogas
«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».
Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.
Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.
Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.
Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.
Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.
Bambini sradicati
«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.
Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.
Chiara Giovetti
Lavoro o malattia: un dilemma inaccettabile
testo di Francesco Gesualdi |
Per anni dai camini e dai depositi dell’Ilva di Taranto sono uscite tonnellate di sostanze inquinanti e cancerogene: diossido di azoto, anidride solforosa, metalli pesanti, diossine. A parte le vicende economiche, politiche e giudiziarie attorno alla fabbrica, il vero conflitto è tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Un conflitto che nelle acciaierie di Linz (Austria) a Duisburg (Germania) è stato risolto.
Il 7 novembre 2019, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte andò a Taranto per approfondire il caso ex Ilva, si trovò difronte a due città: quella rappresentata dai lavoratori che chiedevano la difesa a oltranza dell’acciaieria e quello delle mamme che ne chiedevano la chiusura. Gli uni in nome del lavoro, le altre in nome della salute. Molte delle mamme venivano dal quartiere Tamburi, il rione sorto a ridosso della fabbrica Ilva in cui vivono 18mila persone. Il quartiere dove bisogna «pulire due tre volte al giorno se non vogliamo pattinare sulla polvere», spiega una di loro. «E nei giorni di vento la troviamo anche nel frigorifero». La polvere è quella del ferro e del carbone, in parte proveniente dai depositi, in parte dai camini, in ogni caso piena di sostanze che oltre a sporcare pavimenti e biancheria, fanno ammalare.
Emissioni e complicità
Negli anni prima che intervenisse la magistratura, le emissioni erano quantificate nell’ordine delle migliaia di tonnellate. I rilievi relativi al 2010 parlano di oltre 4mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa oltre a quantità variabili di metalli pesanti e diossine. Polveri respirate da persone con i balconi a pochi metri dal muro di cinta della fabbrica che durante i pasti avevano come panorama i camini fumiganti degli altiforni. Polveri che si mescolavano con l’aria che respiravano e con i cibi che inghiottivano procurando tumori in ogni parte del corpo.
Nell’agosto 2016 il Centro ambiente e salute, finanziato dalla regione Puglia, ha pubblicato
il rapporto conclusivo sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. Lo studio, condotto dal 1998 al 2014 su un totale di 321mila persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, ha accertato 36.580 decessi collegabili alle emissioni dell’ex Ilva. Del resto già lo studio epidemiologico commissionato dall’Istituto nazionale di sanità e pubblicato nel 2012, aveva accertato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un eccesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori maschili del 30% e, quel che è peggio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media regionale.
Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi produttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disastro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di compatibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negligenza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle imprese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Taranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascondere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni.
Passaggi di proprietà
La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabilimento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guardia contro il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e denunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la rivista «Taranto oggi domani» denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddoppio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa saturazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabilimento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla salute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pensione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al miglioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in quegli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per rispettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavorazione del carbone veniva allontanata dal centro abitato. Un’operazione che alla ThyssenKrupp costò circa ottocento milioni di euro, ma che mise in sicurezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il problema del benzo(a)pirene – uno dei cancerogeni più temibili – veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magistratura di Taranto che il 26 luglio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il governo si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giudici e governo, una sorta di Kramer contro Kramer, dove la magistratura imponeva divieti a difesa della salute e il governo li smontava a difesa della produzione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudiziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a parziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabilimento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’intento di proseguire la produzione nonostante le problematicità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale disposta a rilevarlo. Nel 2017 la gara di assegnazione venne vinta da Arcelor Mittal che però di lì a poco si accorse di avere fatto male i conti, e nel novembre 2019, accampando come pretesto il mutato contesto legislativo, annunciava di voler recedere dal contratto. Di nuovo senza proprietario, attorno allo stabilimento si è riaperta la vecchia contesa: approfittare della vacanza gestionale per fermare tutto e mettere finalmente la città in sicurezza o trovare in fretta un nuovo proprietario per mandare avanti la produzione? In altre parole, privilegiare la salute o il lavoro?
Prevenire, vigilare, rimediare
Il dilemma è talmente assurdo e scandaloso che va rifiutato. Il lavoro è un diritto perché serve per vivere, ma se porta morte che lavoro è? In altri termini non può esistere lavoro, se non esiste salute. Per cui è compito della Repubblica creare le condizioni affinché non si ponga mai, nel paese, questo tipo di contrapposizione. E deve farlo attraverso tre strategie: prevenire, vigilare, rimediare.
Prevenire significa vietare la produzione di beni dannosi sia per chi li produce che per chi li usa. Tipico l’esempio dell’amianto che ha provocato migliaia di casi di tumore al polmone, sia nei lavoratori che nei cittadini. Molti altri prodotti andrebbero rimessi in discussione. Valgano come esempio i pesticidi e le sementi geneticamente modificate di cui non conosciamo tutte le ripercussioni sugli ecosistemi, né gli effetti nel lungo periodo. È responsabilità di ogni collettività fissare il limite di rischio accettabile e, nel dubbio, utilizzare come criterio il principio di precauzione.
Vigilare significa verificare che le aziende attuino tutte le misure che servono per portare le emissioni legate ai cicli produttivi al di sotto del limite di dannosità per la collettività e garantire ai lavoratori condizioni di sicurezza. E non importa se ciò comporta un aumento dei prezzi finali. La salute e la tutela ambientale vanno considerati costi da includere nei prezzi finali al pari dell’energia o delle materie prime. Se lo avessimo fatto da sempre, forse avremmo evitato un consumismo sgangherato che ha portato a fenomeni di grave degrado del pianeta.
Rimediare significa correggere le situazioni malsane, tutelando al tempo stesso la salute e i posti di lavoro. Ogni volta con strategie appropriate alla situazione. Rispetto a Taranto, per esempio, la prima domanda da porsi è se la produzione di acciaio va mantenuta o abbandonata tenendo conto della sostenibilità economica e ambientale del paese.
Lo stato e i lavoratori
Ci serve produrre acciaio? E in che quantità? Per farne cosa? A quale prezzo rispetto ai cambiamenti climatici? E se la conclusione dovesse essere affermativa, dovremmo comunque accettare che prima di fare ripartire la produzione, lo stabilimento sia rimesso a norma. Con spese a carico di chiunque lo rilevi. E se dovesse succedere che nessun privato si fa avanti, lo dovrebbe fare lo stato, nazionalizzando lo stabilimento. Il tutto senza fare subire contraccolpi alle maestranze che, durante il periodo di chiusura, dovrebbero comunque ricevere uno stipendio. Che non significa automaticamente una cassa integrazione in cambio di niente, ma in cambio di lavori socialmente utili. Se invece dovessimo giungere alla conclusione che lo stabilimento di Taranto non ci serve più, allora deve essere creata occupazione alternativa per tutti i lavoratori coinvolti. Nell’immediato, tramite il soddisfacimento dei bisogni ambientali e sociali, primo fra tutti la bonifica del territorio e dei corsi d’acqua. Più in prospettiva, tramite la produzione di beni e servizi che possono generare reddito utilizzando correttamente ciò che il territorio è in grado di mettere a disposizione sotto il profilo naturale, culturale, professionale. Con un forte ruolo da parte dello stato, che solo per motivi ideologici lo si vuole escluso dall’attività produttiva ed economica. Però, quando si dice stato, si dice comunità. È tempo che la comunità torni protagonista della propria economia.
Francesco Gesualdi
I Perdenti 50. Le sorelle Mirabal
testo di don Mario Bandera |
Il 25 novembre 1960, a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, nell’isola di Hispaniola, le tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) furono seviziate, violentate e uccise a bastonate su preciso mandato del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Quell’episodio innescò l’inizio della fine di uno fra i regimi più dispotici dell’America Latina. Il loro brutale assassinio risvegliò l’indignazione popolare che avrebbe portato, l’anno seguente, all’assassinio di Trujillo e alla fine della dittatura.
Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni unite, con la risoluzione 54/134, ha dichiarato, in loro memoria, che il 25 novembre di ogni anno sia celebrata in tutte le nazioni la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne».
La militanza sociale e politica delle tre sorelle Mirabal era iniziata quando Minerva, la più intellettuale delle tre, il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal, organizzata dal dittatore per le classi sociali più in vista, aveva osato sfidarlo apertamente in un dibattito pubblico, sostenendo le proprie idee democratiche. Quella data segnò l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la sua famiglia, con periodi di detenzione in carcere per il padre e la progressiva confisca di tutti i loro beni.
Carissima Patria, cominciamo con le presentazioni.
I nostri nomi per esteso sono: Aida Patria Mercedes nata nel 1924, Maria Argentina Minerva del 1926 e Antonia Maria Teresa, nata nel 1935. Nascemmo tutte e tre da una famiglia benestante, i Mirabal Reyes, a Ojo de Agua nella provincia di Salcedo della Repubblica Dominicana. C’era anche una quarta sorella (in realtà la seconda perché nata nel 1925): Bélgica Adela, detta Dede, che, pur simpatizzando con noi, non partecipò alle nostre attività, e dopo la nostra uccisione si prese cura dei nostri figli.
Nella vostra famiglia fin da piccole si respirava aria di dialogo e libertà e foste educate nel rispetto dei diritti umani.
La nostra era una famiglia di contadini relativamente ricchi. Questo ci permise di ricevere una buona educazione, prima in una scuola gestita da suore poi studiando all’università. L’esempio dei nostri genitori ci spinse a un coinvolgimento sempre più personale contro la dittatura che si era imposta nel nostro paese e che sentivamo sempre più pesante. A mano a mano che crescevamo aumentava in noi la voglia di reagire alla situazione dittatoriale in cui vivevamo. Il generale Rafael Leónidas Trujillo, andato al potere nel 1930, gestiva la nazione come un vero padrone, anche della vita delle persone.
Quindi è dal contesto familiare che nacque il desiderio di una vostra militanza politica?
In un certo senso sì, ma tutto divenne più chiaro quando Minerva, diventata avvocato, non ottenne la licenza di praticare la sua professione perché il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal organizzata dal dittatore per le classi più ricche della nostra città, lei lo aveva sfidato apertamente in presenza di una folla numerosa rifiutando il suo corteggiamento e sostenendo le proprie idee, che ovviamente contrastavano con quelle del dittatore.
Come conseguenza foste coinvolte negli avvenimenti sociali e politici, alcuni tragici per l’odio e la violenza che scatenarono contro di voi.
Parecchi nostri amici si schierarono con noi e anche le nostre famiglie presero una posizione netta contro il dittatore Trujillo. Nel contempo nell’intera società dominicana cominciava a spuntare un’opposizione sempre più decisa nei confronti della dittatura.
Di voi tre chi era la più decisa nel portare avanti la linea che vi eravate date?
Senza ombra di dubbio Minerva. Fu lei che con un gruppo di amici il 9 gennaio del 1960 tenne nella sua casa la prima
riunione degli oppositori politici al regime. Quell’incontro segnò la nascita dell’organizzazione clandestina rivoluzionaria «Movimento del 14 giugno», di cui il marito di Minerva, Manolo Tamarez Justo, fu eletto primo presidente. Anche lui fu poi assassinato nel 1963. Il nome del movimento veniva da un fatto di sangue, il massacro di alcuni giovani per mano degli sgherri di Trujillo, a cui Minerva aveva assistito mentre partecipava a un ritiro spirituale.
Minerva fu dunque l’anima del movimento di opposizione?
In un’epoca in cui predominavano valori (o per meglio dire anti valori) tradizionalmente «machisti» di violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole della sopraffazione, in quel mondo maschilista sudamericano, mia sorella Minerva dimostrò fino a che punto e in quale misura la volontà e la coscienza femminile sono una forma di dissidenza al potere.
Una presa di posizione, la sua, subito imitata da altri amici e conoscenti che diedero vita a un robusto movimento contrario al regime.
Ben presto anche Maria Teresa e il marito, che già da anni erano attivisti politici, furono coinvolti in questa onda crescente del «Movimento 14 giugno» e anch’io con mio marito scegliemmo di aderire. Non volevamo che i nostri figli crescessero in un regime corrotto e tirannico. Dovevo lottare contro di esso con tutte le mie forze, disposta anche a dare la mia vita, se necessario.
La vostra opera coraggiosa di aprire le coscienze dei vostri concittadini si estese a macchia d’olio su tutto il territorio della Repubblica, e divenne tanto efficace che il dittatore Trujillo in persona arrivò ad affermare: «Nella mia azione di governo ho solo due problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal».
Insieme formavamo un bel gruppo e ci davamo da fare per far conoscere alla gente i nomi di coloro che erano uccisi dal
regime. Ci firmavamo «Las Mariposas», le farfalle, adottando per tutte quello che era il nome clandestino di Minerva.
Nell’anno 1960 le mie sorelle Minerva e Maria Teresa furono incarcerate due volte; la seconda volta condannate a cinque anni di lavori forzati con l’accusa di avere attentato alla sicurezza nazionale. Ma i gesti e gli attestati di solidarietà che giunsero da tutto il mondo costrinsero il dittatore Trujillo a rilasciarle anche se furono messe agli arresti domiciliari.
Anche i vostri mariti subirono la stessa sorte?
Sì, anche loro vennero imprigionati e torturati.
Il 25 novembre 1960, a Minerva e Maria Teresa viene concesso un permesso speciale per far visita ai loro mariti, Manolo Tavarez Justo e Leandro Guzman, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, vuole accompagnarle anche se suo marito è rinchiuso in un altro carcere e la madre le supplica di non andare perché teme per le sue tre figlie. L’intuizione della madre si rivela esatta: le tre donne, insieme al loro autista Rufino de la Cruz, vengono prese in un’imboscata da agenti del servizio segreto militare, torturate e uccise, e i loro corpi buttati nella loro macchina precipitata poi in un burrone per simulare un incidente.
«Se mi ammazzano, tirerò fuori le braccia dalla tomba e sarò più forte». Con questa frase, l’attivista dominicana Minerva Mirabal rispondeva agli inizi degli anni ‘60 a chi le faceva notare che il regime dispotico del presidente Rafael
Leónidas Trujillo (1930-1961) avrebbe cercato in ogni modo di uccidere lei e le sue sorelle.
L’assassinio delle sorelle Mirabal produsse gran dolore in tutto il paese e in tutta l’America Latina e fortificò lo spirito patriottico della comunità, desiderosa di raggiungere un governo democratico che garantisse il rispetto della dignità umana.
Più di mezzo secolo dopo, la promessa di Minerva ci sembra che si sia compiuta: la sua morte e quella delle sue sorelle per mano della polizia segreta dominicana, è considerata da molti uno dei principali fattori che portò alla sconfitta della
dittatura di Trujillo. Ogni 25 novembre, la testimonianza di Minerva, Patria e Maria Teresa risuona in tutto il mondo per il «Giorno internazionale per eliminare la violenza contro la donna» che è stato dichiarato dall’Onu in onore delle tre sorelle dominicane.
Don Mario Bandera
25 NOVEMBRE
GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
La «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» è stata istituita partendo dall’assunto che la violenza contro le donne sia una violazione dei diritti umani. Tale violazione è una conseguenza della discriminazione contro le donne, dal punto di vista legale e pratico, e delle persistenti disuguaglianze tra uomo e donna.
La violenza contro le donne influisce negativamente e rappresenta un grave ostacolo nell’ottenimento di obiettivi cruciali quali l’eliminazione della povertà, la lotta all’Hiv/Aids e il rafforzamento della pace e della sicurezza.
La sostanziale carenza di risorse da destinarsi a iniziative per l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze in tutto il mondo contribuisce a far sì che questo fenomeno persista. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile – che comprendono un obiettivo specifico per porre fine alla violenza contro le donne e le ragazze – offrono grandi possibilità, ma necessitano di finanziamenti adeguati per apportare cambiamenti reali e significativi nella vita delle donne e delle ragazze.
Questa Giornata segna l’inizio della campagna dei «Sedici giorni di attivismo», comunemente conosciuta come la «16 Days campaign». Viene sostenuta da cittadini e organizzazioni in tutto il mondo per promuovere la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze. La campagna è stata ideata dal primo istituto per la leadership mondiale delle donne (Global women leadership institute) nel 1991.
La campagna si collega a due importanti ricorrenze: il 25 novembre (giornata internazionale sulla violenza contro le donne) e il 10 dicembre (giornata internazionale per i diritti umani). I sedici giorni della campagna fanno così da ponte a queste giornate per chiedere l’eliminazione di tutte le forme di violenza di genere.
A sostegno di questa iniziativa, la campagna del Segretario generale delle Nazioni unite sollecita un’azione mondiale incentrata sulla sensibilizzazione e sulla necessità di un impegno per mettere in luce il fenomeno e attuare misure per prevenirlo e contrastarlo. Ogni anno viene sottolineato un tema particolare.
Ricordi le tue ultime parole prima di rivedere tuo fratello vivo, Marta? Quando Gesù ha chiesto di togliere la pietra dal sepolcro e tu ti sei opposta: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni» (Gv 11, 1-45).
Avevi appena detto di credere in Lui, risurrezione e vita, eppure hai cercato di fermarlo.
Forse volevi proteggere l’unica certezza che ti era rimasta: la morte?
Forse avevi paura di perdere le tue coordinate, e ti aggrappavi a ciò che sapevi e che, fino a quel momento, era la tua esperienza?
Provavi un dolore indicibile, e forse ti pareva giusto perderti in esso, partecipare, da viva, della stessa sorte toccata a tuo fratello.
Cos’hai pensato quando abbiamo tolto la pietra e hai sentito Gesù ringraziare il Padre perché l’aveva ascoltato? Cos’hai provato?
E quando l’hai sentito pronunciare a gran voce il nome di Lazzaro, e hai visto emergere dall’oscurità del sepolcro quei piedi e quelle mani amate che con cura avevi avvolto in bende?
Noi eravamo increduli, come te, eppure abbiamo creduto.
«Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno», aveva detto Gesù poco prima. Benché la morte non sia evitabile, non è per sempre. Anche quando uno la sperimenta mentre è in vita, come stava accadendo a te, Marta, la morte è attraversabile.
Da quel momento anche noi abbiamo liberato le nostre mani e i nostri piedi dalle bende nelle quali eravamo stretti, e ci siamo svelati, rivelati, togliendo i sudari con i quali coprivamo i nostri volti.
Da schiavi per timore della morte (cfr. Eb 2, 14-15), ci siamo ritrovati liberi e vivi.
Buon attraversamento, buona Quaresima,
da amico Luca Lorusso
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Guardare le cose da dentro
testo di Chiara Brivio |
La fragilità umana nelle canzoni di un artista, l’esperienza della conversione al cristianesimo da altre tradizioni millenarie. I temi dei due libri di questo mese sono diversi tra loro, ma uniti dalla narrazione interiore ed esistenziale di persone singolari che condividono la loro esperienza.
Abbi cura di me
«Abbi cura di me» è un libro profondo, una «biografia spirituale» del poliedrico artista Simone Cristicchi, balzato alla ribalta per la sua vittoria a Sanremo nel 2009 con la canzone Ti regalerò una rosa, dedicata ai «matti».
Il volume, scritto con il giornalista Massimo Orlandi e uscito per le edizioni San Paolo, è un grande viaggio nella vicenda artistica, umana e spirituale del cantautore romano. Dalle sue pagine emerge un uomo inquieto, curioso, impegnato soprattutto a indagare le profondità della fragilità umana.
Il libro segue il tortuoso percorso dell’artista dall’adolescenza al primo Sanremo, i periodi di crisi e quelli di intensa produzione creativa (gli esordi nel fumetto, il cantautorato e, oggi, gli spettacoli teatrali di successo), fino alla creazione di una famiglia e al suo ritorno alla kermesse canora nel 2019.
Fil rouge di tutto il percorso artistico di Cristicchi è il suo rifiuto di piegarsi alle logiche commerciali del mercato discografico, e la sua volontà di mantenere la propria libertà artistica, un fatto quasi paradossale se si pensa che fu proprio la canzone su Biagio Antonacci – un’amara riflessione sul mondo della musica che tende a trasformare tutto in «tormentoni estivi» – a renderlo famoso.
Massimo Orlandi, già autore, alcuni anni fa, di una biografia su Gino Girolomoni (La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, Emi, 2014) e legato da una personale amicizia con l’artista maturata alla Fraternità di Romena, compone un testo fluido e scorrevole con uno stile quasi lirico che ben si addice al contenuto.
Lo scopo del volume non è quello di essere il mero racconto della vita del cantante, né di celebrarne i successi, ma di portare alla luce la sua profonda ispirazione spirituale e umana.
Emergono dalle pagine aspetti poco conosciuti della vita del cantante. Questi mostrano che la sua attenzione ai reietti della società, ai dimenticati dalla storia, ai profeti incompresi, non è unpretestuoso escamotage, ma invece una necessità primaria del suo cammino artistico – «ciò che gli interessa è l’uomo», scrive Orlandi -.
Così i matti, un eretico del Medioevo, il coro dei minatori della Maremma o gli esuli della città di Fiume, solo per citare alcuni antieroi di Cristicchi, diventano gli strumenti attraverso i quali il cantautore dona «voce a chi non ce l’ha», in un intento, se non dichiaratamente evangelico, sicuramente umano.
Il pregio migliore di Abbi cura di me – il cui titolo, oltre a riprendere la canzone che Cristicchi ha portato a Sanremo lo scorso anno, dà il nome alla recente raccolta dei suoi maggiori successi -, sta proprio nell’aver voluto far emergere le fragilità dell’artista, le sue difficoltà e i suoi dissidi interiori, che forse sono proprio la chiave del suo successo e della sua capacità di «rivolgersi in modo diverso a ogni unicità».
Dal silenzio una voce
Tiziano Tosolini è un missionario saveriano che da più di vent’anni vive in Giappone. Autore di numerosi saggi, esperto di filosofia orientale, è direttore del Centro studi asiatico di Osaka, istituto fondato dalla sua congregazione nel 1999, a seguito della pubblicazione dell’esortazione Ecclesia in Asia, che si occupa dello studio dei fenomeni sociologici e religiosi nel continente asiatico.
Il suo ultimo libro Dal silenzio una voce. Esperienze di conversione nell’Asia di oggi, pubblicato da Emi in occasione del viaggio di papa Francesco in Thailandia e Giappone lo scorso autunno, raccoglie diciannove storie di conversione da cinque paesi dell’Asia, e dalle più importanti tradizioni religiose dell’Oriente: buddhismo, shintoismo, induismo, islam.
Le testimonianze, raccolte dai missionari saveriani in Taiwan, Indonesia, Bangladesh, Giappone e Thailandia, si contraddistinguono sia per la varietà di condizione delle persone coinvolte, sia per la diversità dei modi nei quali ciascuna ha scoperto la fede, sia per l’impatto che la conversione ha avuto sulla loro vita quotidiana.
L’accostamento di storie di banchieri, diplomatici e insegnanti da una parte, con quelle di «scapestrati» e, soprattutto dei «fuoricasta» (Dalit) dall’altra, dà una certa dinamicità al libro, soprattutto perché l’autore affida ai testimoni stessi le redini della narrazione, lasciando che la loro neonata fede emerga attraverso la spontaneità delle loro parole.
S’incontrano così storie di disarmante semplicità – «Mi sono allontanato dalle mascalzonate e dalla cattiveria. Rifiutavo ormai le vecchie abitudini. Alla fine, hanno capito che era stata la mano di Gesù a cambiarmi e a farmi diventare un altro» -, e di grande profondità: «Questo è ciò che ritengo davvero incredibile e meraviglioso: servire i poveri è servire Dio! E questo è ciò che mi rende libero».
Il volume porta la prefazione del cardinale Gokim Tagle di Manila, recentemente nominato da papa Francesco prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli, il quale sottolinea quanto «l’approdo al battesimo non significa il rifiuto sprezzante né l’abiura violenta del proprio passato religioso». Piuttosto, la conversione lascia aperta la porta alla valorizzazione dell’eredità spirituale di ciascuno, sempre nella «gioia», sottolinea il porporato, che il Vangelo porta nella vita delle persone.
Questo di Tosolini è un libro semplice nella sua stesura, che racconta di contesti e tradizioni lontane da quelle europee, e che narra della silenziosa, ma altrettanto preziosa, presenza della Chiesa cattolica in Asia.