I Perdenti 53. Diventare santi tra i lebbrosi di Molokai
testo di Don Mario Bandera |
Dai coniugi fiamminghi De Veuster nascono otto figli, tra cui ci saranno due suore e due preti dei missionari dei «Sacri Cuori di Gesù e Maria», detti anche «Società del Picpus», dalla via di Parigi dove è nata la congregazione. Giuseppe (Jozep), penultimo degli otto (nato il 3 gennaio 1840), è destinato ad aiutare il padre, ma a 19 anni entra al Picpus facendo il noviziato a Lovanio. Siccome a scuola non ha studiato latino, accetta volentieri di essere missionario fratello e al momento dei primi voti prende il nome di Damiano. Ma durante il noviziato impara da solo il latino e rivela una mente vivace e brillante. Per questo, il maestro dei novizi, dopo i primi voti, lo incoraggia a diventare sacerdote e viene inviato a Parigi per gli studi di teologia. Là c’è anche suo fratello Pamphile, che, ordinato prete nel 1863, non può partire per la missione perché malato. Allora Damiano ottiene di partire al posto suo anche se non è ancora stato ordinato sacerdote. Destinazione della missione: le Isole Sandwich, così chiamate dal loro scopritore James Cook nel 1778 in onore di Lord Sandwich, capo della Marina inglese. Sono un arcipelago indipendente sotto una monarchia locale. Più tardi saranno chiamate Isole Hawaii.
Damiano le raggiunge dopo mesi di navigazione, da Brema a Honolulu. Completa gli studi, diventa sacerdote nel 1864 e lavora pastoralmente nell’isola principale, Hawaii, nel distretto di Puna, dove sono ben otto anni che manca un missionario. Istruisce la gente nella fede e insegna loro ad allevare pecore, montoni e maiali, come pure a coltivare la terra. Il divario culturale crea ostacoli duri, la solitudine a volte gli pare insopportabile. Ma è solo un primo collaudo.
Nel 1865 gli viene affidato il vasto distretto di Kohala. In quella realtà viene per la prima volta in contatto con il dramma della lebbra che sta avendo effetti devastanti tra la popolazione locale. Importata da marinai e commercianti stranieri, insieme all’influenza e alla sifilide, la lebbra causa la morte di migliaia di persone. Per questo il re delle Hawaii decreta, proprio nel 1865, di isolare i tutti lebbrosi nella penisola di Kulaupapa distetto di Kalawao al Nord dell’isola di Molokai, garantendo cibo e vestiario e niente più. Tra di essi c’è anche un piccolo gruppo di cattolici che il vescovo cerca di aiutare e sostenere anche con al costruzione di una piccola chiesa.
Dal 1865, padre Damiano, detto Kamiano nella lingua locale, assistite, impotente, allo spaventoso avanzare del flagello che decima la sua gente. Alla prova della malattia, si aggiunge, per i lebbrosi, quella, ancor più grande, di essere strappati alle loro famiglie, ai loro villaggi, senza alcuna speranza di ritorno. Padre Damiano promette una visita a quelli che vengono portati via, e li accompagna il più a lungo possibile sul loro percorso. È quindi con piena cognizione di causa che si offre volontario, il 4 maggio 1873, per raggiungere i lebbrosi.
Caro padre Damiano sapevi che offrendoti volontario per assistere i lebbrosi di Molokai ci saresti rimasto tutta la vita?
Andando a Molokai si doveva obbligatoriamente risiedervi, perché il governo locale temeva il contagio e proibiva di lasciare la penisola lebbrosario nella quale erano stati concentrati tutti i lebbrosi del regno. Il tasso di mortalità era molto alto: pensa che ci furono ben 183 decessi nei primi otto mesi della mia presenza.
Come vivevano i lebbrosi?
Rivecevano dal governo cibo e vestiario, ma erano abbandonati a se stessi, in misere capanne dove vivevano in grande promisquità. La lebbra sfigurava la loro carne, ma c’erano altre lebbre più profonde, quelle morali. Abbandonati a se stessi e senza speranza, vivevano i pochi giorni che rimanevano loro in orge, ubriacature e violenze, sfruttamento reciproco, costringendo le donne alla prostituzione. Anche i lebbrosi cristiani, lasciati a se stessi, avevano molta difficoltà a mantenere viva la propria fede.
Come hai fatto a guadagnarti la stima e l’affetto di tutti?
A Molokai oltre che essere sacerdote, facevo il medico, il padre, curavo le anime, lavavo le piaghe, distribuivo medicine, cercavo di stimolare quel senso di dignità che ogni ammalato portava dentro di sé, facevo in modo che i lebbrosi si unissero per coltivare la terra, creando luoghi di accoglienza per i più deboli. Cercavo soprattutto di far crescere tra loro uno spirito di gruppo e un certo orgoglio per le conquiste raggiunte.
Credo di averli aiutati a ritrovare il rispetto per se stessi e a darsi un’organizzazione interna per non vivere totalmente allo sbando.
Volevi trasformare una terra di morte in un luogo di vita.
Vero. Nel 1984, un medico americano che aveva vsitato il luogo diversi anni prima, tornando era rimasto sopreso di trovarlo completamente trasformato. Non c’erano più le sordide capanne che avevo trovato al mio arrivo, ma i lebbrosi stessi avevano costruito, con l’aiuto del vescovo e di benefattori, due villaggi con case circondate da giardini e orti, strade e impianti per l’acqua. C’era un ospedale ben funzionante, gli orfanotrofi, due chiese e un cimitero. E poi feste, vita religiosa, processioni e la banda musicale.
Come hai fatto?
Al Signore avevo chiesto solo di rimanere in salute. Mi occupai del mio doppio orfanotrofio di bambini lebbrosi che erano più di 40. La metà di loro, molto avanti nella malattia, non dovettero aspettare molto per andare in Cielo. Da parte mia viaggiavo tanto per recarmi da una comunità all’altra. Alla domenica, celebravo di solito due messe, mentre per quattro volte alla settimana insegnavo il catechismo e impartivo due volte la benedizione del Santissimo Sacramento. Mi ero messo anche a fumare la pipa per difendermi dall’insopportabile odore di carne in disfacimento che ammorbava l’aria circostante e che a volte provocava svenimenti fra la gente anche in chiesa.
La tua opera di promozione umana e di evangelizzazione in un contesto così difficile veniva grandemente apprezzata da coloro che ti circondavano, ultimi fra gli ultimi.
Alla mia gente piaceva organizzare processioni. In occasione delle festività liturgiche importanti essi si organizzavano per portare la croce nei luoghi più significativi e impervi della penisola. Tu dovevi vederli, nonostante le loro infermità, marciare dietro la bandiera hawaiana con tamburi e strumenti musicali di latta fabbricati da loro. Seguivano i gruppi delle donne con i bambini, poi gli uomini, quindi i cantori.
In queste circostanze ovviamente tu portavi il Santissimo.
Quando si arrivava alla residenza del sovrintendente (incaricato dal governo) si deponeva sotto la veranda il Santissimo Sacramento. Quindi facevamo riposare sul tappeto erboso i nostri piedi e le gambe malate, stanche dalla lunga marcia. Subito dopo con devozione ci dedicavamo all’adorazione del Santissimo. Dopo la benedizione, la processione riprendeva la strada e si ritornava con lo stesso ordine nella chiesa del lebbrosario.
Qual è stata la forza che ti ha sostenuto?
Il Santissimo Sacramento è stato veramente lo stimolo che mi ha aiutato ad andare avanti in tutti quegli anni. Senza la presenza continua del Salvatore, non avrei mai potuto perseverare nel legare la mia sorte a quella dei lebbrosi di Molokai. Siccome la celebrazione dell’Eucarestia è il pane quotidiano del prete, mi sentivo felice, ben contento nell’ambiente eccezionale nel quale la divina Provvidenza si era compiaciuta di collocarmi per rendere un servizio ai più emarginati e dare così lode al Dio dell’Amore e della Misericordia.
Nel 1885 padre Damiano viene contagiato dalla lebbra. La notizia si sparge come un baleno nell’arcipelago delle isole Hawai. Pochi mesi prima della morte arriva il padre belga Conrardy in compagnia di alcune suore e volontari per prendersi cura dell’ospedale. Finalmente può fare una confessione dopo anni di solitudine come sacerdote. Finita l’unzione degli infermi, padre Damiano dice: «Sono tranquillo e rassegnato, e anche più felice in questo mio mondo».
Fino all’ultimo aiuta i medici che studiano la lebbra, accettando di sperimentare su di sé nuovi farmaci.
Muore il 15 aprile 1889, circondato dalla sua comunità dopo un mese di letto sul quale lo ha costretto la malattia che lo ha reso ogni giorno più debole, e mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero.
Nel 1936 il suo corpo viene riportato in Belgio, a Lovanio. Papa Giovanni Paolo II lo beatifica a Bruxelles nel 1995, continuando l’iter iniziato da Paolo VI nel 1967 su richiesta di 33mila lebbrosi e concluso da Benedetto XVI che lo canonizza in Piazza San Pietro l’11 ottobre 2009.
Molokai: the story of Father Damien (1999)
è interpretato da Humberto Almazán, un attore messicano diventato
missionario.
«Vola solo chi osa farlo»
L’ultimo volo
Il nuovo coronavirus si è portato via anche Luis Sepúlveda, grande scrittore cileno di origine mapuche (da parte di madre), attivista politico e ambientalista appassionato. Oggi, in molti sostengono che questa straordinaria emergenza mondiale potrebbe diventare un’opportunità per un nuovo inizio. Lo speriamo. Come sempre, dipenderà dagli uomini e dalle loro scelte. In una delle sue opere più popolari – Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Sepúlveda immagina una metafora partendo dal «volo». Lasciamo da parte le nostre paure sulle diversità, cerchiamo di volare alti e di sovvertire il pensiero comune per costruire qualcosa di bello. Un anelito di ottimismo in un’epoca d’oscurità.
Paolo Moiola
Morto per il Covid-19 lo scorso 16 aprile, lo scrittore e attivista cileno mapuche era molto amato in Italia. Dagli adulti, ma anche dai più giovani.
«Rimasi con il popolo Shuar nella selva amazzonica. Durante tutto quel tempo mi accettarono come uno di loro, anche se ero totalmente diverso. La cosa straordinaria fu che mi accettarono proprio per questo, perché ero diverso. Da loro appresi la lingua e il rispetto per i delicati equilibri di Madre Terra». Così diceva Luis Sepúlveda quando ricordava la sua esperienza nell’Amazzonia ecuadoriana insieme ai popoli indigeni.
Il grande scrittore e attivista cileno ci ha lasciato il 16 aprile 2020, a causa del Covid-19. Era nato a Ovalle, una città a Nord di Santiago, in Cile, il 4 ottobre 1949. Da ragazzo leggeva romanzi di avventura di Cervantes, Salgari, Conrad, Melville e la vocazione letteraria si manifestò già al liceo di Santiago quando iniziò a pubblicare poesie sul giornalino dell’istituto. A diciassette anni iniziò a lavorare come redattore del quotidiano Clarín e poi in radio. Nel 1969 vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti «Crónicas de Pedro Nadie». Poi giunsero gli anni della militanza totale. Il 4 settembre 1970 Salvador Allende venne eletto presidente e la società cilena iniziò a rialzarsi. Sepúlveda durante quei mille giorni del goveno di Allende partecipò alla democratizzazione del paese. Nel 1973 entrò a far parte della struttura militare del Partito socialista e divenne membro dei Gap, la guardia personale di Allende, ma l’11 settembre 1973 ci fu il colpo di stato militare di Augusto Pinochet. Venne instaurata la dittatura. Luis venne arrestato e torturato. Trascorse sette mesi in una cella piccolissima ove era impossibile stare in piedi o sdraiati. Anche la sua compagna, la poetessa cilena Carmen Yáñez, sposata nel 1971, subì la sua stessa sorte e subì come lui indicibili torture. Sepúlveda venne scarcerato grazie alle forti pressioni di Amnesty International che lanciò una serrata campagna per la sua liberazione. Dopo quasi tre anni di carcere, «con molti denti in meno e cinquanta chili di peso», se ne andò a Valparaíso, ove riscoprì la sua passione per il teatro e si dedicò a rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Avrebbe raccontato tutto in «Storie ribelli». Erano tempi durissimi durante i quali in Cile vi furono tanti desaparecidos. Venne arrestato una seconda volta e la giunta militare lo processò ufficialmente condannandolo ad un’ergastolo che poi, su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. Trascorse circa due anni e mezzo in carcere. Il 17 luglio del 1977 gli fu permesso di lasciare il Cile. Rimase per poco tempo in Argentina, poi passò in Brasile e quindi arrivò a Quito, in Ecuador. Qui entrò in contatto con una realtà che avrebbe influenzato molto la sua opera letteraria, ma anche la sua attività di militante e strenuo difensore della natura. Partecipò, infatti, a una spedizione dell’Unesco ed ebbe così l’opportunità di vivere per sette mesi nella selva amazzonica con il popolo indigeno shuar. Gli Shuar (o Jívaro) si ubicano nella regione orientale dell’Ecuador e in una parte nel Perù settentrionale, sui pendii delle Ande. Il termine Jívaro (Jibaro) in realtà è dispregiativo, perché significa «barbaro». Essi si autodefiniscono Nijínmanya Shiwiár (ossia Shuar) che, nella loro lingua, significa «popolo». Vengono chiamati anche «i difensori della natura» e hanno resistito nei secoli sia al dominio dell’Impero Inca che a quello degli spagnoli. Attualmente si ritrovano a lottare per la difesa del proprio territorio e della propria cultura, contro l’occidentalizzazione e l’espansione delle multinazionali. Proprio basandosi sui ricordi della convivenza con loro, Luis Sepúlveda nel 1988 avrebbe scritto «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore», che divenne il suo maggiore successo internazionale. Una volta, durante una lunga intervista, volle ricordare il tempo trascorso con gli Shuar e a questo proposito raccontò: «Quando scrissi “Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore” usai molti elementi autobiografici perché la mia esperienza amazzonica era stata come un’iniziazione, l’introduzione a un mondo sconosciuto. [In quella spedizione] eravamo in otto, ma dopo due settimane rimasi l’unico a non essermi ammalato. Perciò, gli altri se ne andarono, ma io decisi di rimanere. Non sapevo bene dove andare, ma mi dissi che volevo conoscere l’Amazzonia. Così rimasi da solo. All’inizio gli Shuar non si avvicinavano, però ogni giorno mi lasciavano acqua, frutta e carne di scimmia per sopravvivere. Poi si ritiravano nella foresta. Un giorno venni morso da un serpente. Sapevo che era velenoso, ma per fortuna il cinturino del mio orologio in parte mi protesse. Tagliai col machete la testa del serpente e corsi subito dagli indigeni. Mentre gliela mostravo sentii che avevo già la vista annebbiata e persi conoscenza. Quando mi risvegliai erano trascorsi sette giorni. Gli indigeni mi avevano curato con le loro potenti conoscenze di erbe mediche e mi salvarono la vita. Così venni integrato nel loro mondo e vi rimasi sette mesi».
Nel 1979, Sepúlveda andò in Nicaragua dai sandinisti che decisero di accettare nelle loro file alcune centinaia di esuli cileni che avevano chiesto di unirsi alla guerra di liberazione. Poi andò in Europa, ad Amburgo. Due anni dopo divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace, attraversando i mari per quattro anni. Nacquero tanti libri tra i quali: «La frontiera scomparsa», «Patagonia express», «Appunti dal Sud del mondo», «Incontro d’amore in un paese in guerra», «Le rose di Atacama», «La gabbianella e il gatto» e «Il mondo alla fine del mondo», romanzo sullo scempio del pianeta in nome del profitto, ambientato in buona parte nella terra che più amava: la Patagonia. Quando qualcuno gli chiedeva il motivo della sua scrittura, Luis Sepúlveda diceva: «Dallo scrittore brasiliano Guimarães Rosa ho imparato che raccontare è resistere e su questa barricata della scrittura io resisto agli assalti della mediocrità planetaria, alla mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio. Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per amore delle parole che amo, e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica, ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria, e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati, dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che sconfitti in mille battaglie, si rialzano e continuano a prepararsi per le prossime battaglie senza avere paura».
Luis Sepúlveda è stato un latinoamericano coraggioso e coerente che ha fatto della lingua la sua patria. Ci lascia un’opera preziosa nella quale ha scritto sugli «scartati», sui mondi emarginati, sulle utopie e sulla speranza di un mondo migliore che non morirà mai.
Antonella Rita Roscilli
Nella stessa barca
Testo a di Gianantonio Sozzi, Imc |
«Oggi siamo impauriti e smarriti come i discepoli del vangelo che sono stati presi alla sprovvista, nella loro barca, da una tempesta inaspettata e furiosa». Mentre papa Francesco diceva queste parole nella sua preghiera solitaria in piazza San Pietro, lo scorso 27 marzo, ho pensato che l’immagine della barca accomunava due grandi tragedie del nostro tempo: in modo simbolico quella del Covid-19 che, nel momento in cui scrivo, ha ucciso già ben oltre 20mila persone nella sola Italia, e in modo diretto quella dei naufragi del mediterraneo che, negli ultimi sei anni, hanno fatto quasi altrettante vittime.
A differenza delle migrazioni, fatte con barche lontane da noi che attraversano disperatamente il Mediterraneo stipate di persone che non vorremmo accomodare a casa nostra e preferiremmo «aiutare a casa loro», il Covid-19 ci ha costretti a renderci conto che la barca su cui viviamo tutti, sia noi che «loro», è una sola: frantumate tutte le nostre certezze e pretenziose frontiere, oggi ci possiamo rendere conto «di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda».
Oggi è ancora presto per tirare delle conclusioni. Siamo ancora in mezzo alla tempesta, e non ne vediamo la fine. Stiamo appena iniziando a elaborare la nuova consapevolezza che basta un virus microscopico per mettere in scacco buona parte della struttura produttiva mondiale che genera quella ricchezza senza la quale – pensavamo fosse così – non siamo capaci di fare alcunché.
In questa tempesta, per noi missionari, cresce anche l’ansia per quello che succederà oltre i nostri confini, «in altri paesi finora largamente risparmiati dal Covid-19, soprattutto in Africa – scrive padre Stefano Camerlengo, superiore dei missionari della Consolata – indubbiamente mal attrezzati a gestire una situazione drammatica, impreparati a contrastare il virus».
Oggi è presto per capire che mondo sarà quello dopo il coronavirus, ma non è presto per la speranza. Come cristiani, sappiamo che è la speranza a farci capaci delle più ardite costruzioni, dei più ambiziosi progetti e, con la collaborazione di tutti, della realizzazione dei più nobili sogni. Abbiamo l’opportunità di costruire un’umanità nuova, un po’ più solidale, un po’ più fraterna, un po’ più di tutti.
L’esperienza del Covid-19 ci ha messi di fronte alla realtà di una forma di vita, il virus, che non può vivere senza ricorrere a un sistema biologico più complesso di sé, e abbiamo visto che a volte il virus uccide quella vita dalla quale trae sostentamento. Succede così anche per l’uomo in relazione con il creato. L’uomo oggi può decidere se continuare a essere un virus letale per la Terra, oppure no. Oggi forse siamo più consapevoli che potremo dire «andrà tutto bene» solo se smettiamo di violare e contaminare la nostra «casa comune».
Possiamo sperare che il Covid-19 ci aiuti tutti a uscire anche dai deliri di onnipotenza del pensiero unico e dei populismi che dipingono tutto di bianco e nero, tracciano frontiere indiscutibili pretendendo di distinguere con precisione ciò che è dentro da ciò che è fuori, e che, quando non sono più in grado di gestire la crisi, allora rispondono con una specie di «si salvi chi può», e pace all’anima di coloro che non sono in condizioni di farlo.
Possiamo sperare in un’economia nuova che sappia mettersi al servizio dei bisogni quotidiani dell’uomo. Lo scrittore e giornalista Tiziano Terzani, qualche tempo prima della sua morte diceva: «Siamo sicuri che il progresso debba essere solo crescita? Non sarebbe molto meglio arrivare a una situazione in cui tutti abbiamo poco ma il giusto? Oggi l’economia non è per l’uomo ma è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi terribili, per produrre delle cose per lo più superflue, che altri possono comprare solo se lavorano a loro volta a ritmi disumani».
Questo virus che ci ha chiusi in casa, forse alla fine ci avrà aiutati anche a scoprire il valore di alcune cose che non si possono comprare: la vita, l’affetto di parenti e amici, la comunità, gli abbracci, il tempo speso bene.
Gianantonio Sozzi, imc
Noi e Voi
Il mondo che verrà e noi
Care lettrici, cari lettori,
questo numero di MC è stato lavorato in modalità «smart working»: ciascun redattore da casa propria.
Sappiamo che solo una parte delle lavoratrici e dei lavoratori può lavorare stando tra le mura domestiche, e che molti hanno dovuto continuare a farlo andando fuori. Pensiamo in particolare agli operatori sanitari e a quanti producono beni o offrono servizi essenziali. Pensiamo poi a tutti quelli che non hanno più potuto lavorare o che hanno dovuto usare le ferie, o ricevono la cassa integrazione, o semplicemente sono dovuti rimanere a casa senza reddito.
Non sappiamo come sarà la situazione quando leggerete queste pagine. Sicuramente non sarà tornata la normalità perché la pandemia e le sue conseguenze ci accompagneranno per lungo tempo.
Noi, nel frattempo, cercheremo di capire quale mondo ne verrà fuori. Certamente un mondo più povero e ferito. Speriamo anche più solidale e attento alle cose essenziali.
Marco Bello, Luca Lorusso, Paolo Moiola (i redattori di MC)
Ricordando Raffaele Masto
La notizia che non avremmo mai voluto sentire infine è arrivata. Era sabato sera 28 marzo. Tutti chiusi in casa per il lockdown. Un messaggio sul telefono ci avvisava: Raffaele Masto (nelle tre foto durante un reportage in Nigeria -ndr) se n’è andato. Raffa (nelle foto sotto), come lo chiamavano amici e colleghi, ci ha lasciati dall’ospedale di Bergamo, dove aveva subito un trapianto di cuore alcuni mesi fa. Finita la lunga terapia intensiva, doveva essere trasferito, ma è arrivata la furia del Covid-19 che se lo è portato via.
Raffa scriveva di Africa, continente che ha percorso in lungo e in largo per oltre 30 anni. Il suo era un giornalismo fatto «con la testa e con le suole delle scarpe», sempre in giro, in mezzo alla gente, a cercare il contatto umano e le storie vere. Sempre dalla parte di chi aveva qualcosa da dire, ma veniva zittito. Grande conoscitore del continente, forniva acute analisi degli eventi che lo caratterizzavano. Univa in sé profonda competenza e grande umiltà. Sempre pronto a dare un consiglio o a rispondere alla richiesta di un collega, sempre interessato a te, ai tuoi progetti. Sempre aperto a insegnare qualcosa ai più giovani. A trasmettere una passione. Mai un atteggiamento di superiorità.
Ci mancherà la sua voce un po’ impastata e pacata dei servizi su Radio Popolare, i suoi scritti sulla rivista «Africa» e sul blog «Buongiorno Africa», i suoi libri di approfondimento, unici in Italia per i temi affrontati. Mi ricordo quando lo intervistai per il suo libro su Boko Haram, «Califfato Nero». Ricordo le disquisizioni su Aboubakar Shekau, il capo del gruppo terroristico, chiamato «l’immortale», perché dato più volte per morto e più volte rispuntato in un video sul web. In quell’occasione Raffa mi disse: «[In questo lavoro] i viaggi sono stati essenziali, perché un fenomeno studiato dall’Europa continua ad avere dei buchi che si riempiono e si comprendono solo se si riesce ad andare sul posto. Io ho cercato di farlo preparando molto bene le missioni, creando e mantenendo relazioni con persone fidate in loco, e cercando di risparmiare».
L’ultima volta ho incontrato Raffa a una serata su Thomas Sankara, il presidente visionario del Burkina Faso, a Milano. Entrambi eravamo intervenuti, e stavamo seduti fianco a fianco. Uscimmo insieme, io e lui. Mi chiese: «Di cosa ti stai occupando? Quali progetti hai?». E concluse: «Dobbiamo organizzare di incontrarci».
Addio Raffa, giornalista di grande umanità. Ci mancherai.
Marco Bello
Passione e Risurrezione
Carissimi amici e benefattori,
per celebrare la Pasqua di risurrezione, prima bisogna passare attraverso la sofferenza della passione e della morte. Coraggio! La Fede e la Speranza e l’Amore sono le nostre uniche medicine in questo difficile momento in cui la piaga del coronavirus sta flagellando il mondo.
Noi uomini e donne, con la nostra scienza e tecnologia ci credevamo onnipotenti, superiori a tutto, capaci di assoggettare il mondo intero. Chissà che il Buon Dio ci aiuti a ottenere qualcosa di buono anche da questo male e ci faccia più solidali e misericordiosi gli uni verso gli altri.
Grazie a Dio, qui in Kenya, mentre scrivo, non è ancora arrivata questa piaga, e preghiamo tanto per esserne esenti, altrimenti con le nostre poche strutture ospedaliere diventerebbe un vero disastro. Invece ora noi abbiamo la piaga dell’invasione delle locuste, che non vedevamo dal 1952 e che divorano il bel verde che le piogge straordinarie di quest’anno ci avevano regalato.
I bambini che voi generosamente aiutate da diversi anni potranno, attraverso lo studio, vedere aperte davanti a loro nuove strade, oltre che alla tradizionale pastorizia nomade e all’agricoltura di sussistenza. Molti di questi bambini durante le vacanze (novembre-dicembre 2019) sono stati circoncisi (purtroppo anche qualche bambina) e ora si sentono degli ometti maturi. Per fortuna per loro sarà più facile trovare un lavoro utile e non ricadere in certe tradizioni ormai sorpassate.
Qualcuno entra anche nelle scuole superiori e nel seminario. Recentemente ho ordinato tre sacerdoti locali, figli di povere famiglie di pastori: ringraziamo il Buon Dio che fa questi miracoli.
Ringrazio anche il Signore perché in questo anno ricorre il cinquantesimo del mio sacerdozio. Sono appena sceso dal monte Kenya (nella foto di apertuta e in questa foto qui sotto – ndr) su cui ho celebrato una messa di ringraziamento insieme ad alcuni miei sacerdoti e cristiani. Di nuovo vi prometto la mia preghiera quotidiana. C’è più gioia nel dare che nel ricevere, ci diceva Gesù. E Tonino Bello: «Amare, voce del verbo morire (al proprio egoismo)».
+ Virgilio Pante Maralal, Kenya, 08/03/2020
Carissimo «wild bishop»,
complimenti e benedizioni per i 50 anni di sacerdozio celebrati sulla montagna «sacra» del Kenya, che ti ha visto frequentatore assiduo sin dai tuoi primi anni di servizio missionario in quel paese. Davvero una bella esperienza di libertà, per uno abituato ai grandi spazi del Nord del Kenya e alla cattedrale più bella del mondo, quella che Dio stesso si è costruito.
La notizia a cui accenni di passaggio, quella delle circoncisioni, ha invece suscitato in me un po’ di apprensione, memore di quanto vissuto coi riti di passaggio del 1990-91, quando con suor Corona Nicolussi, proprio a Maralal, passammo di lorora in lorora (il villaggio dove si celebra l’iniziazione, di cui la circoncisione è momento centrale) a disinfettare e curare centinaia e centinaia di ragazzi e ragazze con nel cuore la paura di una diffusione epidemica dell’Aids.
Fortunatamente questa nuova epidemia di coronavirus si sta spargendo in Kenya (225 casi e 10 defunti al 15/04/2020) quando i rituali per l’iniziazione del nuovo gruppo di età dei Lkisieku (i frettolosi) sono ormai giunti alla loro conclusione, essendo iniziati nel luglio 2019. Auguro ogni bene a questi nuovi giovani perché assumano la loro responsabilità nella società. Spero anche che il grande lavoro fatto da tante donne Samburu in questi anni per attualizzare «riti alternativi di iniziazione» delle ragazze senza il ricorso alla mutilazione genitale femminile, abbia dato i suoi frutti positivi.
Copie di MC col pacco viveri
Spett.le Missioni Consolata,
le scrivo questa lettera dalla parrocchia di Fiorenzuola d’Arda, nella zona del piacentino, tristemente nota alle cronache attuali per il primato negativo del nostro comune sul numero di decessi e sui casi di positività riscontrati in Emilia Romagna.
A causa di ciò, molte persone sono rimaste sole.
La nostra parrocchia, assieme ad alcune associazioni di volontariato del luogo, si è fatta carico di raccogliere le esigenze di un numero sempre crescente di persone (ad ora sono 150 nuclei famigliari) che sono costrette ad un regime di isolamento presso le proprie abitazioni.
È stato così intrapreso un servizio di consegna a domicilio di generi alimentari e di medicinali.
Ora l’emergenza chiama tutti a una maggior responsabilità e, proprio perché siamo una comunità, abbiamo bisogno di gesti di solidarietà. Come ha ricordato il Santo Padre «nessuno si salva da solo» e solo certi comportamenti collettivi possono portare a dei risultati.
Pensando a come possiamo essere vicini a tali persone, ci è parsa buona l’idea di far giungere nelle case, copie della vostra rivista, affinché una lettura più profonda e più consapevole dell’attualità e del momento straordinario che stiamo vivendo, possa essere di conforto e di sostegno a tutte quelle persone che stanno attraversando questa condizione particolare e drammatica.
Vi chiederemmo quindi se foste disposti ad inviarci presso la parrocchia delle copie omaggio della vostra rivista, da inserire nelle borse della spesa delle persone che assistiamo a domicilio.
Pensiamo possa essere anche un’occasione di promozione del vostro prezioso lavoro.
Certi nella vostra condivisa risposta vi ringraziamo per la concreta attenzione.
Don Giuseppe Illica, parroco Fiorenzuola d’Arda, 08/04/2020
È ovviamente un piacere per noi poter condividere con voi questo momento e poter far compagnia ai vostri parrocchiani.
Come missionari e missionarie della Consolata ci sentiamo profondamente uniti all’Italia, con la quale condividiamo tanta storia di fede e umanità. In particolare siamo più che mai vicini a chi vive nelle regioni più colpite dove abbiamo tanti famigliari, amici e benefattori. Siamo vicini anche ai nostri fratelli e sorelle degli altri istituti missionari che hanno pagato un pesante contributo di vite, come i missionari saveriani e le missionarie comboniane.
Che in questo duro momento di traversata del deserto con i «serpenti» del coronavirus che attaccano chiunque, possiamo sempre essere capaci di alzare gli occhi insieme a Colui che è stato innalzato e che unico è guarigione vera del cuore dell’umanità.
Pacaraima e Santa Elena de Uairén sono due piccole città, distanti venti chilometri una dall’altra. La prima si trova in Brasile, la seconda in Venezuela, nel territorio indigeno dei Pemones. Siamo andati a visitarle perché da esse passano i flussi dei migranti. Warao compresi.
Boa Vista. È mattino presto. Noi siamo pronti, ma Fernando, il taxista, ancora non si vede, nonostante ci fossimo raccomandati sulla puntualità. Finalmente, ecco che si avvicina un’auto con le insegne della Cootap, la cooperativa di trasporti della città.
In pochi minuti siamo fuori da Boa Vista. Imbocchiamo la Br-174, la strada federale che dovremo percorrere per circa 200 chilometri prima di arrivare a Pacaraima, la cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.
Usciti dalla città, il traffico si fa subito molto scarso. La strada è un unico, lungo rettilineo. Con molte buche. Attorno alla Br-174 non ci sono foreste, ma vastissimi campi con terreni per lo più incolti o con vegetazione bassa. Notiamo i cartelli che indicano i nomi delle aree indigene.
Fernando guida. E parla. Ha idee molto vicine a quelle del presidente Bolsonaro.
«Una volta, qui c’erano vacche e galline. E ora? Nulla», afferma il nostro motorista. Che poi sentenzia: «Gli indigeni non seminano e non allevano. Bruciano soltanto. Fanno danni a chi vuole lavorare». Avendo udito queste parole, nessuno di noi ha il coraggio di chiedergli un commento sui Warao.
Negli ultimi chilometri del nostro viaggio verso il confine, la Br-174 inizia a cambiare. Ora ci sono boschi, curve e salite: abbiamo iniziato l’ascesa alla Serra Pacaraima, i rilievi montuosi più importanti del Nord del Brasile. I camion che incontriamo faticano a procedere e rallentano la nostra auto.
Succede a Pacaraima
Alle 10 del mattino arriviamo a Pacaraima, quasi mille metri sopra il livello del mare. All’improvviso ci ritroviamo immersi in un traffico caotico. Scendiamo immediatamente dall’auto. La cittadina, fino a poco tempo fa, era un piccolo centro di frontiera di circa 12mila abitanti (Ibge, 2017). Poi tutto è cambiato con l’acuirsi della crisi del confinante Venezuela e il conseguente arrivo di migliaia di migranti. Vie strette, case basse, negozietti di ogni tipo e una folla brulicante. Notiamo subito molte macchine con targa venezuelana. Cerchiamo la parrocchia Sagrado Coração de Jesús gestita dal padre Jesús Lopez Fernandéz de Boadilla, sacerdote spagnolo molto conosciuto per il suo lavoro con i migranti (riquadro di pag. 14). La casa parrocchiale è in un cortile interno, nascosta da una casetta color arancione che funge da centro pastorale per i migranti della diocesi di Roraima.
Padre Jesús non è in sede, ma incontriamo Peggy Vivas (vedi a fine articolo), una missionaria laica venezuelana che fa la spola tra Santa Elena de Uairén e Pacaraima. È lei che ci farà da guida e da taxista.
Centinaia di persone in ordinata attesa
Prima di tutto occorre far visita alla grande tensostruttura eretta ai lati del campo sportivo cittadino, anch’esso occupato da tende. Si tratta del luogo dove vengono espletate le prime, essenziali, formalità burocratiche, ma non solo. Davanti ai moduli prefabbricati che ospitano i vari uffici, siedono su panche centinaia di persone, tutte tranquillamente in attesa del proprio turno. Altre sono in piedi in file ordinate per poter accedere. Sono persone di tutte le età, vestite dignitosamente, molte con grandi valigie e trolley. Vediamo diverse mamme con figli, anche piccolissimi. E notiamo una maggiore presenza di donne rispetto agli uomini.
In apparenza, quasi tutti sembrano contenti e fiduciosi, anche se stanno lasciando il proprio paese. I bagagli vengono fatti depositare in una zona controllata da due giovanissimi militari. Di fianco vediamo alcune facilitazioni per comunicare via telefono o via internet. Sui vari cartelli esposti ci sono istruzioni e scritte come «Mantenga la calma». In tutto questo, ad alto volume risuonano note di musica brasiliana.
Dalle informazioni che abbiamo raccolto dovrebbero essere tra 500 e 800 gli arrivi giornalieri. All’ufficio controllo passaporti, sono tutti venezuelani in attesa di un visto d’entrata. Noi ci mettiamo in fila per avere il timbro d’uscita dal paese.
A lato della struttura per le formalità di frontiera, ce n’è una identica per l’accoglienza dei migranti. Notiamo personale della Fraternidade international (Ong brasiliana, vedere MC marzo), delle Ong statunitensi Adra e World Vision, oltre che Acnur, Oim e altre agenzie delle Nazioni Unite.
Nella struttura non manca un ambulatorio medico, né uno spazio giochi per i più piccoli, gestito da Unicef. La presenza militare è evidente e diffusa, ma non soffocante. Un giovane soldato, con guanti monouso, distribuisce bicchieri di latte a chi è in attesa. Personale dell’Oim spiega a un gruppo di alcune decine di migranti i diversi tipi di permesso che si possono richiedere e le procedure. In un’altra area, funzionari della Fiscalisação fanno la fototessera ai migranti e rilasciano loro il Cpf (il codice fiscale brasiliano), mentre quelli di Acnur inseriscono i dati di ogni migrante in una base dati e verificano i casi di maggiore vulnerabilità. C’è ovviamente un’area adibita alle vaccinazioni obbligatorie per chi non le abbia effettuate.
Il personale di Acnur, una decina di persone, è composto da giovani estremamente disponibili. Riusciamo così a incontrare Rafael Levy, il responsabile – anch’egli molto giovane – della missione Onu di Pacaraima, che ci dà appuntamento per il giorno dopo, quando rientreremo dal Venezuela.
Santa Elena e il territorio dei Pemones
Con passaporti vidimati e zainetti leggeri, c’incamminiamo verso la «linea», come viene chiamato il confine. È qui che, dopo una breve attesa, arriva Peggy guidando il fuoristrada con il quale andremo fino a Santa Elena. Ci avviamo dunque verso la frontiera, mentre nell’altro senso di marcia, in entrata, c’è una lunga fila di auto venezuelane. Gli occupanti del veicolo vengono fatti scendere e il bagaglio minuziosamente controllato dalla polizia brasiliana. In uscita, invece, ci sono poche macchine, tutte stracariche di mercanzia. Sono i venezuelani che fanno acquisti a Pacaraima o Boa Vista per rifornire di prodotti i negozi di Santa Elena, e non solo.
Dopo poche decine di metri superiamo la linea di confine, segnalata dai pennoni che sanciscono il passaggio da un paese all’altro. «Guardate com’è sbiadita la bandiera del Venezuela», osserva padre Kokal, la nostra guida, senza nascondere il proprio sarcasmo. Ancora poche centinaia di metri e arriviamo alla stazione della polizia venezuelana, posta su un mezzo mobile del Saime (Servicio administrativo de identificación, migración y extranjería). Il controllo dei passaporti, effettuato da tre giovani poliziotte, è rapidissimo, e gli zainetti non vengono neppure aperti. Alla dogana, dove le auto cariche sono fermate per controlli, noi passiamo veloci, anche perché Peggy qui è di casa. Stessa cosa al primo posto di blocco stradale dei militari venezuelani, a una decina di chilometri dalla frontiera: basta un saluto della nostra accompagnatrice.
Tra il confine e Santa Elena de Uairén (stato Bolívar, municipio Gran Sabana) ci sono meno di venti chilometri. La strada, quasi senza traffico, attraversa un paesaggio piacevolmente ondulato. A prima vista, la cittadina, che conta circa 30mila abitanti, sembra un luogo tranquillo.
L’auto di Peggy passa accanto a un piccolo edificio colorato con l’insegna «Seguridad indígena» e il disegno di un indiano con arco e frecce. È un posto di controllo dei Pemones, l’etnia indigena attualmente in lotta con il governo di Maduro per questioni relative allo sfruttamento del territorio, ricco di oro e diamanti.
Noi saremo ospiti dei cappuccini, poco fuori del centro e vicinissimi alla cattedrale di Santa Elena, solido edificio costruito in pietra locale. La casa dei missionari gode di una posizione sopraelevata rispetto a Santa Elena che si stende in basso, immersa nel verde. Padre Carlos Caripá, il superiore, ci spiega che la sua piccola comunità si trova già in territorio pemon.
I Warao di Santa Elena
Qui i Warao sono poche decine e relegati fuori dalla città, vicino alla stazione degli autobus, dove ci facciamo condurre. È il gruppo Warao Terminal
La visione non è piacevole. Il gruppo vive accampato sotto una tettoia, in mezzo a un campo incolto che quando piove diventa un pantano. Hanno steso le loro amache come meglio potevano. Per terra, vestiti, borse, alcune padelle. Sono sei famiglie con molti bambini, una trentina di persone in totale. Sono molto trasandati, hanno un livello di igiene e pulizia molto basso, così come il loro riparo è precario. È la situazione peggiore che abbiamo visto nel corso del nostro viaggio. I bambini, per fortuna, riescono ancora a divertirsi. Alcuni di loro stanno giocando con un camion di plastica, sopra e attorno al quale ci sono svariate banconote in bolivares, la valuta venezuelana, che paiono vere. Le prendiamo in mano: sono proprio vere. Gli indigeni attorno si accorgono del nostro stupore e scoppiano a ridere. Ridono perché quelle banconote non valgono la carta su cui sono stampate. Simbolo della deriva economica del paese.
Chiediamo agli adulti cosa pensano di fare: passare in Brasile, tornare nei territori di provenienza o rimanere a Santa Elena. Preferiscono restare, in attesa di tempi migliori. Difficile comprendere i motivi di questa scelta, ma ancora più difficile risulta giudicarla. Ci dicono che la proprietaria del terreno li lascia stare, mentre chi possiede la terra circostante non permette loro di coltivare. Così vivono, o meglio sopravvivono, di elemosina e piccoli aiuti.
Torniamo verso il centro, passando accanto alla gigantesca (e brutta) statua di Santa Elena. E poi a una pompa di benzina, chiusa e presidiata da militari. «Funziona soltanto alcune ore al giorno – ci spiega padre Carlos – e la benzina è razionata. In compenso, il carburante è praticamente gratuito, incentivando però un’attività di contrabbando con il vicino Brasile». Il centro, intasato di auto, si sviluppa attorno all’immancabile piazza dedicata a Simón Bolívar, piccola e alberata. In giro c’è molta gente. In una città di frontiera come questa la scarsità di beni è molto meno presente che nel resto del Venezuela. I negozi espongono merci di tutti i tipi, anche frutta e generi alimentari. Si può pagare in bolivares o in reais, la valuta brasiliana, come mostrano i cartelli dei prezzi.
Quasi tutto arriva dal Brasile. «I pagamenti con la nostra moneta sono fatti in digitale. Con le carte o usando il cellulare. Pagare in contanti sarebe veramente complicato vista la quantità enorme di denaro che sarebbe necessario portare con sé». Padre Carlos ci porta a vedere l’ospedale: da fuori la struttura pare deserta. «Non ci sono medicine – ci dice – e se abbiamo problemi cerchiamo di farle arrivare dal Brasile. I medici sono pochi e lavorano anche in ambito privato».
Espatriare senza documenti
Al mattino seguente siamo pronti per fare il percorso inverso. Ci accompagnano anche un paio di giovani cappuccini. Sono loro che, alcuni km fuori dalla città, ci indicano un sentiero in mezzo ai campi. «Ecco, di là si passa per aggirare i controlli di frontiera. Viene chiamata “trocha”», spiegano. È usato da chi non ha passaporto (per esempio, molti tra gli indigeni warao) e da chi svolge attività di contrabbando.
Siamo di nuovo alla frontiera. Le formalità burocratiche sono rapide, ma in uscita c’è una lunga colonna di auto. Ci sono parecchi brasiliani venuti a rifornirsi di carburante alla pompa venezuelana che vende a un prezzo conveniente. Superata la «linea», passiamo nella tensostruttura per ottenere il timbro d’entrata della polizia federale brasiliana. E, di seguito, negli spazi di Acnur approntati sotto la struttura, dove abbiamo appuntamento con Rafael. L’ufficio dell’agenzia dell’Onu è un’area ricavata sotto le tende con paratie mobili, senza finestre, ma con l’aria condizionata. Sui pannelli bianchi che fungono da pareti sono stati affissi manifesti esplicativi, adesivi («Acnur ringrazia l’appoggio degli Stati Uniti» dice uno di essi), scritte in varie lingue, anche indigene. «Yakera!», si legge da più parti. Rafael non arriva, ma ci viene comunicato che abbiamo il permesso per entrare nell’abrigo di Janokoida, il rifugio per indigeni di Pacaraima.
Ballando a Janokoida
L’abrigo Janokoida («Casa grande», in lingua indigena) è distante poche centinaia di metri dal centro della cittadina ed è gestito dall’Operazione accoglienza (Operação acolhida). Sul cancello che preclude l’accesso al rifugio è appeso un cartello con le regole, mentre ai lati sventolano due bandiere, quella del Brasile e quella dell’Operação acolhida. Subito padre Kokal, che fin dall’inizio del viaggio ci accompagna nelle vesti di antropologo e traduttore, viene avvicinato da decine di Warao, donne e bambini soprattutto, per un caloroso saluto.
Janokoida è posta sul costone di una collina. In alto ci sono l’entrata, gli uffici e un capannone per gli ospiti, più sotto ci sono una tettoia con svariati fuochi (utilizzabili da chiunque) e un tendone. Accompagnati da Lis, una giovane addetta di Acnur, entriamo nel capannone dove, riconosciuto da molti ospiti, padre Kokal viene presto coinvolto in un canto e una danza collettivi.
Noi ne approfittiamo per dare un’occhiata attorno. Come a Pintolandia, il rifugio di Boa Vista, anche qui ci sono strutture in ferro alle quali gli indigeni (quasi tutti Warao) possono appendere le loro amache.
Per molti di loro il passaggio successivo sarà Boa Vista, e poi, alcuni, sempre in gruppi famigliari, proseguiranno per Manaus.
Mentre parliamo con Lis arriva anche Rafael. Un militare graduato ci gira attorno con aria indagatrice, per capire chi siamo e cosa ci facciamo lì. Ci colpisce lo sguardo perso e velato di tristezza di un’anziana warao, che sembra non capacitarsi di essere così lontana dal delta dell’Orinoco.
Marco Bello e Paolo Moiola (4ª puntata – fine)
I Warao verso la frontiera / 1
«Quando migliorerà, torneremo»
Incontro con Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana.
Santa Elena de Uairén. La cittadina venezuelana è l’ultima prima di giungere alla frontiera con il Brasile, che dista circa diciotto chilometri. Questo è il territorio del popolo indigeno pemón, la Gran Sabana, zona di turismo e di miniere d’oro (legali, ma soprattutto illegali).
Nel giardino interno della cattedrale di Santa Elena, sede del Vicariato apostolico del Caroní, incontriamo Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana, «con spiritualità marista», ci specifica. Peggy ha una lunga esperienza di lavoro con i Warao, in quanto ha lavorato 12 anni con monsignor Felipe Gonzalo e padre Carlos Caripá nel vicariato apostolico di Tucupita, stato del Delta Amacuro. Nel 2014 il vescovo e padre Carlos vengono trasferiti a Santa Elena e Peggy decide di seguirli.
«In quell’anno i Warao erano già arrivati a Santa Elena. Tanto che un’insegnante di qui scherzava dicendo: i Warao hanno preparato il cammino a mons. Felipe».
Nel 2017, arriva a Pacaraima, la città brasiliana di frontiera, padre Jesús de Bombadilla, spagnolo. «Padre Jesús – racconta Peggy – inizia a motivare la gente della città affinché si mobiliti per aiutare i Warao. Questi, all’inizio, dormivano in strada, non potevano lavarsi né lavare i propri vestiti. Per fortuna, in questo suo percorso il sacerdote trova l’aiuto proprio di mons. Felipe che i Warao li conosce bene». Per diversi mesi, mons. Felipe e la sua équipe fanno la spola attraversando la frontiera per aiutare i colleghi nella nuova emergenza.
«Il Warao è molto religioso – continua la missionaria -, chiede accompagnamento spirituale. Per questo, il monsignore si recava a Pacaraima a dire messa in spagnolo per gli indigeni. Noi cercavamo di aiutare anche bambini e giovani, facendo attività prima della funzione. Finché le circostanze lo hanno consentito, lo abbiamo fatto».
Warao e Pemones
L’arrivo dei Warao in area pemón porta ad attriti, anche se non c’è un vero e proprio conflitto.
«I Pemones sono gelosi del proprio territorio. Quando sono arrivati i Warao, ai Pemones non è piaciuto molto. Hanno cercato subito di far sapere loro che questa è la loro terra e che dovevano andarsene. Qualche conflitto c’è stato, con la comunità detta Warao Terminal (vedere reportage), un gruppo installato vicino alla stazione generale dei bus. Anche in Pacaraima sappiamo che alle autorità comunali non piaceva molto la presenza dei Warao e si sono cercati alleati per farli andare via. Alcuni Pemones hanno addirittura firmato una lettera per affermare che non volevano che i Warao si fermassero».
Nel frattempo, la comunità warao del terminal si riduce a un piccolo gruppo che viene tollerato. Alcuni di loro sono malati, i bimbi sottopeso, ma non si sa cosa vogliano fare: non vogliono tornare nel Delta Amacuro, però non hanno la forza di passare in Brasile come hanno fatto molti altri indigeni.
Peggy spiega: «I Warao sono un po’ nomadi. Quando le cose cominciarono a mettersi male nel proprio territorio del Delta, loro iniziarono a migrare nelle città venezuelane. Da lì, le autorità li rimandarono nel Delta Amacuro. La situazione peggiorò ulteriormente, e loro iniziarono a venire da questa parte. I primi arrivati ci spiegavano: “Mio figlio ha pianto tre giorni, perché non avevo nulla da dargli da mangiare. Abbiamo dovuto partire”».
Peggy ci porta la testimonianza del massimo esperto del popolo Warao, il cappuccino padre Julio Lavandero Pérez. Padre Julio – scomparso a Tucupita lo scorso 7 gennaio 2020 – affermava che i Warao vanno dove riescono a procurarsi quello che necessitano per alimentare se stessi e la famiglia. Lui spiegava che essi sono nati come indigeni raccoglitori. «Un tempo – prosegue Peggy – raccoglievano frutta, pesce, poi però tutto è diminuito e così sono migrati in città, sempre a raccogliere, ma l’elemosina per le strade. In Boa Vista e Manaus è la stessa dinamica: chiedono l’elemosina. È un popolo che forse non ha mai avuto una relazione profonda con la propria terra. Forse è perché non produce da essa, non la coltiva, ma si limita appunto a raccogliere».
I Warao finiranno per scomparire?
La missionaria si interroga su cosa ne sarà della cultura warao. «Personalmente, ho incontrato più migranti warao che dicono “quando la situazione migliorerà, torneremo nel Delta”, rispetto a quelli convinti di fermarsi qui o in Brasile. Il fatto è che la situazione non migliora. Molti indigeni raccontano che ci sono comunità che si stanno svuotando. Mi chiedete se scompariranno? Non lo so, a livello di cultura credo che si adatteranno ai luoghi e alle nuove situazioni. Può essere che, se troveranno migliori condizioni in Brasile, sceglieranno di fermarsi. Cercano alimentazione ma anche medicine. Negli ultimi tempi in Venezuela si sono sviluppate molte malattie dovute alle cattive condizioni di vita. Abbiamo notizie di tante persone – mi riferisco sia a indigeni che a non indigeni – che muoiono, perché si ammalano a causa dell’organismo debilitato o perché non sono curati. Anche la situazione emotiva non è buona. Le famiglie sono divise, molti hanno qualcuno all’estero. Questa però è una condizione che incide molto sul venezuelano, che ama stare in famiglia».
Anche Santa Elena de Uairén è cambiata. Molti venezuelani migrano qui per approfittare dei vantaggi offerti da una città di frontiera, come per esempio la reperibilità di merci introvabili nel resto del paese. Questo però ha gonfiato in modo enorme i quartieri periferici, facendo aumentare le problematiche sociali e la delinquenza comune. Alcuni poi tentano la fortuna cercando l’oro nelle miniere artigianali (e illegali) della zona. Un problema ulteriore in una situazione già molto complicata.
M.B. – P.M.
I Warao verso la frontiera / 2
«Il giorno in cui ci accorgemmo di non avere più nulla»
Il viaggio di Leany, indigena warao di Tucupita.
Boa Vista. Leany Torres Moraleda, giovane indigena warao di Tucupita, è sempre stata molto attiva e impegnata nel sociale. «A Tucupita – racconta – ero impegnata in molte attività. Collaboravo con la pastorale indigena della chiesa cattolica, ero direttrice del gruppo di ballo Eco Warao, un gruppo che fa danza autoctona ma anche contemporanea. Intanto, lavoravo come insegnante in una scuola della città. Nonostante tutto questo, guadagnavo molto poco. Il mio salario mensile bastava appena a comprare mezzo chilo di formaggio e un po’ di frutta. Il resto dei giorni cercavamo cibo, chiedendo in giro. Arrivai a essere molto denutrita, con mia figlia di otto anni che piangeva per la fame».
Leany non riesce a trattenere le lacrime. Cerca di mantenere un contegno, si sfrega gli occhi, chiede da bere.
«Decidemmo di partire un giorno in cui non avevamo più nulla. Pensammo al Brasile, perché avevamo sentito che c’era cibo e lavoro. Mia mamma non era d’accordo, ma ci disse: “Se volete andare, andate”». Era l’aprile del 2018. Molti erano i Warao che lasciavano la loro terra.
«Mentre pianificavo il viaggio, mi chiamò un’amica e mi chiese se andavamo in Brasile. Decidemmo di partire insieme». Leany viaggiava con la figlia Joisi e la nipote Liz. Si formò un gruppetto. «Iniziammo a vendere tutto quello che si poteva per avere un po’ di soldi e pagare il trasporto».
«Partimmo un martedì»
«Partimmo un martedì. Eravamo in undici e avevamo molta speranza. Il saluto alla famiglia e ai genitori fu straziante. Prendemmo il bus per Santa Elena. Pensavamo che il viaggio sarebbe stato più corto, invece c’erano molti posti di blocco. I militari fermavano il mezzo, ci facevano scendere, controllavano i bagagli. Il tragitto durò un giorno e una notte (per poco più di 700 km, ndr). Durante il viaggio, il bus si ruppe alle 3 del mattino. E poi un’altra volta, sempre nel mezzo del nulla. Però, alla fine, arrivammo a Santa Elena».
«Lì avevo un contatto. Riuscimmo a lavarci e mangiare un poco. Ma il tempo era davvero scarso. Stavamo in gruppo e ci aiutavamo a vicenda. Iniziammo a incamminarci a piedi verso la frontiera, pensando che il cammino fosse corto. Però verso l’una del pomeriggio eravamo molto stanchi (in effetti, si tratta di circa 18 km, ndr), quindi cercammo un passaggio. Eravamo rimasti in quattro. Non sapevamo quanto restava da camminare».
Leany e il suo gruppo trovarono un passaggio. «Arrivato un camion, la signora a lato del guidatore ci chiese se fossimo indigeni e dove andavamo. Disse che volevano aiutarci a raggiungere il Brasile. I due che ci portavano dissero: “Ai controlli (venezuelani, ndr) dite che siete indigeni e andate alla comunità indigena di San Antonio, dall’altra parte della linea. E così facemmo, ma la guardia ci disse: “Voi non siete di là”. E noi: “Siamo indigeni”. Ci spedirono in fondo alla fila. C’erano almeno 35 auto. Aspettammo quasi due ore. Passato il controllo venezuelano, i camionisti dissero che avremmo saltato quello brasiliano passando per la trocha (il soprannome di una scorciatoia, ndr). Ci mettemmo su una strada sterrata fatta dagli indigeni pemones.
Incontrammo un primo gruppo di Pemones che chiedevano soldi a tutti i mezzi in transito (sul loro territorio, ndr). Più avanti alcune donne indigene controllavano chi passava e anch’esse chiedevano soldi. Finalmente arrivammo dove c’erano i poliziotti brasiliani che ci fecero scendere e verificarono tutti i nostri bagagli. Alla fine ci dissero che potevamo passare. Eravamo in Brasile».
Da Janokoida a Ka Ubanoko
Entrati in Brasile i migranti dovevano fare una serie di documenti per essere in regola.
«Eravamo – racconta ancora Leany – a Pacaraima, la città di frontiera. In giro c’era cibo. Noi avevamo fame ma non avevamo soldi. Trascorremmo due giorni a fare i documenti alla polizia federale, nei pressi della linea (nelle tensostrutture; vedere reportage, ndr). Furono giorni difficili, anche perché mangiavamo una volta sola: una ciotola che ci davano a mezzogiorno».
A mezzanotte del secondo giorno il gruppo fu accettato al rifugio Janokoida (reportage, ndr) di Pacaraima, dove, tra gli altri, accolgono coloro che sono bloccati in città per fare i documenti.
«La prima notte ci diedero una cena abbondante a base di pollo, riso e altro. Quando la vedemmo, pensammo: “Finalmente mangiamo!”. Ma avevamo lo stomaco talmente piccolo che non riuscimmo a finire tutto».
«Il giorno successivo raccogliemmo un po’ di soldi tra tutti e riuscimmo a pagare il passaggio per andare a Boa Vista, dove arrivammo verso mezzogiorno».
Gli indigeni cercarono quindi il centro autogestito Ka Ubanoko, dove viveva già qualche parente e amico. È qui che si sono stabiliti. In attesa di tempi migliori.
M.B. – P.M.
Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.
Come il fisico, così lo spirito
Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |
Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.
A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».
All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.
Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.
La storia di Eee
Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».
«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.
Spiritualità e terapie
Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.
Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.
«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».
Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».
Storia e numeri
Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».
Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.
I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».
A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».
Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.
Pazienti dall’estero
I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».
«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».
A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».
Luca Salvatore Pistone
La Cina è grande, ma non ha spazio per noi
testo di Luca Lorusso |
Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.
Un dialogo con due perseguitati
«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».
L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.
Fedeli a Dio Onnipotente
Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.
Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.
Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).
Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».
Reclusione arbitraria
Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].
Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.
In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.
Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».
Una vita latitante
Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».
La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.
«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.
In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.
Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».
Paura di tornare
La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.
Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.
La storia di Vivian
Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».
Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».
Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.
Pregare nascosti
«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.
Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».
Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.
Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».
Richiesta di asilo
Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».
Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».
Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».
Rischio espulsione
«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.
La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».
«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».
La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.
Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.
La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.
Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.
La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.
La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.
La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.
Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.
Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.
Teologia
Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.
Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.
Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.
Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.
L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.
Cdo e comunisti
La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.
Le persecuzioni
A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».
Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».
Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».
Due libri per conoscere:
Antropologi e missionari. Tanti mondi, un’unica terra
testi di Stefania Raspo, Francesco Remotti, Paolo Moiola |
Due categorie – i missionari e gli antropologi – che parrebbero molto lontane. Invece, è vero il contrario. Si sono spesso incrociate. Spesso hanno compiuto gli stessi errori. Sempre hanno avuto dilemmi su come comportarsi davanti a
«uomini diversi da noi».
Quando l’antropologia muoveva i suoi primi passi come ambito di studio con un suo proprio statuto scientifico, nella seconda metà dell’800, i missionari già da tempo andavano nei paesi di missione dei vari continenti per incontrare e convertire popoli non cristiani. I «nuovi» antropologi iniziarono a frequentare quegli stessi luoghi per studiare culture e organizzazione sociale dei popoli visitati. In un caso e nell’altro, si trattava di incontrare «uomini diversi da noi», per riprendere il titolo (italiano) di un libro dell’antropologo britannico John Beattie. A quel tempo, e per qualche decennio, gli sbagli furono molti: imperialismo, dominazione coloniale, monopolio culturale dell’Occidente, individuazione di culture superiori e culture inferiori. C’era tutto questo.
«Gli antichi Greci – scrive Beattie – credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico»1.
Per quanto riguarda i portatori di altre fedi religiose come i missionari, lo studioso inglese concede: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, […] il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti […] sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano».
Riconoscere uno sconvolgimento delle istituzioni tradizionali vuole intendere che l’opera dei missionari e quella degli antropologi sono inconciliabili? «I missionari – ammette Beattie – sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari». Verso gli uni e gli altri è durissimo Alfonso Maria Di Nola, uno dei più famosi antropologi italiani (1926-1997), che vede «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si autodimensiona come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza – consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza – è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo»2.
Uscì certamente dal suo guscio – non senza scandalo – padre Silvano Sabatini (1922-2014), 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua – ha scritto Antonino Colajanni, antropologo de La Sapienza – è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale»3
Padre Sabatini – scrive ancora Colajanni – «passa rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Coglie immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura».
Padre Sabatini «identifica da subito un compito ineludibile per il missionario come per l’antropologo: quello di “dar voce” direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità, il suo punto di vista, non quello che i bianchi vogliono sentirsi dire».
Un rivoluzionario, padre Silvano Sabatini. Un antropologo de facto. Un missionario antitetico agli evangelici che danni enormi hanno fatto e stanno facendo in giro per il mondo. Un missionario di quelli che fanno tanto «arrabbiare» (eufemismo) i cattolici tradizionalisti, quelli che ogni giorno criticano papa Francesco4
«C’è un’incapacità che si è istituzionalizzata nella nostra società. Si tratta dell’incapacità di confronto. Ci riferiamo al confronto con le esperienze culturali distanti dalla nostra. […] A livello ideologico generale si sono istituzionalizzate forme di razzismo ed etnocentrismo»5.
Queste riflessioni del sociologo francese Gérard Leclerc risalgono al 1973. Si pensava descrivessero situazioni se non superate almeno attenuate. Invece, sono tornate e stanno tornando a farsi largo in modo prepotente, ovunque nel mondo. Il lavoro di missionari e antropologi dovrebbe contribuire a contenere questa tendenza.
Da tempo, papa Francesco sembra lavorare in questa direzione. Nel messaggio diffuso lo scorso 9 giugno per la giornata missionaria mondiale 2019, si legge: «Noi non facciamo proselitismo». A febbraio di quest’anno, nell’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia, ha scritto: «In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione» (n. 108). Infine, lo scorso marzo, in un messaggio rivolto ai cattolici cinesi, papa Francesco ha precisato che essi «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo». Tutte testimonianze che aiutano a inquadrare il ruolo dei missionari e a «superare l’incapacità del confronto».
Paolo Moiola
(1) (2) (5) John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973..
(3) Antonino Colajanni, introduzione a Il prete e l’antropologo di Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Ediesse, Roma 2011, pag. 11-23.
(4) Paolo Moiola, Tribalista ed ecologista, in «Amazzonie», dossier Missioni Consolata, gennaio-febbraio 2020.
La missionaria
Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso»
Il missionario propone una religione, l’antropologo difende la libertà di essere quello che si è. Il racconto di una persona in cui missione e antropologia riescono a convivere. Arricchendosi a vicenda.
Sono una missionaria, ma anche un’antropologa. La vocazione e lo studio dell’antropologia si sono intrecciate già da molto tempo, da quando ero una studentessa universitaria di filosofia che, ad un certo punto, ha sentito la chiamata di Dio. A quel tempo dovetti scegliere un’area di studio per il secondo biennio. Io scelsi l’orientamento socio-antropologico, perché lo sentivo più in sintonia con l’apertura del cuore verso il mondo intero.
All’università venivano presentati come contrapposti l’atteggiamento missionario, descritto come volontà di proporre-imporre una religione, e quello antropologico, descritto invece come volontà di difendere la libertà di essere quello che si è, per dirla in parole molto povere. La cosa mi colpiva, ma dentro di me non ho mai preso posizione. O forse sì…
Dopo la mia formazione e consacrazione religiosa, fui destinata alla missione in Bolivia, dove – con somma gioia – arrivai il primo febbraio del 2013. Da allora vivo con il popolo contadino di lingua quechua, nel dipartimento di Potosí: la gente ha conservato una forte identità indigena, e molte tradizioni continuano a essere vigenti, anche nelle nuove generazioni. Dopo alcuni anni, ecco che l’antropologia di nuovo bussa alla mia vita: mi viene proposto lo studio a distanza della disciplina, che comporta un’immersione continua nella realtà quechua e, allo stesso tempo, una riflessione teorica da incarnare nella vita quotidiana.
Questa esperienza mi porta ad affermare che non c’è contrapposizione tra missione e antropologia: le due situazioni s’illuminano a vicenda. Da estirpare, piuttosto, sono alcuni pregiudizi che possono accompagnare sia l’antropologa, sia la missionaria che convivono in me.
Iniziamo con la missione e la sua relazione con la colonia, che ha prodotto conseguenze fino al giorno d’oggi. L’espansione della Chiesa cattolica – e in generale del cristianesimo – a livello planetario si è servita di un mezzo non neutro, come è l’espansione coloniale dei paesi europei: dapprima in America, con gli imperi spagnoli e portoghesi, poi in Asia, Africa e Oceania. Alla base del colonialismo c’era una giustificazione molto semplice: noi siamo i più «bravi», siamo i civilizzati, che portano la civilizzazione ai primitivi. D’altra parte, la nostra missione, in questo caso come cristiani, era quella di fare uscire dall’errore gli infedeli perché abbracciassero la verità di Cristo per potersi salvare. Poi, è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa. Nel frattempo, il mito dei «portatori di civiltà» si è trasformato nel mito contemporaneo del «progresso». Sicuramente, chi ha frequentato le medie e superiori negli anni Ottanta e Novanta avrà studiato quelli che si chiamavano (e spesso ancora si chiamano) «i paesi in via di sviluppo».
Graficamente parlando, l’idea è che i vari popoli si trovino su una retta, sulla quale stiamo progredendo, chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro (= in via di sviluppo). In quell’epoca (seconda metà del Novecento) la Chiesa missionaria ha tradotto questa idea con opere, grandi e piccole, per lo sviluppo di aree povere, costruendo scuole, ospedali, e chi più ne ha, ne metta.
Attualmente, il «mito del progresso continuo» è ormai stato sfatato dalle crisi economiche mondiali e dal disastro ecologico. Cosa resta di tutto questo, allora? Un sottile, subdolo senso di superiorità: «Io, come missionaria, ne so di più di questa povera gente…», e si agisce di conseguenza.
Come la missione, anche l’antropologia non è esente da pregiudizi o forse da errori di prospettiva. L’antropologa che è in me apprezza e valorizza le espressioni culturali dei vari popoli, e in modo speciale del mio caro popolo andino. Una posizione molto positiva che però rischia di farmi scivolare nel «romanticismo», come ci ha detto una volta un nostro professore di antropologia. Le culture non sono perfette, sono in cammino, come lo sono gli esseri umani che le creano giorno dopo giorno. La cultura, per di più, non è qualcosa di statico, che vive asetticamente nell’«iperuranio», in un Paradiso incontaminato, come direbbe Platone. La cultura è estremamente dinamica, non perfetta, ma perfettibile, in continua negoziazione con altre culture, dando e ricevendo in prestito, appropriandosi di elementi altrui e trasformandosi per poter continuare ad essere ciò che è profondamente: un progetto di vita, di vita buona, per il gruppo che la crea e la ricrea continuamente. Molte volte gli antropologi si presentano come dei «conservazionisti», cioè delle persone che operano per la salvaguardia della cultura così come è, in una certa staticità.
Cosa significa tutto questo dentro di me?
Caratterialmente, a pelle, anch’io apprezzo tanto le culture come sommamente buone, e vorrei che si conservassero così, soprattutto quelle native, che tanto hanno mantenuto della sapienza ancestrale. Allo stesso tempo, come missionaria sono chiamata ad annunciare Cristo, forse con categorie occidentali, perché da lì vengo e da lì viene anche il cristianesimo. Non voglio cambiare la gente, ma il mio desiderio è che conoscano Gesù come un Dio d’amore, e non castigatore. Dove trovare la soluzione?
Credo fermamente che il dialogo sia la strada giusta. Un dialogo tessuto nel quotidiano, nelle relazioni tra vicini, e non un monologo da una cattedra. Il popolo andino ha una spiritualità millenaria molto ricca: imparo da loro e posso anche offrire la mia semplice esperienza. In un incontro di missionarie della Consolata che lavorano con popoli nativi abbiamo pensato di chiamarlo «dialogo interspirituale».
Non si tratta di qualcosa di cerebrale, è piuttosto quel discorrere sereno e semplice, nel quale far trasparire la bellezza di una fede nel Dio che è amore, e scoprire che Lui si è già rivelato vicino e presente nella vita della gente. L’antropologia, permettendomi di entrare, in punta di piedi, nella cultura quechua, mi aiuta a trovare le parole giuste, le metafore che toccano il cuore, per poter condividere la mia esperienza, e allo stesso tempo mi aiuta a comprendere il sentire e la spiritualità del mondo andino. La fede in quel Gesù per il quale ho scommesso tutta la vita e mi manda in missione, è il senso del mio stare qui e del mio camminare con la gente.
Stefania Raspo
L’Antropologo
A proposito di missionari e antropologi
Ci sono stati i missionari «coloniali» e i missionari «conciliari». C’è stato il tempo delle «razze» e il tempo delle «culture». Queste, a loro volta, potevano entrare in contrasto con concetti quali «sviluppo» e «progresso». Un antropologo racconta i cambiamenti intervenuti.
Da tempo nutro un autentico interesse nei confronti dei modi con cui i missionari rappresentano se stessi e la loro attività in un mondo sempre più coinvolgente e interconnesso.
Pochi anni fa ero stato interpellato perché esponessi alcune mie riflessioni sull’argomento per Missione Oggi, la rivista dei missionari saveriani. Il titolo di quel modesto contributo – «I missionari visti da un antropologo» – non deve trarre in inganno: esso non significa «i missionari in generale», ma certe figure di missionari che un antropologo, o aspirante tale, ha incontrato nella sua ricerca sul campo. Quel contributo conteneva alcune precisazioni, che riproduco come punto di partenza del mio intervento1.
Nonostante sia stato sempre ben consapevole del ruolo storico svolto dai missionari nei diversi continenti, non ho mai affrontato questo tema a livello generale e neppure nei contesti di mia diretta conoscenza (intendo dire soprattutto il Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo). L’obiettivo della mia ricerca tra i Banande (o Nande) del Nord Kivu riguardava in effetti non già la situazione «attuale», bensì ciò che a partire dalla situazione attuale si poteva recuperare della loro cultura prima delle trasformazioni indotte dalla colonizzazione e dall’attività missionaria.
Le mie considerazioni iniziali nascono quindi non da studi appositi, bensì soltanto da esperienze e frequentazioni con i missionari incontrati durante l’arco temporale delle mie ricerche tra i Banande, tra il 1976 e il 2013.
Nel contributo citato avevo messo in luce due tipi di missionari, in cui mi ero imbattuto fin dall’inizio della mia esperienza: i coloniali e i conciliari.
Il primo tipo: i missionari coloniali
Il primo tipo era rappresentato da missionari anziani – per lo più belgi e olandesi – i quali erano approdati in quella parte del Congo durante il periodo coloniale. Ciò che colpiva il mio sguardo esterno erano in particolar modo i dispositivi di separazione rispetto alla gente: le case dei missionari chiuse, accuratamente recintate, vigilate e custodite non solo dal personale di guardia, di giorno e di notte, ma anche da cani, addestrati a latrare minacciosamente nei confronti dei neri. L’atteggiamento di questi missionari nei confronti di catechisti e di preti indigeni era inoltre improntato a un rigoroso senso gerarchico: i missionari, detentori – per la loro stessa origine europea – della verità evangelica, erano senza alcun dubbio i superiori, mentre catechisti e preti indigeni (a prescindere dal loro curriculum) erano gli inferiori. Del resto, la cultura europea in cui i vecchi missionari coloniali si erano formati era fortemente segnata da un’impostazione razzistica o quanto meno razziologica: nell’Europa di allora, tra Ottocento e Novecento, le razze erano ritenute da tutti come dati di fatto, e l’antropologia di cui i missionari coloniali erano portatori era un sapere fortemente biologizzante, che poneva le razze a fondamento di ogni altra considerazione. Non v’è dunque da meravigliarsi che il razzismo fosse un tratto normale del loro comportamento, indiscusso e quasi naturale.
Ho potuto conoscere di persona alcuni di questi missionari coloniali.
Il secondo tipo: i missionari conciliari
Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture.
Almeno per quanto riguarda i missionari di questo secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» (maendeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette appunto allo sviluppo, e la cultura (la cultura locale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidentemente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendicazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire allora) anche in un’ottica internazionale. Per questo secondo tipo di missionari il Vangelo significava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «sviluppo», insegnare loro la strada del «progresso»?
Soldi invece di capre
Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale (omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo raccoglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente programmata alla famiglia della sposa: si trattava, dunque, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La ricostruzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che – su suggerimento e per impulso degli stessi missionari – esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’omutahyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero significato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere le dieci capre e consegnarle con un ritmo ritualizzato ed estenuante, visto che con la moneta il problema del compenso – se proprio si doveva mantenere questa idea – poteva essere risolto in un batter d’occhio?
Anche questo cambiamento (soldi invece di capre) rientrava nel progresso, nello sviluppo: la monetarizzazione era condizione e segno dell’accesso alla modernità.
Teologia e tecnologia
Pure i Banande avevano diritto di lasciare alle spalle il sottosviluppo, la stagnazione e accedere al mondo moderno. L’impegno dei missionari consisteva ovviamente nel tentativo di impedire che questo avvenisse sotto l’egida del più brutale capitalismo o all’insegna di movimenti di sinistra. Sotto questo profilo, l’acquisizione delle innovazioni tecnologiche appariva come un passo necessario e inevitabile, da compiere però nell’ambito della Chiesa e della parrocchia. In sintesi, mi sia consentito citare questo brano:
«Da parte di alcuni [missionari] vi era persino l’idea di dover competere con i movimenti di sinistra: la sfida era coinvolgere la popolazione in progetti, in cui coabitassero temi evangelici, come la solidarietà, l’acquisizione di un maggiore benessere, grazie a processi di sviluppo locale, la valorizzazione dell’associazionismo indigeno. Teologia e tecnologia andavano a braccetto: il Dio evangelico era dispensatore di turbine, con cui si alimentavano alcuni piccoli mulini e si portavano luce e corrente elettrica nei villaggi e nelle case» (Remotti 2017: 50).
Il Dio dei cristiani, gli dèi degli altri
Il Dio evangelico era pur sempre il Dio che nel Primo Testamento ebbe a dire di sé: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso». Quindi, «non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 5; Deuteronomio 5, 7). Nel capitolo IV di Contro l’identità ho riportato l’episodio della reprimenda a cui fu sottoposto un vecchio giudice, nonché decano dei catechisti della parrocchia, allorché i missionari vennero a sapere che costui venerava sì in chiesa il Dio dei cristiani, ma nel contempo continuava a fare sacrifici agli avalimu, gli spiriti della tradizione: «Anche noi – mi diceva K. – abbiamo i nostri avalimu» (Remotti 1996: 40).
Questo vecchio giudice non intravedeva alcun problema di coesistenza tra il Dio dei cristiani – giunto dalle loro parti negli anni Quaranta del Novecento (un Dio senza dubbio importante, a giudicare dal potere degli europei e dalle risorse di cui anche i missionari disponevano) – e le loro divinità. Perché mai si sarebbe dovuto scegliere? Per questo vecchio saggio non c’era alcun motivo di rifiutare il Dio arrivato con gli altri, da lontano e dotato di tutti i beni di cui gli europei facevano sfoggio. Del resto, non era forse sufficiente che altri credessero in una loro divinità per ammetterne l’esistenza? Perché mai, in base a quali motivi, ricorrendo a quali criteri si dovrebbe negare l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argomentazioni rendevano conto del fatto che i Banande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu» aveva dunque il significato di una richiesta di riconoscimento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) partecipassero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli avalimu, gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline.
Per i missionari – anche per i missionari del secondo tipo, quelli che si ponevano esplicitamente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II – la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giudice fu sottoposto a una dura lezione di monoteismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr) ha chiamato la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distruggere (Assmann 2011: 15, 25).
I missionari e il diffondersi del dubbio
L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Banande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kinshasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, rispetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un – per me inatteso – spirito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Concilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50).
Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Rimasi colpito da questa loro esitazione e perplessità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che – magari senza saperlo, senza preavviso – si generavano con l’inculturazione».
Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai documenti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano rivolti anche alla seconda nozione a cui ho accennato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un terzo tipo di missionari – se si accetta questa tipologia improvvisata, fondata soltanto sull’esperienza personale – era alquanto vivida e veniva confermata da quanto mi disse uno di quei missionari, il quale viveva presso un gruppo di pigmei. Riassumo in questo modo le sue parole: «Intendo la mia missione solo come una testimonianza; non impartisco ordini né suggerimenti; cerco di vivere come loro e secondo i dettami del Vangelo». Quel giovane missionario mi faceva anche capire che «”loro”, i pigmei, gli erano umanamente grati» di ciò. In questo modo, «era riuscito a farsi considerare un amico, un compagno. Nulla di più». Ma forse non c’è proprio bisogno «di più». Quel «nulla di più» in realtà «è tanto»: è niente di meno che condivisione di umanità, di una qualche forma di umanità.
La fede nel «progresso»: dall’esaltazione al ripensamento
Missionari e antropologi hanno molte cose in comune: tra queste il fatto di essere eredi di certezze, le quali si possono riassumere nella credenza di un progresso universale. Ovviamente, qui mi riferisco ai primordi dell’antropologia, allorché tra Ottocento e Novecento essa riteneva di poter collocare le società che andava studiando nei diversi continenti in una serie graduata di stadi di progresso, di forme di umanità sempre più perfezionate, culminanti nella civiltà contemporanea. E per quanto riguarda i missionari, che cos’è se non un’idea di progresso incessante quella contenuta nel concetto di plantatio ecclesiae? Come ci ricorda padre Mario Menin (2016: 13, 24-25), l’espressione, risalente agli Atti degli Apostoli e alle Epistole paoline, si ritrova nei padri della Chiesa (Agostino), nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino), per riapparire – infine – nella missiologia moderna, la quale «nella prima metà del secolo scorso ne fa una “bandiera di guerra” per definire il fine delle “missioni estere”». «Nel contesto coloniale», sottolinea ancora Menin (2016: 16), «missione» assume le sembianze ora di un’opera civilizzatrice di popoli «primitivi» e «selvaggi», ora di «conquista» di nuove terre a Cristo, attraverso la sconfitta e la sostituzione delle altre religioni e, più tardi, delle ideologie anticristiane, come il comunismo e l’ateismo.
Un secondo punto di convergenza tra antropologi e missionari può essere intravisto nel successivo abbandono, sia pure in tempi diversi, della fede nel progresso universale. Il rapporto tra gli antropologi e le società indigene non è più mediato dall’idea di progresso: è invece la «cultura» ciò che conferisce dignità di studio a società pur illetterate, prive di scrittura, dotate di una cultura materiale e di una tecnologia assai meno elaborate di quella occidentale. Perché la cultura (antropologicamente intesa) è sufficiente a conferire dignità di studio? Perché gli antropologi intravedono idee, valori, persino sistemi di idee e di significati, forme di pensiero profonde e raffinate nelle lingue e nelle pratiche sociali, nei rituali e nelle mitologie, nei saperi scientifici indigeni e nelle strutture politiche, nelle concezioni cosmologiche e filosofiche come nel pensiero giudiziario e così via. In altre parole, l’uso del concetto antropologico di cultura induce a scovare e a riconoscere un significato intrinseco ai sistemi sociali e culturali, e ciò del tutto a prescindere dalla posizione attribuita alle singole società in una ipotetica e ormai rinnegata scala evolutiva. Se la credenza nel progresso collocava inevitabilmente gli antropologi su un piano superiore di civiltà e gli indigeni su un piano inferiore, il concetto di cultura pone invece indigeni e antropologi sullo stesso piano, su un piano di parità e di dialogo. Addirittura costringe gli antropologi ad apprendere i segreti e le particolarità culturali delle società che essi studiano: molti antropologi hanno paragonato l’apprendimento, a cui sono professionalmente costretti sul campo, a quello del bambino che deve apprendere lingua e norme culturali del proprio gruppo.
Il Concilio Vaticano II e il nuovo missionario «ad gentes»
Nei documenti del Concilio Vaticano II possiamo cogliere assai bene il ruolo svolto dal concetto di cultura nell’impostare in maniera innovativa l’attività missionaria. Mario Menin sottolinea giustamente questo punto, allorché afferma: «Un’altra novità di Ad gentes», il decreto approvato quasi all’unanimità dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel dicembre 1965, «è l’importanza data alle culture» (2016: 38). A questo proposito egli cita «uno dei passaggi più belli» (contenuto nel par. 11), quello in cui si afferma che occorre conoscere gli uomini in mezzo ai quali si vive e intrecciare con essi «un dialogo sincero e paziente» in modo tale da conoscere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli». Nello stesso paragrafo 11 le ricchezze elargite da Dio sono identificate con i «germi del Verbo» che si trovano nascosti nelle diverse culture umane: essi contribuiscono a costituire in maniera determinante il «patrimonio culturale» dei vari popoli (par. 21), nonché «tutta la bellezza delle loro tradizioni» (par. 22).
Per questo motivo coloro che si recano nei luoghi di missione – siano essi sacerdoti, religiosi, suore o laici – debbono «stimare molto il patrimonio, le lingue ed i costumi» delle società locali e a tale scopo occorre che essi siano «singolarmente preparati e formati» attraverso gli studi sia di missiologia sia delle scienze che forniscono «una conoscenza generale dei popoli, delle culture e delle religioni», una conoscenza che non sia orientata esclusivamente verso il passato, bensì soprattutto verso il presente (par. 26). Non solo, ma il decreto raccomanda un ulteriore approfondimento di conoscenza: una volta giunti sul terreno della missione, occorre impegnarsi per conoscere a fondo «la storia, le strutture sociali e le consuetudini dei vari popoli». Come si può notare, l’acquisizione del concetto di cultura induce a completare la figura del missionario con una vera e propria preparazione antropologica ed etnologica: egli non sarà soltanto un etnologo, perché – come vedremo – il suo compito non è solo conoscitivo; ma per svolgere il suo compito, il missionario dovrà comunque conoscere a fondo la cultura della società presso cui intende recarsi. E così, in veste di studioso, egli dovrà indagare e venire a conoscenza delle «idee più profonde» che le società «in base alle loro tradizioni, hanno già intorno a Dio, al mondo, all’uomo» (par. 26). È veramente notevole l’apertura che il decreto Ad gentes dimostra per gli aspetti più preziosi e in un certo senso più intimi e segreti di una cultura. Senza alcun dubbio è il concetto di cultura – fatto valere a proposito di coloro che un tempo venivano definiti «primitivi» e «selvaggi» – ciò che induce a trovare in loro e a valorizzare idee di ordine teologico, cosmologico, antropologico. La cultura presa in considerazione dal decreto Ad gentes e attribuita alle popolazioni del mondo è in effetti ricca e complessa: non è più la cultura povera ed elementare di coloro che dovevano essere spinti, a forza, sulla strada del «progresso».
I dissidi tra evangelizzazione e culture
Come si è detto, il missionario di Ad gentes non è però soltanto colui che conosce da vicino e intimamente la cultura della società presso cui opera. Egli deve compiere all’interno della cultura un minuzioso lavoro di selezione. In un articolo di alcuni anni fa – a cui rimando per eventuali approfondimenti (Remotti 2011) – ho proposto alcuni brani, che qui riproduco in maniera sintetica:
1) nella Costituzione sulla sacra liturgia (Constitutio de sacra liturgia) «Sacrosanctum Concilium» (1963) si stabilisce di distinguere ciò che «nei costumi dei popoli… è indissolubilmente legato a superstizioni ed errori» e ciò che invece non lo è. Ciò che non è superstizione ed errore, la Chiesa «lo considera con benevolenza», «lo conserva inalterato» e «lo ammette nella liturgia stessa» (par. 37 – Denzinger 2003: 4037);
2) nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Constitutio dogmatica de Ecclesia) «Lumen Gentium» (1964) si ribadisce la distinzione tra ciò che nelle culture umane può essere conservato e ciò che va rifiutato. «Le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli», che sono conservate in quanto «buone», vengono – inoltre – purificate, consolidate, elevate (par. 13 – Denzinger 2003: 4133).
Dieci anni dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI emana l’esortazione apostolica (Adhortatio apostolica) «Evangelii nuntiandi» (1975) in cui si precisa ulteriormente il rapporto tra evangelizzazione e cultura. In questo testo decisivo appaiono evidenti l’importanza e l’imprescindibilità della cultura sotto il profilo antropologico, come quando si afferma che gli uomini risultano sempre «profondamente legati a una cultura (sua certa cultura imbuti sunt)», di cui evidentemente non possono fare a meno, a tal punto che la stessa «costruzione del Regno», secondo i dettami del Vangelo cristiano, «non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (par. 20 – Denzinger 2003: 4577).
E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam, una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture».
L’evangelizzazione non può fare a meno di calarsi nelle culture, di diventare essa stessa cultura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad alcuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere (evertere) mediante la forza del Vangelo (Evangelii potentia) i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 – Denzinger 2003: 4575).
La verità cristiana e il fine ultimo
È su questo sfondo tematico che occorre interpretare il concetto di inculturazione. Nell’enciclica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missionari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Remotti 2011: 56).
Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’Ad gentes, ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compatibile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21).
Nell’Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non soltanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto».
Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto facendo morire ciò che è vecchio possiamo pervenire al rinnovamento della vita.
E ancora: «La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7).
I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’Ad gentes. Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione» (par. 9), le culture – come il vecchio giudice catechista – devono recedere: devono lasciarsi trasformare in un campo da inseminare.
Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi
A me pare di trovarmi in un altro momento storico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cinquant’anni dalla fine del concilio (1965), la missione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae – così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’Ad gentes, dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) – è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizzazione sono concepite quali procedure di un’attività missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormentato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139).
Se le culture diventano protagoniste o coprotagoniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono ancora il Vangelo e la conseguente evangelizzazione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e culturali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità?
Vangelo e culture, una distanza che si riduce
Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; del convivere anziché del convertire; della necessità dell’apprendimento dalla cultura di coloro che coltivano altre credenze; della valorizzazione dei loro saperi e della loro peculiare e intrinseca spiritualità; della compenetrazione reciproca; dell’armonizzazione intima e paritaria tra Vangelo e saggezza indigena; delle opportunità di sintesi tra cristianesimo e religioni sconosciute e senza nome; dell’interculturalità come linguaggio polifonico; dell’ascolto del pensiero altrui provvedendo a una sospensione (epoché) dei propri criteri di giudizio e delle proprie convinzioni; del considerare e rendere gli indigeni protagonisti dell’attività missionaria; del ricercare un percorso condiviso così da non convivere solamente e limitarsi a stare insieme, bensì camminare insieme; del ricercare insieme, umilmente e fattivamente, forme più proponibili di umanità; del progettare insieme, in forma collaborativa, un futuro migliore per l’umanità – l’insistenza su questi temi fa capire che il discidium tra Vangelo e cultura, che per Paolo VI era «senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, par. 20 – Denzinger 2003: 4578), tende ad attenuarsi.
La distanza tra Vangelo e cultura appare assai meno accentuata: non sono più le culture a dover essere evangelizzate (§ 2); è anche il vangelo che potrebbe presentarsi come una cultura: una cultura a cui si vuole essere fedeli e tuttavia una cultura umana in mezzo ad altre culture umane.
Molti missionari nelle loro relazioni hanno posto in luce come la convivenza e l’interazione con le culture indigene abbiano plasmato la loro esistenza, abbiano mutato in senso positivo le loro convinzioni di partenza. Non ho mai sentito nessuno esprimere a tal proposito la preoccupazione avanzata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio, il quale metteva in guardia circa «i pericoli di alterazione che si sono a volte verificati», con la rinuncia alla «propria identità culturale», coincidente con il Vangelo e la verità cristiana (par. 53). Allo stesso modo, in nessuna relazione a cui ho assistito mi pare sia emersa la convinzione, presente invece nella stessa enciclica, secondo cui le culture umane, in quanto prodotte dall’uomo, sono inevitabilmente «segnate dal peccato» (par. 54): una definizione negativa e svalutativa delle culture umane, le quali hanno manifestamente bisogno di un programma di salvazione dal peccato per essere utili all’umanità. Al contrario, ho sentito dire che Dio è presente in quei luoghi, nelle loro culture, nelle loro forme di umanità.
Che fare (se rimane un po’ di tempo)?
Nelle relazioni ho avvertito un senso di urgenza. Il riferimento costante all’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla visione di un’ecologia integrale, al tema di un’interconnessione tra le culture umane e tra la cultura e la natura, esprimeva la necessità di dare luogo a una visione comune e condivisa, un sapere alla cui costruzione contribuiscano tanto il Vangelo quanto molte altre culture e religioni. Il mito del progresso, con cui un tempo missionari e antropologi pretendevano di indicare la via di salvezza per l’intera umanità, si è tramutato nello spettacolo immondo di una terra devastata, dove è in pericolo l’umanità stessa, oltre che molte altre specie naturali. Su questi temi molte società frequentate dai missionari e indagate dagli antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione di noi occidentali, noi «popolo della merce» dalla vista corta, accecati dalla nostra avidità, come lo sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha apostrofati (Kopenawa e Albert 2018).
Non è più tempo di divisioni. Se ancora rimane un po’ di tempo, è bene che lo impieghiamo a costruire davvero una «nuova umanità», recuperando saggezza e lungimiranza da ogni parte esse possano provenire: dai testi sacri delle religioni più importanti, tanto quanto dalle culture più lontane e dalle religioni senza nome e notorietà. A questa impresa reputo che si sentano chiamati sia gli antropologi, allorché concepiscono la loro professione come un salvataggio conoscitivo delle forme di umanità più diverse (anche le più problematiche e inquietanti), sia i missionari, i quali con la loro presenza nei luoghi più lontani e più difficili intendono dimostrare che la collaborazione tra esseri umani è possibile e perseguibile, nonostante le differenze culturali e nonostante i conflitti, le lacerazioni, le degradazioni. Forse proprio questa è l’idea di missione più condivisa, quale è emersa dal Convegno, ossia un comune e partecipato impegno antropo-poietico (Remotti 2013), proprio quando si assiste ai disastri umani e naturali di un «incivilimento» forsennato.
Fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, ha affermato che prima i missionari camminavano insieme ai civilizzatori, ora invece camminano insieme alle vittime della civiltà. Anche per questo, mi sembra di poter dire che antropologi e missionari si ricongiungono su una stessa sponda. Abbandonati i miti e le certezze di un tempo, si ritrovano infine nella stessa barca, insieme a coloro che, costretti a fuggire dalle loro terre, si ostinano disperatamente a spingere lo sguardo verso un futuro migliore.
Francesco Remotti
Fonti bibliografiche
Francesco Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993.
Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Roma-Bari 2013.
Mario Menin, Missione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2016.
Davi Kopenawa – Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Milano 2018.
John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973.
Gérard Leclerc, Antropologia e colonialismo. L’Occidente a confronto, Jaka Book, Milano 1973.
Alfonso Maria Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi Editore, Firenze 1974.
Silvano Sabatini – Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.
Hanno firmato questo dossier:
Francesco Remotti – Antropologo e professore universitario, tra i vari incarichi ricoperti è stato direttore del dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino. Si è occupato soprattutto di Africa equatoriale. Ha condotto ricerche in Congo Rd presso la popolazione Nande. È autore di numerosi libri tra cui i più recenti sono: Per un’antropologia inattuale (2014), Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).
Stefania Raspo – Missionaria della Consolata, quarantatreenne, piemontese di nascita, boliviana di adozione. Dal 2013 vive a Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, in Bolivia, in una regione contadina di lingua quechua. Laureata in filosofia e in teologia, sta studiando antropologia con un corso a distanza dell’Università cattolica boliviana.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
La grande decisione (At 15): diversi nella continuità
testo di Angelo Fracchia |
Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.
Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.
L’occasione
Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).
Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.
In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.
Chiarezza e novità
Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).
È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.
Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».
Discernimento nello Spirito
Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.
Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.
A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.
Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?
A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».
Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.
Una decisione difficile
In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.
Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.
È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).
Le quattro condizioni
Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.
Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).
L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.
Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.
Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).
Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.
La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)
Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.
In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.
Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.
Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.
Angelo Fracchia (14-continua)
Sudafrica: Città di «serie B»
testo e foto di Alessio Cassaro |
L’eredità dell’apartheid è la segregazione di classe. Nelle township vive confinato il 70% della popolazione di Cape Town. Uno dei problemi sono i bambini in stato di abbandono. A Marikana, Leonard cerca di recuperarne alcuni.
La bellezza di Cape Town e la sua popolosità sono un biglietto da visita importante per quella che, nel 2018, è stata eletta come la città da visitare più interessante al mondo. Numerose sono le attrazioni che portano milioni di visitatori ogni anno: dalle istituzioni accademiche al fermento artistico, passando per le Winelands («Terre dei vini») famose in tutto il mondo, alle immense bellezze naturalistiche, la città è diventata un punto nevralgico del continente.
La gigantesca metropoli di Western Cape, la più grande della sua provincia, non si sottrae però a contraddizioni vive e spesso esasperanti.
L’altro lato della facciata patinata, fatta di cocktail bar e di uno stile di vita glamour, è infatti rappresentato dalle township (baraccopoli) che circondano la città in cui milioni di persone (in tutto il Sudafrica complessivamente sono più di 47 milioni) vivono ancora in un stato di segregazione socio economica totale, a dispetto della fine dell’apartheid.
Classismo e razzismo
Fu proprio l’apartheid che deportò intere comunità di «non white» (non bianchi) ai margini della città (per favorire l’installazione dei bianchi) e della società stessa. Oggi si è passati dal razzismo al classismo mantenendo le pratiche discriminatorie di prima. Il costo proibitivo delle abitazioni e l’alto tasso di disoccupazione (50% nelle township, 27% nel Sudafrica) non sono però gli unici fattori che determinano questo confinamento. I legami/obblighi con la comunità sono talmente vincolanti che anche i più abbienti si preoccupano di non lasciare nessuno indietro, occupandosi gli uni degli altri per far fronte al totale disinteresse del governo e per evitare il diffondersi di droga e criminalità.
Le township (chiamate anche The zones) distano circa 30 minuti dalla parte moderna di Cape Town. Passando da un’area all’altra si percepisce un netto contrasto con la zona dei grattacieli e dei quartieri post coloniali. Si attraversano strade ad alta percorrenza dove il panorama assume gradualmente i contorni metallici di baracche fatiscenti immerse in una giungla di cavi, travi e materiali di fortuna che si estende a perdita d’occhio.
Le zones sono più di 30 e ospitano circa il 70% dei residenti di Cape Town (4,5 milioni in totale). Sono collegate con la città, non tramite mezzi pubblici, ma con shuttle privati, che si occupano di trasportare masse enormi di persone ogni giorno. Furgoncini da circa 20 posti sfrecciano pericolosamente per le strade. Hanno punti di fermata precisi, ma essendo gestiti molto alla buona, sono soliti fare deviazioni su richiesta o caricare passeggeri, quando non sono già pieni, direttamente in strada. Il prezzo medio va dai 15 ai 25 rand (da 0,80 a 1,50 cent di euro circa) e i soldi vengono solitamente raccolti da un passeggero volontario che si occupa di contarli e consegnarli al conducente mentre questi passa da una corsia all’altra per velocizzare il percorso.
Township di «serie A» e «serie B»
Negli anni, il sistema chiuso e autoreferenziale delle township ha fatto sì che, anche all’interno della rete di baraccopoli, si sviluppasse una sorta di gerarchia e prestigio che ha portato al riconoscimento governativo solo di alcuni insediamenti. Si tratta in particolare di zone che hanno ricevuto l’attenzione del turismo di massa e per le quali oggi lo stato garantisce servizi sociali di base. Se la situazione di tutte le township è drammatica, per le comunità che non hanno richiamato l’interesse dei turisti è ancora più critica. Il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni implica infatti un completo stato di abbandono e oblio. Sono luoghi in cui il futuro è difficile da immaginare e la popolazione vive una lotta estenuante per sopravvivere al presente.
Questi cittadini di serie B sono completamente ignorati dallo stato e dai connazionali nonostante i quartieri che loro abitano sorgano in zone cruciali per la vita del paese.
Marikana
La township «Marikana Informal Settlement» è un agglomerato urbano che si espande in prossimità dell’aeroporto di Città del Capo e che rappresenta una delle zone più povere di Philippi East.
Nella zona di Marikana abitano 60mila persone tra cui moltissimi bambini in «stato di abbandono». Non esistono scuole nel raggio di 7 km e l’unico supporto è dato da organizzazioni locali che cercano di fornire una scolarizzazione di base per sottrarre i bambini all’arruolamento da parte della criminalità organizzata.
Leonard, abitante di Marikana, che gestisce una delle poche organizzazioni, spiega: «Quello che provo a fare è gettare le basi dell’educazione e istruzione, in modo che un giorno possano trovare un lavoro dignitoso, comprare una casa alla madre e forse un giorno lasciare questa comunità. L’anno scorso siamo riusciti a preparare 23 bambini per fare iniziare loro la scuola. Queste vogliono certificati dei genitori, certificati di salute dei bambini. È molto importante anche sviluppare abilità manuali, con le quali puoi trovare un lavoro, o comunque arrangiarti. A volte è anche più utile, perché spesso le persone studiano, ma poi non trovano lavoro, allora tornano a studiare, ma poi rischiano di essere troppo qualificate».
La vita della popolazione si svolge all’interno di baracche chiamate shack: qualsiasi tipo di esercizio o abitazione ha questa tipologia di «architettura», costituita per lo più da lamiere, un materiale pregiato rispetto ad altri di fortuna, quali cartoni, plastica, tronchi. Questi edifici arrangiati sono particolarmente vulnerabili alle inondazioni e non rappresentano una soluzione abitativa stabile, mettendo continuamente a rischio la vita e la salute degli abitanti. È singolare, a tal proposito, riscontrare come l’utilizzo di questo materiale venga oggi assimilato alla tradizione e pertanto si possa ritrovare, ad esempio, come elemento decorativo dei bar alla moda cittadini.
Attraversando queste baraccopoli notiamo che le case di lamiera si arrampicano l’una sull’altra, mentre l’acciaio dà un riflesso particolare alle strade polverose. I sentieri di terra battuta e i percorsi non asfaltati si estendono per chilometri in un labirinto di vie sempre a rischio di allagamenti alle prime piogge. Quando ciò accade, qualcuno si preoccupa di scaricare massi enormi in mezzo la strada che a loro volta vengono picconati per riempire le pozze, nel tentativo di rimediare ai danni creati dalla pioggia.
Acqua e fognature
La mancanza di un sistema idrico adeguato obbliga le famiglie a utilizzare i rubinetti in comune, in quanto le zone sono poco servite. Donne e bambine, adempiendo a parte del proprio compito all’interno della comunità, si occupano di reperire l’acqua. Questo significa percorrere un tragitto giornaliero di diversi chilometri ed essere obbligate a lunghe code davanti alle poche fonti nonché al carico di grossi pesi.
Connessa alla problematica dell’approvvigionamento idrico è la questione del sistema fognario: le township, infatti, mancano quasi totalmente di servizi igienici e questa mancanza costringe i residenti a raccogliere le proprie evacuazioni in secchi depositati in strada che verranno raccolti e svuotati in un secondo momento nel sistema fognario più vicino il quale, solitamente, dista chilometri. Questi secchi vengono poi puliti e riconsegnati nel punto dove sono stati prelevati.
Inutile specificare come tale pratica esponga la popolazione al rischio di contaminazione e malattie.
Ma, oltre che dal rischio infettivo, la vita dei cittadini sudafricani è messa in pericolo anche da una moltitudine di incidenti che avvengono continuamente per la mancanza di sicurezza sia in strada che nelle case.
Camminando nella township si notano infatti impianti «fai da te» e sistemi illegali per sottrarre l’elettricità che lo stato non concede a un prezzo sostenibile e che pochi possono permettersi. L’alto rischio elettrico in un sistema abitativo fatto di materiali infiammabili e potenzialmente tossici, ha generato nel tempo diversi incendi – complice anche il vento – in cui in molti hanno perso la vita.
L’unica casa
Nonostante le condizioni di vita al limite però, le township rappresentano l’unico luogo da poter chiamare casa, in cui si è riconosciuti dal prossimo.
Leonard: «Ho iniziato questo in un piccolo shack. Poteva starci solo la cucina, ma poi con il supporto della gente siamo cresciuti, non prendiamo nessun aiuto dal governo, nessun sussidio, dobbiamo spendere tutti i soldi dei nostri portafogli, voi siete venuti a darci una mano e avete nutrito 120 bambini, vi siamo grati del vostro aiuto».
L’interesse mediatico per queste zone ha leggermente migliorato le condizioni di alcune aree, ma ancora una volta sono le organizzazioni umanitarie ad aver fatto maggiormente la differenza in un territorio dove i segni dell’apartheid sono ancora visibili, ma che è in cerca di un riscatto per le generazioni future e sogna il superamento delle differenze razziali radicate nell’antropologia urbanistica del paese.
Alessio Cassaro
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Alessio Cassaro, nato a Genova nel 1987, graphic designer con passione per la fotografia e i viaggi