Dovrei iniziare con «un gemito nella notte», pensando al bimbo di Ragusa che, a inizio novembre, è stato trovato in un sacchetto della spazzatura e salvato da un passante che, come il samaritano, non è andato oltre e si è fermato, trasformando quello che era il «rifiuto» di chissà quale dramma personale in un dono d’amore. Una storia a lieto fine che ha perfino trovato spazio nei giornali, nonostante in questo tempo ci si preoccupi (e con ragione) più dei visoni danesi da eliminare perché possibili portatori di coronavirus.
Ringrazio quel passante per il suo gesto di umanità e per l’emozione che ha suscitato in me ricordandomi che io stesso esisto grazie a un atto come il suo. Un secolo e mezzo fa, infatti, mio nonno paterno venne salvato più o meno così. Non si sa se da un mucchio di immondizie o da una ruota della vita. Lui visse, e io sono qui a scrivere, perché qualcuno udì il suo gemito e si prese cura di lui senza paura di sporcarsi le mani.
Non succede così purtroppo per i troppi bimbi rifiutati oggi nel mondo, tra cui quei 36 milioni che sono già stati abortiti nei primi dieci mesi di quest’anno.
Stiamo vivendo giorni molto difficili: i dati sul Covid-19 ci stanno travolgendo come un uragano. Il rischio è quello di diventare vittime non solo della pandemia, ma anche della paura e di quelli che la cavalcano, producendo menzogna e diffidenza, complottismo, indifferenza ed egoismo, e rabbia che porta alla violenza e alla chiusura del cuore. Perfino l’assurda storia di un presidente che non accetta la sconfitta elettorale diventa motivo di amare risate. È per questo che è urgente un rigurgito di umanità.
Papa Francesco ci ha invitati a «camminare nella speranza», a uscire dal guscio della paura, ad ascoltare il gemito che viene dai «nostri rifiuti», e diventare operatori di un «riciclaggio» d’amore. Rompere il buio di questi giorni con una miriade di piccole luci, deboli ma ostinate, che non si lasciano spegnere dal vento del «non tocca a me». È bello e incoraggiante rendersi conto di quante ce ne siano già oggi.
Per noi missionari, che abbiamo occhi, orecchie e cuore nelle periferie del mondo, ma che siamo anche radicati nella nostra terra di origine, è motivo di consolazione vedere tanti amici italiani che, pur nelle difficoltà, non hanno smesso di guardare lontano e, con il loro aiuto e sacrificio, continuano il sostegno a distanza di studenti poveri, raccolgono fondi per chi, già povero, è ancor più penalizzato dalla pandemia, permettono ai nostri confratelli sul campo di continuare a testimoniare il Vangelo non a parole ma con azioni concrete di amore, vicinanza e solidarietà.
Purtroppo a volte sembra di vedere che il male, la violenza, la menzogna, l’arroganza e la rapacità di chi guarda solo ai propri interessi, siano più forti di tutto il resto, travolgendo popoli e paesi in ogni parte del mondo. Ci sarebbe di che scoraggiarsi. Per questo i nostri missionari, dovunque si trovino ad annunciare la buona notizia di Gesù, hanno bisogno della vostra vicinanza, oltre che della fede, della speranza e dell’amore, senza i quali non avrebbero ragioni per restare dove sono. Essi condividono le sofferenze delle persone che incontrano, e il dolore condiviso unisce più di ogni altra cosa, certo più di una festa. Ma hanno bisogno di essere accompagnati anche da lontano, dai tanti fratelli e sorelle, come gran parte dei lettori di questa rivista, che sono loro vicini, non perché senza problemi, ma perché credono che l’amore è più forte di tutto, e che nel buio, anche una candelina fa la differenza.
Una notte di tanti anni fa, nella stalla di un villaggio di periferia ai margini del mondo che contava, una giovane donna diede alla luce un bimbo: una candelina davvero piccola piccola, che però ha «incendiato il mondo».
Dai missionari della Consolata in Italia e altrove, dal team della rivista, gli auguri più luminosi e riconoscenti per questo Natale che ci chiama a «camminare nella speranza».
Con il grazie di una bimba dall’Africa…