Bolivia: La morte e il funerale, eventi comunitari
testo e foto di Stefania Raspo |
Il coronavirus ha impatti diversi nelle comunità indigene non soltanto perché mancano strutture sanitarie e medicine, ma anche perché è diversa la loro cultura.
Vilacaya (Potosí). Il 19 marzo 2020, in conferenza stampa, l’allora presidente dello stato plurinazionale di Bolivia, Jeanine Áñez, decretava la quarantena in tutto il territorio nazionale. Il lockdown è durato molti mesi, anche se con intensità differente: si è iniziato con una quarentena rigida fino al mese di agosto, quindi con graduali aperture dal mese di settembre, anche se la situazione di contagio non è uguale in tutte le regioni del paese, e in alcune aree più problematiche si sono prolungate le restrizioni anche nel mese di ottobre. In queste pagine non parleremo però del numero dei contagi e dei morti, e ciò per due ragioni. La prima è banale: essi sono facilmente reperibili sui siti istituzionali. La seconda è sostanziale: i numeri sono una mera opinione in un paese che, per mesi, ha effettuato una quantità irrisoria di tamponi e, fino a oggi, non può contare su un numero adeguato di laboratori per analizzarli. Vogliamo, piuttosto, considerare due aspetti della pandemia: il fatto che che in Bolivia si abbatta su una popolazione a maggioranza indigena, e le conseguenze che il coronavirus ha avuto sulla politica.
Le culture indigene e il coronavirus
Con il suo 60 per cento, la Bolivia è uno dei paesi con la maggior presenza indigena di tutto il continente americano. Come vive la pandemia un paese con profonde radici tradizionali (ancestrali)?
A questa domanda si può rispondere sotto diversi punti di vista. A livello sociale, i gruppi indigeni (soprattutto dell’Amazzonia) sono tra i più vulnerabili, persino a rischio di estinzione: il gruppo Esse Ejja, che ormai conta pochi individui, se venisse attaccato dal virus scomparirebbe, considerando che molti suoi membri soffrono di tubercolosi. Per di più, le comunità indigene dell’Oriente boliviano (le cosiddette Terre Basse, che comprendono una buona porzione della foresta amazzonica del paese) non godono dell’assistenza sanitaria che, seppur precaria, possono avere invece gli abitanti dei centri urbani.
Per capire come la cultura ancestrale agisce e reagisce di fronte al contagio del coronavirus, è meglio spostarsi nelle aree rurali, dove i saperi tradizionali sono ancora molto vivi. Prima di tutto, ci sono i medici tradizionali che si sono mossi e si sono incontrati per cercare insieme soluzioni alla malattia. Allo stesso tempo, si è attivata la profonda conoscenza della natura che un po’ tutti possiedono: le erbe aiutano a superare la malattia o a prevenirla. Ogni cultura, poi, ha sviluppato nei secoli terapie che comprendono anche un ambito spirituale e il contatto con le forze cosmiche.
Comunque, i contagi nell’area rurale sono stati pochi, come le morti. Forse per la bassa densità di popolazione. Forse anche per la vita più sana della gente benché – questo sia ben chiaro – viva in una condizione di povertà cronica. O forse – davvero – i saperi medici indigeni hanno le armi per combattere il coronavirus.
Detto questo, è stato però inevitabile uno scontro culturale tra gli usi e costumi delle comunità e le regole contro la pandemia imposte dalle autorità. In particolare sui modi con cui affrontare l’evento della morte che, nella maggior parte delle culture, è un forte momento collettivo, accompagnato da molti rituali con elementi cristiani e ancestrali.
Nel caso delle comunità contadine quechua, il funerale è un tempo comunitario, per questo è molto difficile che si accetti una cerimonia a porte chiuse. È successo nell’altipiano de La Paz: sono arrivati i poliziotti per disperdere il ritrovo di tante persone nel cimitero, persone che sono state prese a botte.
Qualcuno potrebbe giudicare come ignoranti e testardi gli andini, ma si tratta invece di qualcosa di profondo, perché la presenza dei defunti continua viva nella comunità. Il funerale non è un saluto formale a chi non c’è già più. Da qui scaturisce un forte shock culturale tra le comunità indigene. Tuttavia, poiché il controllo dell’ordine sociale è quasi inesistente (ci sono pochi poliziotti per vaste estensioni di territorio), il lockdown governativo è sempre aggirato con facilità.
Il villaggio di Vilacaya, dove noi operiamo da più di sette anni, si trova in un’area povera e arida. Qui ci sono centri sanitari pubblici nelle comunità più grandi, però il medico e l’infermiera visitano anche le borgate minori. Il sistema sanitario è gratuito da due anni, ma gli ambulatori sono poco forniti di medicine. In ogni caso, durante questa emergenza, hanno fatto una buona campagna di prevenzione, insegnando i comportamenti adeguati per non contagiarsi, e distribuendo mascherine alle famiglie. Tra gli operatori sanitari ci sono stati molti contagi e anche alcune morti.
Improvvisazione politica
Un altro aspetto della pandemia da sottolineare è la sua influenza sulla politica nazionale. Fin dall’inizio, alcuni analisti hanno previsto che molti governi in America sarebbero stati messi alla prova dall’emergenza sanitaria, e si sarebbero rafforzati oppure indeboliti, a seconda della gestione e politica che avrebbero attuato.
Così è stato in Bolivia (non entriamo nel merito di altri paesi, anche se si potrebbe dire lo stesso): dopo i tumulti sociali che l’anno scorso hanno ribaltato il risultato elettorale, che vedeva di nuovo Evo Morales come vincitore, il paese è stato guidato da un governo di transizione, con a capo la presidente Jeanine Áñez, in vista delle nuove elezioni.
La pandemia ha fatto rimandare la data del voto almeno tre volte, l’ultima con grande tumulto popolare che ha paralizzato il paese per circa due settimane in agosto. Infatti, i parlamentari del Mas (il partito di Evo Morales, con la maggioranza di eletti) avevano cocciutamente imposto la data per inizio settembre, con grande rischio di contagi (già si calcolava che questo mese sarebbe stato il più critico). Il tribunale elettorale ha rimandato ad ottobre le elezioni, suscitando l’ira del Mas e del sindacato nazionale. Il governo non ha reagito, perché nel frattempo Jeanine Áñez si era candidata per la presidenza, e non voleva sbilanciarsi, cosa che in campagna politica significa essere strumentalizzati o a favore o a sfavore.
Eppure, al primo sondaggio sui candidati, Jeanine è risultata una delle ultime, con solo il 3% delle preferenze. Perché? La sua candidatura non è piaciuta da subito: era salita al potere dicendo di essere solamente la persona che avrebbe portato il paese a elezioni democratiche e che poi avrebbe lasciato il posto, promessa che si è rimangiata con la propria candidatura. Ma non si tratta solo di questo: il governo di transizione non ha saputo coordinare un’azione in sinergia con i governatori dei dipartimenti e delle provincie, molte volte ha agito senza consultare le altre istituzioni, e senza preavviso. È il caso della chiusura dell’anno scolastico in agosto: all’annuncio del ministro dell’istruzione, nessuno lo sapeva e gli addetti ai lavori dell’educazione sono insorti contro una decisione unilaterale e non concertata. Alla reazione generale, il governo ha fatto marcia indietro parlando di una mera chiusura amministrativa, e che le lezioni a distanza sarebbero continuate. Insomma, unafiguraccia, ma non è stato l’unico esempio di politica con il sapore dell’improvvisazione. Il risultato è che il 17 settembre Jeanine Áñez ha ritirato la propria candidatura.
I vincitori delle elezioni del 18 ottobre dovranno subito fare i conti con un paese più povero, con meno lavoro, con un sistema sanitario fragile e inadeguato all’emergenza sanitaria. Ossia le conseguenze della pandemia peseranno anche sul prossimo governo e forse anche sulla stessa stabilità politica del paese.
Stefania Raspo
(Missione MC di Vilacaya)