Verso la fine (At 20,1-22,21)
testo di Angelo Fracchia |
Luca, negli Atti degli Apostoli, ci ha portati a scoprire che cosa è accaduto nei primi tempi della Chiesa, ma ci ha indicato anche che cosa, dentro quel cammino, era da preferire, e soprattutto ci ha indicato che la guida di quei passi era lo Spirito Santo.
Luca ha poi progressivamente messo al centro della scena Saulo di Tarso, un fariseo che, dopo aver perseguitato i cristiani, era diventato uno di loro e, più tardi, aveva iniziato a farsi chiamare Paolo, insistendo per aprire la porta della Chiesa ai non ebrei.
Ci sono state persecuzioni e intoppi, ma dentro a un cammino globale di crescita.
Da lettori potremmo esserci anche dimenticati che il progetto di testimoniare Gesù fino ai confini della terra (At 1,8) non è ancora realizzato. Ma ci aspetteremmo di essere condotti verso un lieto fine. E invece Luca ha ancora sorprese in serbo.
Non ce lo aveva detto
Il percorso della Chiesa dei primi decenni non è stato trionfale. Certo, un lettore distratto potrebbe vedervi soltanto successi, ma Luca ha lasciato intuire che, nonostante le persecuzioni risolte con liberazioni inattese (At 5,17-40), ci sono anche state vittime (Stefano: At 7,57-60; Giacomo: At 12,2) e profughi (At 8,1). Lo stesso lettore potrebbe vantarsi della condivisione di tutti i beni (At 4,32-35), ma non tutti la rispettavano (At 5,1-10), e alcuni cristiani venivano discriminati persino da altri credenti (At 6,1). In quanto a Paolo, egli è il grande campione dell’annuncio ai non ebrei, ma oltre alle molte persecuzioni da parte di giudei, ha dovuto anche affrontare tensioni importanti all’interno della comunità (At 15,1-2). Su queste ultime, peraltro, Luca glissa.
Nel punto in cui racconta del ritorno di Paolo dal terzo viaggio, però, Luca fa intuire che sta per accadere qualcosa di pesante. Senza le lettere di Paolo, forse non capiremmo fino in fondo che cosa è davvero successo, ma grazie soprattutto alla lettera ai Galati (in particolare Gal 1,6-8; 5,1-14), riusciamo a ricostruire un quadro meno ideale di quello che Luca ci mostra.
La questione dei «Gentili»
In ogni grande società esistono inevitabilmente più anime, che a volte faticano a dialogare e ad andare al nucleo che le ha fondate. È capitato persino nella prima comunità cristiana. Il mondo in cui il cristianesimo è nato, separava nettamente gli ebrei dai «gentili», ossia da tutti gli altri, «le genti». Gli ebrei si distinguevano per il rispetto della legge di Mosè, sintetizzata simbolicamente nella circoncisione.
Una delle prime scelte di fondo che i cristiani si sono trovati a dover prendere, ha proprio riguardato la sorte dei non ebrei: potevano essere inseriti nella comunità cristiana? E a che condizioni? Solo dopo essersi fatti circoncidere?
È il problema affrontato da Luca in Atti 15, quando racconta la decisione presa a Gerusalemme di ammettere nella comunità anche i non circoncisi; salvo che, a quanto pare, quella soluzione non aveva accontentato tutti. E alcuni avevano iniziato a tallonare Paolo nei suoi viaggi apostolici, quasi a correggerne le scelte, spiegando che Gesù era un ebreo, e che per vivere come Gesù bisognava diventare ebrei, rispettando tutta la legge di Mosè.
Paolo aveva intuito che se la decisione divina, accolta dall’uomo, non fosse stata sufficiente in mancanza di un gesto esteriore (come la circoncisione), allora nulla sarebbe mai bastato. Per dirlo con le parole di Paolo, la circoncisione è inutile (Gal 5,2), altrimenti Cristo è morto invano e la sua esistenza è inefficace (Gal 2,21). È chiaro che non si è trattato di piccole dispute di regolamento interno.
Ma è chiaro anche che gli avversari di Paolo non hanno lasciato perdere, e hanno iniziato a denigrarlo, affermando che volesse abbattere la legge di Mosè (At 21,20).
La colletta
Forse per questo Paolo (e qui siamo al punto dove ci siamo lasciati lo scorso numero) torna a Gerusalemme portando una imponente elemosina per i poveri (cristiani) di quella città. Luca, in realtà, ci ha parlato della colletta già prima (At 11,29-30), ma sembra un modo per confonderci. Una delegazione imponente come quella che parte per Gerusalemme (At 20,4: sette persone elencate, più Paolo e probabilmente Luca, che si include nel viaggio dal versetto 5), era costosa, e aveva senso se si doveva portare qualcosa di pesante, come una grande somma di monete, dal momento che gli assegni e i bonifici bancari non esistevano. Più persone garantivano una migliore protezione della somma e solo una somma importante poteva giustificare (e mantenere) una delegazione così numerosa.
Una prova
Luca, peraltro, spiega che a Gerusalemme chiedono a Paolo di finanziare il rito di scioglimento di un voto per quattro persone (At 21,21-24), per (di)mostrarsi un buon ebreo. Perché Luca ci racconta la vicenda in questi termini?
Un buon narratore ha come obiettivo di far capire ai lettori gli avvenimenti e di muovere alle emozioni che ritiene giuste, non necessariamente di riferire solo i particolari storici precisi. Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù: se però ci aiutano a capire meglio quello che Gesù diceva, non importa che, materialmente, siano «invenzione» degli evangelisti. Anche un romanzo storico scritto bene può non essere accurato in tutti i particolari, ma farci intuire un contesto e delle vicende storiche persino meglio di opere più precise.
Luca vuole presentarci il quadro ideale di una Chiesa senza tensioni, se non magari occasionali (perché non può certo negarle tutte). Ma se dicesse esplicitamente che Paolo aveva coordinato una colletta così grande, quindi gestita durante lunghi mesi, farebbe intuire che le tensioni andavano avanti da tanto tempo, il che è storicamente molto probabile, rischiando di spaventare o scoraggiare i credenti.
Meglio allora parlare della colletta collocandola in un altro momento della storia e poi inserire Paolo nel rito tradizionale del voto, anche se, in realtà, vi era stato coinvolto per caso solo all’ultimo momento.
Luca, però, sa bene che la situazione è pericolosa e ce lo fa capire chiaramente quando riferisce gli ammonimenti di discepoli e profeti che predicano per Paolo un tempo difficile (At 20,23; 21,4.10-13), e scrivendo uno dei brani più toccanti degli Atti degli Apostoli.
Agli anziani di Efeso (At 20,17-38)
A Efeso, Paolo aveva lavorato per almeno due anni (At 19,10), ma forse di più. Passando per Mileto, diretto a Gerusalemme, l’apostolo convoca gli «anziani» di Efeso, città distante circa 80 km. Sono due particolari curiosi, difficili da inventare. Paolo – nelle sue lettere – non chiama mai «anziani» i responsabili delle sue comunità (è un modo molto ebraico di esprimersi); viene da pensare che, in fondo, anche le sue chiese avessero un consiglio di persone più sagge ed esperte che fungeva da organo di dirigenza, come sarebbe accaduto in seguito e altrove, e come quindi poteva già essere vero anche al tempo di Paolo. Lui convoca solo costoro e li fa venire a Mileto. Evidentemente la nave di Paolo non faceva scalo a Efeso, o forse (o in più) lui temeva che fermarsi in quella città, dove aveva così tante conoscenze, lo avrebbe fatto tardare troppo. Meglio incontrarsi in un luogo neutro.
A questi anziani Paolo rivolge un vero e proprio discorso d’addio, incentrato soprattutto su tre temi.
Intanto, rivendica di aver predicato Gesù in modo trasparente e generoso. È il punto di partenza essenziale e cruciale. Non si mette a fare l’elenco delle proprie imprese o di ciò che ha patito (come fa invece in 2 Cor 11,22-29), ma si concentra sull’essenziale.
Poi, ribadisce di averlo fatto gratuitamente, senza farsi mantenere, senza chiedere nulla. Anche l’evangelizzazione, allora, diventa più chiaramente un dono generoso fatto ad altri, un «soccorrere i deboli» (At 20,33-35).
In mezzo, avvisa che sarebbero arrivate persone (chiamate «lupi rapaci») che avrebbero provato a inquinare l’annuncio del vangelo. Non sarebbero stati, evidentemente, degli estranei, ma dei cristiani. Luca si mostra ancora una volta consapevole che nella chiesa non tutto è bello e buono. Ma le parole di Paolo sono edificanti: di fronte ai «lupi rapaci», c’è semplicemente da stare in guardia, continuando a vivere generosamente per gli altri, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Paolo, qui, non invoca maledizioni o punizioni sugli avversari (come fa invece in Gal 5,12), ma affida semplicemente i credenti allo Spirito.
Per chi vuole capire, Luca, a partire dall’esperienza di Paolo, ci ricorda che fallimenti e persecuzioni ci saranno, nell’esperienza dei cristiani, e che potrebbero partire addirittura da dentro. Ma l’unico modo cristiano di reagire è quello di Gesù, ossia confidando nell’opera di Dio e cancellando in sé qualunque desiderio di vendetta. Dio non abbandonerà i suoi, nonostante il quadro non sia senza nubi fosche.
Incompreso
Paolo, quindi, arriva a Gerusalemme. Luca non può nascondere che l’accoglienza degli altri credenti è piuttosto fredda (At 21,20-25). La comunità consiglia a Paolo di mostrarsi osservante della legge per non irritare i fratelli povenienti dal giudaismo, e lo invitano a pagare le spese per lo scioglimento del voto di nazireato di quattro uomini. Il voto consisteva nel non tagliarsi i capelli per un certo tempo per offrirli poi al tempio insieme a un sacrificio. C’erano persone di buona volontà (e portafogli) che pagavano ad altri le spese per questo rito, schierandosi in qualche modo a fianco di chi lo aveva celebrato. Si tratta di una consuetudine antica, molto «ebraica», più tipica degli ambienti tradizionalisti. Paolo si adegua. Evidentemente il suo scopo non è quello di cancellare la tradizione ebraica, ma di contestarla solo quando mettesse in questione la centralità di Gesù. Se si salva l’essenziale, che Gesù è l’unico mediatore per la nostra comunione con Dio, il resto si può accettare.
Una parola per oggi
Ancora una volta, quasi senza averne l’aria, Luca ci offre criteri per vivere la dimensione ecclesiale della fede ancora oggi. Siamo anche noi, infatti, a non sapere ancora bene dove mettere i confini di ciò che «non si può accettare», e continuiamo ad accusarci reciprocamente di essere tradizionalisti o modernisti. Negli Atti degli apostoli non troviamo un’indicazione precisa di ciò che dobbiamo fare o evitare, ma un criterio di fondo: la salvezza, ossia la comunione con Dio, passa da Gesù. Questo è indiscutibile, e siccome ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare. Ma su tutto il resto, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Questa attenzione e questo sforzo, però, non sono una garanzia di successo. O meglio, non garantiscono il successo se lo misuriamo con i nostri criteri consueti, di vittorie, conquiste e numeri consolanti.
Da Gerusalemme a Roma
Di fatto Paolo, che ha accettato di scendere a patti con le frange più conservatrici della chiesa ebraico-cristiana, viene accusato ingiustamente di aver profanato il tempio. Come Gesù, anche Paolo viene incolpato di blasfemia sulla base di tradizioni secondarie e discutibili, proprio perché intende invece rendere a Dio la sua piena gloria.
Anche questa accusa e arresto diventano però l’occasione per ampliare la platea degli ascoltatori: stupendo l’uno e gli altri, Paolo parla in greco al centurione (At 21,37-39) e in «ebraico» (in realtà doveva essere aramaico, ma i greci del tempo di Luca, di solito, non coglievano la differenza tra le due lingue) al popolo radunato nel tempio (At 21,40). Di nuovo, Paolo si fa «tutto a tutti», condividendo una volta ancora la propria vicenda (At 22,3-21).
Il punto d’arrivo, su cui, come per Gesù, si invoca la sua morte (22,22) è l’annuncio alle nazioni lontane. Luca ci porterà fin là, anche lungo un percorso più accidentato, faticoso e tormentato di quanto non sia stato fino a questo momento.
Angelo Fracchia
(18 – continua)