Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |
La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.
Contestualizzare la guerra
Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.
La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.
Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.
Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).
Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.
Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.
Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.
Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.
Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.
Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.
C’è una chiara identificazione dei responsabili di questiconflitti?
Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.
Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.
A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.
Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.
Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.
C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?
Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.
Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.
Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.
Diritti umani più minacciati
La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Conseguenze immediate di questi eventi
Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.
Gli agenti pastorali
Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!
La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.
Necessità di misure nazionali e internazionali
A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.
Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.
Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte
Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.
Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.
Solidarietà internazionale
Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.
Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale
In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.
Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco. Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.
Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…
Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.
Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!
Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.
Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.
Oramai ci siamo abituati: l’osservazione astronomica e gli schermi sempre accesi che ci circondano, rendono i segreti dell’universo a portata di sguardo. Nella quotidianità. Basta un computer o un’app sul cellulare per avere splendide immagini della Terra vista dalla Luna, emozionanti vedute della profondità delle galassie e degli intriganti misteri dei buchi neri, e per provare a «contare» le stelle.
Vediamo davvero lontano.
Vedere è un verbo complesso, con molte sfumature di significato: parte dal guardare o immaginare qualcosa, diventa assistere e osservare per notare e constatare, passa poi al giudicare e verificare, controllare e provare, per arrivare infine a valutare e decidere, e molto altro ancora. Tutte queste cose le esprimiamo con «vedere». E poi ci sono il «vedo nero», il «vedo rosso», le «rosee vedute» e le «larghe vedute», c’è il «vedersi» come incontro, il «ci vediamo» come promessa, ma anche il «te la faccio vedere io» come minaccia, il «farsi vedere» come esibizione e rivalsa.
In più, la tecnologia del «vedere», oggi, senza rendercene conto, può procurarci un senso di onnipresenza e di onnipotenza. Con la pressione di un dito su uno schermo possiamo ritrovarci (o avere l’illusione di trovarci) sulla cima dell’Everest, nelle profondità dell’oceano o ai confini dell’universo. Posso vedere di tutto e di tutti, e pensare di essere informato, di conoscere, di sapere.
Vedo tanto, vedo tutto, vedo lontano.
Ma rischio di non vedere la donna che rovista nei cassonetti sotto casa, l’anziano «del 6° piano» che vive nell’abbandono, i miei figli che vedono anche loro tutto in uno schermo, ma nella solitudine. Vedo le coperte e i giacigli dei senzatetto negli angoli della mia città, scocciato dalla sozzura e dal disordine, senza vedere però la persona che lì vive il suo disagio, la sua solitudine e la sua emarginazione. Vedo il migrante dalla pelle scura davanti al supermercato, sento risuonare in me le parole sentite, e magari dette, mille volte su «quelli come lui»: ci rubano il lavoro, vendono la droga, portano delinquenza, approfittano delle nostre case popolari, dei nostri sussidi, ma non riesco a vedere il giovane ferito nel corpo e nel cuore da guerre e fame che l’hanno fatto migrare nonostante il terrore dei trafficanti di uomini.
Vedo il prezzo dei pomodori, quello delle pesche, dei peperoni, del cellulare, della camicia, della benzina. Ma non vedo chi ha raccolto quei pomodori per una paga da fame, schiavizzato dai caporali, sgherri di proprietari terrieri ricattati dalla grande distribuzione che non paga il giusto. Invisibili sono i bambini chi escono dai buchi della terra con il coltan così essenziale per la tecnologia che mi circonda. Lontanissime le donne curve a cucire i miei indumenti. Irreali le cannonate di chi lotta per il controllo del nostro gas e petrolio.
Vedo con orrore e preoccupazione l’Amazzonia in fiamme, ma faccio fatica a vedere il legame tra quegli incendi e l’espansione dei pascoli e la cacciata dei popoli indigeni dalle loro terre per l’insaziabile domanda di carne dei nostri mercati.
Vedo i soliti politici gridare contro i migranti, li vedo, e magari li applaudo (e li voto) anche… ma rischio di non vedere le vite spezzate delle persone trafficate, schiavizzate, abusate sessualmente, costrette in condizioni disumane nei campi di detenzione della Libia, nell’isola di Lesbo, nei campi profughi del Libano; rischio di non vedere gli occhi dei bambini ingabbiati negli Usa, di quelli cacciati come animali ai confini della Bulgaria, dei siriani usati dalla Turchia per ricattare l’Europa, di quelli annegati nel Mediterraneo per l’ignavia di quella stessa Europa, e dei morti sotto i troppi muri e barriere.
Vedo e non vedo e, soprattutto, spesso non voglio vedere.
Perché se davvero vedessi bene, dovrei cambiare il mio modo di agire, di spendere, di informarmi. Perché Qualcuno ci ha insegnato che c’è anche un vedere che diventa conoscere, e un conoscere che è lo stesso che amare. Se vedessi bene, con il cuore, mettendo al centro la persona, correrei il rischio di ritrovarmi meno onnipotente, ma più presente e, magari, più umano.
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Antropologi e missionari
Cara Missioni Consolata, il dossier: «Antropologi e missionari» pubblicato sul numero della rivista di Maggio 2020, ha suscitato in me qualche perplessità nel leggere per esempio a pagina 35 le parole di papa Francesco riportate da Moiola: «Noi non facciamo proselitismo» e ancora nel messaggio rivolto ai cattolici cinesi: «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo».
Forse che l’annuncio del Vangelo non ha lo scopo di fare nuovi seguaci di Cristo?
Inoltre, a pagina 37, Raspo scrive: «Poi è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa».
Se ciò significa che basta essere battezzati e poi si può vivere il Vangelo in solitaria può anche essere. Per me sarebbe molto difficile, io ho bisogno dei Sacramenti che posso ottenere solo all’interno della Chiesa. Ma se si vuol dire che tutte le religioni si equivalgono allora ho forti dubbi, mal si concilierebbe tale affermazione con le parole di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Giovanni 14, 1-6).
Mi pare che papa Benedetto XVI a Ratisbona ribadisse fermamente il primato del Cristianesimo e perciò fu attaccato duramente al di fuori e anche dentro la Chiesa.
Se poi l’infinita misericordia di Dio permetterà a tutti di salvarsi, dipenderà solo ed esclusivamente da Lui, ma non penso si possa affermare.
Forse ho capito male io frasi estrapolate dal contesto, ma la lettura del dossier mi ha istillato dei dubbi. Ringrazio per la cortese attenzione e invio cordiali saluti
Mariagiulia 05/06/2020¢
Gentile Mariagiulia,
le sue osservazioni meriterebbero una risposta più esaustiva di quella che possa darle qui. Mi permetto di chiarire alcuni punti.
Proselitismo
Nel suo significato letterale di cercare e formare seguaci di una religione (o anche di ideologie, movimenti, ecc), il termine può sembrare bello e neutrale. Ma nel contesto del linguaggio della Chiesa di oggi, è inteso come un’azione intensa per avere convertiti a tutti i costi, un’azione mossa dall’ossessione del numero, del prestigio, del successo «dell’impresa», dimenticando che il cammino di ognuno è personale, e che la vera conversione la opera solo lo Spirito, come e quando vuole Lui. Il missionario, il testimone deve solo agire come il suo Maestro, anche «insistendo a tempo e fuor di tempo», ma nel rispetto assoluto dei tempi di Dio e della libertà di ognuno. L’Amore non può essere un obbligo, ma solo un dono.
Salvezza fuori della Chiesa
Gesù è venuto perché tutti siano salvati, giungano alla conoscenza della Verità e partecipino alla Vita divina nel «banchetto» finale del Regno di Dio. La Chiesa, comunità dei credenti e discepoli di Gesù, è al servizio di questo progetto universale di salvezza, per aiutare tutti gli uomini a conoscere e amare Dio come rivelato da Gesù. Il punto non è dire che «tutte le religioni si equivalgono», ma che in ogni religione c’è già una rivelazione fondamentale di Dio e, per chi non conosce Gesù, quella è la strada per vivere il progetto di Dio sull’uomo. Il progetto di salvezza di Dio non è cominciato solo con la venuta storica di Gesù nel mondo, ma nel momento stesso in cui ha creato l’uomo. Per questo ogni uomo ha in sè la capacità di ascoltare Dio e vivere una vita bella che dia gloria a Lui, essendo fatto a «sua immagine e somiglianza».
L’annuncio del Vangelo si inserisce nella vita e nella cultura di ognuno come liberazione da tutto quello che impedisce di conoscere davvero il volto di Dio e la rivelazione dell’Amore infinito del Padre in Gesù incarnato, crocifisso e risorto. È anche la nascita di un popolo nuovo che cammina verso il Regno con Gesù «Via, verità e Vita».
Primato del Cristianesimo
La lectio magistralis di papa Benedetto XVI a Ratisbona, ha suscitato reazioni tumultuose nell’Islam e in altri ambienti. Ma dire che ha ribadito il «primato del Cristianesimo» sulle altre religioni, non mi sembra del tutto corretto. Credo piuttosto che la lezione del papa abbia sottolineato le caratteristiche uniche e peculiari del Cristianesimo, senza con questo voler diminuire l’importanza delle altre religioni, che sono comunque vie di incontro con Dio per almeno sette persone su dieci in tutto il mondo. E non mi pare coerente con quello che conosciamo e crediamo di Gesù Cristo, pensare che Dio salvi una sola parte dell’umanità.
Come missionari siamo pienamente coscienti di essere mandati da Gesù come itineranti e pellegrini in questo mondo per testimoniare con azioni di amore gratuito e con l’annuncio della sua Parola che Lui è «il Signore» di tutto e di tutti, e che il suo Vangelo è una forza che trasforma la nostra vita già qui ora, in questo mondo. Ma senza l’ansia dei numeri e del successo, perché è lo Spirito di Dio che converte i cuori, ed è come il vento «che soffia quando e dove vuole».
Preghiera e Preghiere
Cari Missionari,
la vicenda di Re Salomone, che parte alla grande (e con una gran bella preghiera che fa gioire Dio) ma finisce male, mi ha sempre colpito e mi torna sempre in mente quando vien fuori un dibattito su come ci si deve relazionare a Dio e sul giusto equilibrio tra formulazioni canoniche e libertà d’espressione.
Sarebbe bello sentire su questo il nuovo biblista, al quale faccio tanti complimenti perché si sta dimostrando un degnissimo erede del grande don Paolo Farinella, ma la Chiesa ci ha sempre insegnato che è Dio a salvare, non le nostre odi, i nostri inni, la nostra poesia, i nostri virtuosismi letterari e canori.
Meglio una preghiera grezza, rivolta a Dio da un uomo modesto ma fedele, che un testo da Premio Nobel scritto da un artista della penna ma per il quale fedeltà (quella fedeltà che neppure Salomone volle mantenere) non fa rima con creatività e originalità. Cordialmente
Su questo, Gesù ci ha dato un consiglio prezioso: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,6-7).
Di covid e di «Pane»
Cari Missionari,
la preghiera non deve essere la lista della spesa, d’accordo, ma le liste della spesa non sono tutte uguali.
L’emergenza da coronavirus ha cambiato anche molte abitudini alimentari, per cui quello della spesa è diventato un momento molto più impegnativo, ci sono stati dei mesi in cui dovevamo stare attenti a quante volte uscivamo e a che cosa compravamo anche per giustificare il nostro allontanamento da casa – anche di poche centinaia di metri – agli uomini e alle donne della polizia, dei carabinieri, dell’esercito.
Abbiamo dovuto dare la precedenza alle cose veramente essenziali, quelle che ci consentivano un minimo di sicurezza e tranquillità, lasciando perdere il superfluo. Peccato che qualcuno che sta molto in alto e che, forse per questo, si è sentito più alto, non abbia capito che il Pane più importante di tutti e la Carne più importante di tutte andavano garantiti (sia pure con tutte le misure precauzionali imposte ai supermercati e a tutti gli esercizi dove si vendono gli altri pani e le altre carni).
Con stima
Agatino Zumpanesi 16/06/2020
Caro signor Agatino,
anzitutto comincerei a ringraziare che nel nostro paese abbiamo avuto tanti «qualcuno in alto» che si sono preoccupati più delle persone che del potere economico, come invece abbiamo visto fare, e continuiamo a vedere, in altri paesi. E questo è stato bello e importante per tutti noi, pur con i mille difetti e lacune che ben conosciamo.
La decisione di sospendere le celebrazioni delle sante messe, in particolare quelle domenicali, durante la Quaresima e il tempo pasquale, è stata sofferta e difficile da accettare. Lo scrivo a ragion veduta, perché ho vissuto questo sulla mia pelle, sia come viceparroco che come persona che si è fatta ben 63 giorni di quarantena, dopo un attacco iniziale della Covid-19 curata con tre pastiglie di paracetamolo.
In questo lungo periodo credo di aver capito sulla mia pelle una verità che avrei già dovuto sapere molto bene: che Gesù è «il Pane vivo» (cfr. Gv 6,35-59) non solo nell’Eucarestia, ma anche nella sua Parola. L’ascolto profondo della Parola di Gesù è un autentico incontro con Lui. È vero nutrimento per la vita, per essere partecipi già qui e ora della vita dell’Eterno. «Ascoltare la sua Parola» non è soltanto udire, ma è lasciare che il «seme entri nella terra, metta radici e porti frutto» (cfr. Mc 4,1-20; Gv 12,24), è accogliere Gesù stesso nella propria vita. «Prendi e mangia», dice la voce dal cielo al profeta Ezechiele (cfr. Ez 3,1-2), non una pagnotta di pane, ma il rotolo del libro (o il libricino dalle mani dell’angelo, cfr. Ap 10,8-11).
Se durante questo tempo di Covid ci siamo solo lamentati per la mancanza della Messa e non abbiamo colto l’opportunità di «mangiare» il piccolo libro «dolce nella bocca» e «amaro nelle viscere», forse abbiamo sprecato un prezioso tempo di grazia.
Lista della spesa
Cari Missionari,
se Gesù nel Vangelo ci insegna a chiedere al Padre nostro il pane quotidiano, è bene che, almeno per quel che riguarda il pane e le altre cose fondamentali per una buona alimentazione che è un dovere oltre che un diritto, la preghiera somigli alla lista della spesa.
Il problema è che, oltre al pane, nella nostra lista figurano spesso cose che, oltre a pregiudicare i nostri equilibri psico-fisici, hanno un effetto estremamente negativo sulla vita e sulla salute di tante altre persone, soprattutto nei paesi della fascia tropicale.
Ben venga la richiesta di evitare il più possibile «Bacco, Tabacco e Venere», ma anche un certo tipo di caffè, un certo tipo di olio (a cominciare da quello di palma…), di cioccolato, di banane, di ananas, di soia, perché anch’essi riducono l’uomo e le foreste in cenere e gli oceani, i laghi e i fiumi e persino i ghiacciai in immense ed esiziali discariche.
Distinti saluti
Carlo Erminio Pace 16/06/2020
Tutto condivisibile. Aggiungerei che dalla lista della spesa occorrerebbe escludere anche i pomodori raccolti a Mondragone, la frutta del saluzzese, le uve del foggiano, le pesche dell’Emilia, la carne del Brasile, i vestiti dal Bangladesh, i prodotti elettronici dalla Cina, i fiori dal Kenya, il petrolio da … la lista potrebbe essere senza fine, inclusiva di mascherine a guanti ritenuti così essenziali di questi tempi. Troppe cose che usiamo o consumiamo ogni giorno, e ci sembrano essenziali, perfino i social, hanno un retroterra di ingiustizia, sfruttamento, speculazione e guadagni ottenuti a tutti i costi, senza scrupoli e nel disprezzo dell’ambiente oltre che delle persone.
Grazie don Mario
Buongiorno,
leggiamo sempre con molto interesse la rubrica «4 chiacchiere con i perdenti», e volevamo ringraziare particolarmente il suo autore Mario Bandera per il racconto su padre Damiano e i lebbrosi di Molokai che ci ha molto stupito e commosso.
Cordiali saluti,
Famiglia Belga 13/06/2020
Le migrazioni fra noi
«Le migrazioni fra noi» è il titolo di un dossier pubblicato dal Centro nuovo modello di sviluppo. Ventinue infografiche che hanno per tema le migrazioni, e come obiettivo la lotta contro i luoghi comuni.
La democrazia è uno dei beni più preziosi, ma per funzionare correttamente ha bisogno di cittadini bene informati. Se invece siamo male o per niente informati, diventiamo facili prede di forze che hanno interesse a strumentalizzarci trasformando la democrazia in una farsa. Peggio ancora, in una forma di tirannia veicolata dall’ignoranza dei più.
Il tema delle migrazioni è uno di quelli che conosciamo di meno, ma che più suscita reazioni emotive. Il che spiega perché alcune forze politiche, ansiose di lasciare tutto com’è pur facendo finta di voler cambiare tutto, cercano di ottenere consenso presso l’elettorato additando gli immigrati come i responsabili di tutti i nostri mali. Del resto, da quando mondo è mondo, il potere ha sempre cercato di distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità, incolpando i più deboli dei mali commessi da lui.
Il dossier è stato prodotto proprio per fornire al pubblico del materiale informativo, al tempo stesso rigoroso e di facile lettura grazie all’uso di grafici e immagini.
Il dossier si chiude con un invito. Quello a operare una sanatoria, per regolarizzare i circa 600mila clandestini esistenti sul nostro territorio. Sarebbe di grande beneficio per tutti, perché la clandestinità, oltre a condannare i clandestini alla perdita di dignità, alimenta il lavoro in nero, il caporalato, l’economia criminale. E questo sì, ci fa davvero del male.
Premio «Giornalismo a testa alta» a Simona Carnino (e a MC)
Dedicato alla memoria del reporter e inviato di guerra Mimmo Càndito, scomparso il 3 marzo 2018, il 1° Premio «Giornalismo a testa alta» nella categoria «Opere», va a «Viaggiare bagnati. L’epopea dei migranti centroamericani al tempo di Trump» di Simona Carnino, per rigore, completezza, carica emotiva. Pubblicata su «Missioni Consolata» (dossier in MC 07/2019, ndr), l’indagine affronta le sfaccettature del fenomeno migratorio nel Centro America con rigore di analisi, completezza nella raccolta dei dati e diversificazione delle fonti.
L’autrice racconta storie senza condiscendere alla retorica o alla spettacolarizzazione.
In coerenza con il giornalismo di Càndito, Carnino sperimenta in prima persona ciò di cui scrive: la narrazione è il risultato di un lavoro antecedente di studio e approfondimento del tema.
Nel novembre 2019 manifestanti pacifici invadono le piazze per protestare contro un governo poco democratico. Sono donne e uomini di tutte le età ed estrazioni sociali. Ma la repressione è violenta e le vittime sono a tre cifre. Oggi c’è una calma apparente, ma i giovani non desistono.
Poco distante da Nassiriya, a soli 20 km dalla città, in mezzo al deserto iracheno, sorge la Ziggurat di Ur. Monumento risalente al III millennio a.C. nel 2016 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco. È infatti un luogo rappresentativo dell’antica civiltà sumera. Svetta, la Ziggurat, si innalza su tre piani e, dall’alto, domina il deserto.
il guardiano
Siamo fra Baghdad e Bassora, a inizio novembre 2019, e da pochi giorni, nelle città e nei villaggi vicini, infuria la rivolta.
I giovani iracheni hanno fame di democrazia.
Camminando per Nassiriya, abbiamo sentito cantare «Bella ciao» da ragazze e ragazzi, donne e bambini che riconoscono, in quel canto, un segno di ribellione. Camminavano a testa alta e sventolano bandiere, non c’è violenza. Sarà con la violenza però che li fermeranno.
Qui, nel deserto di Ur, non c’è spazio per nulla che non sia silenzio. È un mondo altro, lontano da tutto, dove sembra che il tempo si sia fermato.
Ed è qui che incontriamo Daeef, l’anziano guardiano della Ziggurat.
Daeef ci fa da guida e ci spiega, in un perfetto inglese, la simbologia di questo straordinario monumento. Ci racconta degli archeologi arrivati da ogni parte del mondo per scavare e rivelare qualcosa di tanto prezioso. Daeef ha visto tutto, ha assistito a ogni momento. Ecco perché oggi parla perfettamente tre lingue e una la sta imparando: inglese, giapponese, italiano e un po’ di tedesco, oltre alla sua lingua madre ovviamente, l’arabo.
Quest’uomo, vivendoci proprio di fronte, vede la Ziggurat come prima cosa quando apre gli occhi al mattino e come ultima prima di dormire. Lui, che da sempre vive nel deserto occupandosi dei suoi animali (qualche gallina, due o tre pecore), oggi ha un nuovo compito che adempie con orgoglio e amore.
Indossa una camicia e una giacca, pantaloni eleganti e cammina con la grazia propria di chi sa come porre un piede davanti all’altro anche quando la sabbia pesa nelle scarpe e fa affondare.
È facile, ascoltando la sua voce, trovarsi immersi in un passato maestoso, qui fra i fiumi Tigri e Eufrate, in quella che fu la Mezzaluna fertile.
I giorni della rivolta
Eppure, nelle città infuria la rivolta.
Quando torniamo verso Nassiriya ci imbattiamo in diversi posti di blocco: carri armati, militari, mitra. La tensione è palpabile. Ci fermano almeno cinque volte, ci controllano i documenti, telefonano a qualcuno per verificare chi siamo, dove stiamo andando e perché siamo in Iraq.
Quando finalmente passiamo il ponte di Al Zaitoon, collegamento fra il deserto e la città, vediamo sventolare uno striscione. È dedicato ad Ahmed, 21 anni e una colpa: quella di essersi inginocchiato ad aiutare uno dei ragazzi feriti durante una manifestazione pacifica nelle strade della città, e per qusto è morto.
Restano qualche fiore, una candela e una bandiera irachena a raccontare di questa giovane vita che si è spenta troppo presto, stroncata da una pallottola nella schiena.
Chiediamo al nostro accompagnatore, un giornalista iracheno, di portarci nella piazza che è il cuore pulsante della rivolta: piazza Habboubi, dove si muovono ogni giorno migliaia di manifestanti.
L’atmosfera che troviamo qui è festosa: canti, balli, bandiere indossate come mantelli o sventolate gioiosamente, bambini in spalla ai genitori, limonata preparata e offerta da anziane signore accompagnate dai loro figli o dai nipoti.
L’età media dei manifestanti si aggira fra i 15 e i 25 anni, sono i giovani ad aver dato il via al movimento di protesta.
Ci sono adolescenti, velo e cappellino da rapper, che scrivono motti sui muri, disegnano murales per la pace, per la democrazia: «We have a dream», leggiamo.
Questa è l’altra faccia di Nassiriya, quella che i media in Italia, e forse anche nel resto del mondo, non stanno mostrando.
Una doppia realtà
Sappiamo che le persone lontane da questa piazza sono preoccupate: vedono scene di guerriglia urbana, fuoco, copertoni bruciati, feriti, ragazzi che lanciano pietre per rispondere alle pallottole. Ed è vero, ogni sera qui tutto degenera per via delle forze antisommossa e delle milizie infiltrate fra di loro, che sedano con la violenza ogni tentativo di manifestazione. Di notte infatti gli scontri si fanno più duri. Con il favore del buio è più facile picchiare, sparare, attaccare senza essere visti.
La democrazia, da queste parti, non esiste.
Perché la rivolta
La domanda è: per cosa combattono i giovani?
In uno stato che si definisce democratico, la polizia entra nei bar e confisca telefoni con contenuti ritenuti sospetti o pericolosi. Come messaggi o fotografie che dimostrino la partecipazione del malcapitato a una delle manifestazioni pacifiche che giornalmente invadono le strade della città.
Dal primo di ottobre 2019 la connessione internet è stata dapprima bloccata e poi, dopo le prime proteste, restituita, ma con una limitazione di poche ore al giorno e con una velocità bassissima così da rendere praticamente impossibile diffondere in tempo reale ciò che sta succedendo. I ragazzi usano una connessione privata, tramite un’applicazione che permette loro di farlo senza essere geolocalizzati. La scarichiamo anche noi sui nostri cellulari, non si sa mai.
Dai primi di ottobre, anche le scuole sono chiuse, come gli uffici pubblici.
Ogni giorno, «educated people» (persone formate), come vengono definiti medici, infermieri, insegnati, studenti universitari, scendono in strada per manifestare contro questo regime che non si vuole definire dittatoriale, almeno non ad alta voce, ma che a tutti gli effetti rende impossibile l’accesso a servizi fondamentali e lede i diritti umani.
Attacco all’ospedale
Novembre, le forze antisommossa attaccano persino l’ospedale dove ci troviamo per documentare l’operato di una Ong. Vengono utilizzati lacrimogeni contro civili: il bilancio dell’attacco sarà di nove feriti e tre intossicati.
Prima di attaccare, inoltre, hanno tolto la luce: in ospedale si continua a operare muniti di torce, perché non ci sono generatori. I medici restano in sala operatoria fino a quando è possibile. Eppure il peggio deve ancora arrivare.
Il 28 novembre infatti, alle 3 e 5 del mattino, si verifica l’azione più violenta dall’inizio delle proteste.
Diecimila uomini armati intervengono su manifestanti pacifici con la piena autorizzazione, da parte del primo ministro Adil Abdul Mahdi (poi dimissionario), di sparare sulla folla. Bisogna fermare le proteste, l’agitazione deve finire a prescindere dal costo in vite umane.
All’esercito iracheno, rimasto neutrale sino a quel momento, verrà ordinato di lasciare la città.
Il bilancio dell’attacco è di oltre 100 morti, 350 feriti gravi e molti dispersi. La maggioranza delle vittime ha tra i 15 e i 25 anni, ma c’è anche un ragazzo di 13 anni fra i caduti.
La protesta continua
I giovani iracheni comunque, continuano a manifestare contro la corruzione di un governo da cui non si sentono rappresentati – dicono infatti che subisca forti ingerenze dall’Iran – e in fondo vogliono semplicemente avere voce. Sanno che scendere in piazza significa rischiare la vita, ma non importa. Uno di loro, un giovane medico di 29 anni, ci dice che «è meglio morire che vivere così».
In questi giorni di novembre, quando l’Iraq è di nuovo investito dalla violenza, i civili rivolgono un appello al governo italiano con cui, negli anni, è stato mantenuto un rapporto di amicizia e aiuto reciproco, oltre che al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Viene chiesto aiuto per evitare azioni ancora più violente. Dopo la caduta di Saddam, c’è stata una parvenza di democratizzazione, ma poi i conflitti tra sunniti e sciiti hanno fatto ripiombare il paese in uno stato di violenza e povertà.
Ad oggi le rivolte sono state sedate, ma i ragazzi, soprattutto gli universitari, continuano la loro battaglia di speranza. Sono ancora lì, a dipingere muri, a chiedere democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani: «Questa volta riusciremo a cambiare le cose», continuano a ripetere, e la speranza è ciò che fa brillare i loro occhi.
La speranza in mezzo alla devastazione
C’è un’altra storia, parallela a quella di una città in rivolta.
È la storia dei medici iracheni e italiani che lavorano fianco a fianco nell’ospedale di Nassiriya. I medici operano bambini con ferite di guerra o con problematiche legate a labbro leporino e palatoschisi. In Iraq infatti, molte malformazioni sono dovute alla denutrizione a cui si somma il problema di un paese in costante stato di tensione, quando non di guerra, dove purtroppo non è difficile imbattersi in ordigni inesplosi o in scontri a fuoco. Durante i giorni della rivolta di novembre seguiamo in particolare la storia di Adam (nome di fantasia).
Il bambino, affetto da palatoschisi, era in attesa dell’intervento risolutivo da circa un anno.
Il giorno delle dimissioni dall’ospedale i genitori lo portano a casa mentre fuori dall’ospedale infuria la rivolta: in lontananza il fumo dei lacrimogeni si mescola a quello dei copertoni bruciati, alle urla, agli spari.
Eppure questa famiglia sorride: li seguiamo fino a casa, un’abitazione modesta in mattoni vivi, poco fuori Nassiriya. Ad abitare in queste due piccole stanze sono in otto, con qualche gallina da tenere in cortile, per le uova e per la carne.
Prima di andarcene, Adam corre fuori e ci regala una penna: «Così ti ricordi di me».
Khalid, infermiere coraggioso
«Acqua, acqua», furono queste le ultime parole pronunciate dal carabiniere della base militare di Nassiriya poco prima di spirare. Era il 12 novembre del 2003, quando un camion cisterna esplosivo scoppiò davanti all’ingresso della base Msu italiana dei Carabinieri. Molti dei soldati furono portati proprio all’ospedale dove lavora Khalid.
Ai tempi, Khalid l’italiano non lo sapeva, oggi invece, complici le diverse missioni italiane e forse proprio quell’episodio, conosce qualche parola in più.
«Pensavo fosse il suo nome:
Acqua. Così gli ho messo una flebo e sono corso a chiamare un medico, non gli ho dato da bere. Quando sono tornato era morto. Da quel giorno non riesco più a bere un bicchiere d’acqua senza sentirmi in colpa». Khalid è un omone di circa quarant’anni, grande e grosso, cresciuto in una famiglia modesta. Oggi è infermiere nel reparto pediatria dell’ospedale.
Ogni giorno infila un pupazzetto di peluche nella tasca della divisa. Serve a tranquillizzare i bambini, dice. Khalid ha sempre il sorriso, il modo di fare quieto e riservato che caratterizza le persone di questo popolo.
Quello che stupisce, dell’Iraq, degli iracheni, è la capacità di conservare la tenerezza. È un popolo ospitale, generoso. Quel poco che hanno, lo condividono. Ovunque ci si trovi, non mancherà una tazza di tè e l’invito a sedersi, a riposare.
E Khalid non fa eccezione. Ogni giorno prova a dare speranza, a regalare un sorriso anche quando fuori, proprio a pochi passi dall’ospedale e, volte anche all’interno, infuriano dolore e distruzione.
Valentina Tamborra
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Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico
testo di Enrico Casale |
È il 2010 quando alcuni importanti giacimenti di gas sono individuati nel Nord Mozambico. Poco dopo escono allo scoperto gruppi di miliziani radicalizzati che compiono attentati. Poi il livello degli assalti si alza. E i misteri restano tanti.
Jihadisti? Banditi comuni? Mercenari prezzolati da società straniere? Chi siano, nessuno lo sa con precisione. Come nessuno sa chi li finanzi, li armi, li sostenga. Sul perché degli attacchi violentissimi, anche recenti, nella provincia di Cabo Delgado nel Nord del Mozambico, il mistero è fitto. Non si sa con precisione neppure quante persone siano morte. C’è chi parla di 500, chi di mille, chi molte di più. L’unica cosa certa è il terrore che si è sparso nella provincia e nelle stanze del governo di Maputo.
Lo scenario
Cabo Delgado è una provincia che ha sofferto molto durante la guerra d’indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992), ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana. Ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi. «I musulmani locali – spiega una fonte missionaria che vuole rimanere anonima – non hanno mai dimostrato atteggiamenti violenti o di intolleranza. L’islam si è fuso con la cultura locale e ha dato vita a una fede aperta e tollerante. I rapporti tra cristiani e musulmani sono sempre stati amichevoli. Si lavora e si vive insieme in serenità».
Questa pace sociale ha iniziato a essere messa in discussione dopo la scoperta nel 2010, da parte dell’americana Anadarko e dell’italiana Eni, di enormi giacimenti di gas proprio davanti alle coste di Cabo Delgado. Attualmente, tre dei maggiori progetti di gas naturale liquefatto al mondo sono in fase di realizzazione, con un investimento complessivo che arriverebbe a superare i 50 miliardi di dollari. Due di questi, Coral South e Rovuma Lng, vedono Eni tra le dirette interessate. «Il Mozambico – scrive il quotidiano “Il Sole 24 Ore” – promette di diventare nel giro di cinque anni il secondo fornitore di gas naturale liquefatto al mondo, superato soltanto dal Qatar.
Uno sviluppo col turbo, almeno nelle aspirazioni, persino più veloce di quello pianificato dagli Stati Uniti per lo shale gas (il petrolio da scisto)».
Lo sfruttamento di questi vasti giacimenti ha comportato l’esproprio di numerose terre e la forte riduzione delle aree di pesca. Ciò ha creato ulteriore difficoltà e disoccupazione in una terra povera. E, ovviamente, ha alimentato il malcontento tra la popolazione che viveva già sulla soglia della povertà.
Gli estremisti
In questo contesto, dominato dalla miseria e dallo sfruttamento straniero delle risorse, hanno iniziato a manifestarsi le prime forme di malcontento e di rabbia. Una decina di anni fa è nato il gruppo Ahlu sunnah wa jamo / Ansar al-Sunna. Si sa con certezza che a crearla sono stati Nur Adremane e Jafar Alawi, entrambi di Mocimboa da Praia. Due musulmani fondamentalisti che si sono ispirati ad Aboud Rogo, un predicatore islamico che si ritiene sia stato tra gli organizzatori dell’attentato all’ambasciata Usa a Nairobi nel 1998, e tra i finanziatori di al-Shabaab in Somalia (prima di essere assassinato a Mombasa nel 2012). I due predicatori mozambicani hanno iniziato a frequentare le moschee di Cabo Delgado incoraggiando i giovani a lasciare le scuole governative e ad accettare «borse di studio» per frequentare le scuole coraniche in Sudan e in Arabia Saudita. È proprio nella Penisola arabica che questi mozambicani si sono radicalizzati. Sono giovani tra i 25 e i 30 anni, principalmente Kimwani, il gruppo etnico più emarginato socialmente ed economicamente.
Da qui in avanti la storia si è fatta più nebulosa. Al gruppo originario si sarebbero aggiunti miliziani provenienti da Tanzania, Somalia e Grandi Laghi (Rd Congo, Ruanda, Burundi). Da questo gruppo radicalizzato, che promuove un’applicazione dura e letterale della legge islamica, nel 2013 avrebbe poi preso forma al-Shabab (senza però avere alcun rapporto con l’omonimo, ma più famoso, gruppo jihadista somalo).
Sono supposizioni basate su elementi sommari. Non si sa, per esempio, dove trovino i fondi per finanziarsi e chi abbia promosso le loro azioni. Ciò che è certo è che, nel 2015, sono iniziate le prime violentissime operazioni sul campo.
Terrorismo
I primi attacchi vengono organizzati nelle campagne della provincia di Cabo Delgado nel 2017. I miliziani prendono di mira piccoli villaggi. Li assaltano e uccidono in modo efferato uomini, donne e bambini. Incendiano le capanne e i raccolti. E, una volta compiuta l’azione, spariscono e tornano nei loro rifugi. La gente è spaventata. Molte famiglie fuggono dalle proprie abitazioni per cercare riparo in zone più protette.
La reazione dello stato non è pronta. Di fronte ai primi attacchi, Maputo invia rinforzi alla polizia, ma sono insufficienti. Poi invia i militari. I reparti che salgono al Nord sono composti da ragazzi di leva, male armati, male equipaggiati e, soprattutto, demotivati. Infatti gli attacchi continuano. Sempre più cruenti. Inizialmente, però, i miliziani assaltano all’arma bianca, con vecchi machete. A volte organizzano imboscate ai convogli dei militari o delle forze di polizia. Uccidono i soldati e gli agenti e si impossessano delle loro divise. Travestiti da militari attaccano altri villaggi. La popolazione, confusa, non sa se è stata presa d’assalto dalle forze dell’ordine o dai miliziani. E fugge. In un video girato dai terroristi nella provincia di Cabo Delgado e fatto circolare sul web, si vedono uomini armati che camminano nell’erba alta e costeggiano un grande edificio bianco. La maggior parte di essi porta con sé fucili automatici e indossa uniformi dell’esercito mozambicano. In lontananza si ode qualche sparo e voci che gridano «Allahu Akbar» (Dio è grande). In un altro video, sempre pubblicato sul web, si vede un poliziotto morto e poi, quando lo zoom apre l’inquadratura, se ne vede un secondo, poi un terzo, un quarto. Infine una pila di armi automatiche in quello che può essere un deposito della polizia o delle forze armate.
il Salto di qualità
All’inizio del 2020 si registra «un salto di qualità» negli attacchi. In mano ai miliziani non ci sono più i machete, ma le armi automatiche rubate nei depositi delle forze dell’ordine. L’obiettivo non sono più il villaggio o la colonna di militari, ma centri importanti: Mocimboa da Praia, Kisongo e Mudimbe. A Quissanga attaccano e occupano la caserma della polizia e issano sul tetto la bandiera nera dello Stato islamico. Lo stesso Daesh, attraverso i suoi media, rivendica l’azione e, di fatto, riconosce i miliziani come suoi «soldati».
«All’inizio – spiega dom Luis Fernando Lisboa, vescovo di Pemba in un’intervista alla Fondazione Missio – si parlava di un nemico senza volto. Negli ultimi attacchi si sono presentati come miliziani dell’Isis. Abbiamo però dubbi sulla reale affiliazione allo Stato islamico. Usano questo nome, ma non abbiamo la certezza che siano realmente legati alla rete fondata da Abu Bakr al-Baghdadi». La stessa tesi è sostenuta dai missionari sul posto da noi sentiti: «Gli ultimi attacchi sono stati ben pianificati. Si è notato un salto di qualità nell’azione. Le strutture del governo sono state bruciate in modo sistematico. La matrice religiosa, però, è emersa solo poco tempo fa. In Mozambico si pensa che ci siano interessi particolari che si nascondono dietro la copertura religiosa».
A chi giova?
In realtà non si sa chi ci possa essere dietro questi terroristi. Secondo alcuni esperti internazionali, al-Shabab mozambicano sarebbe uno strumento in mano a gruppi di potere che cercano di accaparrarsi i ricchi giacimenti della provincia, oppure sarebbero la pedina che alcuni politici muovono da Maputo per contrastare il governo legittimo. «Le ricchezze del sottosuolo possono essere la causa di questa ribellione? – si chiede dom Luis Fernando Lisboa -. Difficile dirlo. In merito non abbiamo certezze. Sappiamo che altrove, in Nigeria, ma anche in Iraq e in Siria, gruppi jihadisti hanno sempre cerato di impossessarsi dei campi petroliferi. Qui nel Nord del Mozambico abbiamo grandi giacimenti di gas. Può essere che ci sia qualcuno che sfrutta queste milizie per impadronirsi di queste aree. A mio parere, però, ci sono altre ragioni. Il Mozambico è uno dei paesi più poveri al mondo e la provincia di Cabo Delgado è sempre stata emarginata. Questa povertà spinge i giovani nelle braccia di fondamentalisti, tanto più che al-Shabab paga i miliziani e offre loro cibo».
Di fronte a queste minacce le aziende energetiche coinvolte nello sviluppo del bacino del Rovuma hanno cercato di isolarsi. Le imprese di sicurezza ricevono più di un milione di dollari al mese per tenere al sicuro i lavoratori. Queste guardie arruolano scorte armate provenienti dai reparti migliori delle forze governative. Una pista d’atterraggio è stata costruita a Pelma, la cittadina che serve gli impianti offshore.
Oltre a propagandare un islam feroce e fanatico, questi miliziani controllano anche una serie di traffici illeciti e il contrabbando di merci con la Tanzania. «Tutti hanno puntato gli occhi verso i giacimenti di gas – osserva un missionario del posto -, ma questa zona è ricchissima di risorse naturali: rubini, legno pregiato, ecc. La gestione di queste risorse fa gola a molti. Voci dal territorio parlano anche di traffici di sostanze illecite e, addirittura, di organi umani. Sono voci, e non mi sento di sottoscriverle, ma tutto è verosimile in questo contesto».
Cristiani e musulmani
A subire gli attacchi è tutta la popolazione locale, sia essa di fede islamica o cristiana. Recentemente sono state attaccate anche alcune missioni. Ad Awasse è stata attaccata la comunità dei monaci benedettini. Gli assalitori hanno distrutto tutto e si sono impossessati di molti beni, inclusa un’automobile. I religiosi sono stati costretti a rifugiarsi nella boscaglia dove sono stati due giorni. Il vescovo di Pemba ha chiesto a loro e alle loro consorelle benedettine di trasferirsi in Tanzania per mettersi in sicurezza. Se i cristiani piangono le loro vittime, altrettanto fanno i musulmani. «Le prime vittime di questi attacchi – continua il missionario – sono proprio i musulmani. La comunità islamica locale è terrorizzata». «Fin dall’inizio – osserva dom Luis Fernando Lisboa -, i musulmani del Mozambico hanno preso le distanze da questi attacchi. I leader hanno condannato le uccisioni e le violenze affermando che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’islam. Lo stesso hanno fatto il Consiglio islamico e il Congresso musulmano che, in un appello, hanno dichiarato che non considerano islamici questi miliziani e che essi non possono in alcun modo utilizzare il nome dell’islam». «Come fantasmi – conclude il vescovo -, i ribelli compaiono e scompaiono senza farsi vedere, lasciando dietro di se i resti dei disastri compiuti. Ma sappiamo che i fantasmi non esistono. È un pezzo di lenzuolo che nasconde qualcosa o qualcuno. Dobbiamo togliere questo lenzuolo per smascherare chi si nasconde dietro».
Enrico Casale
Benessere fatto in casa
testi di Armando Bottazzo e Samuele Nucci |
Una crisi di sistema come quella del coronavirus richiede soluzioni di sistema. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio, nei suoi bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di impresa al servizio di piccole realtà, ma anche di quartieri di grandi città.
Sulla vetrina dello storico forno di San Leo c’era un cartello che diceva «chiuso per ferie». Nel piccolo paese di cento anime in Valmarecchia, provincia di Rimini, tutti sapevano, però, che Vittorio Giorgini, fornaio da sessant’anni, non aveva chiuso «per ferie», ma «per cessazione».
Nell’ottobre del 2018 è venuto così a mancare un servizio importante per le famiglie del borgo, ma soprattutto un luogo affettivo e simbolico per l’identità dell’intera comunità leontina.
È stato questo nuovo strappo, in un tessuto sociale già in grande difficoltà per lo spopolamento, che ha spinto una trentina di cittadini tra i 24 e gli 80 anni a iniziare un percorso che ha portato alla nascita, il primo agosto del 2019, di Fer-Menti Leontine, una delle ultime nate tra le cooperative di comunità. Oggi in Italia, secondo un rapporto Euricse del maggio scorso, sono 109 le imprese nate dal basso per rispondere ai bisogni dei cittadini.
Il toscano di San Leo
«Nel 1939 a San Leo c’erano due forni a legna del comune», ha raccontato Vittorio Giorgini a Stefano Rossini, giornalista del settimanale cattolico locale «Il ponte», nel settembre scorso. «Uno lo prese mio padre. Nel ’40 fu richiamato in guerra e poi rimase prigioniero fino al 1942. In quegli anni furono le mie due zie a lavorare. Appena tornato riprese il lavoro, e nel ’51 ha fatto il primo forno a carbone e legna. Ricordo la fatica del forno a legna. Era un lavoro tremendo. […]. Il forno attuale lo abbiamo fatto nel ’59. È stato il lavoro della mia vita. […] Fare il pane è un lavoro molto impegnativo. Se lavori con la fretta le cose vengono male!».
La storia del toscano di San Leo sta tutta in queste parole. Una storia che rischiava di terminare, ma che oggi è ancora aperta: il cartello «chiuso per ferie» è stato simbolicamente riscritto dagli abitanti di San Leo con le parole «torno subito».
Dopo un anno di vita, l’impatto della cooperativa sul territorio è positivo, non solo per il buon pane, ma soprattutto per il senso di comunità che ha contribuito a far crescere. Si pensi ad esempio all’aiuto offerto ai leontini durante l’emergenza coronavirus, attivando, tra le altre cose, un servizio di «spesa e farmaci a domicilio», assicurando capillare attenzione a tutti.
Il percorso
Il percorso per la costituzione della cooperativa di comunità a San Leo inizia quando, nell’autunno del 2018, Confcooperative Ravenna-Rimini, insieme all’associazione Figli del Mondo e all’acceleratore di start up Primo Miglio, organizzano una serie di incontri informativi sulle coop di comunità in diversi comuni della Valmarecchia, tra cui San Leo.
Il forno storico del paese ha appena chiuso. Durante i cinque incontri organizzati in paese, anche grazie all’amministrazione comunale, i leontini, aiutati da Giovanni Teneggi di Confcooperative, comprendono le potenzialità della proposta e iniziano a mettere sul piatto sogni e progetti a favore dell’intera popolazione della zona.
Durante gli incontri emergono le numerose criticità del tessuto sociale ed economico locale.
I fili conduttori sono due: da un lato lo spopolamento che porta alla chiusura delle poche e piccole attività commerciali presenti, dall’altro gli effetti negativi dei flussi turistici che hanno una fisionomia ciclica molto marcata.
Il centro storico di San Leo, infatti, grazie alla millenaria fortezza che lo sovrasta e che costituisce il quinto monumento più visitato di tutta la regione Emilia-Romagna con oltre 71mila visitatori all’anno, subisce un turismo «mordi e fuggi», con flussi elevati alternati a periodi di bassa stagione con presenze minime che scompaiono quasi completamente nel periodo invernale.
Voci di speranze
Alla prima riunione organizzata per parlare del futuro del forno, e quindi del paese, per rispetto al fornaio, tutti ne parlano sottovoce: una domanda di troppo sarebbe imbarazzante. Però gli occhi sono desiderosi e le mani pronte a rimpastare speranze.
«Abito qui, sono curiosa di capire cos’è la cooperazione di comunità», ci dice una cittadina.
Un giovane aggiunge: «Produco grani antichi e farro, vado piano perché sono da solo».
Di fronte al timido approccio dei leontini, noi pensiamo che spesso si ha timore a dire cosa si spera davvero per il futuro, soprattutto se l’attesa nasce dall’intimo e chiede agli altri una condivisione. E che, in fondo, quello che i sogni chiedono, è semplicemente di credere in loro e di farne un cammino comune.
Una giovane mamma racconta che per amore della sua famiglia ha lasciato il lavoro in città, e vorrebbe dare una mano a San Leo, perché lì sono le sue radici, lì batte il suo cuore.
C’è un pensionato che è tornato a San Leo e dedica il suo tempo a curare i luoghi di tutti, per curare se stesso, e sa che se rimane da solo, né lui, né il paese potranno resistere a lungo.
C’è un giovane professionista che vorrebbe tornare da Milano alla sua terra nativa, e la mamma di una famiglia giovane che non se ne vuole andare, e si adatta a fare la pendolare, perché una casa e un sogno rimangano accesi la sera.
Quella luce, quell’odore di camino acceso, nelle sue parole, parlano del desiderio di una casa comune per tutti.
Economia affettiva
In occasione della nascita di Fer-menti Leontine, Andrea Zanzini, dell’associazione Figli del Mondo, racconta a «il Ponte»: «Una delle ferite più dolorose della comunità è stata la chiusura del forno […]. Una volta compreso il legame affettivo con questa attività abbiamo proposto ai cittadini di costituire la cooperativa di comunità partendo proprio dal [suo] recupero».
Fin dall’inizio, nel progetto, è coinvolta la proprietà del vecchio forno che decide di mettere a disposizione la propria esperienza, cioè quel valore aggiunto che è il «segreto» del pane di San Leo, oltre agli storici locali della bottega in affitto.
La cooperativa, dalla sua costituzione, inizia un percorso di scoperta, condivisione, formazione e costante lavoro.
Le persone che partecipano agli incontri, sono una trentina in tutto. Alcune di loro saranno coinvolte attivamente nella gestione del forno, altre daranno il loro supporto alla progettazione di nuovi servizi per il paese: attività agricole, la cura degli spazi del borgo, il supporto all’amministrazione per il mantenimento di servizi essenziali. Al centro, la promozione di un turismo sempre più orientato al rispetto del territorio e del suo tessuto sociale, capace di far riconoscere San Leo come un gioiello da vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura.
Soluzioni di sistema
Una crisi come quella del coronavirus o, più in piccolo, come quella di San Leo e di altri borghi simili, sono crisi di sistema che richiedono soluzioni di sistema, non iniziative prese a compartimenti stagni. C’è bisogno di connettere tutti i bisogni e le opportunità del territorio. Occorre rivalutare i luoghi nei quali viviamo, e dare valore alla prossimità.
Le persone che appartengono alle comunità, possono promuovere imprese che mettano al centro i bisogni di ogni cittadino. Imprese che superino la distinzione tra profit, non profit, pubblico. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio e quindi conoscitrice profonda di bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di imprese multifunzionali che possono adattarsi anche a quartieri di grandi città.
Fenomeno in crescita
In Italia, dieci milioni di persone vivono in 5.683 comuni con meno di 5mila abitanti. Centri abitati spesso di dimensioni ridotte, in territori difficili da raggiungere, disagiati e con scarsi collegamenti e infrastrutture.
In questo contesto, il fenomeno della cooperazione di comunità è in crescita e si sta diffondendo in tutta Italia con più di cento esperienze, in risposta a sfide e difficoltà dei territori interni e montani, e la crisi da Covid-19 ci ha fatto capire che il modello sarebbe adatto anche ai centri urbani più grossi.
Le coop di comunità nascono per valorizzare aree impoverite o vulnerabili, per ripristinare e salvaguardare beni comuni o funzioni pubbliche, per cogliere opportunità economiche nascoste, o avviare processi di innovazione in senso comunitario.
Sono protagoniste della rinascita dei servizi più disparati: dal turismo al welfare, alla cultura, alla produzione agricola, e così via.
Il venir meno di un servizio o di un’attività economica in un paese, dunque, fa aguzzare l’ingegno e sperimentare nuove forme di collaborazione. «Le cooperative di comunità sono costituite da imprese e abitanti di un territorio, in genere con dei problemi di impoverimento sociale ed economico, che intendono collettivamente intraprendere attività o servizi che né il mercato né lo stato riescono a garantire, al fine di migliorare la vivibilità di quella realtà», spiega Giovanni Teneggi, animatore delle maggiori cooperative di comunità in Italia. «Sono cooperative nelle quali i soci, riunendosi, non attivano solo iniziative finalizzate alla mutualità interna, ma rispondono anche a interessi più generali della collettività».
E l’Italia non è l’unico paese che sperimenta queste forme di collaborazione dal basso. Secondo lo «Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità», pubblicato nel 2016 dal Mise (ministero dello Sviluppo economico), «a livello internazionale, in altri paesi europei esistono da anni alcuni modelli di impresa “comunitaria” che presentano specificità e caratteristiche che possono essere paragonate alle cooperative di comunità italiane […]. Tra queste le esperienze più significative si trovano nel Regno Unito, in Francia e in Germania».
Quindi cosa sono?
Le cooperative di comunità sono vite, sogni, culture, conversazioni, voglia di fare, genuinità, semplicità, volti, competenze, e tutto questo tradotto in economie possibili. Costituire una coop di comunità significa: «Fare qualcosa / per la comunità / con la partecipazione della comunità / attraverso un’impresa».
Fare qualcosa, cioè riaprire un bar o un hotel abbandonato, organizzare percorsi turistici, pulire i boschi, cucinare quel piatto che la tradizione del territorio conosce e riconosce, riprendere in mano alcune vocazioni specifiche che ogni territorio ha e che erano andate perdute, o scoprirne di nuove.
Per la comunità: quali sono le vocazioni del territorio? Quali sono i sogni che abitano dietro le porte e le finestre dei cittadini? Quali sono le competenze degli anziani che potrebbero essere portate alla luce e diffuse? Quali sono i bisogni dei cittadini? Cosa sta venendo a mancare?
Con la partecipazione della comunità, ossia di Carlo, il contadino burbero che al momento del bisogno ti viene a prendere con il suo trattore; di Giovanni che ha un’azienda di pellame ed esporta in giro per il mondo; di Maria, professionista che vive a Milano e che desidera tornare nel suo paese nativo per mettere in pratica lì ciò che ha imparato; ma anche di Chiara, mamma da qualche mese che ha perso il lavoro a causa della crisi; di Paola che con il suo negozio di alimentari vorrebbe fare qualcosa di più ma non sa come.
Attraverso un’impresa: la parola «impresa» per Treccani «indica per lo più azioni, individuali o collettive, di una certa importanza e difficoltà». Si usa in espressioni come «impresa ardua», «impresa eroica», «l’impresa di Cesare». L’impresa è anche un soggetto economico che lavora e dà lavoro, e che, a tutti gli effetti, ha di fronte un cammino arduo con i suoi rischi.
Welfare dal basso
Lo spirito di queste organizzazioni, che agiscono come «risvegliatrici di sentimenti», è quello d’incentivare l’innato istinto di ognuno di offrire il proprio contributo per permettere a tutti di crescere in una società migliore, creando sinergie tra le persone.
In giro per l’Italia, da Nord a Sud, sono nati piccoli presidi sanitari che garantiscono ad anziani e malati prelievi e assistenza medica di base, senza dover percorrere chilometri; servizi scolastici integrativi che potenziano l’offerta formativa a favore di una maggiore libertà oraria per i genitori; attività di compagnia per anziani soli, di pulizia e mantenimento degli spazi pubblici e di quelli del vicinato, di manutenzione della proprietà di chi, ad esempio per cause di salute, non riesce a farla; filiere turistiche in sinergia con l’enogastronomia locale e la riscoperta e tutela territoriale; presidi aggregativi per lo sviluppo delle abilità pratiche e culturali dei cittadini.
Il beneficio di queste iniziative si misura in termini di ripopolamento e di nuovi posti di lavoro.
Tutto questo rientra in una più vasta idea di welfare home made-self made (benessere fatto in casa) che nasce direttamente dai cittadini.
Alcuni esempi
La prima cooperativa di comunità fondata in Italia – e nel mondo – è quella di Succiso (Reggio Emilia), piccolo borgo di 65 abitanti dove, nel 1991, dopo la chiusura dell’ultimo bar e dell’ultima bottega, alcuni giovani della Pro Loco hanno costituito la Cooperativa Valle dei cavalieri. In 28 anni, la cooperativa ha creato nove posti di lavoro, e fattura 700mila euro, creando un ecosistema che favorisce a cascata gli altri indotti locali.
Secondo lo «Studio di fattibilità» del Mise, già citato, «la cooperativa, nel corso degli anni ha promosso l’attività del suo agriturismo e ristorante sperimentando anche nuove offerte turistiche in collaborazione con il Parco Nazionale del quale è centro visita. La cooperativa è cresciuta sviluppando un’azienda agricola che ha consentito la produzione di pecorino Dop. Ha poi ampliato i suoi ambiti acquistando un pulmino per il trasporto alunni, il rifornimento dei medicinali per gli anziani, e realizzando un importante investimento per […] un impianto fotovoltaico».
Altra esperienza è quella della Cooperativa Pracchia che, nel pistoiese, lavora in diversi settori: dalla gestione dei servizi per gli anziani alle attività di cura del patrimonio naturale e urbanistico (gestione di giardini, parcheggi, rive dei corsi d’acqua, bagni pubblici), al ripristino e alla cura dei castagneti abbandonati per il rilancio dell’economia e della filiera delle tipicità locali.
Biccari e Cerreto
In Puglia, a Biccari, nell’entroterra foggiano, la Cooperativa Biccari ha valorizzato gli immobili comunali poco usati e ha costruito un progetto turistico di alta qualità nel rispetto della natura. Tra le proposte turistiche più originali della cooperativa pugliese, c’è una «mini casa pop up», cioè una stanza temporanea a forma di bolla trasparente, immersa nella natura del Lago Pescara di Biccari, nella quale poter «dormire sotto le stelle». Nello stesso contesto c’è anche una stanza in tessuto sospesa tra gli alberi, chiamata «Atomo».
All’interno del progetto turistico, la cooperativa organizza uno «scambio culturale» offrendo a giovani tra i 18 e i 35 anni di essere ospitati gratuitamente in cambio di tre ore di volontariato giornaliere: una proposta che crea un turismo consapevole a beneficio del territorio.
Infine, possiamo citare, come ultimo esempio, la Cooperativa dei Briganti di Cerreto, a Cerreto Alpi, frazione del comune di Ventasso, in provincia di Reggio Emilia, nell’appennino tosco emiliano. Anch’esso un borgo a rischio estinzione dove ora, con la presenza della cooperativa, tutto viene gestito in comunità: dall’ostello al castagneto, dal pecorino al ristorante, perché un’attività da sola non può reggere, ci vuole un legame tra tutte le iniziative. Questo legame fa da supporto all’esperienza del turista: dormire in un vecchio mulino ristrutturato ascoltando alla sera le storie degli anziani del paese, pescare la trota o avventurarsi nei boschi insieme agli abitanti del borgo, visitare l’essiccatoio delle castagne, assaggiare la cucina locale a base di prodotti del luogo, dalla ricotta al pecorino, dai dolci di castagne al cinghiale.
Ripartenza cooperativa
Tutte queste esperienze hanno in comune la resistenza delle persone e dei territori, e possono essere di esempio per altre realtà. Grazie a esse possiamo capire bene che la risorsa più importante dei centri «emarginati» è proprio la comunità che li abita, e che lo strumento migliore è la cooperazione.
La crisi del coronavirus ci invita a guardare i paesi, ma anche i quartieri delle nostre città, con occhi nuovi, pone l’attenzione sul ruolo fondamentale dei servizi di prossimità.
La ripartenza è un bene comune, e come tale va trattata.
Uno sguardo trasversale, cooperativo, che connetta tutti gli attori, che sia sistemico e inclusivo, aiuta a trovare la strada.
Non si può quindi prescindere, nella ripartenza, dal prezioso sapere sociale che parte dal basso, dai cittadini.
Le esperienze delle cooperative di comunità mostrano un modello di welfare di comunità che è possibile riadattare in luoghi differenti con differenti esigenze e capacità. Come dice Aldo Bonomi: «Se non vogliamo che il virus produca più solitudine, occorre che oltre al vaccino si valorizzino anticorpi sociali capaci di produrre inclusione sociale».
Dai dodici anni vissuti in Amazzonia è nato il suo «amore per la giustizia» e per la «sobrietà felice». Adriano Sella coordina dal 2007 la «Rete interdiocesana nuovi stili di vita». L’abbiamo sentito sull’anno speciale Laudato si’ e sull’ambizioso programma di ecologia integrale che l’accompagna.
L’anno speciale per la Laudato si’ è iniziato il 24 maggio scorso, quinto anniversario dell’enciclica di papa Francesco «sulla cura della casa comune». Avviato un po’ in sordina, promette di far parlare di sé. Nelle intenzioni di chi l’ha pensato, l’anno speciale sarà un tempo nel quale dare forma a un programma ambizioso di cambiamento basato sulle istanze dell’ecologia integrale.
Dalla sua pubblicazione, la Laudato si’ ha già prodotto molto fermento, a livello teologico, ecclesiale, pastorale, ma anche culturale, sociale, politico, e nella vita quotidiana di molti.
«Il fatto che il quinto anniversario dell’enciclica coincida con […] una pandemia mondiale», scrive il Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale, «rappresenta uno spartiacque e fa sì che il messaggio della Laudato si’ sia oggi tanto profetico quanto lo era nel 2015. […] Il Covid-19 ha messo in luce […] la profonda interconnessione […] tra tutti noi. Per iniziare a immaginare un mondo post-pandemia, abbiamo bisogno anzitutto di adottare un approccio integrale […]. L’urgenza della situazione è tale da richiedere risposte immediate, olistiche e unificate a tutti i livelli, sia locali che regionali, nazionali e internazionali. In particolare, è necessario creare “un movimento popolare” dal basso, e un’alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà».
Dare ascolto «al grido della Terra e al grido dei poveri» è possibile. Mettere in atto cambiamenti profondi che promuovano una vita bella nella casa comune è una strada percorribile.
Ce lo dicono da anni le molte voci che, provenienti spesso dal mondo missionario, propongono il cambiamento all’insegna di «nuovi stili di vita».
Ne abbiamo parlato con Adriano Sella, «laico missionario nella custodia del creato», promotore e coordinatore dal 2007 della Rete interdiocesana nuovi stili di vita.
Adriano, come nasce il tuo impegno per i nuovi stili di vita?
«Dal 1990 al 2002 sono stato in Amazzonia. Lì mi sono innamorato della giustizia, ho capito che bisogna smettere con l’assistenzialismo e costruire rapporti giusti.
Nel 1995 ho portato in Italia un documento elaborato in Amazzonia dalle comunità cristiane e i movimenti popolari. Diceva: “Noi del Sud chiediamo a voi del Nord giustizia, e non elemosina”. Da lì è nato a Vicenza, dove vivo oggi, il movimento “Gocce di giustizia”, persone con la voglia di mettere assieme i gruppi che già lavoravano in quella direzione, e abbiamo iniziato a educarci a cambiare stili di vita».
Cos’è la Rete interdiocesana?
«Quando sono tornato in Italia nel 2002, la diocesi di Padova mi ha coinvolto in un lavoro pastorale sui nuovi stili di vita. Allora sono andato in altre diocesi, dove sapevo di alcuni percorsi già in atto: Verona, Trento, Bolzano-Bressanone, Venezia, Brescia. Da quei contatti è nato il desiderio di metterci insieme, scambiarci esperienze, e, nel 2007, è nata la Rete che oggi conta circa novanta diocesi.
Fare rete è importante, perché ci si rafforza a vicenda. È uno dei nostri 10 obiettivi: “La narrazione dell’alternativa”. Il male fa notizia. La gente è impregnata di pessimismo, e parla sempre di quello che non va. Per questo è necessario narrare la speranza, far vedere che ci sono alternative possibili.
L’obiettivo della società dei consumi è quello che io chiamo “la nuova rassegnazione”, come dice la Laudato si’: “Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare” (LS 204). Noi dobbiamo tirare fuori il bene, raccontarlo, farlo vedere».
L’anno speciale sulla Laudato si’ propone una conversione ecologica che chiama in causa i nuovi stili di vita. Tra le iniziative previste, c’è quella della «giornata per la custodia del creato» del 1 settembre. Nel messaggio che l’accompagna, in riferimento alla pandemia, si legge: «Abbiamo toccato con mano tutta la nostra fragilità, ma anche la nostra capacità di reagire solidalmente ad essa. Abbiamo capito che solo operando assieme – anche cambiando in profondità gli stili di vita – possiamo venirne a capo».
«Gli umani cambiano molto per necessità e poco per virtù, ma i cambiamenti procurati dalla paura, ad esempio del Covid-19, durano poco. Quando il pericolo passa, si torna a vivere come prima. Quando, invece, il cambiamento è motivato, è maturato per amore, quando capisci che è più bello vivere sobriamente, con meno oggetti e più relazioni, la vita cambia ed è più libera.
Quando è uscita l’enciclica nel 2015, abbiamo fatto un balzo di gioia. Ci siamo sentiti confermati nel lavoro che stavamo facendo già da tempo. La Laudato si’ è diventata subito un faro per noi. È un pozzo inesauribile. Non è solo teoria, ma una spinta a mettere in atto comportamenti belli.
La Cei ha indetto la prima giornata del creato nel 2006, mossa dal movimento ecumenico: è, infatti, nata nell’89 dalla Chiesa ortodossa di Costantinopoli per la quale il primo settembre è l’inizio dell’anno liturgico. È bella l’idea d’iniziare l’anno all’insegna della custodia del creato».
Altra iniziativa compresa nell’anno speciale, è quella denominata «il tempo del creato»: un mese, dal 1 settembre al 4 ottobre, dedicato alla spiritualità ecologica. Possiamo dire che la spiritualità è il punto di partenza di una conversione ecologica che sia profonda e duratura?
«Anche il mondo laico lavora nella promozione dei nuovi stili di vita. Qual è l’approccio cristiano rispetto a quello laico? Per i cristiani c’è un primato della fede sull’etica, c’è un cambiamento che parte dall’interno, da una conversione del cuore.
L’enciclica lo sottolinea. Riprende la spiritualità dei profeti, quella del cuore nuovo, fino alla Pentecoste quando avviene il passaggio dal cenacolo all’uscita. Il cambiamento parte da dentro, dalle cose che ti toccano profondamente. Pensiamo alla figura evangelica di Zaccheo.
Se il cambiamento parte dall’interno, il cambiamento esterno è più radicato. Le proposte che facciamo, se non partono dal profondo, rischiano di ridursi a elenchi di comportamenti e rischiano di portare al moralismo».
A proposito di cambiamenti profondi, la Laudato si’ ne ha già prodotti secondo te?
«Sì. A livello teologico e pastorale ad esempio. L’enciclica ci ha aiutati a capire che all’origine di tutto c’è il bene, non il male.
Nella nostra visione tradizionale, tutto parte dal peccato originale, seguito dal processo di redenzione. Scoprire, invece, che all’origine di tutto c’è un bene, significa scoprire che c’è un grande bene in ogni creatura. Nella prassi educativa, allora, si lavora per tirare fuori il bene che c’è.
Nella parabola del figliol prodigo, c’è un padre che non punta il dito, ma apre le braccia.
Se noi lavoriamo con un metodo educativo repressivo, pensando che la paura (del castigo, dell’inferno) aiuti a cambiare, produciamo un cambiamento superficiale, che dura poco. Se invece facciamo emergere la bellezza, facendo capire quanto è bella la vita quando è piena di relazioni, quando ti gusti le cose belle, allora aiutiamo il cambiamento.
La vita cristiana è bellezza. La sobrietà non è sacrificio, ma liberazione. Non è austerità, privazione, ma liberazione da tutto quello che è inutile. Se mostriamo una vita cristiana felice, allora la proposta viene accolta.
Il Giubileo sulla misericordia e tutto quello che il papa sta facendo, ci parlano di questo: Dio è amore. Su questo dobbiamo lavorare, e l’enciclica ci aiuta molto, ad esempio rivelandoci che il creato è la prima manifestazione dell’amore del Padre.
Ci eravamo dimenticati anche di questo! Nella Bibbia ci sono i libri sapienziali che lo dicono. I padri della chiesa hanno passaggi bellissimi. La Laudato si’ lo ha riproposto in modo forte.
Se noi trasformiamo il creato in una pattumiera, come fanno i bambini a percepire l’amore del Padre? Dicono subito: “Che schifo questo mondo!”. Se invece si trovano davanti la grande bellezza, possono sentire la carezza di Dio.
La cura del creato quindi non è solo una questione ambientale, socio-economica, politica, è anche una questione teologica: abbiamo a che fare con il dono di Dio. Se usiamo la creazione in una pattumiera, impediamo a Dio di manifestare il suo amore».
L’anno speciale prevede iniziative come «il patto globale sull’educazione» e «l’economia di Francesco», entrambe previste inizialmente nella prima metà del 2020 e poi rinviate a causa della pandemia. Poi la tavola rotonda vaticana al forum economico mondiale di Davos, un raduno di leader religiosi e altro.
Quello che ci ha colpiti però è la piattaforma pluriennale di iniziative «per rendere le comunità di tutto il mondo totalmente sostenibili, nello spirito dell’ecologia integrale della Laudato si’», cioè il progetto di far partire ogni anno per dieci anni un «gruppo» di famiglie, parrocchie, diocesi, scuole, università, ospedali, imprese, ordini religiosi, che s’impegnino pubblicamente per 7 anni in un percorso di conversione ecologica.
Cosa pensi di questo programma ambizioso che copre un arco di tempo di addirittura di 17 anni?
«È una metodologia importante dal punto di vista educativo. L’idea dei sette anni, che porta in sé la dimensione biblica del numero sette, è bella. È un periodo sufficiente per lavorare bene e per mettere in atto dei percorsi concreti di cambiamento. In un settennio c’è il tempo per coinvolgere, si possono fare verifiche, riorganizzare le cose, ecc. La prospettiva di questo tempo lungo ci aiuterà a far diventare l’enciclica una prassi della vita».
È una scommessa anche per il prossimo papa.
«Sì, questo processo diventa irreversibile. Se avviato bene, con la spiritualità al centro, è come costruire la casa sulla roccia.
È un segno bello di speranza. Io credo che la Laudato si’ sia l’unica enciclica che ha cambiato anche lo stile ecclesiale. Tutte le encicliche producono una bella attenzione quando escono, ma questa ha cambiato anche il modo di essere chiesa, di programmare a livello di parrocchie, di gruppi, e a livello culturale».
Anche nella società laica l’enciclica è un riferimento.
«Qualche tempo fa, Paolo Cacciari, fratello del filosofo, giornalista e leader di movimenti ambientalisti, mi ha detto che l’enciclica è stata molto importante per il mondo laico, soprattutto per aver connesso le due facce della stessa medaglia: il grido della Terra e il grido dei poveri. Non esiste una priorità ambientale, o una priorità sociale, ma un’unica grande questione».
Una connessione che tu hai vissuto in Amazzonia.
«Sì, il grido della Terra e dei poveri in America Latina è da anni una questione unica. Proporre al mondo intero di vedere la Terra come madre e sorella è una rivoluzione. La Terra non può essere vista solo come un contenitore di risorse. Deve essere vista come madre. Per i laici è Gaia, un super organismo vivente. Per i cristiani è parte del creato, è dono di Dio. La Terra non è merce, non è da spremere. Se cambia la nostra visione culturale sulla Terra, cambia il nostro modo di relazionarci con lei».
Luca Lorusso
Tanti profitti, zero tasse (senza la «digital tax»)
testo di Francesco Gesualdi |
È un fatto che Google, Apple, Facebook, Amazon («Gafa») incamerino profitti senza pagare il dovuto. Un’elusione fiscale enorme e intollerabile a cui da tempo alcuni governi cercano di porre rimedio. Inutilmente, viste le minacce di ritorsioni (e l’arroganza) di Donald Trump.
In tempi di pandemia e di elezioni statunitensi (a novembre), è difficile trovare un accordo con Donald Trump sulla tassazione («digital tax» o «web tax», con sottili differenze tra l’una e l’altra) delle multinazionali del digitale.
Lo scorso 20 giugno è stata pubblicata una lettera datata 12 giugno nella quale il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, minaccia di ritorsioni commerciali (dazi) Italia, Francia, Spagna e Gran Bretagna se non rinunceranno alla «web tax» a carico dei colossi del digitale.
Anche a livello globale i negoziati in seno all’Ocse – chiamati «Inclusive Framework on Beps» (Piano d’azione sull’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti) – sono in stallo a causa degli Stati Uniti. Trump considera qualsiasi tassazione un atto di ostilità verso gli Stati Uniti perché colpirebbe in particolar modo Google, Apple, Facebook, Amazon e altre multinazionali del web con casa madre statunitense. In realtà, la web tax è solo un timido tentativo di recupero fiscale verso imprese esperte, oltre che in tecnologie digitali, anche in tecniche di elusione fiscale.
Nell’agosto 2016 la Commissione europea decretò che, dal 2003 al 2014, Apple aveva evitato il pagamento di 13 miliardi di imposte, grazie alla legislazione compiacente dell’Irlanda. L’aspetto interessante è che, a mettere la pulce nell’orecchio, era stata una Commissione d’indagine del Senato americano che, nella seduta del 13 maggio 2013, aveva ricostruito per filo e per segno le strategie utilizzate da Apple per evitare di pagare le tasse. Un sistema che le aveva permesso di accumulare più di 100 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, con un danno per l’erario statunitense calcolato in 12 miliardi di dollari per il solo 2012.
Lotta tra Sistemi fiscali
Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) del 2015, ogni anno l’elusione fiscale sottrae agli stati 650 miliardi di dollari. Un vero crimine contro l’umanità considerato che 200 di essi sono sottratti a paesi molto poveri che, per mancanza di soldi, non riescono a fornire neanche i banchi di scuola. Il punto è che le imprese sono riuscite a globalizzarsi, mentre le nazioni continuano a gestire i sistemi fiscali in maniera separata, ciascuna per conto proprio, a volte addirittura in concorrenza fra loro per attrarre investimenti e capitali. Per cui abbiamo paesi come le Isole Cayman e un’altra decina di paradisi fiscali, senza alcun tipo di imposta sui profitti, fino agli Emirati Arabi con una tassazione del 55%, passando per l’Ungheria che applica un’imposta del 9%, l’Irlanda del 12,5%, gli Usa del 21%, l’Italia del 24%, la Germania del 30-33%.
In uno scenario tanto variegato, molte imprese sono tentate di mettere in atto strategie, formalmente legali, di fatto fraudolente, per contabilizzare i loro profitti in paesi a bassa fiscalità. Una di queste si basa sulla creazione di società fantasma che fanno da cerniera fra imprese dello stesso gruppo. Tipico il caso di una multinazionale calzaturiera con stabilimenti produttivi in Indonesia e negozi di vendita in Europa. La logica vorrebbe che le scarpe fossero vendute direttamente dagli stabilimenti indonesiani alle filiali europee che poi, una per una, dovrebbero dichiarare al fisco del proprio paese quanto hanno guadagnato. In una logica di elusione, invece, può essere utilizzato come intermediario una società fantasma domiciliata in Ungheria che finge di comprare e vendere con metodi di fatturazione che puntano a trattenere il massimo del valore in Ungheria dove vige uno dei sistemi più bassi di tassazione dei profitti. È stato accertato che un meccanismo del genere è stato utilizzato dal gruppo Kering, proprietario fra gli altri del marchio Gucci, che nel maggio 2019 ha patteggiato col fisco italiano il pagamento di oltre un miliardo di euro a sanatoria di ricavi non dichiarati per un valore di 14,5 miliardi di euro. Secondo gli investigatori, il gruppo utilizzava la Svizzera come cerniera di intermediazione fra Gucci, che produce in Italia, e i negozi del gruppo che vendono nei vari paesi europei. Verosimilmente la società svizzera acquistava fittiziamente beni sottocosto dalla società italiana e li rifatturava a prezzi gonfiati ai negozi europei per accrescere artificiosamente i profitti dichiarati in Svizzera, che nel caso specifico erano sottomessi a un regime fiscale inferiore al 9%. E, a conferma del meccanismo occulto, le Fiamme gialle avevano accertato che la maggior parte delle funzioni di commercializzazione dei prodotti non avveniva in Svizzera, ma a Milano, dove ha sede l’unità locale di Gucci. Meccanismo riconosciuto da Kering che, a conclusione del patteggiamento, ha diffuso una nota in cui ammette «la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia nel periodo 2011-2017», come sostenuto dalla Procura di Milano.
L’utilizzo del marchio
Un altro metodo di elusione si basa sul trasferimento di prezzo tramite licenze d’uso. Si prenda come esempio Ikea. Nessun punto vendita può esporre l’insegna se prima non ha stipulato un contratto di licenza con la società che risulta formalmente proprietaria del marchio. E annualmente tutti i punti vendita Ikea versano una parte dei loro ricavi alla società proprietaria del logo, anch’essa facente parte del gruppo, che però è domiciliata in Liechtenstein dove i redditi da capitale sono tassati al 12,5%. Più alto il compenso pattuito per l’uso del marchio, più alti i profitti trasferiti in Liechtenstein. E se giochetti del genere sono possibili a imprese commerciali vecchio stile, ancora di più lo sono per imprese che gestiscono servizi informatici.
Un tipico servizio informatico è la creazione di piattaforme commerciali, luoghi virtuali concepiti come punti di incontro fra imprese che offrono beni e consumatori (ne abbiamo parlato su MC di luglio). Alcuni esempi sono Amazon Marketplace, Ebay, Leboncoin, Alibaba, Apple Appstore. Altre piattaforme, invece, sono organizzate per permettere l’incontro fra chi offre un servizio e chi lo richiede. Alcuni esempi sono Uber per il servizio taxi, Booking per le prenotazioni alberghiere, Deliveroo per la consegna di pasti a domicilio. In cambio del servizio di visibilità e connessione le piattaforme pretendono delle commissioni dai loro inserzionisti, magari il 15% sull’intero volume di transazioni che effettuano sulla piattaforma.
Algoritmi e pubblicità
Un’attività che si è sviluppata enormemente in internet è quella delle inserzioni pubblicitarie che, a differenza della vendita di beni e servizi, non viaggiano solo su piattaforme dedicate, ma su ogni pagina web. Per esperienza, tutti sappiamo che, se consultiamo un qualsiasi sito on line, prima dobbiamo sorbirci un video pubblicitario. E lo stesso accade sia che si entri in una pagina Facebook, che si guardi un film o che si ascolti della musica. Per cui i veri re delle riscossioni pubblicitarie sono i gestori dei grandi motori di ricerca, come Google, o i gestori di social network come Facebook, che oltretutto utilizzano sofisticati algoritmi per spiare i nostri interessi e propinarci la pubblicità su tutto ciò che ruota attorno ad essi: libri piuttosto che utensili, cibo piuttosto che viaggi. Non a caso la vendita di dati è diventata un’altra attività fiorente delle imprese del web, spesso condotta in maniera totalmente occulta, e quindi totalmente estranea al fisco, come insegna il caso di Cambridge Analytica.
Ad oggi la pubblicità rappresenta la maggiore fonte di incasso per molti operatori internet. Per Google rappresenta l’85% del suo giro d’affari: 116 miliardi di dollari su 136 miliardi nel 2018. Nel caso di Facebook, la pubblicità rappresenta addirittura il 98,6% degli introiti: 55 miliardi di dollari su 55,8 nel 2018. Dedotte le spese, Facebook nel 2018 ha ottenuto profitti lordi per 25 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 3 miliardi di tasse, un’aliquota media del 12%. Idem per Google che, detratte le spese, ha avuto un profitto lordo di 35 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 4 miliardi di tasse. Eppure negli Stati Uniti, l’imposta sui redditi di impresa è del 21%. Però, sia Facebook che Google hanno eletto domicilio fiscale nel Delaware, paradiso fiscale statunitense dove l’imposta sui redditi da capitale è dell’8,7%. Inoltre, approfittano della diversità fiscale fra stati, della loro mancanza di collaborazione e della virtualità di internet per convogliare gli incassi verso i paesi a più bassa fiscalità. Talvolta, tramite strategie talmente creative da essersi guadagnate appellativi fantasiosi come «doppio sandwich irlandese imbottito all’olandese», una metodica che permette di trasferire i profitti alle Bermuda passando per l’Irlanda e l’Olanda. E se, alla fine, i paradisi fiscali qualche briciola la intascano, a rimetterci in maniera pesante sono i paesi in cui i profitti si realizzano, ma non compaiono per i trucchi contabili attuati dalle imprese. Lo dimostra il fatto che, per il 2018, Google ha dichiarato introiti in Irlanda pari a 38 miliardi di euro, pur disponendo solo di 3,6 milioni di utenti, in Italia solo per 106 milioni di euro, pur disponendo di 30 milioni di navigatori.
Uno studio di Mediobanca rivela che, fra il 2014 e il 2018, le prime 10 imprese digitali del mondo hanno risparmiato 49 miliardi di dollari, a livello globale, grazie al ricorso massiccio ai paesi a fiscalità agevolata. Lo studio ci dice anche che, in Italia, le prime 25 multinazionali del web (non solo statunitensi, ma anche cinesi) hanno dichiarato un fatturato 2,4 miliardi di euro, ma hanno versato al fisco solo 64 milioni, il 2,7% del fatturato. Il rapporto non indica quanto sarebbe dovuto essere il gettito dovuto, ma specifica che, a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, le imprese del web hanno pagato sanzioni per 39 milioni nel 2018 e 73 milioni nel 2017. Ed è sempre del 2017 il patteggiamento di Google col fisco italiano che ha accettato di versare 306 milioni di euro a sanatoria di mancati pagamenti relativi al periodo 2002-2015.
L’arroganza di Trump
Il rapporto di Mediobanca insiste anche sul fatto che, in una maniera o nell’altra, le imprese del web riescono a travasare gli incassi verso altre filiali estere facendoli passare come spese per servizi, commissioni su licenze o brevetti e altre fantasie contabili. In gergo la distribuzione degli incassi fra filiali del gruppo è definita «cash pooling» e, nel caso delle imprese del web, è gigantesca. Mediobanca stima che, in Italia, rimane solo il 14% della liquidità totale realizzata, l’altro 86% finisce come cash pooling nei paesi a fiscalità agevolata. E non va certo meglio in Francia, dove solo le «Gafa», le quattro grandi multinazionali Usa (Google, Apple, Facebook, Amazon), nel 2017 hanno avuto un giro d’affari di un miliardo e mezzo di euro, ma hanno versato al fisco solo 43 milioni. È così che, in Europa, si è cominciato a chiedere come fare per arginare questa mostruosa perdita.
Tuttavia, stentando ad arrivare una soluzione condivisa, alcuni paesi hanno deciso di muoversi autonomamente con provvedimenti fiscali propri. Fra questi Francia e Italia, con provvedimenti che, accogliendo le indicazioni della Commissione europea, hanno introdotto una tassa del 3% sui ricavi generati da alcune attività digitali prodotte da imprese con un fatturato mondiale superiore ai 750 milioni di euro.
Tutto sommato una misura piuttosto modesta, ma sufficiente a innervosire Trump che, tacciando l’iniziativa francese e italiana come provvedimenti discriminatori verso le imprese del web statunitensi, ha minacciato ritorsioni sui vini francesi e i prosciutti italiani se le misure non saranno ritirate. Ancora una volta si scrive protezionismo, ma si pronuncia arroganza.
Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.
Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.
Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.
I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.
Piergiorgio Pescali
Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato
Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..
Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.
La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.
L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.
Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga
Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».
Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.
Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.
Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.
Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.
Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.
Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.
Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.
Le minoranze rom e turca
I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.
Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.
Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.
La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.
La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.
Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.
Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».
L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.
Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.
L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.
La storia del «cacciatore di migranti»
Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.
Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».
Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.
«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.
A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.
Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.
La Bulgaria e l’Unione europea
L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.
A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.
Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).
È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).
L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.
Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.
Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.
Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».
Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.
Politici di ieri, politici di oggi
Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.
Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.
Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.
Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.
«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.
Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.
In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.
Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.
L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.
Il paese più corrotto dell’Unione
La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue, ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.
Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.
La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.
Il secondo paese più inquinato
Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali, la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.
I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.
Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.
Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.
L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.
Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.
Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.
Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.
Tanti media, poca libertà
Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.
Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.
Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa. Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).
Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.
In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.
Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.
Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».
Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.
Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».
La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».
Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.
Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.
I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.
Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.
Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.
Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).
Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.
Una nuova Bulgaria?
L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».
Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.
I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.
Piergiorgio Pescali
I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi
Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.
Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.
I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.
L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.
A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.
I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.
Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.
Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto
La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.
Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.
È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.
Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.
Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.
Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.
È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.
Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.
Piergiorgio Pescali
Ha firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.
Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.
ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.
Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.
Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.
Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).
A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.
Il cammino delle lacrime
Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.
La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.
Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).
Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).
Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).
Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.
A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.
Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).
Supremazia bianca
La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.
«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».
Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.
(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).
(Pa.Mo.)
Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).
Cosa dice la scienza
Vulnerabilità indigena
La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:
maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
carente accesso alle strutture sanitarie.
(a cura di Paolo Moiola)
Fonti:Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.
Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*
superficie: 71.000 km2*
stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
popolazione: 173.000*
presidente: Jonathan Nez
tasso di disoccupazione: 40 per cento
tasso di povertà: 40 per cento
(*) La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.