Consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, Imc
Consacrazione episcopale
di padre Giorgio Marengo, Imc
Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia
Carissimi Fratelli e Sorelle,
la comunità cattolica della Mongolia
e i Missionari e le Missionarie della Consolata
con gioia annunciano che la consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo,
per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, avverrà il giorno 8 agosto, alle ore 10, al Santuario della Consolata di Torino.
Nominato Prefetto Apostolico e vescovo da Papa Francesco lo scorso 2 aprile, padre Giorgio ha aspettato fino all’ultimo che ci fossero le condizioni per organizzare la consacrazione episcopale a Ulaanbaatar, in Mongolia, dove sarebbe stato naturale che avvenisse. Ma a causa delle severe restrizioni applicate per contenere la pandemia Covid-19, è diventato evidente che tali condizioni non si sarebbero date e sarebbe stato impossibile persino ai vescovi consacranti entrare nel paese.
Si è quindi pensato all’Italia e la scelta di Torino è stata spontanea, sia per il profondo legame dell’Istituto con la chiesa subalpina che per le origini stesse di padre Giorgio.
Padre Giorgio Marengo sarà consacrato il giorno 8 agosto, alle ore 10, nel Santuario della Consolata di Torino, per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, assistito dal cardinal Severino Poletto e dall’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia.
Anche la scelta del Santuario della Consolata non è casuale. Con questo gesto si vuole esprimere anzitutto una profonda gratitudine alla Consolata per aver inviato i suoi missionari nelle lontane terre della Mongolia. È la Consolata che ha voluto i suoi missionari in Mongolia e, quindi, è al suo abbraccio che è affidata tutta la Prefettura Apostolica.
«Che la consacrazione episcopale avvenga a Torino è il risultato di un misterioso intreccio di eventi ed è un dono del tutto inaspettato – scrive padre Giorgio -. I legami di amicizia e di collaborazione che ci uniscono vi porterebbero certamente a voler essere tutti presenti quel giorno al Santuario della Consolata, ma questo non sarà purtroppo possibile: siamo infatti ancora in tempi difficili e non possiamo dimenticarcelo.
Queste restrizioni ci impongono un sacrificio, quello cioè di lasciare che alla celebrazione partecipi solo un gruppo su invito personale: membri della mia famiglia stretta e di quella allargata dei Missionari e Missionarie della Consolata, con un’esigua rappresentanza di sacerdoti e consacrati e consacrate e di altre Chiese particolari legate alla Mongolia. Sono sicuro che tutti capite la situazione e troverete il modo di farvi presenti con la preghiera e l’affetto anche a distanza».
Padre Giorgio sarà il secondo missionario della Consolata a diventare vescovo nel santuario dopo mons. Filippo Perlo consacrato il 23 ottobre 1909 dal cardinal Agostino Richelmy.
Inoltre, attraverso il cardinal Tagle, padre Giorgio riceve anche un insolito legame con la chiesa torinese, perché nello loro linea di successione apostolica c’è il cardinal Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino dal 1883.
Per favorire la comunione e rendere possibile a tanti di partecipare «a distanza», sarà predisposta una trasmissione in diretta internetsul canale YouTube della diocesi di Torino, su quello dei Missionari della Consolata e quello della prefettura in Mongolia. Dettagli per il collegamento verranno comunicati quanto prima.
Incontri col nuovo vescovo
Nei giorni successivi alla consacrazione sarà comunque possibile salutare il nuovo vescovo che incontrerà diverse comunità prima del suo ritorno in Mongolia. I primi appuntamenti sono domenica 9 agosto:
ore 10.30 nella Chiesa del Beato Giuseppe Allamano – Casa Madre dei Missionari della Consolata (C. Ferrucci, 18)
ore 18.00, nella parrocchia S. Alfonso Maria de’ Liguori (via Netro, 3)
Uno degli ultimi è domenica 30 agosto:
ore 11.00 nella parrocchia Maria Regina delle Missioni (via Cialdini, 20)
Uniamoci in spirito a questo evento e preghiamo soprattutto per la Chiesa in Mongolia.
Un virus diecimila volte più piccolo di un millimetro, capace di replicarsi a velocità folle, da mesi sta tenendo il mondo in scacco, buttando all’aria l’economia, sfidando la politica, mettendo a nudo la nostra fragilità e i nostri errori, obbligandoci a rivoluzionare il nostro modo di vivere e offrendoci l’opportunità di revisionare le nostre scelte nel campo della salute, dell’ambiente, del trasporto, del divertimento, e persino il nostro modo di vivere la dimensione religiosa.
Fin dai primi giorni ci siamo ripetuti come un mantra «ce la faremo», «andrà tutto bene», per trovarci oggi, in realtà, in una crisi a cui non eravamo preparati. Una crisi che non solo aumenta il disagio sociale nelle nostre nazioni ricche, ma rischia di far crescere esponenzialmente le situazioni di povertà e le diseguaglianze in gran parte del mondo.
Una crisi che da una parte ha fatto emergere valori bellissimi di solidarietà, fraternità, gratuità e buon vicinato, ma dall’altra ha aperto nuovi spazi di manovra per gli sciacalli delle mafie – sia quelle tradizionali che quelle in doppiopetto delle multinazionali e della finanza -, gli assetati di potere e i nuovi profeti che hanno le soluzioni magice in tasca.
Le bandiere, gli arcobaleni e gli striscioni con le scritte «ce la faremo» o «andrà tutto bene» ci sono ancora, sempre più sbiaditi però. La voglia che tutto finisca presto è grande. Aumenta la stanchezza per un modo di vivere che non è naturale. Si guarda con scetticismo a chi promette sicurezza, ma allo stesso tempo chiude la vita, gli affetti, le relazioni, la gestualità e la libertà in gabbia.
Pur con grande incertezza, stiamo muovendo i primi passi fuori dal tunnel. Il rischio è quello di ritornare alla vita di prima ignorando quello che dalla pandemia potremmo imparare. In questa voglia di recupero, corriamo anche il pericolo di dimenticarci il resto del mondo, già normalmente poco ricordato, per curarci solo di noi stessi e delle nostre ferite.
Le notizie che arrivano da altri paesi del mondo sono tutt’altro che incoraggianti. L’Africa, che sembra resistere al virus meglio di quanto ci si aspettasse, è ancora lontana dal picco della pandemia, e questo è preoccupante, conoscendo lo stato deficitario del suo sistema sanitario che favorisce solo chi può pagare, mentre i poveri non hanno alcuna protezione, a parte quella offerta con grande sforzo dalle Chiese e dalle Ong.
I poveri, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, stanno pagando la pandemia in due modi: non possono «lavorare», e quindi non mangiano, e se si ammalano (e non solo del coronavirus) sono fatti loro. Che poi abbiano più paura della fame (che conoscono) che del virus (di cui sentono tanto parlare), è normale. E questo è vero in tutto il mondo: dal Messico con i suoi 100 morti al giorno per violenza, all’India con milioni di persone buttate sulla strada; dal Brasile dove le autorità negano il problema e sacrificano i popoli indigeni nella dissennata corsa all’oro e alle altre risorse dell’Amazzonia, al Venezuela che aveva un sistema sanitario collassato già prima della pandemia.
La sfida è grande, e per questo occorre pensare in grande e in modo nuovo e creativo. È tempo di mettere al centro la qualità della vita e non solo la «sicurezza». Soprattutto occorre restare umani e accettare e valorizzare fino in fondo la nostra umanità, senza cedere alla logica della paura e della diffidenza. Distanze, mascherine e quant’altro, funzionano se ci permettono di «stare insieme nel rispetto reciproco, trasmettendo l’idea che le attenzioni che abbiamo sono un modo per prenderci cura dell’altro e di noi stessi e non lo specchio di una paura dell’altro*». Questo nelle relazioni interpersonali, in casa o con il vicinato, ma anche nei rapporti tra nazione e nazione. È la grande sfida, ad esempio, dell’Europa di oggi, se non vuole restare un puro agglomerato economico. È l’occasione per reinventare le relazioni tra paesi poveri e paesi ricchi, nella coscienza che o ci salviamo e salviamo questo nostro mondo insieme, o è la rovina per tutti.
Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.
La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).
Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.
Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.
Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?
Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,
Lorenzo Bragagnolo 22/05/2020
Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.
Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).
Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).
È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.
Il capestro del debito
Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.
Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.
Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.
È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente
Valerio Liberati 22/05/2020
Caro Valerio, grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.
Francesco Gesualdi 02/06/2020
Suggerimenti
Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.
Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.
D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.
Claudio Bellavita 13/05/2020
Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.
Soldi per armare terroristi
Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.
Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]
Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.
Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.
Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.
Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.
Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.
Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.
Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.
Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!
Alberto Zorloni 02/06/2020
Caro Alberto, condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.
L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.
Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).
Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in Italia e nel mondo.
Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.
Speciale Covid e missionari
Da Tura mission, Tanzania
15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…
Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?
Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…
23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.
Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.
I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.
29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua
26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.
03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.
24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.
padre Remo Villa, Tura mission, TZ
Yokkok, Corea del Sud
La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.
Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.
Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.
Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.
Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.
padre Lamberto Giampaolo Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020
San Antonio Juanacaxtle, Messico
19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.
Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.
Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.
21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.
24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.
Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.
06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.
12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.
17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.
Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.
21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.
Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.
25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.
30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.
padre Ramon Lazaro, Guadalajara, Messico
Brasile: Chico Mendes sfrattato
testi di Silvia Zaccaria e Paolo Moiola |
Nata nel 1994 per aiutare i figli dei caboclos del Rio Jauaperi, un affluente del Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, la scuola di «Vivamazzonia» è stata costretta a chiudere a fine dicembre. Un’esperienza pedagogica e didattica di grande respiro ha dovuto cedere il passo al business e al momento storico.
Il dibattito sul futuro dell’Amazzonia e dei suoi popoli è recentemente tornato di drammatica attualità: deforestazione incontrollata, disconoscimento dei diritti costituzionali delle minoranze e un nuovo nemico sconosciuto e invisibile (il coronavirus) che penetra anche nei villaggi più remoti, rappresentano una minaccia non solo per i popoli indigeni ma anche per quelle popolazioni tradizionali – seringueiros, quilombolas e ribeirinhos (si veda glossario, ndr) – che da secoli dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza fisica e culturale.
La relazione privilegiata che intrattengono con essa ha permesso a questi gruppi umani di acquisire conoscenze sconfinate su animali e piante, comprese quelle medicinali, sul ritmo delle acque dei fiumi e sul regime delle piogge.
Senza un’educazione, incentrata sulla valorizzazione di questi saperi e sull’accesso alla cittadinanza, alle nuove generazioni nate e cresciute nella foresta – dove ormai vive appena il 26% della popolazione amazzonica – non resta che emigrare verso le città, nelle quali, persi i propri riferimenti socio spaziali, rischiano di diventare facili prede dei circuiti illegali.
Per provare ad arginare questo fenomeno apparentemente inarrestabile, una coppia di volontari venuti da lontano ha portato avanti per oltre vent’anni (1994-2020) un progetto educativo visionario nel cuore della foresta. Che ora è stato bruscamente interrotto.
La scuola di Bianca e Paul
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’Amazzonia inizia ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale a causa del profondo disboscamento che già interessa ampie zone della foresta. Il leader indigeno Raoni Kayapò sta facendo conoscere al mondo il dramma del suo popolo e Chico Mendes, seringueiro e sindacalista, viene assassinato (22 dicembre 1988).
Dopo un primo viaggio al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima, nel Nord del Brasile, una giovane toscana, Bianca Bencivenni e Paul Clark, scozzese, decidono di trasferirsi in un’area ancora poco esplorata del rio Jauaperi, un affluente del rio Negro, abitata solo dagli indigeni Waimiri-Atroari e dai caboclos, un misto di indigeni e persone immigrate dal Nord Est del paese, che vive in un isolamento geografico e culturale lungo i fiumi e gli igarapés (corsi d’acqua navigabili in canoa), da cui anche l’appellativo ribeirinhos.
Dopo qualche tempo, gli abitanti del posto chiedono a Bianca e Paul di insegnare a leggere e a scrivere ai loro figli, perché l’unica scuola pubblica esistente nella zona è quasi sempre chiusa visto che i professori, non venendo pagati, non si presentano per mesi.
Così, nel 1994 viene aperta una nuova scuola sul fiume: una maloca senza pareti, sul modello di quella dei vicini indigeni, dove realizzare un’educazione compenetrata con il contesto in cui, allo studio delle materie curricolari, si alternano uscite all’esterno, per fare esperienza diretta del mondo circostante, carico di significati.
Il libro e l’Italia
A seguito dei viaggi della coppia in Italia, dove fanno conoscere l’iniziativa soprattutto nelle scuole, alcune di esse avviano degli intensi scambi epistolari con la scuola nella foresta. Dai disegni colorati e dalle parole piene di poesia degli alunni del primo ciclo nasce O livro da selva, libro bilingue italiano-portoghese.
Nel 1998 Paul e Bianca fondano, poco più a Sud, la scuola Vivamazzonia, dal nome dell’associazione omonima cui hanno dato vita con un gruppo di amici italiani.
La prima generazione di ragazze e ragazzi alfabetizzati spinge gli adulti della comunità ad imparare a leggere e a scrivere, per uscire dalla condizione di svantaggio che li rende facile preda di coloro che da sempre approfittano di una popolazione analfabeta e sottomessa.
La scuola avvia anche progetti di preservazione della natura e di sensibilizzazione contro la pesca predatoria e il bracconaggio di alcune specie di tartarughe a rischio di estinzione. Progetti che coinvolgono gli alunni in un’esperienza unica di educazione e attivismo ambientale.
Queste attività generano l’ostilità di una parte della popolazione. Bianca e Paul subiscono minacce e intimidazioni anche da parte del governo locale che non esita a mandare un contingente militare nella zona.
La «riserva estrattiva»
Sul fiume manca qualsiasi realtà organizzata che rappresenti le istanze degli abitanti e si opponga alle attività illecite portate avanti da una parte di questi.
A partire dal lavoro con i bambini, Paul e Bianca stimolano i genitori a costituirsi in associazione per generare una fonte di reddito alternativa e sostenibile a partire dal riscatto di antiche tecniche artigianali e, allo stesso tempo, agire assieme ai figli in difesa del proprio ambiente di vita.
Nasce l’Associazione degli artigiani del Rio Jauaperi (Aarj). Questa si impegna da subito per raggiungere un accordo intercomunitario che proibisca la pesca commerciale (la legge relativa è in vigore ancora oggi) e sostiene la creazione di una «riserva estrattiva» sul fiume.
Riconosciuta nel giugno 2018, dopo anni di lotte, la «Reserva extrativista baixo rio Branco-Jauaperi» è una delle 89 aree protette esistenti oggi in tutto il Brasile. Nelle riserve le risorse sono utilizzate solamente dalle popolazioni locali che da esse traggono il proprio sostentamento e di cui Chico Mendes fu strenuo sostenitore.
Nel gennaio 2020, dopo oltre vent’anni di attività, in gran parte prestata a titolo volontario, Bianca e Paul sospendono le lezioni per una scelta politica dell’amministrazione di Novo Airão, il municipio di appartenenza. E questo, malgrado il riconoscimento di tante madri, padri e dei loro figli, oltre che di personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui il musicista e attivista per i diritti indigeni Milton Nascimento che aveva recentemente fatto visita alla scuola Vivamazzonia.
Caboclos di ieri e di oggi
Pescatori, piccoli agricoltori, artigiani, raccoglitori dei prodotti della foresta (extrativistas), levatrici tradizionali (parteiras) e guaritori: questi erano i caboclos quando li ho conosciuti al principio degli anni ’90.
Oggi alcuni partecipano a progetti di ecoturismo come guardie ecologiche e, di quella prima generazione di bambini alfabetizzati, alcuni sono diventati professori. Oggi hanno una legge che – teoricamente – tutela la lora terra e, con essa, la loro cultura.
Politiche contrarie alla protezione ambientale e ai popoli indigeni e tradizionali come quella dell’attuale governo brasiliano – che trova seguaci persino negli angoli più sperduti del paese tra coloro che si accaparrano voti approfittando dell’abitudine atavica dei più deboli di rinunciare ai propri diritti in cambio di qualche sacco di riso e pacco di zucchero – ostacolano la maturazione di una vera consapevolezza ecologica e di una coscienza politica anche alle latitudini amazzoniche.
Neanche il duro lavoro di persone come Paul e Bianca può determinare, da solo, quel cambiamento culturale dal basso necessario a contrastare la distruzione e l’abbandono della foresta e la perdurante situazione di esclusione socio-economica dei suoi abitanti.
Tra i caboclos, i rezadores e i pajé (sciamani), capaci di guarire e riparare i mali, sono praticamente scomparsi; il boto cor de rosa (un delfino di fiume, ritenuto in grado di trasformarsi in essere umano) è quasi estinto, mentre il mapinguari, il curupira e altri esseri fantastici non popolano più la foresta, né l’immaginario di piccoli e grandi.
Quando le risorse naturali saranno consumate definitivamente in nome dello «sviluppo», i caboclos di oggi si ritroveranno, come la generazione precedente, a vagare nelle metropoli amazzoniche, dimentichi della propria cultura e delle proprie radici, ma questa volta non sarà più possibile tornare indietro.
Silvia Zaccaria
Il Brasile e la presidenza Bolsonaro
Senza freni, senza vergogna
All’alleanza tra Bolsonaro, militari, allevatori ed evangelici ora si è aggiunto anche il nuovo coronavirus. Un mix micidiale che sta devastando l’ambiente e mettendo a rischio la vita dei brasiliani e la stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.
Difficile dire cosa stia procurando più danno ai popoli indigeni e all’Amazzonia: se le politiche poste in essere dal governo di Jair Messias Bolsonaro o il nuovo coronavirus. Di certo, la pandemia ha trovato maggiori possibilità di diffondersi e di uccidere a causa delle politiche governative. Nel corso di questo 2020, Bolsonaro, il Trump brasiliano – come viene giustamente soprannominato -, non ha modificato di un millimetro le proprie posizioni anti-indigene e anti-ambientaliste, forte dell’appoggio dei militari, degli allevatori e degli evangelici, tutti ben rappresentati nella compagine governativa.
Fin dall’inizio Bolsonaro ha ripetuto che con lui non ci sarebbero state altre demarcazioni di terre indigene. Il presidente non si è però limitato a bloccare questo processo, peraltro previsto dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988. Ha addirittura iniziato un’operazione contraria sottraendo terre ai popoli indigeni. In qualsiasi modo. Sia non frenando le invasioni (come quelle dei garimpeiros nella terra degli Yanomami) che cercando di legalizzarle attraverso il riconoscimento formale delle terre invase e, di conseguenza, della pratica fraudolenta nota come «grilagem de terras» (falsificazione della proprietà fondiaria). Invasioni che, in questo periodo, hanno tra l’altro favorito la diffusione del nuovo coronavirus tra popolazioni più vulnerabili – lo certificano sia la scienza che la storia – ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).
Cancellare la foresta e i popoli indigeni
La deriva di Bolsonaro coinvolge anche i suoi ministri. Abraham Weintraub, ministro dell’istruzione, ha dichiarato: «Odio il termine “popoli indigeni”» (22 aprile). Per parte sua, Ricardo Sales, ministro dell’ambiente, ha spiegato che è necessario approfittare della pandemia e della conseguente disattenzione dei mezzi d’informazione per cambiare le regole ambientali in senso meno restrittivo. Non si è fatto attendere il plauso delle potenti organizzazioni dell’agrobusiness.
La deriva è così sfacciata che un quotidiano conservatore e moderato come la Folha de S.Paulo è arrivato a scrivere, in un proprio editoriale (del 24 maggio), che «Per il governo di Bolsonaro, una buona foresta è una foresta morta» (Para o governo Bolsonaro, floresta boa é floresta morta). I dati confermano drammaticamente questa affermazione. Per esempio, lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Stessa devastazione stanno subendo la Mata Atlantica e il Cerrado, gli altri due biomi brasiliani.
Chi si discosta dalla linea del presidente viene prontamente sostituito: è successo con il ministro della giustizia, Sérgio Moro (il controverso giudice che ha fatto condannare l’ex presidente Lula), e con ben due ministri della salute, entrambi medici, Luiz Mandetta e Nelson Teich. In piena pandemia il dicastero della salute è stato affidato a Eduardo Pazuello, un generale dell’esercito.
La religione come strumento
È più difficile che ci siano problemi con la ministra per la famiglia, la donna e i diritti umani, Damares Alves, pastora evangelica. Uno degli slogan preferiti di Bolsonaro è infatti «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos» (il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti). In un tweet il presidente – come Trump, anche lui ha un utilizzo compulsivo di questo strumento di comunicazione – scrive: «Sono presidente perché la maggior parte delle persone si è fidata di me, così come sono vivo perché Dio lo ha permesso» (26 maggio).
Da sempre Bolsonaro usa la religione in modo strumentale per legare (come peraltro suggerisce l’etimologia del termine: «religare», legare, appunto) a sé una parte della popolazione brasiliana, in particolare quella che segue le cosiddette Chiese neo-evangeliche, avamposto ideologico dell’individualismo e del capitalismo neoliberista.
In quest’ottica, una delle decisioni più spudorate riguarda la nomina di Ricardo Lopes Dias, già missionario nella regione Vale do Javari per conto della organizzazione evangelica Missão Novas Tribos do Brasil (Mntb, all’estero ribattezzata Ethnos 360), a coordinatore per i popoli isolati della Funai, l’organo federale deputato alla difesa dei diritti dei popoli indigeni. Mntb è conosciuta per il suo fondamentalismo e la mancanza di rispetto per le culture indigene. Per fortuna, al momento, la nomina di Dias è stata bloccata da un Tribunale federale perché metterebbe a rischio la politica di non contatto con i popoli in isolamento.
Un piccolo contrattempo in un processo di subordinazione in fase molto avanzata. La Funai, infatti, è già nelle mani di evangelici e latifondisti. Il ministro della giustizia da cui essa dipende è un pastore evangelico (André Mendonça, che dunque porta a due i pastori nel governo Bolsonaro), mentre il suo presidente è un membro della polizia contiguo ai latifondisti e in passato accusatore della stessa Funai (Marcelo Augusto Xavier da Silva).
Il coraggio del Cimi
In tutto questo, va dato merito a quasi tutta la Chiesa cattolica di aver seguito una linea opposta, contrastando in maniera chiara e coraggiosa tutte le politiche anti-indigene e anti-ambientaliste del presidente. In particolare, attraverso il Cimi (Consiglio indigenista missionario) e la Repam (Rete ecclesiale panamazzonica), convinti seguaci della linea segnata da papa Francesco con la Laudato si’ e il Sinodo panamazzonico.
Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».
La morte è il destino di tutti
Fin dall’inizio il presidente brasiliano è stato un leader negazionista (dell’emergenza climatica e del problema amazzonico). Non poteva che mantenere questo suo atteggiamento anche davanti alla pandemia, prima definita una gripezinha (lieve influenza) poi contrastata con la clorochina (come Trump). In un crescendo di dichiarazioni stupefacenti: il 2 giugno Bolsonaro risponde a una sostenitrice che morire «è il destino di tutti»; il 5 attacca (identicamente a Trump) l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ordina di divulgare il bollettino sulla pandemia soltanto nella notte perché così la Globo (la principale emittente del paese) smetterà di essere soltanto una «Tv funerária».
Peccato che il Brasile evidenzi numeri drammatici con oltre 800mila contagiati e più di 40mila morti (dati aggiornati al 11 giugno, anche se il sito ufficiale del Sus è semi oscurato per ordine del presidente). Tra i suoi popoli indigeni si contano 236 morti, 2.390 contagiati e 93 popoli coinvolti (Apib-Sesai, 6 giugno). Numeri che non debbono trarre in inganno facendo sottovalutare la pericolosità della situazione. Oltre alla maggiore vulnerabilità (tra gli indigeni il tasso di letalità arriva al 10%), non dimentichiamo che le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus.
Via Bolsonaro (e Trump)
La speranza di molti (e nostra) è che, assieme al virus, se ne vada quanto prima anche il presidente Bolsonaro (ci sono molte richieste d’incriminazione nei suoi confronti) e, a novembre (in occasione delle elezioni), anche Donald Trump, il suo collega e sodale nordamericano.
Paolo Moiola
Glossario
Caboclo: discendente da popolazioni indigene e popolazioni immigrate dal Nord Est del paese. Il rapporto dei caboclos con i popoli indigeni è stato sempre conflittuale. Fino a poco tempo fa, i caboclos non si consideravano di sangue indigeno e spesso negavano di avere una pur lontana ascendenza indigena. Vista l’accezione dispregiativa del termine «caboclo», usato dalla società dominante per descrivere una persona socialmente inferiore, che abita nelle zone più interne o nelle periferie urbane dell’Amazzonia, i caboclos hanno iniziato recentemente a rivendicare la propria «indianità».
Extrativistas: coloro la cui sussistenza dipende dalle risorse dell’ambiente in cui vivono. Gli extrativistas che abitano l’ambiente amazzonico possono essere: seringueiros se estraggono il caucciù dall’albero della seringa; castanheiros se raccolgono la noce del Brasile; quebradeiras se donne «che spaccano» il cocco della palma babaçu.
Igarapé: piccolo corso d’acqua percorribile con la igara (canoa).
Pajé: sciamano, il leader spirituale riconosciuto dalla comunità. Mantiene il contatto con gli spiriti. Svolge anche rituali di cura individuali.
Quilombolas: discendenti di schiavi fuggiti che, nella foresta, diedero vita a comunità autonome chiamate quilombos.
Rezador: persona che cura attraverso le preghiere e che conosce le piante medicinali. Si trova anche in contesti rurali e sincretici.
Ribeirinho: è il caboclo abitante lungo le sponde di fiumi, laghi e igarapés amazzonici, che vive di pesca, agricoltura e attività estrattive.
Si.Za.
Meriti
Lo scorso febbraio la presidenza della Repubblica italiana ha conferito un’onorificenza a una nostra connazionale operante in Amazzonia a cui è stato attribuito il merito per «la prima generazione di bambini non analfabeti, il contrasto all’esodo urbano e alla povertà» sul fiume Jauaperi.
Un obiettivo che Paul e Bianca hanno perseguito proprio in quello stesso angolo di mondo, per oltre venticinque anni con un lavoro instancabile, portato avanti in solitudine e lontano dai riflettori. Un impegno che, purtroppo, non ha ottenuto il riconoscimento che meritava.
Si.Za.
Argentina: Amplificare la voce indigena
testo di José (Giuseppe) Auletta |
Anche in Argentina i missionari della Consolata hanno scelto di operare tra i popoli indigeni. Padre José (Giuseppe) Auletta, oggi tra i Huarpe della provincia di Mendoza, racconta i motivi di questa scelta partendo dalla propria esperienza personale.
La presenza dei missionari della Consolata in Argentina risale al 1946. Gli inizi ci situarono fra Buenos Aires e Rosario. Dopo pochi anni, ci fu la richiesta del vescovo di Resistencia (Chaco), mons. Nicola De Carlo (1940-1951), di dedicarci all’evangelizzazione degli indigeni Tobas, presenti sia nella provincia del Chaco che in quella di Formosa, al Nord Est dell’Argentina. Il servizio in quell’ampia zona andò avanti per un po’ di anni e poi si orientò più che altro a sopperire alla mancanza di clero nella Chiesa locale.
Ad ogni modo, il fatto che si richiedesse a noi missionari, proprio agli inizi della nostra presenza nel paese, e appellandosi allo specifico carisma «ad gentes», di dedicarci ai popoli indigeni, non è un segno da trascurare.
La scelta indigena appare anche negli atti delle Conferenze del nostro istituto. Nell’ultima, si è anche deciso la creazione della vicaria dei popoli indigeni a Yuto (provincia di Juijuy), dove c’è una popolazione guaranì numericamente e culturalmente significativa e dove già presta servizio un nostro confratello, padre Thomas Ishengoma.
La scoperta della realtÀ «Multi»
Per quanto riguarda la mia esperienza personale, capii la chiamata all’accompagnamento dei popoli indigeni quando fui destinato, alla fine del 1983, a Machagai (Chaco). Fu lì che ebbe inizio uno dei momenti forti della mia vita missionaria. Appena presi in carico la parrocchia, mi resi conto che la realtà era «multi»: multietnica e multiculturale, con i criollos/contadini, gli indigeni e gli immigrati europei.
Insieme alle suore della Consolata decidemmo di andare a fare le prime visite alla Colonia aborigen Chaco, che dista dalla parrocchia 20 chilometri. Così, almeno una volta al mese, stabilimmo un primo approccio alla realtà indigena dei Tobas, o Qom, come si chiamano nella loro lingua.
Finito il mio periodo di parroco, la grazia di Dio, con il permesso del superiore, consentì che andassi a vivere dieci anni con loro, inserito nella loro stessa realtà, condividendo la lotta per la terra, da loro iniziata novant’anni prima e coronata, in seguito, con l’aggiudicazione del titolo di terra comunitaria nell’anno 1996. Condivisi, inoltre, diversi progetti che migliorarono le condizioni di vita (strade, centri comunitari, acqua, case, ecc.): tutto portato avanti grazie al tradizionale spirito comunitario indigeno, in un graduale apprendistato da parte mia. Ricordo che quando iniziammo il primo progetto – una strada interna che avrebbe facilitato l’accesso alla scuola, ai posti di assistenza sanitaria e la comunicazione con il centro urbano – nella riunione comunitaria in cui si organizzava il lavoro, misi a disposizione l’aiuto di benefattori per una paga giornaliera di 10 pesos. Alzò la mano un membro della comunità e disse: «Padresito: la ringraziamo, però accettiamo la metà. Il resto è il nostro contributo per qualcosa che si trasformerà in un bene per noi».
Fu lì che appresi come accompagnarli, lasciando da parte assistenzialismo e paternalismo e dando spazio a un reciproco coinvolgimento.
Con lo spirito di Endepa
Sin dai primi anni nel Chaco cominciai a essere in contatto con Endepa (Équipe nazionale di pastorale aborigena).
Endepa mi ha aiutato a essere sempre più concreto e chiaro in questo impegno: prima insegnandomi – con incontri e formazioni – i criteri di accompagnamento, poi assegnandomi alcune responsabilità nella sua struttura organizzativa.
Vissi così una prima tappa, nel Chaco, di 17 anni, a cui fece seguito una seconda di 13, passando dal Nord Est al Nord Ovest, nella diocesi di Orán (provincia di Salta), dove ebbi a che fare con una pluralità etnica molto più varia: Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri.
Come avevo fatto nel Chaco, dovetti seguire problemi di conflitti per la terra, nei quali m’impegnai con tutte le mie forze. L’essere in contatto con quella realtà fu per me sorgente di una grande forza. Vedevo negli indigeni non solo la sofferenza e la fatica di andare avanti per colpa della violenza dei latifondisti e delle multinazionali, ma anche la fiducia che, alla fine, la giustizia avrebbe avuto l’ultima parola.
Questa testimonianza di resistenza indigena fu per me un gran regalo, rafforzando sempre più la convinzione che i popoli indigeni in Argentina sono l’espressione concreta del nostro «ad gentes». Dedicarci a loro ha a che vedere con il nostro carisma. Scoprire e inserirmi in questa realtà mi ha fatto sentire in sintonia con quel carisma.
«Qui non ci sono indigeni»
È stata, ed è, una gioia e una soddisfazione lavorare con lo spirito di Endepa, partecipando al suo impegno con i popoli indigeni e con la Chiesa locale, anche se – proprio a livello di Chiesa e di società – si fa fatica a superare l’idea che, in Argentina, «non ci siano indigeni».
Invece, i popoli indigeni sono una realtà evidente, soprattutto se consideriamo il momento forte dell’auto-riconoscimento della propria identità, in occasione della riforma della Carta costituzionale.
La prima Costituzione risaliva al 1853. Nel 1994, quando fu fatta la riforma, a cui anch’io partecipai, vedevamo i rappresentanti dei popoli indigeni che si aggiravano negli spazi dell’Assemblea costituente rendendo evidente la loro presenza, dal primo all’ultimo giorno. Li chiamavano i «Costituenti di corridoio». Sempre in contatto con un costituente o un altro, per dire loro con tutta chiarezza: «Noi siamo qui, esistiamo e abbiamo diritti!».
Che cosa successe con questa riforma? Dopo tante discussioni, venne approvato l’articolo 75 comma 17, che finalmente riconobbe la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni, il diritto alla terra, il diritto all’educazione bilingue e interculturale, il diritto a essere consultati su questioni che li riguardano, soprattutto circa l’uso delle risorse (beni) e del territorio. Entrare nella Costituzione rappresentava il riconoscimento dell’Argentina come paese plurietnico e plurinazionale.
In tutto questo cammino Endepa è stata presente. Attualmente faccio parte del Coordinamento nazionale che è composto da una coordinatrice presidente e due coordinatori per le tre regioni (Sud, Nord Ovest e Nord Est). Io rappresento la regione Nord Ovest, insieme con un’altra persona.
Questa appartenenza permette di sentirmi ed essere considerato semplicemente un fratello, nella condivisione del cammino delle comunità originarie, celebrando la fratellanza, che per me è la migliore definizione di missione.
Condividere il cammino con i popoli originari
Il cammino condiviso con i popoli indigeni è un vero apprendistato in cui l’agente pastorale – laico, religioso, missionario – accede a una profonda e collettiva esperienza dello Spirito che in tutto esercita il primato, che vive ed è presente in ogni forma del Creato. Questo atteggiamento contemplativo e vitale offre alla Chiesa e all’umanità una profetica purificazione di fronte al secolarismo imperante e alla perdita dei valori spirituali e del senso della vita.
Inoltre, la sfida dell’inculturazione obbliga oggi più che mai a valorizzare l’esperienza religiosa dei popoli originari che credono che il Dio di Gesù Cristo sia stato presente e abbia operato da sempre nelle loro culture e successivamente fu loro annunciato nel Vangelo. Di questo Gesù di Nazareth fa gioiosa esperienza il missionario nel suo quotidiano camminare con i popoli. Si arriva così alla convinzione, secondo la quale, l’esperienza religiosa dei popoli indigeni è valida ed è stata suscitata dallo Spirito. Perciò deve muovere al dialogo interreligioso con coloro che si mantengono fedeli alla cosmovisione e alle esperienze religiose dei predecessori, superando i diversi etnocentrismi.
Compagni di cammino
È importante superare la paura della scomodità che possono dare gli indigeni all’interno della Chiesa, dovendo cambiare certi schemi. Trent’anni fa la Chiesa era chiamata a essere la «voce dei senza voce». Oggi i popoli indigeni hanno voce propria e la Chiesa deve soltanto amplificarla.
«Non è più ammissibile continuare a vedere gli indigeni come oggetti di studio o solamente come vittime e oggetto di benevolenza, ma come compagni di cammino, come soggetti protagonisti della nostra storia, del nostro sviluppo ed evangelizzazione» (Petul Cut Chab Huistán, teologo indigeno del Chiapas).
Come ebbe a dire papa Francesco a Puerto Maldonado (Perú): «Più che parlare di “minoranze etniche”, bisogna parlare di “rappresentanti autorevoli” della loro realtà e identità di popoli». «Gentes», appunto, e non minoranze.
Riprendendo il «vissuto» della missione come fratellanza, mi preme mettere in risalto che questa ha come basi fondamentali due elementi: la presenza dei «semi del Verbo» in ogni popolo e cultura e il paradigma dell’interculturalità.
Un rapporto tra eguali
I «semi del Verbo» sostengono la saggezza, le varie espressioni di spiritualità e perfino una vera e propria teologia indigena.
Il paradigma dell’interculturalità ci permette di stabilire un rapporto da uguali fra culture, lasciando da parte ogni pretesa di superiorità che, per troppo tempo, abbiamo manifestato nel nostro modo di fare missione.
Diventa, per noi missionari ad gentes, essenziale scuoterci dal torpore e prendere coscienza della necessità di formarci al riguardo sin dai primi anni, in vista del presente e del futuro di quanti scelgono la missione.
L’Argentina fa parte di un continente con una ricchissima varietà di popoli indigeni. Finalmente riconosciuti, essi non sono solo il passato, ma il presente per qualsiasi società. Come anche per il carisma dei missionari della Consolata, arricchito dal «cosmo vissuto» di questi popoli.
José (Giuseppe) Auletta*
(*) Oggi padre Auletta lavora nella provincia di Mendoza, occupandosi, su delega del vescovo mons. Marcello Colombo, del territorio denominato «Secano Lavallino» abitato da 11 comunità indigene appartenenti al popolo huarpe. Le comunità sono sparse su una superficie di 700mila ettari (7mila chilometri quadrati). Ne parleremo in maniera approfondita in un prossimo articolo.
Il coronavirus in Argentina
Tanta uva, poca solidarietà
Anche in Argentina è arrivato il virus della Covid-19. Nell’attualità sembra che i casi siano relativamente pochi, sia di malati che di morti (27.373 positivi, 765 deceduti, all’11 giugno). Tuttavia, dare cifre di contagiati, quantità di tamponi, ricoverati con diversa gravità e deceduti, è molto relativo, se non azzardato, soprattutto con riferimento a quanto succede nelle grandi città (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Santa Fe, Mendoza) o in provincie dell’interno, ognuna con situazioni diverse.
La maggior parte dei casi complicati si registra nella capitale e nella Gran Buenos Aires e in fase di lento però costante aumento, soprattutto negli insediamenti tipo «villas miserias».
La situazione potrebbe aggravarsi in prossimità della stagione fredda di metà autunno e successivamente della prima parte dell’inverno.
Il governo nazionale, in accordo con le provincie, ha adottato misure restrittive abbastanza rigide (un lockdown dal 19 marzo fino al 7 giugno), ma c’è parecchia incertezza circa la decisione di un allentamento delle stesse e l’inizio delle fasi che permetterebbero l’apertura graduale delle varie attività sia istituzionali (istruzione, giustizia ecc.) che private (produzione, commercio, sport ecc.).
Ci sono state eccezioni, nel contesto generale dell’isolamento sociale, che hanno permesso lo svolgimento di alcune attività produttive. Tra queste, nella provincia di Mendoza, è stata autorizzata la vendemmia, iniziata alla fine di dicembre e conclusa a fine aprile. Quella della vendemmia è un’attività che attrae molta mano d’opera proveniente dalle provincie del Nord Ovest (Salta e Jujuy) e anche da alcune più lontane come Formosa, del Nord Est del paese. Molti operai appartengono a comunità indigene.
Quest’anno si è verificata una situazione molto complicata, per quanto riguarda il ritorno a casa di quanti erano stati impegnati nella raccolta non solo dell’uva ma anche delle olive e delle mele cotogne, che è coincisa con le misure di restrizione che non consentivano il viaggio di ritorno al luogo di provenienza: un doloroso panorama di centinaia di lavoratori e lavoratrici migranti rurali, bloccati nei terminal dei bus. È stato un vero dramma umano che ha evidenziato l’assembramento di intere famiglie, in condizioni sanitarie d’emergenza in mezzo alla pandemia della Covid-19, nell’incerta e lunga attesa che le imprese di pullman ricevessero l’autorizzazione per il viaggio di ritorno, pur avendo già riscosso i soldi del biglietto. Le autorità governative provinciali hanno brillato per la loro assenza, nonostante il permesso ottenuto per realizzare la vendemmia che senz’altro ha favorito le grandi imprese vitivinicole. L’inumana situazione creatasi potrebbe essere definita «la vendemmia dello scarto».
Le varie équipe di pastorale aborigena, così come la pastorale dei migranti e altre organizzazioni solidali hanno cercato di collaborare per alleviare tanta sofferenza, sia in occasione del ritorno come dell’arrivo delle persone alle proprie comunità d’appartenza.
José (Giuseppe) Auletta
Imc in Argentina
La presenza dei missionari della Consolata (Imc) in Argentina ha visto notevoli cambiamenti nel corso degli oltre settant’anni di presenza:
il numero delle comunità Imc del Nord è stato importante fino al Duemila (Bartolomé de las Casas, El Colorado, Pirané, Palo Santo – diocesi di Formosa – nell’omonima provincia; Machagai e Colonia Aborigen Chaco – diocesi di San Roque – nella provincia del Chaco), per poi ridursi progressivamente, fino a spostarsi in seguito dal Nord Est al Nord Ovest;
qui attualmente operiamo in quattro centri (Tartagal – diocesi di Orán – nella provincia di Salta; Yuto, Alto Comedero e Seminario filosofico nella città di San Salvador di Jujuy – diocesi di Jujuy – nell’omonima provincia);
nel resto del paese, dopo aver lasciato Rosario (provincia di Santa Fe) e San Francisco (Córdoba) dove però conserviamo il collegio, le altre presenze Imc sono: Las Heras (Mendoza), con parrocchia e Comunità apostolica formativa (Caf), Merlo (parrocchia e quasi parrocchia) e Martín Coronado – ex noviziato (provincia di Buenos Aires); Casa regionale (Buenos Aires, capitale).
Jo.Au.
L’interculturalità
È un modo di intendere e orientare il nostro comportamento sociale. Quando ci decidiamo a cercarla, la incontriamo nella capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce crescita e arricchimento reciproci.
L’interculturalità non pretende di fare di due uno, ma di rispettare ogni parte del tutto. Un rispetto che comprende ogni cultura, ogni forma di espressione, ogni sviluppo, ogni valore sociale e giuridico, ogni voce, ogni popolo.
L’interculturalità ha bisogno di una interazione pacifica e di un contesto di uguaglianza. Probabilmente, parte dell’umanità fa ancora fatica a capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica espressione della verità.
Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini istituzionali, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, una tappa fondamentale per i popoli indigeni. Anche se fra la parola scritta e la realtà rimane una grande distanza.
L’interculturalità esprime la possibilità di un nuovo paradigma, più giusto, più equo e, perciò, più umano.
Jo.Au.
Consolata mission centre: Si aprono i cancelli
testo di Francesco Bernardi |
Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.
Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».
È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.
Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.
Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.
Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.
Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.
Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.
Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».
Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.
È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.
Arrivano i cardinali
Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».
Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.
E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».
Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.
Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.
L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.
Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».
Catechisti e giovani
I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.
I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.
Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.
I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.
I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.
Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.
I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.
Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.
Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».
La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).
Diritti umani e Radio Maria
Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.
La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).
La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.
Protestanti in arrivo
«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».
Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.
Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?
«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».
Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.
Il ministro dell’Interno
Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.
Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».
«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».
«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.
Bimbi che fanno pipì
Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.
Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.
In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.
Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».
Elevare l’ambiente
Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.
È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.
La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.
L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.
Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!
Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.
Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.
Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.
Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.
Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.
I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».
Presidente, attenzione
Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.
«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?
Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.
Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».
Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.
Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.
Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.
Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».
Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».
Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.
E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.
Nel lontano 1990 un gruppo di missionarie si spinge in Guinea-Bissau. Un piccolo paese lusofono, in Africa dell’Ovest, dimenticato dai grandi circuiti. Il contesto si presta a una missione ad gentes di prima evangelizzazione. Ma molto c’è anche da fare nei diversi campi della promozione umana. Le religiose approdano anche sulle isole Bijagos, dove la durezza della vita e la cultura locale sono sfidanti. Oggi le missioni sono tre e le sorelle undici. Una di loro si racconta.
Il popolo bissau-guineano mi ha insegnato a rispettare e accogliere con simpatia il diverso, sia per cultura che per tradizione, ad accettare con più pazienza le difficoltà della vita, a non lamentarmi dei problemi che si incontrano oggi. Mi ha aiutata a fare l’esperienza più profonda dell’amore di Dio, attraverso le loro vite, le loro sofferenze. Ho scoperto tante persone che vivono del miracolo dell’amore di Dio. Inoltre, loro mi hanno aiutata a vivere la mia fede in modo più radicale, perché vivono radicalmente la loro tradizione, e questo mi interroga.
Con loro ho imparato a essere più missionaria e vivere meglio la missione, a partire dal loro contesto e dalla loro realtà concreta, privilegiando la vicinanza, l’ascolto, l’amicizia, il dialogo, la testimonianza. I guineani mi hanno fatto sperimentare il grande dono dell’ad gentes e la gioia di essere missionaria.
Il perché di un sogno
Situato in Africa dell’Ovest, la Guinea-Bissau è uno dei più piccoli stati del continente, con una superficie di 36.134 km quadrati, (pari a Piemonte e Abruzzo insieme), e una popolazione di appena un milione e 500mila individui.
Ma perché le missionarie della Consolata sono arrivate proprio qui? Per capirlo occorre fare un passo indietro nel tempo.
Il Capitolo (riunione generale dell’istituto, ndr) del 1987 ha ritenuto vitale l’apertura di nuovi campi di missione per dare la possibilità alle sorelle di iniziare cammini nuovi secondo la metodologia della missione oggi (missione come dialogo interculturale, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo di vita; missione come inculturazione; missione come testimonianza; missione come ricerca di giustizia e pace) e secondo le nostre caratteristiche carismatiche (metodologia che privilegia l’unione con Dio, la testimonianza di vita, l’accoglienza e la vicinanza alla gente, l’ascolto del cammino di Dio fatto con il popolo).
La Guinea-Bissau è, senza dubbio, un luogo che risponde a tutti questi obiettivi. Così nel 1990 abbiamo iniziato i primi passi, andando a conoscere la zona di Empada, nel Sud del paese, un’area di prima evangelizzazione che era già stata proposta a diciassette congregazioni.
Visitando la zona, abbiamo scoperto che corrispondeva al nostro carisma e all’insegnamento del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci disse: «Dovete andare dove nessuno vuole andare».
Ecco perché le missionarie della Consolata sono in Guinea dal 1992. La prima apertura è stata quindi la missione di Empada. È una presenza fra i Balanta (etnia predominante), Bijagos, Beafadas, Mandingas, Manjacos, Mancanhas, Pepeis e Nalus. Le quattro pioniere di questa missione sono state le sorelle Emma Piera Casali, Ana Paula Folletto, Hotência Nunes e Adriana Medina.
Nel 1994 è stata la volta di una nuova apertura presso il Centro Sos della capitale Bissau, che ospitava bambini abbandonati e orfani. Le sorelle della comunità erano tre: Margarita Benedetti, Alida Ronchi, incaricate della formazione e orientamento delle «mamme» e dei bambini, e Alicia Torres Rios incaricata di lavorare nella pastorale della parrocchia di Cristo Redentore. Abbiamo poi lasciato il Centro Sos nel 1998.
Arrivo sull’arcipelago
Nel 2000 le missionarie della Consolata sono arrivate a Bubaque, nell’arcipelago Bijagós, composto da più di 80 isole, di cui venti abitate. Luogo di prima evangelizzazione, dove i missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere) erano presenti dal 1954, con altre tre congregazioni femminili: le suore del Nome di Dio (1972-1975/6), le suore Figlie di Maria e le religiose delle Scuole Pie (1976-1998). Le missionarie della Consolata che hanno formato la prima comunità erano quattro: suor Maria Inocência Giacomozzi, suor Celia Regina Campaldi, suor Norma Valenzuela e, più tardi, suor Natalina Stringari.
A Bubaque, la maggioranza della popolazione pratica la religione tradizionale. Vi è un piccolo gruppo di musulmani e uno di cristiani. Quindi è ancora luogo di prima evangelizzazione, anche dopo 70 anni di presenza missionaria. Bubaque è considerata la terra di missione più difficile della Guinea-Bissau. Un luogo dove pochi o nessuno vuole andare, perché è veramente sfidante, a livello culturale, di trasporti, infrastrutture, ecc.
Nel 2006 è stata costituita la comunità di Bissau, la capitale, come sede della nostra delegazione. L’obiettivo di questa apertura era quello di essere punto di riferimento e accoglienza delle sorelle delle altre comunità e di fare il lavoro pastorale e sociale nella parrocchia di San Giuseppe nel villaggio di Bor (un sobborgo della capitale Bissau). A Bor l’etnia predominante è la Pepel, però ve ne sono altre presenti nel territorio. La comunità è stata costituta da suor Maria di Lourdes Pereira, suor Isabel Alves de Oliveira, suor Floralba Esteban Palencia e suor Alicia Torres Rios.
Revisione degli obiettivi
Oggi forse dobbiamo rivedere alcuni dei nostri obiettivi e lavori pastorali, consapevoli che non dobbiamo mai perdere di vista il nostro specifico ad gentes, ovvero essere presenti tra i non cristiani. Accompagnare quelli che hanno già ricevuto l’annuncio è un compito che spetta alla comunità locale, e non direttamente a noi sorelle, ma, comunque, lo facciamo con molto zelo. Così come conosciamo l’importanza di formare leader, e di lasciare che la chiesa locale sia protagonista.
Anélia Gomes de Paiva
Conoscenza, ascolto, dialogo
Le attività e l’approccio delle missionarie
Oltre all’annuncio, è fondamentale la formazione umana e sociale. Salute, educazione, promozione della donna, sono i campi nei quali si cimentano le missionarie. Applicando sempre una «missione che passa attraverso le relazioni».
Nella nostra attività pastorale fra i diversi popoli a Empada, Bubaque e Bissau, consideriamo sempre come parte integrante dell’annuncio di Cristo, la formazione umana e sociale. Come voleva il nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Pertanto, oltre le attività pastorali, lavoriamo nel campo dell’educazione, della salute e della promozione della donna.
Essendo il nostro obiettivo principale la prima evangelizzazione, ossia andare tra i non cristiani, al nostro arrivo a Empada nel 1992, tra i Beafadas, Bijagós, Balantas, Mandingas, Mancanhas, Fulas, Pepeis e Nalus, tutto era nuovo, tutto era da cominciare.
Visitare le famiglie
La nostra prima domanda era dove e come iniziare ad annunciare la «Buona Novella». Abbiamo compreso presto che non si poteva annunciare Gesù senza conoscere il popolo che Dio ci aveva affidato. Quindi la prima attività è stata quella di visitare le famiglie, ascoltarle, dialogare con loro per poter conosce il terreno dove «gettare» la grande novità del Vangelo. È da sottolineare che la prima preoccupazione delle missionarie è sempre stata quella di conoscere la realtà del popolo. Perciò, «la visita alle famiglie», è stata per noi una priorità fondamentale nell’attività evangelizzatrice.
Dopo alcuni incontri con il capo villaggio e la popolazione, le missionarie hanno iniziato le visite e subito hanno cominciato a prendersi cura dei bambini gemelli, perché solitamente uno dei due finiva per morire a causa della loro particolare vulnerabilità. Nel 1993, con la collaborazione generosa dei dieci cristiani già presenti a Empada, le missionarie hanno dato inizio al cammino cristiano con 24 coppie e con i loro 96 figli. Dopo cinque anni, si sono raccolti i primi frutti: 17 battezzati e 10 matrimoni. Era il 5 aprile 1997.
Il 45% della popolazione di Empada è musulmano, e più del 50% pratica la religione tradizionale, ma tutti, di ogni fede, erano vicini a noi missionarie. Nello stesso anno si sono anche iniziate due scuole di alfabetizzazione per adulti. Le altre attività cominciate alcuni anni dopo sono state l’accompagnamento dei bambini denutriti (1998), la promozione della donna (1999), la scuola superiore (2002) e l’asilo (2008).
Vivere in modo nuovo
Le missionarie hanno proposto alla gente la possibilità di vivere in un modo nuovo.
Tutto ciò ci permette di dire che abbiamo iniziato le attività evangelizzatrici in modo consono alla nostra «metodologia consolatina», cioè, per mezzo della vicinanza, dell’ascolto, del dialogo, della conoscenza della cultura, della collaborazione vicendevole. Sottolineiamo il dialogo di vita, di relazioni con i fedeli dell’islam, con quelli della religione tradizionale e con i cristiani di altre confessioni. La celebrazione ecumenica e interreligiosa realizzata alla fine di ogni anno testimonia l’amicizia, la comunione, la collaborazione e la partecipazione.
Pertanto, il filo conduttore che ha guidato i nostri passi nelle attività pastorali è stato il seguente: osservare, ascoltare, non avere fretta, conoscere la realtà, programmare e valutare insieme. Questi sono metodi e criteri che anche oggi continuano a guidare lo stile di missione delle missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, fra i diversi popoli.
Anche se non sempre siamo così attente. Per esempio, a volte abbiamo troppa fretta di ottenere dei risultati. Vogliamo avere tutto nelle nostre mani, come se la missione fosse opera nostra. Dimentichiamo invece che è opera di Dio, e noi siamo soltanto al suo servizio. È Lui che tocca i cuori al momento giusto. Questo costituisce un paradigma significativo: da una missione basata sul protagonismo personale ad una missione vissuta come opera di Dio.
Semplicità e rispetto
Il nostro stile di missione è sempre stato caratterizzato da molta semplicità. Abbiamo cercato di adattarci alla gente: sederci su una pietra con loro per bere la loro bevanda e mangiare il loro stesso cibo. Uno stile basato sul rispetto della tradizione del popolo, partecipando anche ad alcune dello loro principali cerimonie e privilegiando la cura delle relazioni: vicinanza, amicizia, dialogo, collaborazione. Questi gesti, oltre ad aiutare noi a conoscere la tradizione culturale delle persone, hanno creato amicizia e apertura da parte loro. Partecipare alla loro vita ci ha portato ad essere «accolte come parte di loro».
Dopo 27 anni svolgiamo praticamente le stesse attività pastorali e sociali. Per realizzale oggi però abbiamo altri mezzi e strumenti che arricchiscono la nostra metodologia, e una maggiore consapevolezza riguardo la missione.
Come pensavano i primi missionari, oggi tanti nella Chiesa della Guinea-Bissau pensano che per essere cristiani si debba lasciare completamente la propria tradizione, e questo è inaccettabile per i seguaci della tradizione, soprattutto per gli anziani. Noi crediamo che la via di uscita per tale problematica sia l’inculturazione.
Per questo motivo durante l’assemblea del 2012 della nostra delegazione, abbiamo preso in considerazione, in modo particolare, questo aspetto. Consapevoli che attraverso l’inculturazione la Chiesa avrà cristiani con solida identità e preparati per portare avanti la missione evangelizzatrice. Nelle tre zone di missione in cui lavoriamo, ogni anno vengono amministrati circa 180 battesimi di giovani e adulti. Ma qual è la qualità di questi battesimi, se i candidati hanno ricevuto una formazione catechistica che non ha tenuto conto la loro identità culturale?
Salute e promozione della donna
Nel campo della salute è da rilevare che l’accompagnamento quotidiano dei bambini denutriti e delle mamme, aiuta a salvare tante vite. Attualmente nei due centri di nutrizione che abbiamo, ci prendiamo cura di circa 30-40 bambini al giorno. L’assistenza sanitaria è data a tutti, senza alcuna distinzione religiosa. I nostri centri fanno anche un lavoro significativo di accompagnamento alle mamme e bambini con il virus Hiv. Anche in questo campo la testimonianza e la carità cristiana fanno parte dell’annuncio, o meglio, sono annuncio.
La comune metodologia è uscire per incontrare le famiglie (visitare i bambini, conoscere la loro realtà), dialogare con i genitori, provvedere all’accompagnamento dei bambini e delle mamme.
Nel campo della promozione della donna, operiamo nei due centri di formazione con varie attività: alfabetizzazione, taglio e cucito, ricamo, cucina, tintura di stoffa, trasformazione della frutta, e altro.
Fra i Bijagós, nell’isola di Bubaque, sin dall’inizio una grande sfida per il lavoro missionario è stato ed è la formazione delle giovani circa il valore della vita, la dignità della donna, le conseguenze drammatiche dell’aborto, e la contaminazione da virus Hiv. Il lavoro di promozione femminile è rivolto a tutte le donne, indipendentemente dalla loro religione.
L’obiettivo è sempre quello di risvegliare una maggiore consapevolezza del valore della vita e della dignità della donna, del suo ruolo nella famiglia e nella società. Questo è annuncio della Buona Notizia, perché è opera di costruzione del regno di Dio.
Nel campo dell’educazione, la formazione pedagogica dei professori è stata sin dall’inizio una nostra priorità. Oggi nelle due scuole superiori che seguiamo, ci sono circa 1.650 studenti, e un centinaio di bambini in una scuola materna. Queste scuole sono rivolte a tutta la popolazione, ossia, cristiani e non cristiani. È importante sottolineare che un professore musulmano del nostro liceo, ha scelto di diventare cristiano. Il motivo è stato la testimonianza dei suoi colleghi insegnanti. Qui vogliamo sempre offrire una formazione integrale ai giovani, favorire coloro che vivono lontano dalla città e che non hanno altre possibilità di andare a scuola.
Essere presenti nel quotidiano
In sintesi, possiamo dire che noi, missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, sin dall’inizio abbiamo scelto il dialogo come metodo per vivere la missione attraverso la vicinanza, l’amicizia, la testimonianza, la presenza. Io ho imparato che uno dei modi migliori per conoscere la cultura, gli usi e costumi delle persone è essere presente nella vita del popolo: gradualmente smetti di essere uno straniero e sei accolto come amico.
La missione come presenza rispetta tutte le tradizioni religiose e le culture. In questo senso, vogliamo sottolineare che la religione tradizionale, come qualsiasi altra religione, ha diritto al dialogo e ad essere rispettata. A questo riguardo abbiamo ancora tanto da imparare, perché solitamente guardiamo i seguaci della religione tradizionale come coloro che, quasi obbligatoriamente, devono convertirsi al cristianesimo per essere salvati.
La metodologia che abbiamo usato all’inizio per raggiungere i nostri obiettivi è ancora valida, perché abbiamo cercato di percorrere la strada offerta dal Concilio Vaticano II. Considerando, però, che la società cambia rapidamente, dobbiamo pensare a nuovi metodi e a nuove strategie. Ad esempio: come deve essere fatto l’annuncio ai non cristiani? Come considerare le altre tradizioni religiose? Come rendere l’annuncio attraente per chi lo ascolta in un mondo così complesso? Pertanto, il nostro modo di «fare» la missione deve adattarsi ai tempi, soprattutto il nostro modo di vivere e relazionarci con la gente deve suscitare dei perché, e suscitare inquietudini. Come diceva san Giovanni Paolo II, «Prima dell’azione, la missione è testimonianza e irradiazione».
L’incontro con i popoli
In alcune zone, i primi contatti con il popolo ci hanno fatte sentire animate e incoraggiate per l’accoglienza calorosa, l’entusiasmo, il rispetto e l’aiuto ricevuto, e anche per l’apertura e la semplicità, l’amore e la serietà con le quali le persone hanno accolto il Vangelo. In altre zone, invece, anche se l’accoglienza non ci è mancata, la preoccupazione della gente, l’interesse era soprattutto per il sociale, anche se poi hanno chiesto la catechesi. Spesso questo capita anche oggi, e in forma abbastanza accentuata fra il popolo Bijagós, che si presenta molto bisognoso (educazione, salute e altri progetti). Forse perché è un popolo isolato, e in certo senso dimenticato dallo stato.
Risultati incoraggianti
Abbiamo tuttavia notato cambiamenti significativi. Nel campo pastorale la formazione cristiana ha prodotto nelle persone un cambio di mentalità. Per esempio, le famiglie cristiane hanno un modo diverso di educare i figli, di organizzarsi come famiglia, di pensare la vita. Alcuni hanno anche un modo diverso, cioè più saggio ed equilibrato di vedere la loro tradizione. Essi sono sicuramente più integrati con la loro cultura. Ma non è così per la maggioranza dei cristiani.
Oggi le mamme hanno un modo diverso di prendersi cura dei figli e dell’ambiente. Oggi portano con più libertà i loro figli al Centro di salute o all’ospedale per farli curare. Prima era difficile convincerle. Lo stesso con le donne incinte: facevano resistenza per andare all’ospedale, e a volta il bambino moriva durante il parto. Oggi non vogliono più mettere a rischio la loro vita e la vita dei loro figli.
La maggior parte delle donne che si sono formate nei nostri centri erano analfabete. La formazione ha suscitato in loro il desiderio di sapere di più: studiare per essere più consapevoli del loro ruolo, del loro valore come donne al servizio della famiglia, della società e della chiesa. La maggior parte delle donne più giovani ora studiano di sera e frequentano l’università. Molte di loro con la formazione ricevuta, aiutano a portare avanti la famiglia.
Nel campo educativo abbiamo osservato che il cambio di mentalità degli studenti circa il loro futuro è significativo: la maggior parte di essi pensa di continuare gli studi dopo il liceo, sognano una vita più dignitosa, un paese più stabile politicamente e economicamente, più giustizia sociale. Sogni che se fatti tutti insieme, possono domani diventare realtà.
Anélia Gomes de Paiva
Un popolo «visitato» da Dio
Evangelizzazione e inculturazione
Il popolo guineano è variegato, ma ha come principio la vita comunitaria. I giovani sono affascinati dalla globalizzazione che apre loro nuove possibilità, ma li allontana dalle tradizioni. Le missionarie sono molto attive nel dialogo interreligioso e credono che il cristiano debba essere integrato nella propria cultura.
I guineani hanno come principio di base la vita comunitaria, ossia la crescita non individuale ma della comunità. Sono un popolo con un’identità etnica e tradizionale ben definita, con una forte spiritualità religiosa, che li porta a praticare intensamente le credenze della tradizione. Sono persone allegre e festose, ospitali, e con grande capacità di accettare le difficoltà e le sofferenze quotidiane. La maggior parte della popolazione vive con meno di un euro al giorno, e consuma un solo pasto quotidiano, mentre altri non possono nemmeno farlo. Nonostante le difficoltà, sono splendenti di gioia e fiduciosi nel Dio della vita. Sono un popolo che vive del miracolo dell’amore di Dio.
I guineani e la globalizzazione
In Guinea-Bissau sono circa 30 gruppi etnici, la lingua ufficiale è il portoghese, però la lingua più diffusa, parlata dal 44% degli abitanti, è il creolo (a base portoghese). Il 45% della popolazione segue la religione tradizionale, mentre i musulmani sono circa il 40%. Vi è poi una discreta minoranza cristiana (15%).
A proposito della globalizzazione, da una parte possiamo dire che essa ha prodotto dei cambiamenti di mentalità, e in un primo momento possiamo pensare che questo sia positivo. Ad esempio: i guineani oggi guardano il mondo in forma più ampia, vedono più lontano, hanno più ambizioni per migliorare la vita. I giovani si affrettano a studiare e a esercitare una professione. Vi è più accesso ai mezzi di comunicazione, più possibilità nell’ambito della salute e dell’educazione.
Dall’altra parte vi sono delle conseguenze negative nell’ambito dei valori personali, famigliari e sociali. Ad esempio: la mancanza di rispetto per la vita, l’individualismo, la violenza nelle famiglie e nella società. Tanti giovani si allontanano dalla loro tradizione perché vogliono essere «liberi» e avere una vita più moderna. La disuguaglianza sociale sta diventando sempre più evidente. Gli anziani si sentono più esclusi, soffrono di abbandono, indifferenza e solitudine. In questo senso è un sistema che sembra non aiutare a riflettere sul vero senso della vita. Aumenta la conoscenza nozionistica ma non di pari passo una adeguata formazione delle coscienze.
L’esperienza dell’invisibile
In Guinea-Bissau siamo sempre andate dove ci hanno chiamate. Con ogni popolo e etnia abbiamo iniziato l’annuncio in modo differente, conforme alle esigenze di ciascuno. Da coloro che hanno come valore la vita di gruppo, ci è stato chiesto un aiuto per vivere in modo nuovo la vita di gruppo. Altri ci hanno chiesto di parlare di Dio, ma anche la scuola per i loro bambini, ecc. È stato interessante scoprire che Dio li aveva «visitati» prima di noi, perché la missione è opera sua. Prima del nostro arrivo, Dio stava già lavorando con il suo popolo. Aveva già fatto storia con loro. Era poi giunto il momento di scoprire il seme che Dio aveva seminato per aiutarli a farlo crescere, ma anche i frutti maturi da cogliere, appunto, dalla loro esperienza dell’invisibile (Dio) secondo la loro spiritualità tradizionale.
Oggi siamo sempre più consapevoli di questa verità: il primo compito della missionaria è riconoscere il cammino che Dio ha fatto con il suo popolo e la sua presenza attuale. Vale la pena sottolineare che nei villaggi in cui siamo andate senza essere state chiamate, le attività di evangelizzazione non sono continuate, per mancanza di interesse da parte della popolazione.
L’evangelizzazione è accompagnata dalla promozione di tutta la persona, quindi la promozione umana è una dimensione importante della nostra pastorale. Perché il «centro» della missione sono l’uomo e la donna che vivono un momento decisivo nel loro processo storico. E il Cristo che proclamiamo vive già in mezzo al suo popolo, per condurlo alla piena liberazione.
Personalmente, posso dire che sono stata evangelizzata da loro, perché oggi, dopo dodici anni di missione con loro e in mezzo a loro, mi sento più cristiana, più missionaria.
L’inculturazione
A partire dalla creazione della diocesi di Bissau (1977), la Chiesa in Guinea-Bissau ha preso coscienza della necessità dell’incontro del Vangelo con le culture, cioè dell’inculturazione della fede. L’inculturazione, il dialogo interreligioso e interetnico sono tra gli obiettivi principali della Chiesa locale. La Chiesa, ogni giorno, sta diventando consapevole che se non si incarna nella cultura del suo popolo, l’evangelizzazione continuerà ad essere superficiale e la Chiesa avrà dei cristiani senza un’identità propria, cristiani mancanti di una integrazione con la propria tradizione.
Come dice Paulo Suess, «la meta dell’inculturazione è la liberazione, e il cammino della liberazione è l’inculturazione» (cfr. P. Suess, Caminhar descalço sobre pedras: uma releitura da Conferencia de Santo Domingos, in Instituto Humanitas, Cadernos de Teologia Publicas, 19-20). E «solo con il messaggio rivelato dal di dentro, ogni popolo nella rispettiva cultura può veramente lodare il Signore nella propria lingua e con i propri termini», come dice Appiah-Kubi (cfr. F. A. Oborji, La teologia africana e l’evangelizzazione, Press, Roma 2016, 69-70). Perciò per una Chiesa dal volto guineano, ci vuole una evangelizzazione puntata sul dialogo con le culture e con la religione tradizionale.
Cura del Creato
Riguardo al creato, i guineani, in generale nella loro tradizione hanno profonda venerazione per la natura. Dalla natura prendono le erbe per le medicine; attribuiscono una particolare sacralità ad alcuni alberi; non sfruttano la natura per fine personale o abusivo, ma soltanto per la loro sopravvivenza. Quando hanno bisogno di tagliare un albero, ad esempio, per fare una canoa, fanno delle cerimonie per chiedere il permesso agli spiriti. Riconoscono che tutto è stato creato da Dio e appartiene a Dio. Quindi l’essere umano non ha il diritto di danneggiarlo.
A livello statale e governativo praticamente nulla viene fatto in questo ambito. Una città come Bissau non ha nemmeno i servizi igienici di base e molta spazzatura finisce per essere gettata in mare. Ci sono le Ong che intervengono nei settori di conservazione della biodiversità agricola, nella gestione delle risorse naturali e nella valorizzazione dei prodotti e della conoscenza della biodiversità. Esse informano e sensibilizzano la cittadinanza.
Il nostro carisma
A proposito del nostro carisma, possiamo dire di aver incontrato un popolo di «prima evangelizzazione», dunque questo è il nostro posto.
Pertanto, in Guinea-Bissau il nostro carisma diventa sempre più vitale, perché è alimentato da una realtà veramente ad gentes e da un ambiente con una piccola percentuale di cristiani. «Noi siamo per i non cristiani» e il contatto coi non cristiani ci rivela a noi stesse e sprigiona in noi il fuoco del carisma. Proprio per questo, la nostra identità carismatica è rafforzata.
Inoltre, l’esperienza con questo popolo arricchisce il nostro istituto e la Chiesa: ho scoperto nel popolo della Guinea-Bissau, con principi tradizionali ben radicati, una profonda spiritualità, non un senso generale dell’invisibile, ma un’esperienza concreta della presenza e dell’azione di Dio. I guineani sanno e credono che esiste un Dio sovrano e assolutamente potente, signore del cielo e della terra; confidano e sperano in lui. È il grande vivente che agisce nel mondo. Come non trarre vantaggio da questi solidi principi per l’evangelizzazione inculturata? I valori umani e spirituali del popolo guineano sono grandi, e il nostro istituto e la Chiesa devono saperli leggere tutti. Il rispetto e la conoscenza della cultura, nell’azione evangelizzatrice è stata considerata dal nostro fondatore, Giuseppe Allamano, quindi deve essere anche per noi. Questo ci porta a vivere il nostro carisma con apertura a tutte le culture e con atteggiamento dialogico. Siamo pertanto, invitate a ritornare a ciò che è stato tralasciato, trascurato, non valorizzato, ossia la ricchezza culturale e religiosa di ogni popolo. Oggi capiamo meglio che l’evangelizzazione deve guardare la persona in tutti i suoi aspetti, e deve essere fatta dal di dentro di ogni cultura.
Anélia Gomes de Paiva
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Democrazia? «Siamo in Africa!»
Le intricate vicende politiche di un piccolo narco stato
La Guinea-Bissau è stata per anni il punto di passaggio del traffico di cocaina dal Sudamerica all’Europa. Nel 2014 sembrava esserci stato un cambiamento nella dirigenza del paese. Ma l’elezione, contestata, del nuovo presidente, pare riportare alla ribalta la classe dei militari-narcos.
L’ex generale, ed ex primo ministro, Umaro Sissoco Embaló è il nuovo presidente della Guinea-Bissau. La sua investitura, il 27 febbraio scorso in un hotel di Bissau, sebbene sia avvenuta con l’avallo del presidente uscente José Mario Vaz, è stata indubbiamente un atto di forza. Giunge a chiusura della crisi elettorale iniziata con le presidenziali di dicembre o, più probabilmente, con le legislative di marzo 2019. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha avuto l’effetto di far passare le vicende bissau-guineane in secondo piano ed è tornata utile al nuovo uomo forte per «coprire» i suoi giochi interni.
Una speranza delusa
Ma veniamo ai fatti. L’ultimo anno è solo l’ultimo atto di una crisi politico istituzionale che il piccolo paese dell’Africa dell’Ovest vive dal 2015.
Nel 2014 l’elezione del presidente José Mario Vaz aveva lasciato sperare che la Guinea-Bissau voltasse pagina con le dittature e i colpi di stato che hanno contraddistinto la sua storia. Ma così non è stato.
Dopo aver nominato, nel luglio dello stesso anno, come primo ministro, il progressista Domingos Simões Pereira, i due sono entrati in contrasto. Entrambi Vaz e Pereira sono del Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde), il partito storico dell’indipendenza dal Portogallo nel 1974. Appena un anno dopo Pereira viene mandato via e inizia la crisi istituzionale. Diversi sono i politici che si susseguono sulla poltrona da premier.
Una novità delle legislative di marzo 2019 è stato il Madem-G15, un nuovo partito creato per l’occasione e ben finanziato, che è riuscito ad arrivare al secondo posto, dopo il Paigc che ancora prevale nell’Assemblea nazionale con 52 deputati su 102.
Braccio di ferro istituzionale
A dicembre 2019, i due sfidanti alla presidenza sono proprio Embaló, ex quadro del Paigc e ora candidato del Madem-G15, e Pereira per il Paigc, di cui è presidente. Dopo il ballottaggio del 29 dicembre, la Commissione nazionale elettorale (Cne) aggiudica il 53,55% dei voti al primo e 46.45% al secondo (i risultati definitivi sono resi noti il 17 gennaio). Pereira però contesta il risultato, denunciando brogli elettorali. In particolare segnala irregolarità nei verbali di almeno la metà delle circoscrizioni, e chiede il riconteggio dei voti. La Corte suprema dunque non può che prenderne atto è dispone che venga fatta la verifica. Fin qui nulla di strano a queste latitudini.
Quello che succede dopo è un braccio di ferro tra la Cne e la Corte suprema, perché la prima, l’organo preposto all’organizzazione delle elezioni, rifiuta il conteggio. Negli stessi giorni, soldati vengono dispiegati in tutti i posti chiave delle istituzioni, dall’ufficio del primo ministro ai ministeri, fino a presidiare lo stesso palazzo della Corte suprema. Il fatto strano è che nessuno li ha chiamati e non si capisce da che parte stiano.
Si scoprirà con chi stanno i militari, quando, il giorno dopo la sua investitura, il 28 febbraio Embaló nomina primo ministro Nuno Gomes Nabiam, suo uomo di fiducia, mandando a casa il premier Aristides Gomes. Quest’ultimo è riconosciuto dalla comunità internazionale, e denuncia la sua deposizione come colpo di stato. Quel giorno a fianco di Embaló e del nuovo premier, si trovano il capo di stato maggiore, il suo vice e il comandante dell’aviazione. C’è anche una vecchia conoscenza, l’ex capo di stato maggiore, ex generale Antonio Indjai.
Indjai era stato dietro al famoso «colpo di stato della cocaina» dell’aprile 2012, quando fu rovesciato il presidente ad interim Raimundo Pereira.
Indjai, inoltre, è stato obiettivo principale della Dea (agenzia antidroga Usa) durante una caccia all’uomo del 2013, ed è ricercato negli Stati Uniti per aver venduto armi alle Farc colombiane in cambio di partite di cocaina. Si tratta dunque di uno dei massimi esponenti del gruppo narco militare che ha gestito il paese per anni e che ora sembrerebbe essere tornato all’ombra del potere.
Due presidenti per 48 ore
Sempre il 28 febbraio, 54 deputati del Paigc e alleati, designano il presidente dell’Assemblea nazionale (che conta 102 deputati), Cipriano Cassama, come «presidente a interim», in risposta all’investitura «di forza», senza aspettare l’ok della Corte suprema, di Embaló. Ma Cassama, meno di 48 ore dopo la designazione, rinuncia a causa, dice, delle molteplici «minacce di morte» ricevute.
Embaló resta dunque l’«unico» presidente, anche se il contenzioso elettorale è ancora aperto.
In risposta a diversi deputati del Parlamento europeo che denunciano quanto sta avvenendo nel paese africano come «un pericolo per la democrazia», Embaló risponde: «Non facciamo parte dell’Unione europea. Noi siamo in Africa!»1.
A livello internazionale la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che ha guidato la mediazione per risolvere la crisi dal 2016, è inizialmente divisa sul da farsi.
Ma Embaló ha molti amici tra i capi di stato, così Senegal, Nigeria e Niger si affrettano a riconoscere il nuovo presidente, mentre altri restano indecisi. Embaló conta tra i suoi alleati più illustri i presidenti di Senegal, Macky Sall (presidente di turno della Cedeao), e Nigeria, Muhammadou Buhari, oltre che numerosi altri presidenti sul continente.
La svolta si ha il 23 marzo, quando la Cedeao stessa riconosce legittimo Embaló, nonostante i militari stiano ancora presidiando i posti chiave delle istituzioni, e ci sia quindi una «mano militare» che veglia sulla stabilità. Unione europea e Nazioni Unite ne seguono l’esempio. Nonostante la Corte suprema della Guinea-Bissau non abbia mai validato le elezioni. Il gioco di Embalò, e di chi lo ha voluto al potere, è dunque fatto.
Riforma costituzionale
La condizione che pone la Cedeao, è la realizzazione di una riforma costituzionale. La Costituzione del 1984, infatti, definisce un sistema semi presidenziale «ibrido», lasciando una certa ambiguità nella gestione del potere esecutivo tra presidente della repubblica e primo ministro. Ambiguità che ha causato molti ingorghi istituzionali e colpi di stato o tentativi di golpe.
Embaló si affretta a creare una Commissione di revisione costituzionale, il 12 maggio, composta da cinque membri, tutti nominati da lui stesso.
Secondo gli analisti della «Global initiative, against transnational organized crime»2, in Guinea-Bissau si assiste a un ritorno in attività della casta narco militare che negli anni 2005-2014 trasformarono il paese in un punto nevralgico per il passaggio della cocaina dal Sud America all’Europa, valendogli la definizione di «narco stato». Gli analisti mettono in relazione il «colpo di forza» attuato da Embaló nei primi mesi di quest’anno, con il colpo di stato della cocaina del 2012. Dietro al Madem-G15 ci sarebbero infatti i finanziamenti della rete militare-criminale mai smantellata, e ora tornata in auge.
Marco Bello
Note
(1) Guinée-Bissau,l’imbroglio continue à la tête du pays. Radio France international, 5 marzo 2020.
(2) Breaking the vicious cycle. Cocaine politics in Global Initiative, against transnational organized crime. Maggio 2020, disponibile online.
Cronologia essenziale
La Guinea-Bissau in date
1973, 24 settembre – Il Partito africano per l’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde (Paigc) proclama l’indipendenza.
1974, 10 settembre – Il Portogallo riconosce l’indipendenza e Luis Cabral è il primo presidente.
1980, 14 novembre – Colpo di stato militare di João Bernardo Vieira. Disciolta l’unione con Capo Verde.
1984, 16 maggio – Nuova Costituzione, sistema del partito unico. Vieira vince le elezioni presidenziali.
1989, 19 giugno – Vieira rieletto presidente.
1991, 8 maggio – Adozione del multipartitismo.
1993, 17 marzo – Tentativo di colpo di stato di João da Costa.
1994, 7 agosto – Vieira vince per la terza volta le elezioni.
1997, 2 maggio – Adozione del «franco cfa» come moneta e adesione all’Uemoa (Unione monetaria dell’Africa dell’Ovest).
1998, 7 giugno – Scoppia un ammutinamento dopo la destituzione del generale Ansume Mané, capo di stato maggiore. Intervengono Senegal e Guinea. Inizia la guerra civile.
1998, 1° novembre – Firma di un accordo di pace ad Abuja (Nigeria) tra il governo e la giunta guidata da Ansumane Mané.
1999, 7 luglio – Mané rovescia il presidente Vieira. Malam Bacai Sanha, presidente dell’Assemblea nazionale, è nominato presidente della Repubblica.
2000, 16 gennaio – Kumba Yala vince le elezioni presidenziali.
2003, 14 settembre – Colpo di stato del generale Verissimo Correia Seabra, che viene assassinato un anno dopo da un gruppo di militari.
2005, 24 luglio – Elezioni presidenziali: vince João Bernardo Vieira.
2007, dicembre – Adozione da parte del parlamento di una legge di amnistia, per le violenze commesse negli anni 1980-2004.
2008, 26 luglio – Il Paigc esce dalla coalizione di governo, dieci giorni dopo è sciolta l’Assemblea nazionale.
2008, 23 novembre – Tentativo di colpo di stato contro Vieira.
2009, 2 marzo – Doppio assassinio di Vieira e del capo di stato maggiore Tagmé Na Waié.
2009, 5 giugno – Assassinio di tre uomini politici, tra i quali il candidato alla presidenza Baciro Dabo.
2009, 26 luglio – Vittoria di Malam Bacai Sanha alle elezioni presidenziali.
2010, 1 aprile – Rivolta dell’esercito organizzata dal generale Antonio Indjai contro il primo ministro, Carlos Gomez Junior e il capo di stato maggiore José Zamora Induta. A giugno Indjai diventa capo dell’esercito.
2012, 9 gennaio – Muore il presidente Malam Bacai Sanha a Parigi. Raimundo Pereira diventa presidente ad interim.
2012, 12 aprile – Colpo di stato del generale Mamadu Turé Kuruma, detto «golpe della cocaina». Arrestati presidente e primo ministro. Attivo il generale Indjai. L’Unione africana sospende la Guinea-Bissau. Accordo di transizione tra la giunta e i partiti politici che prevede elezioni entro due anni. Manuel Serifo Nhamadjo nominato presidente di transizione.
2012, 21 ottobre – Tentativo di colpo di stato del capitano Pansau N’Tchama.
2013, 2 aprile – La Dea (agenzia antidroga Usa) conduce un’operazione e arresta l’ammiraglio José Américo Bubo Na Tchuto, coinvolto in una rete di traffico internazionale. Il vero obiettivo sarebbe stato Antonio Indjao.
2013, 18 aprile – Antonio Indjao, capo di stato maggiore, giudicato colpevole dalla giustizia Usa per narcoterrorismo: ha fornito armi alle Farc colombiane in cambio di cocaina.
2014, 20 maggio – José Mario Vaz vince le elezioni presidenziali. A settembre Injano è cacciato dal suo posto di capo dell’esercito.
2015, 12 agosto – Inizia la crisi politica in seguito al licenziamento del primo ministro Domingo
Simões Pereira. La Cedeao condurrà la mediazione della crisi.
2019, 10 marzo – Il Paigc, di cui Pereira è presidente, vince le elezioni legislative.
2019, 2 aprile – Elezioni presidenziali. La Commissione nazionale elettorale dà la vittoria a Umaro Sissoco Embaló, ma il rivale, Pereira, contesta e accusa di brogli.
2020, 27 febbraio – Nonostante il contenzioso elettorale e il blocco della Corte Suprema, Embaló forza e si autoinveste. Metà del parlamento nomina un presidente a interim, Cipriano Cassama, presidente dell’Assemblea nazionale, che subito si dimette a causa di minacce di morte.
2020, 22 marzo – La Cedeao è divisa sul da farsi, ma finalmente prevalgono i paesi «amici» di Embaló che lo riconoscono presidente della Repubblica.
Ma.Bel.
Hanno firmato questo dossier
Anélia Gomes de Paiva
Nata a Riacho da Cruz (RN, Brasile), a 18 anni è andata a vivere a São Paulo, dove ha studiato, lavorato e fatto pastorale nella favela di Jandira. Qui ha scoperto la sua vocazione. Entrata nelle missionarie della Consolata nel 1999, dopo il noviziato in Colombia e la professione religiosa ha lavorato in Brasile dal 2003 al 2006. Dal 2007 è missionaria in Guinea-Bissau. «Posso dire che il periodo più bello della mia vita sono gli anni di missione vissuti tra le popolazioni della Guinea-Bissau e quelli della mia adolescenza che ho trascorso a pescare, a diretto contatto con la natura».
Marco Bello
giornalista redazione MC.
Foto:
Le foto di questo dossier – eccetto dove indicato differentemente – sono cortesia di suor Anélia e delle sue consorelle.
Le missionarie in Guinea-Bissau:
Comunità di Empada: Noeli Domingos Bueno, Maria Inocencia Giacomozzi, Rita Nombora.
Comunità di Bubaque: Ana Paula Foletto, Maria de Lourdes Pereira, Teresinha Victor, Anélia Gomes de Paiva.
Comunità di Bissau: Giovanna Panier Bagat, Emma Piera Casali, Maria Cecilia da Silva, Isabel Alves de Oliveira.
Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).
Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.
È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.
Il contesto (At 17,16-21)
Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.
Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.
Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.
Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.
Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.
Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)
Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.
La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.
E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.
Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.
L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.
In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.
Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.
Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.
Lo snodo decisivo (At 17,30-32)
Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.
Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.
In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.
Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.
E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.
Esiti e bilancio (At 17,33-34)
Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.
Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.
Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.
Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.
Angelo Fracchia (16-continua)
Migranti ai tempi del Covid
testo e foto di Amarilli Varesio |
A Torino l’esperienza di un palazzo autogestito da migranti si fa strada. Non senza aiuti esterni, e con molto impegno degli occupanti. Ma con l’arrivo della pandemia le difficoltà sono aumentate.
Madonna della Salette potrebbe sembrare, a prima vista, una via della periferia torinese come tante altre, poco popolata, con palazzi bassi e spazi verdi lasciati incolti. Uno dei pochi elementi che nella strada, lunga qualche centinaio di metri, attirano l’attenzione, è l’insegna di un supermercato che si staglia oltre i campi dall’erba alta, rigogliosi di malva, verbena e tarassaco. Camminando per la via, un passante qualunque non potrebbe non notare l’andirivieni di giovani africani, prevalentemente uomini, che entrano ed escono da un palazzo di cinque piani, con la facciata ben ristrutturata di colore bianco e arancione. Spinto dalla curiosità, il nostro passante, aprendo il portone della struttura, rimarrebbe stupito dall’intreccio di lingue africane e dall’orchestra di profumi cosmopoliti di tè alla menta, tajine, banane fritte, attieké, poulet yassa, soupe kandja, jollof rice che invadono i corridoi.
Durante l’emergenza coronavirus, nessuno avrebbe potuto accorgersi di questo luogo singolare. Gli odori culinari raggiungevano una strada vuota e silenziosa, solcata giornalmente dalle auto della polizia che controllavano i movimenti del quartiere. Gli abitanti della palazzina non osavano uscire. L’immobilità significava la perdita o l’interruzione improvvisa del lavoro, l’impossibilità di percepire un reddito e la delicata convivenza in una casa collettiva dove gli spazi devono essere continuamente negoziati.
Nel 2016, ho avuto la fortuna di scoprire la «residenza transitoria collettiva» dell’ex occupazione di via Madonna della Salette. All’epoca, la frequentavo come volontaria per dare un supporto ai ragazzi nei corsi d’italiano e in quelli per la patente. Ricordo che un giorno mi presentai a un giovane del Ghana dicendo che mi chiamavo Ama. Lui rimase esterrefatto e poi scoppiò a ridere. Mi raccontò che nel suo paese tutti i bambini nati di sabato venivano chiamati Ama e da quel giorno mi battezzò «Ama Ghana».
Erano momenti semplici e intensi, nei quali la conoscenza reciproca e lo scambio culturale era alla base della condivisione.
Spesso, verso la fine delle lezioni, io diventavo la studentessa e imparavo a mia volta qualche termine in wolof o bambara. Questo luogo mi affascina da sempre per la sua complessità e peculiarità. Diversamente da altre esperienze per migranti, grazie alle regole e ai principi sui quali è basata la convivenza al suo interno, la Salette permette di osservare da vicino e andare incontro ai bisogni e alle priorità delle persone che ci vivono.
L’occupazione
La Salette era stato un pensionato per lavoratori e studenti, proprietà dei Missionari di Nostra Signora de La Salette, ed era diventata una struttura abbandonata finché non ha supplito alla necessità abitativa di decine di immigrati e rifugiati lasciati in strada da un sistema d’accoglienza poco efficace.
Il 17 gennaio 2014, in una notte piovosa, è scattata l’occupazione, in una mobilitazione per il diritto alla casa, promossa dal Comitato di solidarietà per rifugiati, costituito da volontari e militanti dei centri sociali torinesi, Gabrio e Askatasuna. I primi occupanti, una quarantina circa, erano un gruppo eterogeneo di famiglie italiane e immigrati provenienti dalle palazzine dell’ex Moi (il villaggio olimpico del Lingotto, costruito per i giochi invernali del 2006, cf. MC dicembre 2015), dove vivevano in camere sovrappopolate o negli scantinati. Quasi tutti avevano i documenti, ma non un tetto. Molti di questi immigrati erano approdati sulle coste italiane nel 2011, durante la cosiddetta «Emergenza Nord Africa». Quell’anno, quando scoppiò la guerra civile in Libia, le frontiere del paese arabo furono chiuse e gli immigrati che cercavano di tornare nei loro paesi non potevano farlo. Venendo a mancare gli accordi presi dal regime di Gheddafi con l’Italia per impedire alle persone di partire, gruppi di trafficanti approfittarono del caos e del vuoto di potere per organizzare le spedizioni verso le coste italiane. Molti immigrati subsahariani che lavoravano in Libia non avevano altra scelta se non quella di imbarcarsi.
«La dichiarata “Emergenza Nord Africa” è stata gestita con l’accoglienza in grandi centri e conseguentemente con forme di assistenzialismo inutili all’autonomia dei singoli. Nei primi mesi del 2013, il momento dell’uscita dai progetti per molti ha significato affrontare il problema dell’assenza di una casa», spiega l’antropologa Laura Ferrero, che per un anno ha svolto una ricerca all’interno della Salette. «Finito il progetto d’accoglienza, per qualcuno il passaggio alla Salette è stato immediato, per altri è stato intervallato con una permanenza all’ex Moi, altro punto di riferimento per immigrati di tutta Italia che cercavano una soluzione abitativa. Altri ancora stavano negli accampamenti formali e informali che si creavano attorno agli spazi del lavoro stagionale, come a Saluzzo o a Rosarno. Ognuno aveva attivato le reti sociali disponibili: amici conosciuti in Libia, durante la traversata o nei progetti. Ma il problema è stato che tutti si trovavano nelle stesse condizioni».
Mosso dai forti appelli del papa all’accoglienza, fin dai primi giorni dell’occupazione, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia è intervenuto creando un gruppo di soggetti eterogenei, fra i quali Pastorale migranti, Caritas, Cooperativa O.R.So., Luoghi Possibili, al fine di interagire con il comitato e gli occupanti di via Madonna de La Salette.
Un modello alternativo
Il progetto d’accoglienza alternativo proposto dal comitato e dagli occupanti al resto del gruppo prevedeva alcune condizioni precise: non doveva seguire tempistiche prestabilite, doveva includere tutti gli abitanti, prevedere attività di inserimento lavorativo, una gestione condivisa dai residenti secondo decisioni prese in assemblea e un processo di regolarizzazione e ristrutturazione dell’edificio secondo i principi dell’auto recupero e della manodopera di chi vi abitava.
Nicolò, membro del comitato, racconta: «Per i primi due anni non c’è stato giorno né notte. Eravamo sempre lì con i ragazzi per coordinare la situazione. Nonostante la struttura fosse solida, c’erano molti problemi. La corrente continuava a saltare per l’uso massiccio di piastre elettriche, allora si cucinava a turno, prima un piano e poi l’altro, l’acqua calda è mancata finché non abbiamo messo i boiler elettrici».
Nel 2015, l’edificio, costituito in ogni piano da camere, cucina e bagni comuni, è stato oggetto di ristrutturazione e riqualificazione energetica. Il coinvolgimento diretto degli abitanti del palazzo nei lavori di manutenzione aveva come obiettivo quello di promuovere il senso di appartenenza collettiva alla struttura e di contribuzione alla «residenza collettiva». Nel corso dei mesi si è costituito un comitato di cogestione, composto da un rappresentante per ogni piano, un rappresentante della cooperativa e uno del Comitato di solidarietà per i rifugiati. In seguito, il progetto ha ottenuto il comodato d’uso gratuito dell’immobile per 10 anni e, nel 2018, i suoi abitanti hanno ottenuto la residenza. L’obiettivo a lungo termine è che la comunità della Salette raggiunga l’autonomia. Ma la condizione di marginalità che accomuna la maggior parte degli abitanti inficia la loro possibilità di contribuzione economica per le spese della casa. Per cui, attualmente, i residenti pagano un 30% delle spese vive, mentre la diocesi mette il resto.
«La gente sta alla Salette fin quando ne ha bisogno, perché magari non ha alternative, o finché se la sente. Questa è la condizione necessaria per costruire un percorso lavorativo dignitoso. Nei centri d’accoglienza, invece, ti danno vitto, alloggio, assistenza legale e quando hai i documenti ti sbattono fuori. Ma se non hai la certezza di avere un tetto sulla testa mentre impari l’italiano e cerchi un posto di lavoro, non ce la fai. Ognuno ha i suoi tempi», continua Nicolò infervorato. «Non abbiamo creato un modello di accoglienza. Il modello sta nella modalità con la quale abbiamo affrontato la situazione concreta. E si sa che mettere al centro le persone ti crea un mare di problemi, bisogna avere una pazienza infinita».
L’antropologa Laura specifica: «Gli abitanti della Salette non sono un gruppo coeso, ma una somma di individualità e piccoli gruppi. La convivenza è un obiettivo che si costruisce nelle pratiche quotidiane, attorno alle quali nascono tanto collaborazioni, quanto tensioni». Uno degli abitanti, S., fa parte del comitato di gestione della Salette. Dal 2015 coltiva un orto in giardino dove crescono pomodori, insalata e zucche. «Io porto fuori la spazzatura tutte le sere, dò il bianco quando serve, taglio l’erba. Ma non tutti si interessano della casa. Al quarto piano, ci sono due stanze sovraffollate dove vivono in dieci, ma nessuno li butta fuori. Anche se questa è casa nostra, appena qualcuno ha le possibilità economiche se ne va di qui».
All’interno della Salette, la Cooperativa Orso avvia percorsi di accompagnamento per sostenere processi di autonomia lavorativa, abitativa e sociale, con un’équipe composta da tre persone. Silvia aiuta i ragazzi a conoscere e a usare i servizi che la città offre. «Il primo anno di lavoro, in modo informale, abbiamo cercato di conoscere le persone e di farci conoscere. Non è stato facile. Non si fidavano, erano usciti dai progetti con un bagaglio enorme di delusioni. Il nostro ruolo è quello di dare loro degli strumenti, offrire dei tirocini, dei percorsi di orientamento al lavoro e di specializzazione. Noi offriamo le opportunità che troviamo, poi sta alle persone decidere. La difficoltà principale è che molti fanno fatica a crearsi un percorso lavorativo stabile, a investire in un tirocinio, per esempio. Magari fanno poche ore e guadagnano poco, e visto che sono mossi dalla necessità di guadagno, perché in Africa hanno le famiglie da mantenere, preferiscono lavori che danno subito un reddito, come quelli stagionali».
Il lockdown della Salette
Con l’arrivo del coronavirus, il Comitato di gestione ha stabilito alcune regole: accesso proibito ai non residenti e distanziamento sociale. Misure che hanno creato molte tensioni tra gli abitanti che hanno dovuto impedire l’ingresso ad amici o parenti. Inoltre, la cooperativa Orso ha provveduto a creare una rete di solidarietà con la Caritas per la distribuzione di cibo e mascherine di cotone. D. è un giovane senegalese e da cinque anni vive alla Salette. Grazie alla diocesi, nel suo frigo non è mai mancato il cibo. Quando hanno imposto le misure di contenimento, la borsa lavoro di D. è stata sospesa. «Lavoravo come carpentiere per fare scale in legno. Lavoravo solo quattro ore al giorno, ma ero contento. Prima ancora facevo l’ambulante ma era un lavoro pericoloso. Compravo giubbotti e scarpe contraffatte a Napoli e li rivendevo a Nichelino, Trofarello, Moncalieri. Un giorno un poliziotto in borghese mi ha fermato e ha detto: “Se vendi poca roba, non ti diciamo niente”. Però, mi sono spaventato e allora ho provato a cercare un “capo” (datore di lavoro) a Saluzzo, ma non l’ho trovato. Allora sono andato in Francia, a Cannes, a vendere occhiali da sole, cappelli, orecchini sulla spiaggia».
K., un ragazzo maliano, ha avuto una storia più fortunata. Quando è arrivato il lockdown, aveva appena festeggiato la firma del contratto di apprendistato di tre anni che gli aveva fatto un’azienda edile di Grugliasco. L’hanno messo in cassa integrazione, ma non sa come avrebbe fatto, senza l’aiuto alimentare dato alla Salette. I soldi sono arrivati solo mesi dopo. K. voleva andare a trovare la sua famiglia in Mali, ma senza il passaporto non può farlo. Durante l’emergenza, fino al 18 maggio era impossibile accedere alle questure. «È da 10 anni che non torno a casa. Sono partito dal Mali quando avevo 15 anni, sono scappato alle 4 di mattina quando i miei dormivano. Da noi in alcuni villaggi non c’è neanche l’acqua per bere e così la vita è troppo complicata».
Tornare a casa
Nel caso di D., un giovane del Ghana residente alla Salette dai tempi dell’occupazione, l’emergenza coronavirus ha rafforzato la sua decisione di tornare a casa. «Mi alzo alle 4 del mattino, vado in giro e mi mandano a quel paese, mi chiamano negro. Tutti i giorni esce un nuovo decreto sugli immigrati. Per quanto tempo dobbiamo continuare a essere immigrati e non persone?». Da qualche anno, D. prepara il suo ritorno e fa coltivare un campo di anacardi e cacao che ha comprato a Kokooa, per vendere i prodotti sul posto. «Non dipendere da nessuno è una grande libertà umana. Io sarei tornato in Ghana nel 2013, sedendomi sulla sedia col mio sacco di dollari guadagnati in Libia. Ma mi hanno obbligato a venire in Italia».
W. è della Guinea-Bissau. «Ho sempre lavorato nell’agricoltura. In Italia, per tre anni ho raccolto la verdura a Foggia. Il capo era cattivo, mi segnava sei ore quando ne avevo fatte nove. Poi nel 2014 sono arrivato a Torino, ho lavorato due anni a Saluzzo e lì raccoglievo pere, pesche. Nel 2019 sono arrivato alle Salette e ho lavorato in un’azienda per raccogliere la menta senza contratto. Adesso volevo tornare a Saluzzo, ma con questa emergenza, se non hai un contratto non ti puoi muovere».
W. è da cinque mesi che aspetta il rinnovo del permesso di soggiorno che vuole convertire da umanitario in lavorativo subordinato. Nei mesi precedenti al coronavirus avendo con sé solo la ricevuta della domanda di conversione, i datori di lavoro non si fidavano ad assumerlo. Inoltre, a marzo voleva andare a Saluzzo, ma il progetto Pas (Prima accoglienza stagionali) era chiuso per l’emergenza e senza un posto letto certificato non gli facevano il contratto.
«Durante l’emergenza coronavirus, le persone più vulnerabili erano quelle senza documenti e quelle che lavoravano in nero», racconta Eleonora Celoria, avvocata e socia Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione) che ha svolto un lungo periodo di volontariato alla Salette. «Loro non potevano spostarsi e, senza documenti, non potevano essere assunti, né dimostrare che si muovevano per esigenze di lavoro. Anche per quanto riguarda gli stranieri in regola con i documenti, la situazione non era facile: dal momento che molti svolgevano lavori precari, alcuni sono stati licenziati, ad altri non hanno rinnovato i contratti e anche chi era stato messo in cassa integrazione non aveva la sicurezza di poter tornare a lavorare a emergenza finita. Chi era titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari e voleva convertirlo in permesso per motivi di lavoro si trovava in difficoltà: per farlo bisogna presentare la documentazione legata all’attività lavorativa e, se avevi perso o, a causa del virus, non potevi trovare un lavoro, veniva meno la possibilità di chiedere la conversione».
I vantaggi del lockdown
«Per lo meno, le norme introdotte per affrontare l’emergenza hanno disposto l’estensione della validità dei permessi di soggiorno fino al 31 agosto, e questo ha consentito alle persone che avevano il permesso in scadenza durante questi mesi, di continuare a lavorare e di avere accesso ai servizi. Anche la proroga della carta di identità e della tessera sanitaria devono valutarsi in questo senso con favore. È fondamentale però che i migranti siano informati di questa estensione, per poter far valere i propri diritti».
M. è marocchino. Durante il confinamento, assieme agli altri ha creato una palestra sul terrazzo. «Su 70 persone, solo sette lavoravano durante l’emergenza. È stato difficile. Io lavoro in nero, mi chiamano per fare dei lavoretti in casa. Ma, per me, i veri problemi sono cominciati nel 2002. Quell’anno avevo fatto una manifestazione per il partito comunista davanti all’ambasciata marocchina a Parigi in difesa del popolo sarahawi. Per punirmi mi hanno tolto il passaporto. Da lì non ho più potuto rinnovare i documenti». M. è arrivato alle Salette dal Moi. «Volevamo creare una realtà autogestita dai migranti, era il mio sogno. Ma non ci siamo ancora riusciti. Quest’occupazione ci ha dato lavoro, dignità, tranquillità, un curriculum, una chiave, ma non siamo autonomi. Siamo quattro responsabili di piano, ma partecipiamo solo in due. Essere responsabili non vuol dire essere un libico (come un carabiniere che controlla le regole, ndr) o un ruffiano (che fa quello che vuole la cooperativa pur di mantenere un potere, ndr), solo voler mettere le cose a posto». Con la sanatoria Cura Italia Bis per regolarizzare i braccianti in agricoltura e in altri settori chiave, la sua clandestinità è terminata. «Ci regolarizzano solo per sfruttare il nostro lavoro. Noi immigrati siamo essenziali e questo è riconosciuto solo in un momento di crisi come questo».
Amarilli Varesio
Il capitalismo delle piattaforme digitali
Testo di Francesco Gesualdi |
L’intermediazione è sempre esistita, ma è cambiata con l’avvento di internet. Oggi dominano e-Bay, Airbnb, Uber e le varie piattaforme per la consegna del cibo a domicilio. Avvantaggiate anche dalla pandemia.
Gli inglesi, che in fatto di lingua sono piuttosto fantasiosi, l’hanno battezzata «gig economy», l’economia dei lavoretti. Si riferisce a tutte quelle attività che, un tempo, erano svolte da studenti desiderosi di procurarsi qualche soldo per le proprie spese personali, ma che, in tempi di disoccupazione, sono effettuate anche da chi deve mantenere una famiglia.
Fino a una ventina di anni fa, poteva essere il servizio occasionale reso come baby sitter o come manovale nei traslochi, ma oggi è un’attività strutturata che ruota attorno alle cosiddette «piattaforme».
Prima di internet, la parola piattaforma evocava una struttura da utilizzare come base d’appoggio di un carico o di una costruzione. È piattaforma la pedana di legno allestita per la realizzazione di uno spettacolo, come è piattaforma il carrello elevatore su cui salgono i vigili del fuoco per raggiungere i piani alti da soccorrere. E ancora sono piattaforme le imponenti strutture costruite in mare per ospitare le trivelle deputate alla perforazione del fondale marino alla ricerca di petrolio. In epoca digitale, la parola piattaforma ci porta invece in ambito virtuale, nei luoghi evanescenti di internet creati per mettere in comunicazione chi richiede qualcosa e chi lo offre. In fondo si tratta di mercati che invece di svolgersi di persona nelle piazze o nelle borse, avvengono per via telematica tramite luoghi virtuali: le piattaforme online.
I mercati virtuali
La prima piattaforma online venne allestita nel 1995 da un iraniano naturalizzato statunitense, tale Pierre Omidyar, che fondò e-Bay. Laureato in scienze informatiche, si era reso conto che internet era diventato un formidabile canale di comunicazione che la gente utilizzava non solo per scambiarsi foto, saluti e opinioni, ma anche per darsi appuntamenti, concordare iniziative e aiutarsi a risolvere piccoli problemi quotidiani tramite lo scambio di oggetti o la condivisione dell’auto e altre apparecchiature domestiche. Insomma, internet aveva fatto emergere il lato collaborativo delle persone e qualcuno azzardò la nascita di una nuova economia che il mondo anglosassone battezzò «share economy», l’economia dell’amicizia e della condivisione. Però, come era già successo a molte altre iniziative solidali nate dal basso, anche la share economy attirò l’attenzione del mondo degli affari che aveva fiutato odore di soldi. L’attività intravista come via di guadagno era quella di intermediazione, un mestiere fra i più antichi dell’umanità. Anche nel vecchio mondo contadino esisteva il sensale, un personaggio che girava per le campagne in cerca di chi aveva bestie da vendere e di chi voleva comprarne. E, dopo avere fatto incontrare le due parti interessate, le aiutava a condurre le trattative con l’obiettivo di intascare una percentuale sul prezzo di vendita. Un’attività simile è tutt’oggi svolta dalle agenzie immobiliari che fungono da intermediari nella compravendita di case. Nella stessa categoria si collocano le borse valori, i luoghi in cui si contrattano titoli e materie prime e che devono il proprio nome al palazzo Ter Buerse, la prima sede commerciale costruita a Bruges a fine 1300 dalla famiglia veneta Della Borsa. Per certi versi perfino le banche possono essere catalogate fra le agenzie di intermediazione, per il ruolo di cerniera che svolgono fra chi risparmia e chi è in cerca di prestiti. Per cui le attività di intermediazione sono tante, sempre uguali per finalità, sempre diverse per substrato e modalità di svolgimento.
Uber e gli altri
Una caratteristica del capitalismo è la capacità di adattamento. Grazie ad essa, il sistema è riuscito non solo a garantirsi lunga vita, ma perfino a trasformare le catastrofi in opportunità. Tipiche le guerre e i terremoti che dopo la distruzione hanno bisogno di ricostruzione. La stessa crisi climatica è vissuta come occasione di rilancio economico perché per passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili serve una tale quantità di investimenti da rimettere in moto una massiccia attività produttiva. Ma il principale spirito di adattamento il capitalismo l’ha dovuto sviluppare verso la tecnologia. Angosciato dalla necessità di aumentare la produttività, ossia la quantità di produzione in rapporto al tempo e alla spesa, la tecnologia è sempre stata la sua alleata principale. Tuttavia, non senza contraccolpi, considerato che talvolta i cambiamenti sono così profondi da costringere le imprese non solo a rinnovarsi, ma addirittura a reinventarsi. Chi ci riesce sopravvive, chi non ce la fa soccombe. Ciò spiega perché nell’era del computer si siano affermate imprese create dal niente da parte di giovani con grande inventiva. Il riferimento è a personaggi come Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ormai appartenenti tutti all’olimpo dei miliardari. Ma oltre a loro ce ne sono molti altri, non meno ricchi anche se meno appariscenti, che hanno costruito il loro impero economico sulle opportunità offerte da internet. Fra essi gli opportunisti delle intermediazioni. Cominciò la già citata e-Bay, pensata per facilitare il commercio di beni usati fra privati. Una sorta di bacheca online dove chiunque può esporre ciò che desidera vendere, delegando alla piattaforma le funzioni di pagamento e di trasferimento del prezzo, ben inteso lasciandole una percentuale sull’incasso. Nel 2019 il valore complessivo dei beni transitati per e-Bay è stato di 22 miliardi di dollari, due dei quali trattenuti dalla piattaforma come corrispettivo del servizio reso. Più tardi, tale Brian Chesky e altri amici applicarono lo stesso modello all’affitto di camere, crearono Airbnb, un portale online che mette in contatto persone in cerca di camere per brevi periodi, con persone che dispongono di spazi extra da affittare. Ma benché rivoluzionarie sul piano commerciale, tali iniziative non hanno però avuto effetti di rilievo rispetto al lavoro. Queste piattaforme dispongono senz’altro di dipendenti, ma presumibilmente tutti assunti secondo i canoni classici del lavoro salariato.
Le novità arrivarono nel 2009, quando alcuni informatici, fra cui Travis Kalanick, si concentrarono sui trasporti. Avendo notato che in internet si stavano sviluppando contatti fra chi chiedeva passaggi e chi era disposta a darli, Kalanick, assieme ad altri amici, creò una piattaforma dedicata ai trasporti, che battezzò Uber. Quanto alla sua gestione avrebbe potuto seguire il modello e-Bay, ma si rese conto che lasciato allo spontaneismo le possibilità di guadagno erano piuttosto ridotte perché il passaggio era concepito più come servizio che come attività commerciale. I passaggi, infatti, venivano dati da chi avrebbe comunque effettuato il viaggio, chiedendo tutt’al più un contributo alle spese da riscuotere in forma diretta durante il passaggio. Perciò Kalanick capì che, se voleva guadagnarci, doveva industrializzare l’iniziativa.
La soluzione che si inventò fu quella di trasformare i normali conducenti proprietari di un’auto in tassisti. Detto fatto, sperimentò il suo piano a San Francisco agendo su due livelli. Da una parte lanciò un appello per chiedere a chiunque volesse effettuare trasporti a pagamento di iscriversi a una lista di disponibilità. Dall’altra creò Uberpop, un’applicazione a disposizione del grande pubblico per permettere a chiunque volesse un passaggio di poterlo richiedere. Un’apparecchiatura retrostante avrebbe passato la richiesta a un conducente che avrebbe provveduto al servizio. Quanto al pagamento della corsa, il cliente avrebbe pagato direttamente a Uber tramite carta di credito, mentre il conducente avrebbe ricevuto da Uber un compenso stabilito da un tariffario interno, previa decurtazione di una percentuale a titolo di commissione d’ingaggio. A San Francisco l’esperimento funzionò e oggi Uber è presente in 700 città sparse in 80 diverse nazioni, con una isponibilità complessiva di tre milioni di conducenti. Per un certo periodo è stato presente anche in alcune città italiane, ma nel maggio 2015 il tribunale di Milano dichiarò l’attività illegale perché in contrasto con le leggi nazionali che regolano il servizio taxi.
Sul piano finanziario, nel 2018 Uber ha incassato 50 miliardi di dollari, ma i conducenti lamentano coralmente compensi ridotti all’osso a fronte di alti costi a loro carico.
I fattorini del cibo
Il modello ha fatto scuola e qualcuno l’ha applicato alla consegna di cibo a domicilio (anche Uber stessa con Uber Eats). Il primo a pensarci fu Will Shu, un analista bancario che, nel 2013, fondò Deliveroo, un’applicazione che permette di ordinare cibo a una serie di ristoranti inseriti nella sua lista. Il cliente ordina, Deliveroo incassa tramite carta di credito e paga il corrispettivo al ristorante decurtato di una commissione. Il prezzo complessivo richiesto al cliente comprende anche una quota per pagare il fattorino che esegue la consegna. Fattorino attinto da una lista interna formata da persone che si sono dichiarate disponibili a effettuare le consegne con mezzo proprio, solitamente la bici o la moto, per questo detti riders. Per cui, quando il cliente chiama, scattano due richieste contemporaneamente: una al ristorante affinché prepari il piatto, l’altra a un fattorino affinché effettui la consegna.
Oggi in tutto il mondo si contano decine di società che fanno consegna di cibo a domicilio tramite ordinazioni online (in aumento anche a causa della pandemia). In Italia, le principali sono le britanniche Deliveroo e Just Eat, la spagnola Glovo, l’italiana Foodys. Secondo una stima della Fondazione De Benedetti del 2018, tutte assieme ingaggiano 10mila fattorini. Milena Gabbanelli – Corriere della Sera, 18 giugno 2018 – descrive così la loro condizione: «Il lavoro è organizzato da un algoritmo, e punta su un continuo turn over. Le condizioni e i compensi cambiano continuamente e variano anche da città a città. Non sono previste maggiorazioni per lavoro festivo, notturno, pioggia o neve. Mediamente le piattaforme “ingaggiano” il 20% di lavoratori più del necessario per tutelarsi rispetto alle defezioni dell’ultimo minuto. Foodora (non più presente, ndr) assume Co.co.co., li paga 4 euro lordi a consegna che vuol dire 3,60 netti. Deliveroo ingaggia collaboratori occasionali, li paga 4 euro netti a consegna. Glovo ha collaboratori occasionali pagati 2,00 euro netti a consegna più 60 centesimi per chilometro percorso più 5 centesimi per ogni minuto di attesa al ristorante o in negozio oltre i primi cinque minuti».
I nuovi lavoratori
I riders sono solo la punta dell’iceberg dei cosiddetti gig workers. Oltre a chi pedala in bicicletta, c’è chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di copertura assicurativa. Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 su 50 imprese di servizi on line, si apprende che 22 di esse non hanno posizione contributiva, 17 risultano avere solo lavoratori dipendenti, 11 sia lavoratori dipendenti che collaboratori iscritti alla gestione separata. In conclusione, poco più di 2.700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Questo significa: niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici. Per mettere fine a questa totale mancanza di tutele, nel 2017 alcuni fattorini al servizio di Foodora, si appellarono al Tribunale di Torino per essere riconosciuti lavoratori dipendenti. Il tribunale rigettò la richiesta, facendo propria la tesi di Foodora che voleva i rider lavoratori autonomi in quanto proprietari dei mezzi di produzione: bicicletta e smartphone non sono dell’azienda, ma dei fattorini stessi. I lavoratori ricorsero in appello e ottennero una vittoria parziale: i giudici non li riconobbero lavoratori subordinati ma neppure lavoratori totalmente autonomi, bensì una via di mezzo, lavoratori «etero-organizzati», ossia organizzati da altri e in quanto tali aventi diritto ad alcune garanzie tipiche dei lavoratori dipendenti: «sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza». Sentenza confermata in Cassazione e quindi pienamente esecutiva. Un buon passo avanti per la dignità del lavoro, anche se la politica deve fare la sua parte per colmare le lacune legislative che permettono ai profittatori del terzo millennio di spadroneggiare.