«Vola solo chi osa farlo»

L’ultimo volo

Il nuovo coronavirus si è portato via anche Luis Sepúlveda, grande scrittore cileno di origine mapuche (da parte di madre), attivista politico e ambientalista appassionato. Oggi, in molti sostengono che questa straordinaria emergenza mondiale potrebbe diventare un’opportunità per un nuovo inizio. Lo speriamo. Come sempre, dipenderà dagli uomini e dalle loro scelte. In una delle sue opere più popolari – Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Sepúlveda immagina una metafora partendo dal «volo». Lasciamo da parte le nostre paure sulle diversità, cerchiamo di volare alti e di sovvertire il pensiero comune per costruire qualcosa di bello. Un anelito di ottimismo in un’epoca d’oscurità.

Paolo Moiola


Morto per il Covid-19 lo scorso 16 aprile, lo scrittore e attivista cileno mapuche era molto amato in Italia. Dagli adulti, ma anche dai più giovani.

«Rimasi con il popolo Shuar nella selva amazzonica. Durante tutto quel tempo mi accettarono come uno di loro, anche se ero totalmente diverso. La cosa straordinaria fu che mi accettarono proprio per questo, perché ero diverso. Da loro appresi la lingua e il rispetto per i delicati equilibri di Madre Terra». Così diceva Luis Sepúlveda quando ricordava la sua esperienza nell’Amazzonia ecuadoriana insieme ai popoli indigeni.

Il grande scrittore e attivista cileno ci ha lasciato il 16 aprile 2020, a causa del Covid-19. Era nato a Ovalle, una città a Nord di Santiago, in Cile, il 4 ottobre 1949. Da ragazzo leggeva romanzi di avventura di Cervantes, Salgari, Conrad, Melville e la vocazione letteraria si manifestò già al liceo di Santiago quando iniziò a pubblicare poesie sul giornalino dell’istituto. A diciassette anni iniziò a lavorare come redattore del quotidiano Clarín e poi in radio. Nel 1969 vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti «Crónicas de Pedro Nadie». Poi giunsero gli anni della militanza totale. Il 4 settembre 1970 Salvador Allende venne eletto presidente e la società cilena iniziò a rialzarsi. Sepúlveda durante quei mille giorni del goveno di Allende partecipò alla democratizzazione del paese. Nel 1973 entrò a far parte della struttura militare del Partito socialista e divenne membro dei Gap, la guardia personale di Allende, ma l’11 settembre 1973 ci fu il colpo di stato militare di Augusto Pinochet. Venne instaurata la dittatura. Luis venne arrestato e torturato. Trascorse sette mesi in una cella piccolissima ove era impossibile stare in piedi o sdraiati. Anche la sua compagna, la poetessa cilena Carmen Yáñez, sposata nel 1971, subì la sua stessa sorte e subì come lui indicibili torture. Sepúlveda venne scarcerato grazie alle forti pressioni di Amnesty International che lanciò una serrata campagna per la sua liberazione. Dopo quasi tre anni di carcere, «con molti denti in meno e cinquanta chili di peso», se ne andò a Valparaíso, ove riscoprì la sua passione per il teatro e si dedicò a rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Avrebbe raccontato tutto in «Storie ribelli». Erano tempi durissimi durante i quali in Cile vi furono tanti desaparecidos. Venne arrestato una seconda volta e la giunta militare lo processò ufficialmente condannandolo ad un’ergastolo che poi, su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. Trascorse circa due anni e mezzo in carcere. Il 17 luglio del 1977 gli fu permesso di lasciare il Cile. Rimase per poco tempo in Argentina, poi passò in Brasile e quindi arrivò a Quito, in Ecuador. Qui entrò in contatto con una realtà che avrebbe influenzato molto la sua opera letteraria, ma anche la sua attività di militante e strenuo difensore della natura. Partecipò, infatti, a una spedizione dell’Unesco ed ebbe così l’opportunità di vivere per sette mesi nella selva amazzonica con il popolo indigeno shuar. Gli Shuar (o Jívaro) si ubicano nella regione orientale dell’Ecuador e in una parte nel Perù settentrionale, sui pendii delle Ande. Il termine Jívaro (Jibaro) in realtà è dispregiativo, perché significa «barbaro». Essi si autodefiniscono Nijínmanya Shiwiár (ossia Shuar) che, nella loro lingua, significa «popolo». Vengono chiamati anche «i difensori della natura» e hanno resistito nei secoli sia al dominio dell’Impero Inca che a quello degli spagnoli. Attualmente si ritrovano a lottare per la difesa del proprio territorio e della propria cultura, contro l’occidentalizzazione e l’espansione delle multinazionali. Proprio basandosi sui ricordi della convivenza con loro, Luis Sepúlveda nel 1988 avrebbe scritto «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore», che divenne il suo maggiore successo internazionale. Una volta, durante una lunga intervista, volle ricordare il tempo trascorso con gli Shuar e a questo proposito raccontò: «Quando scrissi “Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore” usai molti elementi autobiografici perché la mia esperienza amazzonica era stata come un’iniziazione, l’introduzione a un mondo sconosciuto. [In quella spedizione] eravamo in otto, ma dopo due settimane rimasi l’unico a non essermi ammalato. Perciò, gli altri se ne andarono, ma io decisi di rimanere. Non sapevo bene dove andare, ma mi dissi che volevo conoscere l’Amazzonia. Così rimasi da solo. All’inizio gli Shuar non si avvicinavano, però ogni giorno mi lasciavano acqua, frutta e carne di scimmia per sopravvivere. Poi si ritiravano nella foresta. Un giorno venni morso da un serpente. Sapevo che era velenoso, ma per fortuna il cinturino del mio orologio in parte mi protesse. Tagliai col machete la testa del serpente e corsi subito dagli indigeni. Mentre gliela mostravo sentii che avevo già la vista annebbiata e persi conoscenza. Quando mi risvegliai erano trascorsi sette giorni. Gli indigeni mi avevano curato con le loro potenti conoscenze di erbe mediche e mi salvarono la vita. Così venni integrato nel loro mondo e vi rimasi sette mesi».

Nel 1979, Sepúlveda andò in Nicaragua dai sandinisti che decisero di accettare nelle loro file alcune centinaia di esuli cileni che avevano chiesto di unirsi alla guerra di liberazione. Poi andò in Europa, ad Amburgo. Due anni dopo divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace, attraversando i mari per quattro anni. Nacquero tanti libri tra i quali: «La frontiera scomparsa», «Patagonia express», «Appunti dal Sud del mondo», «Incontro d’amore in un paese in guerra», «Le rose di Atacama», «La gabbianella e il gatto» e «Il mondo alla fine del mondo», romanzo sullo scempio del pianeta in nome del profitto, ambientato in buona parte nella terra che più amava: la Patagonia. Quando qualcuno gli chiedeva il motivo della sua scrittura, Luis Sepúlveda diceva: «Dallo scrittore brasiliano Guimarães Rosa ho imparato che raccontare è resistere e su questa barricata della scrittura io resisto agli assalti della mediocrità planetaria, alla mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio. Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per amore delle parole che amo, e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica, ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria, e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati, dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che sconfitti in mille battaglie, si rialzano e continuano a prepararsi per le prossime battaglie senza avere paura».

Luis Sepúlveda è stato un latinoamericano coraggioso e coerente che ha fatto della lingua la sua patria. Ci lascia un’opera preziosa nella quale ha scritto sugli «scartati», sui mondi emarginati, sulle utopie e sulla speranza di un mondo migliore che non morirà mai.

Antonella Rita Roscilli