La sanità pubblica ai tempi del coronavirus

La sanità non dovrebbe essere per il profitto. Foto: Marco Verch - Cologne.

testo di Francesco Gesualdi |


Forse adesso abbiamo imparato che la sanità pubblica non è uno spreco come politici ed economisti volevano farci credere. Per capirlo meglio, confrontiamo i sistemi sanitari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Italia (con un occhio critico sulla Lombardia).

Più pubblico, meno privato

Nella puntata di maggio di questa rubrica, abbiamo iniziato a descrivere le conseguenze economiche dell’arrivo del nuovo coronavirus sulla vita delle persone. Abbiamo parlato del nuovo ruolo che lo stato dovrebbe avere (o riavere) nell’economia. In questa puntata, vedremo quanto un efficiente sistema sanitario pubblico (di tutti e per tutti) sia indispensabile. (F.G.)

L’aggressività del coronavirus e il numero di persone che ha  avuto bisogno di cure ospedaliere fino ai limiti più estremi, dove il confine fra la vita e la morte si fa incerto, ci hanno fatto riscoprire il valore della sanità. L’importanza cioè di quell’insieme di persone e strutture che ci permettono di riparare i danni provocati da agenti infettivi (come i virus) e da malattie in genere, per tornare alla pienezza della nostra vita. In una parola ci hanno fatto riscoprire il valore di quella sanità pubblica (cioè di tutti i cittadini) che, in tempi normali, non teniamo nella dovuta considerazione. Anzi, tendiamo a vedere come uno spreco da ridimensionare.

Interpretare i parametri

È successo anche in Italia dove la spesa sanitaria da parte delle strutture pubbliche è passata dal 7,1% del Pil nel 2009 al 6,5% nel 2018. Il dato è fornito dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato calcolato in termini reali, ossia mantenendo fermo il livello dei prezzi.

Stando alle statistiche internazionali, l’Italia non si trova ai primissimi posti per spesa sanitaria, ma la statistica è una materia sofisticata che, a seconda dei dati prescelti, può darci informazioni molto diverse fra loro, talvolta fino a confonderci. Gli indicatori riguardanti la sanità sono un caso di scuola. Uno dei parametri abitualmente utilizzati per capire quanta importanza si dà alla sanità è la spesa sanitaria totale in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). Da questo punto di vista all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno registrato una spesa sanitaria totale pari al 16,9% del Pil. Otto punti percentuale in più dell’Italia la cui spesa sanitaria complessiva è stata pari all’8,8% del Pil. Un dato che, a prima vista, potrebbe indurci a credere che gli Stati Uniti siano il paese con la maggiore attenzione per la salute al mondo. La spesa sanitaria indica però quanti soldi sono stati spesi per le cure mediche senza precisare né la destinazione, né i beneficiari. Ad esempio, sappiamo che gli Stati Uniti sono un paese altamente disuguale, poco propenso alla solidarietà collettiva. Per cui quel 17% potrebbe nascondere un alto numero di interventi di chirurgia plastica comprati dai più ricchi, mentre i più poveri non riescono a curarsi neanche un’appendicite. Il dato che ci dice quanto un paese sia attento alla salute di tutti è la spesa pubblica dedicata alla sanità, ed ecco che se concentriamo l’attenzione solo su questa voce, gli Stati Uniti scendono al 5,3%. E, tuttavia, anche rispetto all’idea di sanità pubblica ci sono idee molto diverse.

Mascherine anche per le statue di Sheffield, in Inghilterra. Foto: Tim Dennell.

Costi e profittI

Il problema della sanità è il suo costo che, con l’andare del tempo, si è fatto sempre più alto, non tanto per le medicine e gli onorari dei professionisti, quanto per le attrezzature che giocano un ruolo sempre più decisivo con l’evolversi della tecnologia. Per cui è sempre stato chiaro nella testa di tutti che la sanità è una spesa che non conviene affrontare da soli, ma assieme agli altri. L’alleanza è però un concetto che non trova spazio nelle logiche di mercato, per definizione individualista e competitivo. Tuttavia, il capitalismo non fa mai troppo lo schizzinoso e non esita a passare sopra ai propri fondamenti culturali se questi sono di ostacolo agli affari. È stato proprio osservando le soluzioni adottate dal movimento operaio che il mondo degli affari ha capito come trasformarsi in imprenditore dell’alleanza. Ai primordi della rivoluzione industriale, i salari erano così bassi da non permettere ai lavoratori nemmeno di dare sepoltura ai propri cari. Il che indusse a individuare nella mutualità la soluzione per affrontare i gravi problemi della vita. Operai di una stessa città, di una stessa categoria, versavano un tanto al mese in un fondo comune, acquisendo così il diritto di essere soccorsi in caso di necessità. Nascevano le società di mutuo soccorso, talune orientate anche al sostegno scolastico, ma principalmente create per dare assistenza in caso di malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione e anche vecchiaia. Esperienze basate sul principio assicurativo che diedero luogo a due importanti sviluppi: l’uno in ambito privato, l’altro in ambito pubblico. In ambito privato diedero impulso alle assicurazioni previdenziali, società per azioni che, al pari delle società di mutuo soccorso assicurano contro malattia, infortuni, morte, vecchiaia, con la differenza che il vero obiettivo è garantire profitto agli azionisti. Quindi, premi e indennizzi sono calcolati in modo da lasciare sempre un margine di guadagno per i proprietari.

Le Assicurazioni sanitarie

A questo filone di attività appartengono le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione e anche le assicurazioni sanitarie che, pur essendosi sviluppate ovunque, hanno trovato terreno particolarmente fertile oltre Atlantico dove la mentalità mercantile è più radicata. Negli Stati Uniti, il sistema sanitario si regge di fatto sul sistema assicurativo per il 50% pubblico e il 50% privato, laddove la parte pubblica è ulteriormente suddivisibile in due porzioni: 36% finanziata dal sistema fiscale per prestazioni a favore di anziani e incapienti, 14% finanziata dai prelievi sugli stipendi dei dipendenti pubblici per prestazioni sanitarie a loro favore. Ogni forma assicurativa garantisce prestazioni diversificate. Nel caso di chi gode dell’assicurazione sociale, i limiti sono fissati dalla legge. Per tutti gli altri sono fissati dall’ammontare dei premi pagati. In definitiva, in caso di necessità di cure, la probabilità di dover compartecipare alla spesa farmaceutica o ospedaliera è molto alta per ogni tipo di assicurato: sia esso iscritto all’assicurazione pubblica o cliente dell’assicurazione privata.

Questa intricata rete assistenziale rende l’impalcatura sanitaria statunitense molto complicata con la contemporanea presenza di enti pubblici, come Medicare e Medicaid, e di società assicurative dai più vari connotati. Analoga complicazione si trova anche nell’ambito degli ospedali e di tutte le altre strutture che forniscono servizi sanitari. Pochi ospedali statali al servizio degli assistiti dagli enti pubblici convivono con una pletora di ospedali privati, alcuni posseduti da enti caritatevoli,   la maggior parte da società per azioni. In ambito assicurativo, dieci società, fra cui United Health Group, Kaiser Foundation, Anthem, Humana, si aggiudicano il 50% dei premi assicurativi di tipo sanitario. In ambito ospedaliero, l’operatore più grande è Hospital Corporation of America, che possiede 185 ospedali e 2mila cliniche con un fatturato annuo di 28 miliardi di dollari e 190mila dipendenti. Gli ospedali ricevono i loro compensi dalle assicurazioni e dai diretti interessati se la prestazione fornita va oltre la copertura assicurativa. Secondo l’organizzazione non profit Fair Health, il coronavirus potrebbe fare arrivare a migliaia di ospedalizzati conti salatissimi in base alla loro posizione assicurativa: da 40 a 75mila dollari se totalmente scoperti e da 20 a 38mila dollari se coperti da polizze di bassa entità.

La nascita del Sistema  sanitario nazionale

Fino al 1978 anche in Italia l’assistenza sanitaria era gestita su base assicurativa, ma da parte dello stato. In pratica, ogni lavoratore era obbligato a versare una percentuale del proprio stipendio a una specifica cassa statale che assicurava la sanità ai partecipanti. La più importante era l’Inam – Istituto nazionale assistenza malattie – a favore dei lavoratori dipendenti. Il limite del sistema era che forniva assistenza solo a chi partecipava ai versamenti, mentre escludeva tutti gli altri. Il che contrastava con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per definizione, i diritti appartengono a tutti e sono indipendenti dalle condizioni personali di ricchezza, sesso, età. Lo spirito della Costituzione venne attuato nel 1978 tramite l’introduzione del Servizio sanitario nazionale concepito come servizio universale e gratuito, finanziato attraverso la fiscalità generale. Dotato di tutti i servizi, dagli ospedali agli ambulatori territoriali, il servizio sanitario italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma alcuni segnali fanno temere per la sua integrità. Fra essi il restringimento dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, l’introduzione dei ticket sulle prestazioni diagnostiche, le lunghe liste di attesa per visite, esami ed interventi che spingono le famiglie più abbienti a rivolgersi alle strutture private, che non sono scomparse.

La Lombardia  e la sanità di mercato

In alcune regioni, ad esempio la Lombardia, c’è (o c’è stata) la tendenza ad accrescere il numero di convenzioni che abilitano le strutture private ad erogare servizi per conto del Servizio sanitario nazionale. Nel 2017, ad esempio, le strutture private lombarde hanno assorbito il 35% dei ricoveri ordinari e il 40% del denaro messo a bilancio per questo scopo dal servizio sanitario della regione.

Segnali preoccupanti che denotano una graduale demolizione del servizio pubblico a favore della sanità di mercato, anche perché è un fenomeno che sta avvenendo anche in altri paesi. Tipico il caso della Gran Bretagna dove il servizio sanitario universale esiste dal 1948 e subito venne amato dagli inglesi. Negli anni Ottanta del secolo scorso subì però una prima incrinatura quando Margaret
Thatcher decretò la possibilità di esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del  governo laburista di Blair, di poter appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la definitiva apertura ai privati è stata decretata dalla riforma approvata nel 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario nazionale verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità per ogni cittadino di scegliere lui a quale struttura rivolgersi, sia essa privata o pubblica, per ottenere la prestazione specialistica pagata dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera alle strutture private in base al criterio monetario. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico. Secondo un’indagine condotta dal Financial Times, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici sono in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di uscire dall’Unione europea anche per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente sul suolo inglese.

In Italia, gli ospedali hanno fatto il massimo per curare i malati da coronavirus, ma i momenti di difficoltà che hanno vissuto debbono indurci a impegnarci sempre di più per rafforzare la nostra sanità pubblica al servizio di tutti.

Francesco Gesualdi

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