Brasile. Fratello indigeno, Sorella Amazzonia

In ricordo di Monsignor Aldo Mongiano

Brasile
Silvia Zaccaria

testi di Roque Paloschi e Silvia Zaccaria |


Nato a Moncalvo (Asti) più di 100 anni fa (era il 1919), monsignor Aldo Mongiano ci ha lasciati lo scorso 15 aprile. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, ricorda l’incontro con lui e le sue battaglie nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.

Arrivai a Boa Vista, capitale di Roraima, il 13 luglio 2005, per essere ordinato vescovo della diocesi dello stato amazzonico.

Il 15 luglio, al mattino, in una celebrazione eucaristica nella Casa regionale delle suore della Consolata, feci la mia professione di fede alla presenza di dom Servilio Conti e dom Aldo Mongiano, entrambi vescovi emeriti di Roraima.

Il 17, dopo l’ordinazione episcopale, i due vescovi mi condussero in mezzo al popolo che aveva partecipato alla celebrazione. Dom Aldo rimase a Roraima per alcuni mesi, fino a metà ottobre. Di solito ci incontravamo tre volte alla settimana per parlare e condividere le grandi sfide che la diocesi aveva. Conversazioni che mi aiutarono a capire la vita e la missione in quella terra. Ho visto lì, chiaramente, che il cuore e la vita di dom Aldo avevano il marchio delle popolazioni indigene.

Il 7 settembre, pur avendo già 85 anni, insistette per camminare con i gruppi di pastorale sociale e i movimenti popolari nell’ambito delle manifestazioni per il Grido degli esclusi (Grito dos excluídos). All’inizio della camminata, il vescovo emerito mi disse: «Dom Roque, è importante sostenere la lotta dei gruppi pastorali e dei movimenti popolari».

Il 17 settembre di quello stesso 2005 fu bruciata e distrutta la missione di Surumu, sede delle grandi assemblee dei tuxawa (capi indigeni) e della scuola di formazione di insegnati e leader indigeni. Tutto, in poche ore, fu trasformato in ceneri da un gruppo di persone potenti e contrarie al diritto alla terra e all’autonomia dei Macuxi, Wapixana, Ingaricó e degli altri popoi indigeni di Roraima. Potevo vedere la sofferenza, il dolore che provava dom Aldo. La settimana seguente andammo a Surumu e, in mezzo alle ceneri e alle macerie, disse: «È dalle ceneri che costruiremo il futuro dei popoli indigeni con la forza e il coraggio che Dio ci darà».

A quei tempi la compagnia e la presenza di dom Aldo furono molto importanti per me, giovane vescovo, e per gli indigeni, generando in noi sicurezza e coraggio.

Accanto alle vittime

Alcuni anni dopo, era il 2011, avemmo un’altra piacevole sorpresa: senza alcuna comunicazione, a febbraio dom Aldo tornò a Boa Vista a visitarci. Stavo facendo una visita pastorale di 45 giorni nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, visitando centri e comunità. Quando queste vennero a sapere dell’arrivo di dom Aldo, lo pregarono di far loro visita. Pertanto, organizzammo il suo viaggio in coincidenza con la fine della visita pastorale.

Il suo arrivo alla missione Maturuca si trasformò in una vera festa, con balli e tanta gioia. Nella settimana che trascorsi lì, io ebbi modo di sentire la grande gratitudine delle comunità per la missione, per i missionari e in un modo molto speciale per lui.

Alla celebrazione dell’addio, arrivò una donna anziana per regalargli un ricordino, una piccola pentola di terracotta fatta dalle donne macuxi di Maturuca. Nella sua lingua l’indigena disse: «Dom Aldo, sappiamo che non puoi portare molte cose nel tuo viaggio in aereo, ma accetta e prendi questa piccola pentola. È stata creata con questa terra che tu e la missione ci avete aiutato a preservare e riconquistare, è piena del sangue dei nostri capi che sono stati assassinati, del nostro sacrificio e della dedizione dei missionari. Ecco il nostro riconoscimento per il tuo coraggio nel lottare per i diritti delle popolazioni indigene». Le lacrime scorrevano nel silenzio di una notte che i libri di storia non racconteranno.

Papa Paolo VI, oggi santo, coniò questa espressione resa nota dalla sua Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta i testimoni meglio dei maestri». A Roraima, ho compreso quanto dom Aldo fosse stato testimonianza vivente di un uomo innamorato della missione. Era consapevole che essa si coniuga con l’incarnazione e la croce. Ecco perché, insieme ai missionari della Consolata, prese la croce assieme ai popoli indigeni di Roraima.

Possiamo assicurarvi che dom Aldo è stato un vescovo conciliare, cioè ha sempre cercato di camminare con la coscienza della Chiesa del Popolo di Dio.

Dio gli ha concesso la grazia di essere un missionario in Africa per i popoli del Mozambico e qui in Brasile, a Roraima, con i popoli indigeni, schiavi e vittime del mondo coloniale. Quindi, egli ha incarnato la Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, la tristezza e l’angoscia delle persone di oggi, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, la tristezza e le ansie dei discepoli di Cristo».

Gli attacchi delle élite

Nel 1967 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Populorum Progressio, in cui affermava che la Chiesa ha l’obbligo di mettersi al servizio di tutti gli uomini e di tutta l’umanità, per aiutarli a passare da condizioni meno umane a più umane. Nel 1968 ebbe luogo la Conferenza di Medellín dell’episcopato latinoamericano e, nel 1972, la Chiesa amazzonica brasiliana tradusse il documento di Medellín con l’incontro di Santarém. Nello stesso anno, la Chiesa aveva creato il Consiglio missionario indigenista (Cimi)1. Con tutto questo movimento e i segnali dello Spirito, dom Aldo bevve il Vangelo della liberazione e della libertà umana.

Quando arrivò a Roraima, nel 1975, egli trovò un clima che contagiava la vita e la missione.

Dom Aldo, con i missionari della Chiesa di Roraima, divenne il migliore alleato dei popoli indigeni. Ecco perché venivano additati con disprezzo dall’élite locale che affermava che la Chiesa cattolica era «dannosa» per la società di Roraima. Ricordo le risposte di un vecchio indigeno catechista, quando fu intervistato da un giornalista su una stazione radio governativa. Il giornalista chiese: «Perché ci sono così tanti attacchi contro la Chiesa, contro i missionari? Ti hanno addestrato per i guerriglieri? Ti hanno distribuito armi?». Il vecchio catechista indigeno rispose con l’eleganza di un diplomatico: «Guarda, i missionari non hanno fatto quasi nulla per noi. Ci hanno aiutato a capire che siamo anche figli e figlie di Dio; che non dovremmo vergognarci della nostra lingua, perché quella è la lingua che Dio ci ha dato e dobbiamo coltivarla; che questa terra ci appartiene, perché i nostri antenati hanno vissuto qui per oltre tremila anni».

Il primo passo che dom Aldo fece fu di continuare il percorso che i missionari stavano seguendo: unire i popoli indigeni animando e sostenendo le assemblee dei tuxawa e l’organizzazione del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).

Aveva un modo semplice e pratico per aiutare le comunità a capire l’importanza di unire le malocas di tutte le etnie indigene. Ne è un esempio quella che viene chiamata l’omelia delle bacchette: «Un ramo da solo è molto facile da spezzare, ma se metti insieme un fascio, questo non accadrà».

La missione aiutò le comunità a superare la maledizione del bestiame che invadeva e distruggeva i campi, con l’idea che «il veleno del serpente è anche l’antidoto». Dom Aldo, i missionari e gli indigeni trovarono nello stesso bestiame la cura: il famoso progetto «Una mucca per gli indios», con il sostegno del compianto cardinale Ersilio Tonini e poi di papa Giovanni Paolo II, oggi santo.

Dom Aldo cercò sempre di investire molto nella formazione dei leader indigeni. Tutte le comunità crebbero con una grande ricchezza di ministeri e servizi, i laici furono aiutati a scoprire la loro vocazione missionaria, le assemblee diocesane si susseguirono e la formazione dei laici decollò.

Dom Aldo era un uomo aperto oltre il suo tempo. Un uomo che accolse con favore l’esperienza di comunione che la Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) aveva promosso a difesa della vita. Un uomo che segnò la regione amazzonica e la Chiesa in Brasile per la sua opzione in favore delle popolazioni indigene e l’impegno a prendersi cura dell’Amazzonia. Negli anni ‘90, lui e in gruppo di vescovi ad Assisi, terra di San Francesco, lanciarono la grande campagna: «Un grido per la vita in Amazzonia».

Precursore del Sinodo

Vorrei ricordare ciò che dom Aldo scrisse nella sua lettera pastorale quando divenne vescovo emerito: «Sono stato spiato, ho subito minacce, insulti, false testimonianze. Di fronte a queste accuse, ho quasi sempre risposto con silenzio e perdono […]. Per vent’anni politici, giornali e stazioni radio locali hanno attaccato la Chiesa di Roraima, lanciando contro di me e sui missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più infami […]. Quando partii per Roraima nel 1975, avevo solo il passaporto, il biglietto e il documento del papa, con cui ero stato nominato vescovo. Quando ho lasciato Roraima, non avevo più nemmeno quelli».

Con tutta tranquillità posso affermare che la sua lotta non fu vana: dom Aldo è stato un grande profeta, un fedele difensore delle popolazioni indigene e dei loro territori. Aveva già previsto ciò che il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe affrontato nel 2019: difendere la terra significa difendere la vita. Posso affermare che il ministero episcopale di dom Aldo a capo della Chiesa di Roraima si è svolto in tempi difficili, di persecuzione aperta della Chiesa, di missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e coraggio evangelico.

Era un pastore, un profeta, un vero padre e fratello per i più deboli. Animatore delle comunità, protettore e difensore dei missionari che erano lì con loro.

Credo di poter sostenere, senza paura di sbagliare, che tutti i temi discussi dopo la convocazione, la preparazione e l’esecuzione del Sinodo dell’Amazzonia, dom Aldo li aveva già nel cuore e aveva sempre lavorato molto duramente per creare una Chiesa modellata sul volto dei popoli indigeni.

Egli aiutò a preservare i percorsi che Dio ha stabilito per l’umanità, sia a livello culturale che religioso; la sua pratica ci ha aiutato a salvare le strade che Dio ha stabilito per gli «ultimi». L’incontro con le popolazioni indigene ha aiutato la Chiesa di Roraima e del Brasile, a sentirsi più al servizio e samaritana.

Il percorso segnato da dom Aldo ha portato a percepire la bellezza di vivere in una pluralità culturale e a comprendere il modus vivendi degli altri, che è la grande ricchezza della Chiesa dell’Amazzonia. La sua azione ha aperto percorsi attraverso il dialogo, la riconciliazione, la cura dei più deboli, l’opzione per i fragili, il coraggio di denunciare i draghi della morte che divorano la vita, il rispetto e la comunione con le vite e i sogni degli ultimi.

Che dom Aldo ci aiuti a superare le tentazioni di discriminazione, xenofobia, omologazione e l’incapacità di avvicinarci alle popolazioni indigene!

Roque Paloschi

(1) Lo scorso 4 maggio il Cimi di dom Roque Paloschi è stato attaccato in maniera durissima (e vergognosa) in un comunicato ufficiale della Funai, l’organo indigenista oggi in mano a Bolsonaro e ai latifondisti, ovvero ai primi nemici dei popoli indigeni. La Funai ha anche restituito all’autore una serie di foto di Sebastião Salgado in risposta alla sua campagna internazionale in favore dei popoli indigeni e contro la dirigenza brasiliana. (P.M.)


Dal fiume Po al rio Branco

Dom Aldo, combattente «suo malgrado»

Lo ricordo così. Mite e pacato. La voce bassa, le parole quasi sussurrate. Il volto come scolpito nella pietra e lo sguardo austero, serioso, che all’improvviso si apriva in un sorriso appena accennato.

Dieci anni orsono ebbi il privilegio di raccogliere le sue memorie poi pubblicate nel libro «Roraima tra profezia e martirio: testimonianza di una Chiesa tra gli indios» (2010)1.

Una storia incredibile quella di Aldo Mongiano, nato nella seconda decade del Novecento in una valle piemontese da cui, per raggiungere la città della Fabbrica italiana automobili, il viaggiatore doveva utilizzare un calesse trainato da cavalli che lo conduceva alla stazione ferroviaria più vicina.

Nelle epoche precedenti, ricorda Mongiano nell’introduzione al libro, il viaggio era ancora più disagevole: «Era comune prendere un barcone e affidarsi a uomini robusti che spingessero il carico. Uno trascinava la barca facendo forza sul fondo sassoso del fiume con il remo, ed un altro, camminando sulla spiaggia, lo tirava con una corda legata alle spalle. Questa pratica, che avevo appreso da giovane osservando scene sul fiume che bagna il mio paese, sarebbe stata la metafora di tutta la mia vita». In Brasile, dom Aldo, come da lì in avanti sarebbe stato chiamato, arrivò dopo una lunga esperienza in Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza: «Non sapevo che, più tardi, mi sarei trovato coinvolto, mio malgrado, nel processo di emancipazione di un piccolo popolo oppresso dalle pratiche neocoloniali della società dominante». Mongiano confessa nelle sue memorie, di aver sempre agito – nelle particolari circostanze in cui si sarebbe trovato coinvolto – «suo malgrado». Malgrado la consapevolezza dei propri limiti e il senso di inadeguatezza che lo accompagnava.

Anche il ruolo di vescovo lo aveva accettato solo per non portarsi dietro per tutta la vita il peso «di non aver ascoltato la voce di Dio»: «Quando seppi che papa Paolo VI voleva affidarmi la guida della diocesi dell’allora Territorio federale di Roraima pensai alle mie limitate capacità, alla mia debole preparazione teologica». E all’America, così lontana culturalmente, così «moderna».

Sulla pista di atterraggio della capitale Boa Vista, lo accolse una bambina con in mano un mazzo di fiori e altre persone accorse a vedere il nuovo vescovo. La natura tropicale e l’indolenza della popolazione, la città vuota con l’unico semaforo sempre spento, gli diedero l’impressione di essere giunto in un luogo tranquillo.

L’illusione di serenità durò poco. Durante la prima visita in area indigena, dom Aldo scoprì che gli indios, che pure costituivano la maggioranza della popolazione erano schiavi dei fazendeiros che avevano invaso le loro terre e dipendenti dall’alcol. Nel 1977, nel corso di un’assemblea cui partecipò anche dom Tomás Balduíno della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, i tuxawa (capi indigeni), fecero un’esposizione toccante della loro situazione: costretti a lavorare senza essere retribuiti; accusati di reati che non avevano commesso; forzati a lasciare le loro terre dopo aver visto le case e le piantagioni bruciate, si stavano convincendo del fatto che non restava loro che cessare di essere indios e diventare «Bianchi» oppure rassegnarsi a una vita da emarginati. Le autorità si mostravano indifferenti se non apertamente ostili. L’incontro con Tomás Balduíno e poi con Bartolomè Melià, gesuita sostenitore del popolo guaraní, furono decisivi: il vescovo si convinse che la Chiesa di Roraima doveva levare la propria voce in favore degli ultimi, gli indigeni, «i più poveri tra i poveri». Una scelta che comportò la nascita di tensioni con i vertici della Fondazione nazionale per gli indigeni (Funai) e con le autorità. Queste proibirono ai missionari di entrare in area indigena, mentre alcuni deputati furono autori di proposte di legge che, incentivando lo sfruttamento minerario, erano di natura genocida.

Nella memoria di dom Aldo, gli anni ‘80 furono i più burrascosi, ma anche i più belli. Furono gli anni della liberazione dalla dittatura militare, dell’instancabile lavoro di coscientizzazione degli indios, della rivendicazione delle terre e dell’identità indigena anche grazie al progetto visionario Uma Vaca para o Indio. Negli anni ‘90, l’impegno dei missionari della Consolata guidati dal loro vescovo a fianco degli indios del lavrado (savana) e degli Yanomami, determinò la reazione di vari settori del potere locale, le cui accuse trovavano ampio spazio anche sui media nazionali. Il vescovo Mongiano era additato un nemico del popolo di Roraima.

Nel 1996, anno in cui la terra Raposa Serra Sol («della Volpe e della Montagna del sole») venne riconosciuta come area indigena, dom Aldo lasciò la guida della diocesi per raggiunti limiti di età2.

Il senso della sua missione lo traccia lui stesso nell’epilogo del libro, citando la storia di quel marinaio che salva un bambino caduto in mare durante una tempesta: «Il comandante, alla sera, organizza una festa in suo onore. Ma il marinaio, pur grato per il riconoscimento, ammette: “Non l’avrei salvato se qualcun altro non mi avesse spinto”».

Silvia Zaccaria
(antropologa)

(1) Il pdf del libro è scaricabile dal sito della rivista.

(2) Gli successe Apparecido José Dias (1996-2004). Dom Apparecido era a quel tempo anche presidente del Cimi. Fondò Radio Roraima e il movimento Nós existimos. Strenuo difensore dei popoli indigeni fu oggetto come dom Aldo di attacchi personali.

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Silvia Zaccaria
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