testo e foto di Valentina Tamborra |
Strano paese, che si allunga tra il golfo di Guinea e il Sahel. Dove la religione tradizionale ha ancora un’influenza importante sulle persone. Non sempre positiva. Dove un popolo vendeva l’altro come schiavo, ora si celebra la porta del non ritorno. Dove chi ha un difetto fisico è spesso emarginato.
Il Benin, paese dell’Africa occidentale francofona, confina a Ovest con il Togo, a Nord con il Burkina Faso e il Niger, a Est con la Nigeria e si affaccia a Sud sull’Oceano Atlantico.
Qui l’età media è 45 anni: fame, malattie come l’Aids, la malaria o il colera sono fra le principali cause di morte.
Il Benin, insieme alle aree limitrofe della Nigeria, è la culla della religione vudù, riconosciuta ufficialmente dallo stato (e dalla quale, in parte, deriva anche il vudù haitiano, ndr). In lingua Fon, la più parlata nel Sud del paese, la parola «vudù» significa «anima, forza». Più precisamente è la città di Ouidah che viene definita «capitale vudù». Il 90% degli abitanti, infatti, pratica questa religione.
Arrivati a Ouidah ci si imbatte in un forte contrasto: nella tranquilla cittadina costiera infatti, il «Tempio dei pitoni», sacro al dio Dangbe, sorge proprio dinnanzi a una chiesa cattolica, la basilica dell’Immacolata concezione.
All’interno del tempio sono custoditi centinaia di pitoni reali, considerati sacri. A prendersene cura sono sacerdoti della Tribù dei serpenti, facilmente riconoscibili grazie alle scarnificazioni sul volto rappresentanti, in forma stilizzata, i denti dei pitoni.
La religione vudù è sopravvissuta alla colonizzazione europea, e gli antichi riti e cerimonie continuano a essere celebrati grazie ai dignitari del culto che sono stati in grado di trasmetterne la memoria.
Nato allo scopo di propiziarsi i favori degli dei per ottenere felicità e prosperità, il vudù mantiene ancora oggi un lato oscuro che offusca la bellezza di tradizioni, canti, e memoria.
È a Cotonou, città più popolosa del Benin, che ci imbattiamo per la prima volta nell’anima nera di questo credo.
Molte sono le donne che fuggono dai paesi che circondano la città portando con sé bimbi appena nati affetti da labbro leporino o malformazioni del volto e degli arti.
È la fame, e dunque la carenza di sostanze come l’acido folico, uno dei motivi principali per cui molti bambini nascono con gravi malformazioni.
Purtroppo però questi «segni» sul volto o sul corpo vengono visti da chi pratica il vudù come simboli del male e spesso il bimbo che li porta è allontanato dal villaggio o, nel peggiore dei casi, ucciso.
Victoria, madre coraggio
È questa la storia di Victoria. La sua Miracle, una bimba di pochi mesi, affetta da labbro leporino, è stata condannata a morte dallo stregone del villaggio.
Quando Victoria arriva in ospedale davanti all’equipe di Emergenza Sorrisi (Ong romana che opera in ambito sanitario, vedi box) appare disperata. Ha percorso decine di chilometri, scappando di notte dal proprio villaggio per non essere vista e poter così raggiungere l’ospedale.
Nonostante i chirurghi sconsiglino vivamente l’operazione, (Miracle infatti è davvero minuscola e denutrita, c’è il forte rischio che non sopporti l’anestesia), Victoria insiste perché la sua piccolina venga operata.
La scelta è tra affrontare il tavolo operatorio e mettersi nelle mani di uno stregone: se nel primo caso c’è almeno una speranza, nel secondo non c’è nemmeno quella.
La seguiamo a casa di un’amica, la sera prima dell’operazione. Operazione ancora in forse, infatti i chirurghi dovranno riunirsi da lì a poche ore per emettere il verdetto: operare o non operare.
Victoria vuole mostrarci dove si è nascosta, dopo la fuga dal proprio villaggio, per concedere almeno una possibilità alla sua piccola Miracle. La sua amica la ospita, pur sapendo il potenziale rischio delle azioni di Victoria.
Raggiungiamo così un piccolo gruppo di case in mattoni crudi e terra battuta in una zona rurale.
Ciò che ci colpisce, entrando nella modesta abitazione, è la presenza di una libreria.
Questa immagine ci seguirà spesso anche in altri casi: i bambini da queste parti, come ovunque, sognano un futuro e non è raro vedere in case modeste, poco più che baracche, libri conservati con cura e attenzione come tesori preziosi.
La mattina seguente Victoria raggiunge l’ospedale di buon’ora. I chirurghi hanno deciso: l’operazione si farà. Miracle ce la farà. Il palato verrà chiuso, consentendole di nutrirsi normalmente, e il labbro sistemato così da eliminare il «difetto».
Tensione, sollievo, il sorriso e le lacrime di una madre quasi certa di non poter più stringere la sua piccola. Una ninna nanna cantata a bassa voce e una sola frase «c’est magnifique» (è magnifico).
Un’infermiera scoppia a piangere, i chirurghi sorridono. Ma è solo una delle tante sfide da qui alla fine della missione.
In Benin è così ogni giorno. Per un bimbo che viene operato, e dunque salvato, un altro muore o viene allontanato dalla società diventando un reietto. Diffuse sono le campagne di sensibilizzazione promosse da équipe medico sanitarie con l’aiuto di Ong come Emergenza Sorrisi. Nei villaggi tentano di diffondere una conoscenza che porti a un nuovo approccio verso i problemi sanitari.
Qui bisogna agire sull’aspetto socio culturale del problema. La chirurgia infatti può annullare alcune malformazioni, diminuire difetti fisici, ma alla base c’è la necessità di spiegare alle persone la vera origine di queste problematiche.
Una storia simile per alcuni aspetti, anche se meno drammatica, è quella di Didier.
Un bimbo di appena 10 anni costretto a studiare a casa, lontano dagli altri bimbi, a causa di una malformazione al braccio.
Didier si è procurato un libro di inglese e uno di spagnolo e ora, oltre alla sua lingua madre e al francese, parla altre due lingue.
Dopo l’operazione Didier potrà tornare a scuola, non sarà più esiliato. La realtà del Benin ad oggi è impietosa con chi presenti un «difetto fisico».
L’operazione «miracle»
Esiste ovviamente un protocollo severo da seguire quando si opera. La sala chirurgica deve essere sterile, il personale sanitario usa guanti, mascherine, camici: la preparazione a un intervento è la medesima nella prima clinica di lusso o nel paese più povero del mondo.
Vista da fuori, la preparazione è un atto preciso che non lascia spazio al sentimento, all’emozione.
Quando la piccola Miracle viene portata in sala operatoria tutto si ferma per un attimo: uno degli anestesisti si passa una mano sulla fronte, un’infermiera fa il segno della croce. E uno dei chirurghi che sta per sciogliere il nodo di un nastro che lega al pannolino una piccola conchiglia, ferma per un momento la mano: «È un portafortuna, ha un’energia importante. Lo toglierò io».
E sembra un piccolo gesto quello che compie questo chirurgo anziano, con anni di esperienza, migliaia di operazioni alle spalle, eppure con un’attenzione all’essere umano e alle sue necessità sempre viva.
Esiste un protocollo, e deve essere seguito. Ma in sala operatoria si può, anzi talvolta si deve, dar spazio all’emozione.
Le spose bambine
In questo paese è purtroppo ancora fortemente presente la realtà delle spose bambine.
Bimbe e adolescenti vengono promesse in sposa a uomini molto più anziani, dovendo così rinunciare alla propria infanzia, all’educazione scolastica e vivendo in una realtà di abuso.
La ragione è socio culturale e ancora una volta strettamente connessa alla povertà e alla conseguente mortalità.
Se è vero che l’età media è 45 anni, e che il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, è dunque «ricercata» una ragazza giovane e fertile che possa garantire una progenie.
I bambini in Benin sono l’anello debole e più sottoposto a vessazioni.
Riti vudù, spose bambine, lavoro minorile, elevata mortalità, tutto questo contribuisce a far sì che il Benin sia un paese antico, per storia cultura e tradizione, ma giovanissimo.
Piccola Venezia d’Africa
Ganvié è la più importante città lacustre dell’Africa Occidentale. Situata sul lago Nokouè, a Nord di Cotonou, viene soprannominata «la Venezia d’Africa».
L’origine della città risale al XVIII secolo quando, a causa delle razzie schiaviste, le popolazioni si rifugiarono nelle paludi del lago al fine di sfuggire ai cacciatori di schiavi.
Qui troviamo qualche migliaio di case in legno, erette su pali infissi nel terreno paludoso. In tutto la città conta circa 30mila abitanti. Si vive principalmente di pesca e ultimamente anche di turismo.
Di Venezia però troviamo ben poco: anche a Ganvié infatti, la condizione di povertà della popolazione è evidente. Le condizioni igienico sanitarie purtroppo sono critiche.
Anche qui il vudù è molto presente nonostante ci sia anche una una parrocchia cattolica.
Per muoversi a Ganvié è necessario l’utilizzo di piccole imbarcazioni, chiamate piroghe. Ogni abitante ne possiede una con la quale si sposta da un isolotto a un altro. Non è raro vederle quasi affondare a causa del carico eccessivo di persone, merci, animali. Le piroghe hanno poi un altro ruolo essenziale: solo con esse infatti è possibile raggiungere le due fontane che garantiscono acqua potabile alla popolazione. L’acqua del lago infatti è salmastra, dunque non potabile.
La via degli schiavi
La già citata Ouidah non è famosa solo per il vudù. Qui troviamo infatti anche «la strada degli schiavi». Il passato di questa città è tristemente legato alla tratta degli schiavi.
Sorgeva proprio a Ouidah un importante mercato di esseri umani. Il dolore per l’ingiustizia subita è oggi celebrato a imperitura memoria con questo percorso che ci guida attraverso l’intera cittadina.
A Ouidah è possibile camminare, come in una vera via crucis, lungo i quattro chilometri che migliaia di uomini e donne hanno fatto incatenati, partendo dal mercato degli schiavi, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie a la propria libertà.
Lungo la strada si trovano cinque tappe che raccontano la storia della marcia degli schiavi. Il percorso culmina alla Porta del non ritorno. Il monumento sorge su una bellissima spiaggia, la stessa nella quale gli schiavi venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. I più combattivi o disperati preferivano suicidarsi lasciandosi affogare piuttosto che partire verso l’ignoto.
Oggi la colossale porta affaccia su quello stesso mare blu intenso.
Quotidianità della morte
Lungo le strade che conducono a Cotonou la morte va in scena con una normalità impressionante. Minimarket, bar, benzinai e bancarelle di cibo si alternano a negozi che espongono sulla strada polverosa i feretri d’occasione.
Trasportati poi con mezzi di fortuna (legati a motorini talvolta, o su traballanti ape car) dal negozio agli ospedali o alle case, ricordano in ogni momento come il confine fra la vita e la morte in questo luogo sia estremamente labile.
Negli ospedali, spesso male attrezzati a causa delle condizioni del paese, le camere mortuarie straripano. Il rapporto con il corpo di un caro defunto pare essere assai meno «forte» di quello che abbiamo noi occidentali, e i lavoranti delle camere mortuarie trattano i corpi con meno cura di quella che noi ci aspetteremmo.
Sebbene a un primo sguardo possa essere scioccante, qui forse l’essere umano, anche se non per scelta, ha meglio compreso l’idea di caducità della vita.
I funerali vengono seguiti in modo composto, da una folla vestita di bianco, che accompagna il proprio caro al luogo della sepoltura fra canti e silenzi. Una foto a grande formato, come un quadro, viene posta davanti al corteo, a memoria del defunto.
La vita, poco dopo, può riprendere il proprio corso.
Valentina Tamborra
L’Ong dei miracoli
Emergenza Sorrisi è una Ong che si occupa di bambini affetti da labbro leporino, palatoschisi, malformazioni del volto, esiti di ustioni, traumi di guerra, cataratte e altre patologie invalidanti nei paesi del Sud. Unisce 375 medici e infermieri volontari, grazie ai quali vengono realizzate missioni chirurgiche in 23 paesi nel mondo, dove fino a ora 4.863 bambini sono stati operati e hanno ritrovato il sorriso. Uno dei pilastri della loro attività è la formazione e l’aggiornamento dei medici e degli infermieri locali.
Tutti i progetti di Emergenza Sorrisi nei paesi del Sud del mondo prevedono un’ampia partecipazione locale: allo stato attuale sono cinque le sedi autonome dell’associazione aperte in Benin, Congo, Iraq, Pakistan e Afghanistan.
I medici e tutto il personale sanitario che accetta di partire per le diverse missioni sono volontari. Spesso utilizzano le proprie ferie, momenti normalmente dedicati al riposo, per raggiungere luoghi remoti e sovente pericolosi.
Intervistando questi volontari durante le loro missioni in Iraq e Benin, abbiamo constatato che tutti concordano su una cosa almeno: ogni viaggio dà loro molto più di quello loro danno. Per utilizzare le parole di un’infermiera ormai alla sua decima missione, «è quasi un bisogno egoistico. Quando parto per una missione sto bene, sono felice. Mi sento utile. E quando torno, tutta quell’energia me la porto addosso per mesi. Mi fa sentire che il mio, il nostro lavoro, ha un senso profondo».
Valentina Tamborra