Coronavirus,

il primo impatto nelle missioni

testo di Chiara Giovetti |


Attraverso le testimonianze dei nostri missionari in Africa e America Latina, ricostruiamo le reazioni a fine marzo dei paesi alla diffusione del contagio da coronavirus@, come sono state recepite le direttive dei vari governi e quali sono stati i primi provvedimenti presi nelle missioni.


I dati presentati in questo testo sono ovviamente quelli disponibili al momento delal chiusura del testo, il 24 marzo.

Per dati aggiornati vedi la mappa della diffusione del Covid-19 nel mondo nella pagina di apertura del sito.


Era circa metà marzo quando i nostri missionari in Africa e America Latina hanno iniziato a condividere via Whatsapp i primi documenti dei governi e delle conferenze episcopali nazionali con le disposizioni per contenere il contagio da Sars-Cov-2, il nuovo coronavirus.

Ne citiamo uno a titolo di esempio: il comunicato del Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) della Costa d’Avorio presieduto dal presidente della repubblica Alassane Ouattara, che il 16 marzo segnalava sei casi confermati, saliti a 74 al 24 marzo.

Costa d’Avorio

Il Cns disponeva il rispetto delle norme igieniche fra cui il lavaggio delle mani, il divieto di scambiarsi baci, abbracci e saluti che comportino un contatto delle mani, il divieto di consumare carne di animali selvatici. Proibiva inoltre i raduni di più di 50 persone e fissava ad almeno un metro la distanza interpersonale da tenere negli ipermercati, nei maquis (piccoli ed essenziali locali dove è possibile consumare cibo e bevande, tipici della Costa d’Avorio e di diversi altri paesi africani, ndr), nei ristoranti, nelle aziende; imponeva la chiusura delle scuole per un mese e delle discoteche, dei cinema e dei luoghi per gli spettacoli per 14 giorni, la sospensione degli eventi sportivi e culturali e il rafforzamento dei controlli sanitari alle frontiere marittime, terrestri e aeroportuali. Il comunicato introduceva anche il divieto di ingresso nel paese, per quindici giorni prorogabili, ai viaggiatori non ivoriani provenienti da paesi con più di cento contagi. La messa in quarantena per 14 giorni, nei centri controllati dallo stato, era prevista per i cittadini ivoriani e per gli stranieri con permesso di soggiorno permanente che rientravano nel paese, per tutti i casi sospetti e per coloro che erano venuti a contatto con delle persone infettate. Il comunicato annunciava poi l’apertura in 13 grandi centri del paese di siti complementari equipaggiati per la presa in carico dei casi di Covid-19, l’aumento della sicurezza sanitaria per gli agenti di salute e per tutto il personale dei servizi pubblici e la riattivazione dei comitati dipartimentali di lotta alle epidemie. Il 24 marzo, in una situazione in continua evoluzione, il presidente Ouattara con un discorso alla nazione introduceva un ulteriore irrigidimento delle misure che comprendeva il coprifuoco dalle 21 alle 5.

Altri paesi

Altri governi africani hanno proposto nei giorni a seguire provvedimenti molto simili. La Repubblica Democratica del Congo, attraverso le indicazioni fornite in un discorso alla nazione dal presidente Félix Tshisekedi il 18 marzo, imponeva misure come quelle della Costa d’Avorio, con varianti come il divieto di ogni raduno, riunione, celebrazione con più di venti persone in luoghi pubblici fuori dal domicilio familiare e la sospensione di tutti i voli provenienti dai paesi a rischio e dai paesi di transito, non solo di quelli provenienti dai paesi con oltre cento casi (escludendo però i voli e le navi cargo)@.

Il Mozambico, con una comunicazione del presidente della repubblica, Filipe Nyusi, aumentava il 20 marzo le limitazioni e divieti decisi la settimana precedente, allineandosi a quelli degli altri paesi già citati. Nel comunicato@, il presidente Nyusi informava anche che fino a quel momento erano stati sottoposti al test 35 casi sospetti, che erano poi risultati negativi, mentre 267 cittadini mozambicani e stranieri provenienti da paesi ad alto rischio si trovavano in quarantena domiciliare.

Anche il Kenya, che ha registrato il primo caso il 12 marzo@,  ha chiuso le scuole quattro giorni dopo e il 22 marzo ha ulteriormente inasprito le direttive per contenere il contagio@: sospesi tutti i voli tranne i cargo dal 25 marzo, chiuse chiese e moschee, proibiti gli incontri delle chama (gruppi di microrisparmio e investimento), i compleanni e ogni altro assembramento, chiusi tutti i bar.

Quanto al servizio di trasporto in comune (i matatu), già dal 20 marzo le indicazioni erano quelle di ridurre il numero di passeggeri: i mezzi da 14 posti potevano portare al massimo otto passeggeri, non più di 15 passeggeri per matatu da 25. I bus da 30 posti dovevano infine limitarsi a usare il 60% della loro capienza@.

Matatu semi-vuoto a Nairobi, Kenya / foto di Dona Nyapola

Queste restrizioni al numero di passeggeri hanno provocato un immediato effetto indesiderato: l’aumento dei prezzi delle corse. Per questo il ministero della Sanità nel comunicato del 23 marzo ha fatto un «appassionato appello» ai proprietari dei matatu affinché smettano di imporre ai pendolari questi aumenti@.

Secondo il Johns Hopkins Hospital, il 15 aprile 2020 l’Africa contava 53 nazioni contagiate, 16.356 casi confermati e 872 decessi.

America Latina

Quanto all’America Latina, il Venezuela è certamente fra i paesi che destavano più preoccupazioni dal momento che il rischio del contagio si inserisce in una situazione politico economica già molto compromessa. Il presidente Nicolas Maduro ha annunciato la messa in «quarantena totale» del paese a partire dal 18 marzo, quando i casi di Covid-19 accertati erano 33@ (saliti poi a 84 il 24 di marzo).

Da Dianra, Costa d’Avorio

© AfMC – Matteo Pettinari da Dianrà

Sulla situazione abbiamo sentito alcuni missionari. «L’analfabetismo è la malattia più mortale che esista: scrivilo, questo». Al telefono dalla Costa d’Avorio, padre Matteo Pettinari, responsabile del Centro di salute Joseph Allamano di Dianra (Csja), non ha dubbi su quale sia il principale avversario da battere nella partita del contenimento del contagio. Secondo il censimento del 2014, precisa il missionario, la regione del Béré, dove si trova Dianra, ha l’81% di analfabeti. Far passare messaggi sulle corrette pratiche igieniche e contrastare la marea di notizie false che circolano diventa così ancora più difficile.

«Nei villaggi più isolati», continua padre Matteo, «circolano informazioni come: “questo virus è un complotto degli europei per ucciderci, basta mangiare le foglie bollite di questa o quell’altra pianta, l’africano è forte e resiste ai microbi…”. Capisci che a volte dobbiamo essere molto duri, fare leva sulla nostra autorità di uomini di Dio e addirittura chiamare “emissario del demonio” chi diffonde simili informazioni, altrimenti rischiamo di rimanere inascoltati».

I problemi però non si limitano agli ostacoli alla diffusione di informazioni corrette. Si aggiungono anche la carenza di strutture sanitarie adeguate a gestire pazienti bisognosi di respirazione assistita – la terapia intensiva più vicina a Dianra si trova al Centre Hospitalier Universitarie (Chu) di Bouaké, a 250 chilometri – e un tessuto economico fragile. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese: dire a una piccola imprenditrice “non uscire di casa, non andare più al mercato a vendere il bissap [bevanda a base di ibisco molto diffusa in Africa Occidentale, ndr]” significa metterla in condizione di non poter più garantire il sostentamento alla sua famiglia».

A marzo, il Centro di salute Joseph Allamano stava recependo le direttive del ministero della Sanità mettendo all’entrata e all’uscita di ogni reparto un dispositivo per lavarsi le mani. «Più complicato», constata padre Matteo, «sarà creare una zona dedicata per eventuali malati di Covid-19 che andrebbero isolati fuori dal complesso del Csja, in una struttura a parte».

Il personale del Centro aveva avviato la sensibilizzazione nei villaggi e presso i piccoli centri periferici della rete sanitaria già una settimana prima del primo caso riscontrato in Costa d’Avorio. Il dato positivo è che il Centro ha sempre potuto contare sulla piena collaborazione del direttore del dipartimento sanitario, molto dinamico e impegnato in prima persona a diffondere informazioni raggiungendo, in moto, i villaggi per sovrintendere o anche svolgere direttamente le attività di sensibilizzazione.

Dalla RD Congo

Padre Rinaldo Do, dalla parrocchia di Saint Hilaire a Kinshasa, riporta le difficoltà a rispettare le direttive del governo in un quartiere popoloso come quello dove lui vive. «Scuole e chiese sono chiuse e i ragazzi dovrebbero restare in casa. Ma questi giovani vivono in abitazioni dove ci sono a volte più di venti persone e non hanno computer, tv, libri a disposizione per fare i compiti o per passare il tempo. Per questo succede spesso di vederli fuori per strada, a giocare».

Preparativi per combattere il Covid_19 a Kinshasa / AfMC – Rombaut Ngaba Ndala

Dal Centre Hospitalier la Consolata nel quartiere di Bikiku, a Kinshasa, il responsabile, fratel Rombaut Ngaba Ndala, riferisce di

come sia in corso un intenso lavoro di sensibilizzazione per spiegare alle persone come comportarsi. «Ancora non si rendono conto», scrive il 25 marzo il missionario, «alcuni pensano basti prendere il Congo bololo, un’erba (la vernonia amygdalina) che di solito usano contro la malaria».

Radio Okapi, la radio a diffusione nazionale fondata nel 2002 dalle Nazioni unite e da una Ong svizzera, ha raccolto lo scorso 23 marzo alcune testimonianze da tutto il paese su come stava procedendo l’adeguamento alle istruzioni del governo.

Un ascoltatore da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, riportava che le regole erano rispettate «al 70%» e segnalava l’arresto di un pastore di una delle cosiddette «chiese del risveglio» che aveva riunito i fedeli nonostante i divieti.

Un altro intervento da Kikwit, città del Congo centro occidentale, sottolineava il problema degli assembramenti – difficili da evitare – delle tante persone che dipendono dalle fontane e dai rubinetti pubblici per procurarsi l’acqua. L’ascoltatore lamentava, inoltre, che la recente esperienza dell’epidemia di ebola avrebbe dovuto educare la popolazione ma che questo era avvenuto solo in parte e invocava misure di legge più mirate per sanzionare chi non rispetta le indicazioni del governo.

Bambino con catino di foglie Congo Bololo, un’erba ritenuta efficace contro la malaria ed erroneamente creduta buona contro il Covid_19. Nome scientifico: Vernonia amygdalina

Da Kisangani, città sul fiume Congo nel centro Nord del paese, un ascoltatore – con un’obiezione che si è peraltro rivelata dannosa in altri contesti colpiti dal virus – avanzava perplessità sull’estensione a tutto il paese di misure inizialmente prese per Kinshasa, dove erano stati individuati i primi casi, considerando che Kisangani non era ancora stata toccata dai contagi. Riferiva di prezzi al rialzo nei mercati e sosteneva che servisse più tempo per regolamentare gli aspetti economici prima di procedere a una chiusura più decisa delle attività, perché la gente rischia «di morire di fame, invece che di virus».

Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu, nel suo intervento alla trasmissione sottolineava l’importanza delle misure di sensibilizzazione comunitaria e sosteneva che era fondamentale «evitare l’ingresso della malattia». Portava poi l’attenzione su una particolare sfida che la RD Congo – come molti altri paesi africani – deve affrontare, quella dei trasporti in comune. Anche in Congo si è tentato di ridurre le presenze sui minibus, imponendo ad esempio che i mezzi da 16 posti portino al massimo dieci persone.

Un ultimo intervento, dalla produttiva Lubumbashi, nella provincia meridionale dell’Alto Katanga, sottolineava che «ci sono più misure che dispositivi», cioè che alle indicazioni sulla carta non sempre corrispondono i mezzi per realizzarle. A titolo di esempio, l’ascoltatore di Lubumbashi riportava il fatto che i casi positivi della città erano accolti in una struttura sanitaria dove però si trovavano già altri malati, non cioè in un una struttura dedicata così da assicurare l’isolamento@.

Da Ikonda, Tanzania

Padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, scrive che nonostante il numero di casi ancora basso – dodici al 25 marzo – c’è preoccupazione nel paese, dove il governo ha assunto misure molto simili a quelle degli altri esecutivi africani. «Qui in ospedale», precisa padre Marco, «abbiamo disposto all’ingresso luoghi per il lavaggio e disinfezione delle mani. Ai nostri lavoratori sono stati distribuiti flaconi di gel igienizzante e maschere. Abbiamo già sistemato un locale apposito per eventuali malati di Covid-19».

Da Tucupita, Venezuela

Padre Andrés Garcia Fernandez, che lavora a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, il 19 marzo invia aggiornamenti nei quali lamenta la scarsità di informazioni che arrivano nelle comunità più isolate, così che anche i comportamenti corretti da seguire per non contrarre il nuovo coronavirus non raggiungono tutta la popolazione. Vi è inoltre mancanza di controllo sull’applicazione effettiva delle misure preventive e i trafficanti della Guyana o di Trinidad che attraversavano i confini senza controllo (e ovviamente senza protezioni come mascherine o guanti) rischiano di contribuire ulteriormente a diffondere il virus, in un contesto nel quale i servizi sanitari sono già fortemente provati da lunghi mesi – ormai anni – di crisi politica ed emergenza umanitaria.

«A Nabasanuka», racconta padre Andrés, «passiamo le giornate piuttosto occupati a ricevere le persone che vengono a cercare farmaci, ami da pesca, cibo, quaderni, matite». Ma, conclude, «non abbiamo paracetamolo né niente che gli somigli in tutta la zona della nostra parrocchia».

Chiara Giovetti




I perdenti 52. Augusto César Sandino, libertà e riscatto sociale

testo di Don Mario Bandera |


È passato diverso tempo da quando, in Nicaragua, in un agguato teso dagli sgherri del dittatore Anastasio Somoza è stato assassinato Augusto César Sandino. Era il novembre del 1934.

Da allora, la figura dell’eroe nicaraguense è entrata nell’iconografia del continente americano, come simbolo della lotta per la libertà e del riscatto sociale per tutti i popoli del Centro America. Ricordare Sandino oggi, ci permette di fare memoria soprattutto dell’eroe dell’antimperialismo capitalista made in Usa, voce profetica non solo del suo Nicaragua, ma di tutti i popoli oppressi dal grande capitale al soldo delle nazioni più potenti. Proprio questa sua veste di oppositore al colonialismo militare, economico e culturale yankee, mostra l’attualità e genialità del pensiero di Sandino.

Forse la leggenda legata alla sua persona sta proprio nel fatto che egli non è stato l’eroe solitario, lontano e irraggiungibile, ma l’uomo che, gomito a gomito con gli oppressi ed emarginati di ogni latitudine, ha lottato per la dignità e la libertà di ogni uomo e singola nazione. Ancora oggi nei murales che coprono i muri del Nicaragua, il suo volto creolo risalta per il colore bronzeo che lo caratterizza come un qualunque contadino centroamericano. Il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello tipico di tutti i lavoratori della sua terra che si recano al lavoro alle prime luci dell’alba.

Sandino era, e resta, un eroe popolare, per questo lo sentiamo parte dei nostri ideali. Nella sua vita ha incarnato pienamente l’eterna resistenza degli ultimi, quando questi si ribellano alle condizioni disumane di lavoro e di vita imposte dall’alto. La sua grandezza sta proprio nella sua ribellione. Forse, il gesto più significativo della sua vita è stato quello di dire di no al padre, che da uomo semplice e tranquillo, obbedendo agli ordini del governo, era andato dal figlio a dirgli: «Augusto César, arrenditi!». Sandino, fedele ai suoi ideali, non ha obbedito e ha «mandato a quel paese» i generali che gli chiedevano la resa. Sandino era, e resta, l’emblema dell’uomo libero. In breve tempo egli è diventato «il generale degli uomini liberi».

Gli uomini liberi in quel periodo erano un esercito di straccioni: uomini, donne e bambini, che lo seguivano sugli impervi sentieri delle montagne del Nicaragua, gridando: «Qui non si arrende nessuno!», sventolando le bandiere sandiniste sporche di fango e rotte da mille lotte.

Caro comandante, una delle prime cose che suscitano un certo stupore in chi ti avvicina è il modo con cui accogli l’interlocutore…

Da sempre, quando saluto o accolgo qualcuno non gli dò la mano, ma preferisco abbracciarlo: sono convinto, infatti, che ogni uomo – specialmente il più povero – porta dentro di sé la pienezza della dignità insita in ogni essere umano. Così facendo cerco di portare alla luce questa qualità nei centroamericani.

Parlaci un po’ di te, della tua vita in Nicaragua.

Nacqui il 18 maggio 1895 a Niquinohomo, nel dipartimento de Masaya, figlio illegittimo di un ricco coltivatore di caffè che aveva approfittato di mia madre che lavorava nei suoi campi. Abbandonato a 9 anni da mia madre, per un po’ vissi con mia nonna e, appena fui in grado di lavorare, venni accolto nella casa di mio padre dove dovevo comunque lavorare per guadagnarmi da vivere

A 17 anni, era il 1912, restai molto impressionato dalla morte del generale Benjamin Zaledon, un patriota della mia terra che, con pochi uomini e con scarse risorse a sua disposizione, si era opposto alle truppe statunitensi che erano sbarcate in Nicaragua a sostegno del presidente Adolfo Diaz.

Sopravvissi lavorando nella terra di mio padre fino al 1921, quando in un violento litigio ferii uno che aveva fatto commenti denigratori su mia madre.

E cosa comportò quel ferimento?

Dovetti scappare dal paese per evitare la vendetta della sua potente famiglia. Mi misi a viaggiare e a lavorare per i paesi del Centro America, arrivando in Messico. Fu in quel paese che cominciai la mia «formazione politica» e iniziai a rendermi conto degli influssi pesanti dell’ingerenza nordamericana nella vita dei nostri paesi. Direi che fu lì che mi convertii all’antimperialismo. Nel 1926 rientrai in Nicaragua, andando al mio paese, dove nel frattempo il mio vecchio nemico era diventato sindaco. Fui costretto a rifugiarmi in una città del Nord.

In quel periodo scoppiò lo scontro aperto tra liberali e conservatori.

Con l’appoggio statunitense quelli del partito conservatore avevano estromesso il presidente liberale. I liberali allora avevano iniziato una vera guerra perché fosse rispettata la Costituzione. A sostegno dei conservatori e dei loro interessi (era in gioco anche il progetto della costruzione di un secondo canale dall’Atlantico al Pacifico che doveva passare attraverso il Nicaragua) gli Usa avevano occupato militarmente le coste catturando anche il leader dei liberali. In questa situazione io entrai a far parte delle truppe liberali, inizialmente senza grandi successi.

Ma poi le cose cambiarono.

Dopo le prime sconfitte, mi misi a studiare a fondo le tattiche di guerriglia e in breve le cose cambiarono, riuscendo anche ad avere un nutrito gruppo di cavalleria proveniente dalla città di San Juan de Segovia. Con loro riportammo vittorie significative sulle truppe dei conservatori sostenuti dagli statunitensi. Ma, di fronte al rischio di un intervento diretto degli Usa, i liberali e i conservatori nel 1927 si misero d’accordo rimandando tutto alle elezioni del 1928.

Tu però non accettasti quel patto.

Mi ritirai allora al El Chipote, una cittadina quasi sulla costa del Pacifico, dove misi su famiglia.  Fu lì che la mia lotta ebbe una svolta, da guerra civile (liberali e conservatori) a lotta patriottica contro gli invasori nordamericani. Il 12 maggio 1927 scrissi un messaggio diretto alle autorità locali di tutti i dipartimenti del paese per rendere pubblica la mia determinazione di continuare la lotta finché i militari nordamericani non avessero lasciato il paese.

Il primo giorno del mese di luglio del 1927, insieme ai miei compagni emisi un Manifesto politico rivolto a tutto il popolo del Nicaragua, mentre il 14 dello stesso mese risposi negativamente alla proposta di sospendere le nostre azioni di guerriglia in tutto il paese che il capitano dei marines degli Stati Uniti, Gilbert Hatfield, mi aveva fatto recapitare.

Che successe dopo?

Con un pugno di combattenti mi rifugiai sulle montagne e ben presto mi trovai al comando di un vero esercito, Ejército defensor de la soberanía nacional (Esercito difensore della sovranità nazionale), composto da volontari provenienti anche da altri paesi americani. Con esso condussi per cinque anni un’efficace guerriglia contro gli occupanti statunitensi, infliggendo loro delle sonore sconfitte. Essi risposero organizzando, finanziando e armando la Guardia nazionale (l’esercito ufficiale del Nicaragua) al soldo dei latifondisti, sfruttando la divisione tra le varie componenti del paese. Fu una guerra dura e senza esclusione di colpi. Fino al 1933 quando, negli Usa della Grande depressione iniziata nel 1929, il presidente Roosvelt decise di cambiare tattica e scegliere una «politica di buon vicinato». Vennero ritirate tutte le truppe dai paesi centroamericani e caraibici, Nicaragua compreso. Dopo il ritiro nel gennaio del 1933 delle forze armate americane dal suolo nazionale, accettai di interrompere la lotta armata, ottenendo in cambio dal presidente liberale Juan Bautista Sacasa un’amnistia e la possibilità di creare con i miei uomini delle cooperative agricole nella regione del fiume Coco.

Si può dire che la lotta per gli ideali di giustizia e pace sociale, grazie alla tua volontà e determinazione, a quel punto avesse raggiunto i suoi obiettivi.

Certo che, quando il primo di gennaio del 1933, vidi ritirarsi le truppe nordamericane dal territorio nicaraguense, provai una profonda commozione e una grande gioia. Finalmente eravamo liberi a casa nostra.

Però restava da dare un impianto istituzionale e un programma sociopolitico al nuovo Nicaragua che, grazie a voi, si affacciava con la sua specificità sullo scenario mondiale.

Era una faccenda tutt’altro che facile. Avevo accettato il trattato di pace e deposto le armi, ma la situazione non era pacifica, anche perché la Guardia nazionale, che fu ufficialmente incaricata della sicurezza del paese, non perdeva occasione per rifarsi sui vecchi nemici sandinisti. In più Anastasio Somoza, capo della Guardia, aveva nella propria testa un solo obiettivo: prendersi tutto il potere.

Augusto César Sandino (centro) In viaggio verso il Messico. / Da http://teachpol.tcnj.edu/amer_pol_hist/thumbnail350.html. – Wikipedia

Un uomo buono e deciso, testardo e tutto d’un pezzo come César Augusto Sandino, non poteva immaginare il tradimento di Anastasio Somoza, forse uno dei più viscidi politici della storia dell’America Centrale. Per assumere il potere, Somoza aveva deciso di eliminarlo. Spinto dai propri ideali, Sandino andò incontro alla morte, mentre viaggiava per partecipare a un incontro di pacificazione tra le varie forze nicaraguensi. Fu ucciso in un’imboscata in una notte del febbraio 1934, sotto un cielo pieno di stelle. Il suo nome, la sua forza d’animo e la sua dignità si trasformarono immediatamente in leggenda per tutto il continente americano. Conoscere la storia di questo eroe semplice significa imparare che cosa è l’America Latina «centrale», dove scorrono le sue arterie più nascoste, le sue «vene profonde», là dove la gente conserva e recupera il suo status di umanità. La storia di Augusto César Sandino è la storia della fierezza e della libertà di ogni uomo che non si arrende ai soprusi dei potenti né ai despoti di turno.

Don Mario Bandera




Promessa di presenza


Ti sei mostrato a noi vivo. Dopo la tua passione e morte, ci sei apparso per quaranta giorni (At 1,1-11). Ci hai visitati mentre eravamo in quarantena, per debellare insieme a noi il virus dell’angoscia della morte. E ci parlavi delle cose del Regno. Non del regno che noi speravamo, un regno giusto e sapiente, ma umano, e quindi effimero, instabile. Ci parlavi del Regno di Dio. Quello della vita eccedente, dell’acqua che zampilla in eterno, della luce che disperde le tenebre, dell’amore che è più forte della morte.

L’ultimo giorno, quando noi ci sentivamo di nuovo in forze, pronti a riprendere la strada con te, come prima, tu ti sei seduto a tavola, come avevi fatto nell’ultima cena prima del tuo arresto, e ci hai chiesto di non muoverci da Gerusalemme. Almeno finché non fossimo stati battezzati in Spirito Santo. Solo allora, infatti, la tua presenza in corpo, legata a un luogo, si sarebbe tramutata in presenza in spirito, legata alle nostre vite capaci di spargersi nel mondo. Solo allora la nostra forza riacquistata sarebbe stata di aiuto, e non di ostacolo, alla nostra debolezza, vero veicolo della tua salvezza per tutti «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

Mentre ci parlavi così, sei stato elevato in alto, e una nube ti ha sottratto ai nostri occhi. Ed ecco che due uomini in bianche vesti ci hanno scossi: «Perché state a guardare il cielo? Gesù tornerà e troverà la fede sulla terra grazie a voi».

Ci siamo messi in attesa, pronti a lasciarci riempire di Spirito, e a realizzare con Lui, in ogni luogo e in ogni tempo, la Tua promessa di presenza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Buon tempo di Pasqua, da amico

Luca Lorusso

Titoli dei pezzi in Amico

  • Chi è il missionario (Biabbia on the road)
  • La Parola, unica speranza (Parole di corsa)
  • Querida amazonia. Un sogno sociale (Amico mondo)
  • Comunità missionaria di Villaregia (Amico mondo)
  • Modjo per chi ha bisogno (Progetto Etiopia)

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