testo di Don Mario Bandera |
È passato diverso tempo da quando, in Nicaragua, in un agguato teso dagli sgherri del dittatore Anastasio Somoza è stato assassinato Augusto César Sandino. Era il novembre del 1934.
Da allora, la figura dell’eroe nicaraguense è entrata nell’iconografia del continente americano, come simbolo della lotta per la libertà e del riscatto sociale per tutti i popoli del Centro America. Ricordare Sandino oggi, ci permette di fare memoria soprattutto dell’eroe dell’antimperialismo capitalista made in Usa, voce profetica non solo del suo Nicaragua, ma di tutti i popoli oppressi dal grande capitale al soldo delle nazioni più potenti. Proprio questa sua veste di oppositore al colonialismo militare, economico e culturale yankee, mostra l’attualità e genialità del pensiero di Sandino.
Forse la leggenda legata alla sua persona sta proprio nel fatto che egli non è stato l’eroe solitario, lontano e irraggiungibile, ma l’uomo che, gomito a gomito con gli oppressi ed emarginati di ogni latitudine, ha lottato per la dignità e la libertà di ogni uomo e singola nazione. Ancora oggi nei murales che coprono i muri del Nicaragua, il suo volto creolo risalta per il colore bronzeo che lo caratterizza come un qualunque contadino centroamericano. Il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello tipico di tutti i lavoratori della sua terra che si recano al lavoro alle prime luci dell’alba.
Sandino era, e resta, un eroe popolare, per questo lo sentiamo parte dei nostri ideali. Nella sua vita ha incarnato pienamente l’eterna resistenza degli ultimi, quando questi si ribellano alle condizioni disumane di lavoro e di vita imposte dall’alto. La sua grandezza sta proprio nella sua ribellione. Forse, il gesto più significativo della sua vita è stato quello di dire di no al padre, che da uomo semplice e tranquillo, obbedendo agli ordini del governo, era andato dal figlio a dirgli: «Augusto César, arrenditi!». Sandino, fedele ai suoi ideali, non ha obbedito e ha «mandato a quel paese» i generali che gli chiedevano la resa. Sandino era, e resta, l’emblema dell’uomo libero. In breve tempo egli è diventato «il generale degli uomini liberi».
Gli uomini liberi in quel periodo erano un esercito di straccioni: uomini, donne e bambini, che lo seguivano sugli impervi sentieri delle montagne del Nicaragua, gridando: «Qui non si arrende nessuno!», sventolando le bandiere sandiniste sporche di fango e rotte da mille lotte.
Caro comandante, una delle prime cose che suscitano un certo stupore in chi ti avvicina è il modo con cui accogli l’interlocutore…
Da sempre, quando saluto o accolgo qualcuno non gli dò la mano, ma preferisco abbracciarlo: sono convinto, infatti, che ogni uomo – specialmente il più povero – porta dentro di sé la pienezza della dignità insita in ogni essere umano. Così facendo cerco di portare alla luce questa qualità nei centroamericani.
Parlaci un po’ di te, della tua vita in Nicaragua.
Nacqui il 18 maggio 1895 a Niquinohomo, nel dipartimento de Masaya, figlio illegittimo di un ricco coltivatore di caffè che aveva approfittato di mia madre che lavorava nei suoi campi. Abbandonato a 9 anni da mia madre, per un po’ vissi con mia nonna e, appena fui in grado di lavorare, venni accolto nella casa di mio padre dove dovevo comunque lavorare per guadagnarmi da vivere
A 17 anni, era il 1912, restai molto impressionato dalla morte del generale Benjamin Zaledon, un patriota della mia terra che, con pochi uomini e con scarse risorse a sua disposizione, si era opposto alle truppe statunitensi che erano sbarcate in Nicaragua a sostegno del presidente Adolfo Diaz.
Sopravvissi lavorando nella terra di mio padre fino al 1921, quando in un violento litigio ferii uno che aveva fatto commenti denigratori su mia madre.
E cosa comportò quel ferimento?
Dovetti scappare dal paese per evitare la vendetta della sua potente famiglia. Mi misi a viaggiare e a lavorare per i paesi del Centro America, arrivando in Messico. Fu in quel paese che cominciai la mia «formazione politica» e iniziai a rendermi conto degli influssi pesanti dell’ingerenza nordamericana nella vita dei nostri paesi. Direi che fu lì che mi convertii all’antimperialismo. Nel 1926 rientrai in Nicaragua, andando al mio paese, dove nel frattempo il mio vecchio nemico era diventato sindaco. Fui costretto a rifugiarmi in una città del Nord.
In quel periodo scoppiò lo scontro aperto tra liberali e conservatori.
Con l’appoggio statunitense quelli del partito conservatore avevano estromesso il presidente liberale. I liberali allora avevano iniziato una vera guerra perché fosse rispettata la Costituzione. A sostegno dei conservatori e dei loro interessi (era in gioco anche il progetto della costruzione di un secondo canale dall’Atlantico al Pacifico che doveva passare attraverso il Nicaragua) gli Usa avevano occupato militarmente le coste catturando anche il leader dei liberali. In questa situazione io entrai a far parte delle truppe liberali, inizialmente senza grandi successi.
Ma poi le cose cambiarono.
Dopo le prime sconfitte, mi misi a studiare a fondo le tattiche di guerriglia e in breve le cose cambiarono, riuscendo anche ad avere un nutrito gruppo di cavalleria proveniente dalla città di San Juan de Segovia. Con loro riportammo vittorie significative sulle truppe dei conservatori sostenuti dagli statunitensi. Ma, di fronte al rischio di un intervento diretto degli Usa, i liberali e i conservatori nel 1927 si misero d’accordo rimandando tutto alle elezioni del 1928.
Tu però non accettasti quel patto.
Mi ritirai allora al El Chipote, una cittadina quasi sulla costa del Pacifico, dove misi su famiglia. Fu lì che la mia lotta ebbe una svolta, da guerra civile (liberali e conservatori) a lotta patriottica contro gli invasori nordamericani. Il 12 maggio 1927 scrissi un messaggio diretto alle autorità locali di tutti i dipartimenti del paese per rendere pubblica la mia determinazione di continuare la lotta finché i militari nordamericani non avessero lasciato il paese.
Il primo giorno del mese di luglio del 1927, insieme ai miei compagni emisi un Manifesto politico rivolto a tutto il popolo del Nicaragua, mentre il 14 dello stesso mese risposi negativamente alla proposta di sospendere le nostre azioni di guerriglia in tutto il paese che il capitano dei marines degli Stati Uniti, Gilbert Hatfield, mi aveva fatto recapitare.
Che successe dopo?
Con un pugno di combattenti mi rifugiai sulle montagne e ben presto mi trovai al comando di un vero esercito, Ejército defensor de la soberanía nacional (Esercito difensore della sovranità nazionale), composto da volontari provenienti anche da altri paesi americani. Con esso condussi per cinque anni un’efficace guerriglia contro gli occupanti statunitensi, infliggendo loro delle sonore sconfitte. Essi risposero organizzando, finanziando e armando la Guardia nazionale (l’esercito ufficiale del Nicaragua) al soldo dei latifondisti, sfruttando la divisione tra le varie componenti del paese. Fu una guerra dura e senza esclusione di colpi. Fino al 1933 quando, negli Usa della Grande depressione iniziata nel 1929, il presidente Roosvelt decise di cambiare tattica e scegliere una «politica di buon vicinato». Vennero ritirate tutte le truppe dai paesi centroamericani e caraibici, Nicaragua compreso. Dopo il ritiro nel gennaio del 1933 delle forze armate americane dal suolo nazionale, accettai di interrompere la lotta armata, ottenendo in cambio dal presidente liberale Juan Bautista Sacasa un’amnistia e la possibilità di creare con i miei uomini delle cooperative agricole nella regione del fiume Coco.
Si può dire che la lotta per gli ideali di giustizia e pace sociale, grazie alla tua volontà e determinazione, a quel punto avesse raggiunto i suoi obiettivi.
Certo che, quando il primo di gennaio del 1933, vidi ritirarsi le truppe nordamericane dal territorio nicaraguense, provai una profonda commozione e una grande gioia. Finalmente eravamo liberi a casa nostra.
Però restava da dare un impianto istituzionale e un programma sociopolitico al nuovo Nicaragua che, grazie a voi, si affacciava con la sua specificità sullo scenario mondiale.
Era una faccenda tutt’altro che facile. Avevo accettato il trattato di pace e deposto le armi, ma la situazione non era pacifica, anche perché la Guardia nazionale, che fu ufficialmente incaricata della sicurezza del paese, non perdeva occasione per rifarsi sui vecchi nemici sandinisti. In più Anastasio Somoza, capo della Guardia, aveva nella propria testa un solo obiettivo: prendersi tutto il potere.
Un uomo buono e deciso, testardo e tutto d’un pezzo come César Augusto Sandino, non poteva immaginare il tradimento di Anastasio Somoza, forse uno dei più viscidi politici della storia dell’America Centrale. Per assumere il potere, Somoza aveva deciso di eliminarlo. Spinto dai propri ideali, Sandino andò incontro alla morte, mentre viaggiava per partecipare a un incontro di pacificazione tra le varie forze nicaraguensi. Fu ucciso in un’imboscata in una notte del febbraio 1934, sotto un cielo pieno di stelle. Il suo nome, la sua forza d’animo e la sua dignità si trasformarono immediatamente in leggenda per tutto il continente americano. Conoscere la storia di questo eroe semplice significa imparare che cosa è l’America Latina «centrale», dove scorrono le sue arterie più nascoste, le sue «vene profonde», là dove la gente conserva e recupera il suo status di umanità. La storia di Augusto César Sandino è la storia della fierezza e della libertà di ogni uomo che non si arrende ai soprusi dei potenti né ai despoti di turno.
Don Mario Bandera