Camerun. Impresso nell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Ci sono viaggi che ti lasciano il segno nell’animo e che ti provano fisicamente. Viaggi che più di altri ti incidono emozioni e si fissano nella memoria. È quello che provo a raccontare con le foto scattate in Camerun nel febbraio 2019.

Per mesi e per una serie di conseguenze dovute al viaggio stesso, non ho avuto modo di visionare attentamente le tantissime immagini scattate attraversando il Camerun da Nord a Sud facendo la spola tra le due principali città del paese, Douala e Yaoundé, e decine di piccoli villaggi dell’interno.

L’obiettivo era quello di visitare e documentare gli ospedali, le comunità e i progetti umanitari gestiti dalle Ong con cui collaboro, per dare voce alle condizioni di vita e ai diritti violati di donne, bambini, anziani.

In particolare, le foto di queste pagine documentano la difficile situazione di un orfanatrofio gestito con tanta buona volontà ma pochi mezzi da una Ong locale, dal nome che richiama la «vedova di Sahrepta» (cfr 1Re 17) che nella sua povertà accoglie il profeta Elia. Questa Ong ha chiesto aiuto a una controparte svizzera per poter continuare a servire i bambini orfani in un paese travagliato.

Insicurezza

In Camerun c’è grande insicurezza a causa di gruppi armati che saccheggiano e distruggono case e causano molte vittime civili, costringendo la popolazione a sfollare verso le grandi città (vedi MC 3/2020 p. 19).

Tale insicurezza ha contagiato anche me che, pertanto, ho viaggiato con l’ansia che qualcosa potesse accadermi da un momento all’altro in quel territorio a tratti fortemente militarizzato.

In molti si trasferiscono in città dalle aree rurali. Sono in cerca di lavoro e di una vita migliore. Tuttavia, tanti finiscono per vivere in baraccopoli sovraffollate dove il pericolo di malattie come la malaria e il tifo è altissimo.

Douala è la capitale della provincia del litorale. Si trova sulle rive del fiume Wouri, a 30 km dalla costa atlantica meridionale del paese. È la città più grande con circa tre milioni di abitanti.

Bambini, prime vittime

I bambini sono la parte più colpita da questa situazione e di conseguenza la più vulnerabile della società. In Camerun i loro diritti sono fortemente minacciati. Migliaia di bambini non frequentano la scuola e non hanno accesso ai servizi sanitari. Oltre il 97% dei bambini di Douala è iscritto alla scuola elementare e, sebbene questo dato sia superiore alla media nazionale, molti non completano l’istruzione primaria. I bambini delle famiglie povere l’abbandonano, spesso, a causa delle difficoltà nel raggiungere la scuola o dei costi non sostenibili per libri, divise scolastiche e altre spese.

Migliaia di bambini vagano per le strade abbandonati al loro destino per tante cause diverse: morte dei genitori, case distrutte, violenza famigliare, disturbi mentali, povertà.

Spesso sono gli stessi bambini che devono trovare il modo di sostenere la famiglia. A Douala se ne possono vedere molti che raccolgono rifiuti o vendono oggetti per strada. Alcuni cadono nella rete criminale dello sfruttamento sessuale.

Non ci si può abituare

Documentare le condizioni dei bambini abbandonati al loro destino è una costante nel mio lavoro. Nonostante questo, non mi ero mai trovato di fronte a condizioni di vita così estreme da farmi sentire in imbarazzo a fotografare e desideroso di conservare solo la memoria del cuore.

Però nessuna descrizione, nessun racconto può narrare meglio di un’immagine lo stato in cui migliaia di bambini vivono la loro quotidianità negli orfanotrofi. I loro occhi, i loro volti, i loro sorrisi segnati da un destino infausto. Solo pochi di loro riusciranno ad avere, un giorno, una vita diversa, lontana da violenze, povertà, fame, malattie.

Migliaia di bambini, da pochi mesi di vita fino all’adolescenza, vengono accolti in luoghi fatiscenti. O in comunità gestite da singole persone o piccoli gruppi di volontari locali con il supporto, a volte, di organizzazioni umanitarie o piccole associazioni internazionali.

Le immagini raccontano le loro storie e i luoghi in cui trascorrono le loro giornate, seguono un percorso scolastico precario regolato da una disciplina ferrea rafforzata da punizioni corporali, vivono in condizioni igieniche discutibili e vengono curati alla bell’e meglio. Luoghi però dove almeno una volta al giorno trovano un pasto.

Le loro stanze sono fatte di muri screpolati, letti a castello, ammassi di vestiti e oggetti di ogni tipo, scarpe, specchi, rifiuti, e odori acri e intensi. Impossibile negare loro un abbraccio, un sorriso, una carezza. Il loro desiderio di sperimentare relazioni nuove li porta a correre verso di te per accoglierti, abbracciarti, sorriderti. Tu rappresenti, putroppo solo per qualche ora, uno spiraglio a cui aggrapparsi per fuggire da un mondo, quello dell’orfanotrofio, fatto di affetti instabili e di privazioni relazionali.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it




Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




I Perdenti 51. Dimităr Pešev, l’uomo che fermò Hitler

testo di Don Mario Bandera |


Dimitar Iosifov Peshev

Dimităr Josifov Pešev (o Peshev – 1894-1973) fu un uomo politico bulgaro che, come tanti, si lasciò affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del Novecento. Aveva iniziato la sua carriera come magistrato nel 1921 ed era poi diventato avvocato nel 1932. Nel 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di diventare ministro della Giustizia nel nuovo governo. Pochi anni dopo diventò il vicepresidente del parlamento.

Egli era un autentico democratico ma si illuse che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica, quest’ultima messa alla prova, dopo la Prima guerra mondiale, da tentativi di colpi di stato sia di destra che di sinistra.

Fu fautore dell’alleanza con la Germania nazista perché attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori «ingiustamente» perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13: parte della regione di Dobruja, passati alla Romania, e la Tracia dell’Ovest, alla Grecia.

Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria, nel 1940, di far parte dei paesi dell’Asse alleati alla Germania (con il ritorno sotto il dominio bulgaro dei territori perduti), e nel 1941 di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne in parlamento la discussione sulla politica che si sarebbe dovuta tenere nel paese nei confronti della minoranza ebraica, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente.

Pensava, in quel momento, che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.

La visione democratica che tu avevi non ti aiutò a capire che i nazisti che occupavano la tua patria, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Una domenica mattina, all’improvviso, ricevetti la visita disperata di un amico che non vedevo da anni. Era un mio vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, una ridente cittadina al confine con la Macedonia dove avevo vissuto la mia adolescenza. Mi informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica, presente da secoli in Bulgaria.

Questo amico ti mise anche al corrente che i treni erano già stati predisposti nelle stazioni.

Il piano prevedeva che la notte successiva gli ebrei sarebbero stati rastrellati e caricati su vagoni che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz). Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione.

A quel tempo avevi già sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non te ne eri preoccupato più di tanto.

Proprio così, ma di fronte a un amico che – disperato – mi chiedeva di aiutarlo, ebbi come un sussulto, un risveglio della mia coscienza.

Di colpo mi scossi dal mio torpore e subito mi diedi da fare. In quel primo momento pensai anzitutto di aiutare i miei amici di Kjustendil. Mi precipitai in parlamento, radunai altri deputati e con loro entrammo nell’ufficio del ministro dell’Interno, Petar Dimitrov Gabrovski – che condivideva col primo ministro forti simpatie naziste – e, dopo uno scontro drammatico, lo costringemmo a revocare l’ordine della deportazione. Erano le 5,30 del mattino del 9 marzo 1943.

E poi cosa avvenne?

Siccome in Tracia e Macedonia – dove il controllo tedesco era più forte – avevano già cominciato a radunare e deportare gli ebrei, telefonai personalmente a tutte le prefetture del paese per verificare che il contrordine fosse stato ricevuto e quindi rispettato. In questo modo la deportazione fu sospesa, ma non cancellata.

Decisi quindi di lanciare un’offensiva in parlamento. Mi ero reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza di cinquantamila ebrei bulgari.

Non c’era un minuto da perdere allora.

La lettera di protesta.  Sofia, 17 marzo 1943. Central State Archivess

Infatti, stesi una lettera di protesta molto dura e raccolsi le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo, al primo ministro Bogdan Filov e al re Boris III, di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione però ti costò molto caro. Perdesti la tua carica in parlamento e rischiasti di essere consegnato ai tedeschi.

Già, ma raggiunsi l’obiettivo che mi ero proposto: la mia denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato. Il re, sentendosi sostenuto, fece marcia indietro e bloccò la deportazione.

Ma il tuo re era filonazista?

No. Anche lui si era illuso che l’alleanza con la Germania e la restituzione dei territori perduti potesse riparare le ingiustizie della conclusione della Prima guerra mondiale, combattuta (e persa) al fianco della Germania e dell’Austria. Ma non concordava con il nazismo e, poi, con lo sterminio degli ebrei. Va ricordato che era in stretto contatto con monsignor Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII), allora nunzio apostolico a Istanbul. Con la sua collaborazione era riuscito a far partire molti ebrei per la Palestina. Aveva anche cercato di evitare la loro deportazione obbligando gli uomini ebrei validi a lavori forzati di pubblica utilità. In più, il re aveva rifiutato, il 14 agosto, la richiesta di Hitler di inviare l’esercito bulgaro alla (disastrosa) campagna di Russia.

Purtroppo però, il re morì improvvisamente il 28 agosto 1943.

(Boris III è il marito di Giovanna di Savoia, sorella di Mafalda che abbiamo «intervistato» sul numero di Gennaio 2020, ndr).

Hitler non accettò volentieri il suo rifiuto e c’è il fondato sospetto che il re fu avvelenato.

In quella situazione anche la mia posizione era tutt’altro che facile. Morto il re, ci fu un reggente, perché il successore era ancora un bambino, poi gli avvenimenti precipitarono con la vittoria dell’Armata Rossa che liberò il paese dai nazisti, ma diede mano libera ai partigiani comunisti.

E tu, continuasti con la politica?

Subito dopo il conflitto mi diedi da fare per riscoprire e valorizzare gli ideali democratici della vita pubblica e m’impegnai per il cambiamento politico nel mio paese e per il suo riallineamento con l’Occidente.

Dimităr Pešev, commise però il «grave errore» di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani comunisti, che stavano consegnando il paese ai russi.

Ciò gli costò molto caro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa. Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Tale accusa fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Yasharoff, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata Rossa.

Pešev ebbe così solo quindici anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Pešev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel ‘49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni ‘60, superate le difficoltà dell’emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Pešev ricevette stabilmente del denaro e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione. Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.

Don Mario Bandera

 

Il titolo di questa intervista è stato suggerito dal libro:
Gabriele Nissim,
L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimităr Pešev che salvò gli ebrei di una nazione intera,
Mondadori, Milano 1999.




Sognando e annunciando

Inserto a cura di Sergio Frassetto |


Originale, poetica e… breve! Così si presenta l’Esortazione apostolica post sinodale «Querida Amazonia», che ci fa intravedere i quattro «sogni» di papa Francesco sull’amata Amazzonia. Leggendo e gustandone gli appassionati paragrafi, colpiscono alcune affermazioni che, pur rivolte ai popoli della grande foresta, insaporiscono – rinvigorendola – la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

Così, ad esempio: «Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia… come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede, che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova» (n. 62).

Se diamo la nostra vita per gli altri, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio che li ama infinitamente. «Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra Ong, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”» (n. 64).

Il papa, poi, invita a non «bollare con troppa fretta come paganesimo o superstizione, alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente».

Il beato Giuseppe Allamano lo aveva anticipato di «qualche anno», quando ai suoi primi missionari in Kenya, un po’ troppo zelanti a condannare danze e riti indigeni, scriveva: «Letto il diario, vedo che il missionario si scagliò contro i goma (balli)… Per carità, si vada adagio, come qui tra noi per il ballo, sebbene sia più cattivo. Dobbiamo dissimulare il male, perché è impossibile ora vincere la cosa e sarebbe di pregiudizio alla conversione il combatterlo di fronte».

Sarà proprio grazie all’inculturazione del Vangelo, fatta con rispetto e senza fretta, che «potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi; santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia… Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale» (n. 77).

Avanti, allora, su questa strada come cristiani, tanto più come missionari: sarebbe triste che i poveri e i dimenticati non ricevessero da noi «il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto».

padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e G. Alberione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Tra Giuseppe Allamano e Giacomo Alberione (1884-1971), il fondatore delle Famiglie Paoline, nonostante una differenza di 33 anni di età, sorse una buona intesa sacerdotale. Espressamente ne parla anche padre Candido Bona, missionario della Consolata e storico riconosciuto: «I suoi contatti con l’Allamano, di persona e per lettera, non si limitarono a casi sporadici, per quanto di particolare importanza, ma rivestirono il carattere di vera direzione, dalla quale attingeva lumi soprannaturali, conforto e direttive. La cosa desta ammirazione, se si tiene presente che l’Alberione risiedeva ad Alba e non a Torino».

Reciproca collaborazione. Probabilmente la collaborazione tra i due uomini di Dio si espresse soprattutto negli incoraggiamenti dell’Allamano all’Alberione per la fondazione della Pia Società di S. Paolo. Fu una collaborazione speciale, che dimostrò la stima e la fiducia reciproche. Non c’è dubbio che l’Allamano si fosse reso subito conto che il progetto dell’Alberione era una vera ispirazione che proveniva da Dio. Fu lo stesso Alberione, parlando in terza persona, a confidare come l’Allamano lo avesse incoraggiato fin dall’inizio. In una bella testimonianza inviata da Alba il 29 gennaio 1933, in vista della prima biografia che si stava scrivendo sull’Allamano, scrisse: «So di un sacerdote [non c’è dubbio che si tratti dell’Alberione stesso] che ricorse al can. Allamano prima di ritirarsi dalla santa opera di zelo a cui stava intento [in quel periodo era direttore spirituale del seminario], per consacrarsi ad altre opere cui un interno movimento di grazia sembrava invitarlo [cioè la comunicazione sociale attraverso la stampa]. L’Allamano sentì e pregò: poi rispose con poche, ma decisive parole. Il caso era difficilissimo, ma le prove di una ventina d’anni gli diedero del tutto ragione. Eppure, bisogna dire che in quel momento erano molti i pareri contrari». Questa testimonianza è confermata dallo stesso Alberione in un incontro con padre Giuseppe Caffaratto: «Lei è della Consolata, dell’Istituto del canonico Allamano. Io conservo sempre tanta riconoscenza al canonico Allamano perché agli inizi della mia congregazione, mentre quasi tutti i sacerdoti mi erano contrari e mi dicevano: “Pianta lì, con i tuoi giornali e la tua stampa!”, lui mi diceva: “Vai avanti, vai avanti!”. E mi fu di grande incoraggiamento».

Il pensiero dell’Allamano sull’Alberione.

Non si possiede documentazione scritta su questo punto, ma è facile intuire la stima dell’Allamano per l’Alberione dal fatto, come si è detto, che fu uno dei pochi a sostenerlo per la fondazione dei Paolini. Dai frequenti incontri a Torino, quando l’Alberione veniva appositamente da Alba per consultarlo, certamente l’Allamano si rese conto del valore di quel giovane sacerdote. Ecco perché lo sostenne sempre e lo incoraggiò, dandogli opportuni consigli. È lo stesso Alberione a rivelare quanto l’Allamano gli suggeriva.

Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano.

Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Allamano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chierici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Volete incontrare dei santi viventi? Andate a Torino e visitate il canonico Allamano e don Rinaldi; andate in Liguria e troverete padre Seteria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incontrare il canonico Di Francia». Sapeva individuare i santi senza sbagliarsi.

Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in momenti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni».

L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza.

Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacerdote: “Lavorare al confessionale, nella predicazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone… per riservare il tempo per la preghiera, lo studio…”. Al superiore di un Istituto religioso diceva: “Se volete gli istituti religiosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”.

Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi lasciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad operare e pace di spirito. Avevo sempre l’impressione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consiglio. Ciò parecchie volte si è ripetuto.

Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo prezioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli viveva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni.

Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, lasciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indifferenza dei santi anche riguardo le cose più delicate, o che toccavano più direttamente la sua persona».

In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Alberione scrisse al postulatore della causa di beatificazione dell’Allamano che lo aveva nuovamente interpellato: «Ho ancora esaminato diligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da aggiungere altro».

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su «Missioni Consolata» di gennaio. In questo numero ne pubblichiamo la seconda e ultima parte.

Il quarto capitolo è la «perla» della tesi sull’Allamano, scritta con passione dalla signora Emanuela Costamagna, e va considerato come una spinta in avanti.

L’autrice esamina dal punto di vista teologico alcuni degli aspetti più importanti individuati nei primi tre capitoli e fa emergere che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico.

Tuttavia, pensando che il suo scopo era formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario, ha insistito su alcuni aspetti particolari portando delle sue originalità che potrebbero racchiudersi nelle sue stesse parole: «amare e farsi santi è la stessa cosa».

Alla fine della tesi c’è un’interessante conclusione. Ecco qualche tratto ripreso alla lettera: «Al termine del percorso che mi ha portato alla stesura di questa tesi, posso dire che, sebbene già conoscessi la figura del beato Allamano e alcuni missionari e suore della Consolata, ho avuto la possibilità di approfondirne il carisma e il pensiero.

Nel corso della tesi ho avuto modo di analizzare come maturò il suo carisma ricevuto dallo Spirito e quali novità introdusse con le sue riflessioni. Anzitutto si può constatare che l’Allamano fondava il suo pensiero su solide basi: da una parte il messaggio del Vangelo con il suo annuncio della salvezza portata da Cristo e del ruolo di corredentrice di Maria e dall’altra una importante attenzione al prossimo, mettendo insieme il comando di Cristo “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19) con quello di “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,38).

L’Allamano trasferì la sua grande attenzione per il prossimo nello spirito dei missionari. La sensibilità che richiedeva verso gli indigeni era molto particolare, portava avanti delle istanze che al suo tempo non erano sempre comprese da tutti. Sicuramente la fede che richiedeva doveva essere vissuta pienamente nella vita pratica attraverso le opere, perché era conscio che in missione una scuola, un ospedale, un orfanotrofio avrebbero fatto del bene agli indigeni e preparato la strada alla conversione. Ecco perché insisteva sulla necessità di elevare l’ambiente.

Anche la valorizzazione dei sacerdoti e dei catechisti locali, da lui fortemente sostenuta, ebbe come base la necessità di far crescere una Chiesa con pastori e collaboratori originari del luogo, il che è uno dei fini della missione e, oggi, di estrema attualità.

Come si è visto, l’Allamano pur non essendo un innovatore, sicuramente fece delle riflessioni e diede delle direttive ragguardevoli e talvolta coraggiose per il suo tempo e che, ancora oggi, costituiscono lo spirito dei membri dei due istituti. Iniziando da quel piccolo gruppo di due sacerdoti e due fratelli coadiutori partiti per il Kenya nel 1902, ora i missionari e le missionarie della Consolata operano in Europa, Africa, Asia ed America.

Ciò che ho potuto constatare, avendo anche visitato parecchie loro missioni in Africa e in America Latina ed avendo vissuto un anno e mezzo in una missione in Etiopia, è che lo spirito e gli insegnamenti che l’Allamano impartiva sono ancora attuali e seguiti».

L’autrice della tesi, oltre che per la serietà dello studio, va lodata per la stima e la fiducia nell’Allamano. Questa è la confidenza fatta al missionario cui si riferiva, all’inizio del lavoro: «La mia tesi sarà buona perché fatta con rispetto verso l’Allamano che a me ha dato tanto! Potevo avvicinarmi ad altri istituti, per andare in missione. Ma il mio cuore ha scelto la casa madre di corso Ferrucci e l’Allamano. Per cui glielo devo al caro Beato, e mi impegno a fare meglio che posso la tesi su di lui». Un particolare molto significativo: durante la discussione della tesi la signora Emanuela, ogni volta che nominava l’Allamano, lo chiamava sempre «Fondatore», manifestando, forse senza accorgersene, il suo sincero legame con lui.

Il piccolo gruppo che ha accompagnato la signora Emanuela durante la discussione era formato dal marito Fabio e due figlie (Elia,
il bimbo di un anno e mezzo è rimasto con i nonni), dai genitori, alcuni amici e missionari. Al termine della difesa, rientrati nella sala, si attendeva l’esito con curiosità, non disgiunta da comprensibile apprensione. Il presidente ha pronunciato queste parole:
«Il giudizio unanime della commissione
è che la tesi ha le seguenti qualità: accuratezza, profondità, ampiezza. Votazione: 30 lode!». L’applauso felice e fragoroso è scoppiato istantaneo. (Fine)




Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?

Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».