testo di Luca Lorusso |
Ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania. Si possono riassumere i 45 anni di missione di fratel Sandro in cinque pagine? Ci proviamo, attraverso aneddoti, date e nomi di luoghi pieni d’incontri.
Settant’anni compiuti poco meno di un anno fa. Un’energia invidiabile. Una parlantina che parte lentamente, ma che, una volta avviata, va decisa. Una lunga esperienza missionaria: ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania.
Fratel Alessandro Bonfanti, nato a Robbiate, Como, il 9 maggio 1949, chiamato da tutti Sandro, si siede di fronte a noi e ci guarda con occhi schietti che sembrano scrutarci.
Quando iniziamo a registrare la sua voce, sembra imbarazzato, ma l’imbarazzo, se c’è, è solo temporaneo, e inizia a raccontare la sua vita partendo da Neema, una ragazza che oggi ha tredici anni e che lui ha conosciuto poco dopo il suo arrivo nel 2009 in Tanzania.
Neema (cioè Grazia)
«Quando sono arrivato in Tanzania, sono stato mandato alla procura di Dar es Salaam dove passano molti missionari e missionarie, sia della Consolata che di altre congregazioni o fidei donum.
Un giorno, una suora italiana di Vingunguti, slum alla periferia della città, mi ha chiesto se conoscessi un posto che potesse accogliere una bimba con un handicap grave. Io ero appena arrivato, e non sapevo.
Poco tempo dopo sono passato dalla suora per avere notizie, e lei mi ha portato in una baracca. Dentro c’era una mamma con un neonato al petto. In un angolo scuro c’era una bimba di due anni che non parlava, non stava in piedi e nemmeno seduta. La mamma era stata abbandonata dal marito perché considerata incapace di fargli una creatura normale. Ora aveva una relazione con un altro uomo da cui era nato il piccolo che stava allattando, ma quell’uomo non voleva tenere la bambina».
Fratel Sandro si è preso a cuore la situazione, e ha iniziato a cercare: «Nessuna istituzione era in grado di occuparsi di una bimba che avrebbe trascorso tutta la vita in modo non autonomo».
Negli anni trascorsi alla procura, fratel Sandro ha incontrato molte persone: «Un giorno è venuto padre Filippo Mammano, un fidei donum siciliano, per delle spese, e mi ha raccontato che nella sua missione di Ilula aveva un orfanotrofio. Allora io gli ho parlato della bambina e, dato che lui sarebbe rimasto da noi fino all’indomani e aveva il pomeriggio libero, mi ha detto: “Andiamo”.
Quando siamo arrivati lì non ci siamo detti niente, ma ho visto che anche lui è rimasto colpito. Siamo tornati in procura, abbiamo cenato assieme, e dopo cena ci siamo seduti fuori. Mi ha detto: “Portamela a Ilula. Ho già del personale che segue gli orfani. Una in più una in meno…”».
Ilula, dove padre Filippo è parroco da 30 anni, si trova a 450 km da Dar es Salaam. Fratel Sandro si è accordato con lui e gliel’ha portata, «naturalmente insieme alla mamma che è rimasta lì due giorni, e poi è tornata».
Fausta la biologa
Fratel Sandro è felice di parlare di Neema e di padre Filippo: muove le sue grandi mani in gesti ampi e accompagna la narrazione con tutto il corpo, sottolineando i passaggi importanti con piccole pause e puntando i suoi occhi nei nostri.
Prosegue: «Una delle prime bambine che padre Filippo ha aiutato è stata una certa Fausta, cresciuta in missione. Dato che era brava a scuola, l’ha mandata a studiare biologia a Catania. Quando si è laureata ed è rientrata in Tanzania, ha detto a padre Filippo: “Tu mi hai aiutata, e io per un anno lavoro gratis per l’orfanotrofio”. Fausta aveva già ricevuto due richieste di lavoro da due università, tra cui quella di Iringa, a 45 km da Ilula.
Nel frattempo, è arrivata Neema, e Fausta le si è affezionata. In più, poco tempo dopo, Fausta ha saputo che lì a Ilula era morta una mamma durante il parto. Aveva partorito una bambina e il papà non si era fatto vivo. Nessun parente. Allora Fausta l’ha presa con sé e l’ha adottata.
Oggi Fausta è l’incaricata dell’orfanotrofio. Intanto, avendo già Neema, hanno iniziato a prendere altri bambini con handicap vari, e ora, su 120 ospiti, la metà ha bisogni speciali, alcuni anche con problemi mentali».
Neema, nel tempo ha iniziato a mangiare da sola e a parlare. Stando con gli altri, impara molte cose. «Poi ha la sua carrozzina – prosegue fratel Sandro -. Adesso sta dritta e non cade più. E comincia anche a scrivere.
Padre Filippo prende gli scarti degli altri. Quando c’è qualcuno che non trova posto da nessuna parte, come Neema, da padre Filippo trova accoglienza».
«Vieni e vedi»
Fratel Sandro è arrivato in Africa nel 1973, a 23 anni. La professione perpetua l’ha fatta a fine ‘74, ma la prima professione temporanea l’aveva fatta nel ‘68, appena diciannovenne.
Gli chiediamo quando ha sentito la chiamata a diventare fratello missionario.
«Io non ho sentito nessuna chiamata – ci dice lui, forse un po’ divertito dall’idea di darci una risposta poco convenzionale -. Quando ero piccolo, il parroco mi ha chiesto più di una volta di fare il chierichetto, e io mi sono sempre rifiutato. I miei erano molto religiosi, mio papà era presidente dell’Azione cattolica del mio paese e durante l’estate mi mandava all’oratorio feriale. Il prete addetto all’oratorio chiamava tutti gli anni un missionario della Consolata dalla casa di Bevera (Lecco). L’estate prima di iniziare le medie è venuto padre Ugo Benozzo, che ci raccontava storie di missione e ci faceva vedere film. Un giorno mi ha chiesto: “Ti piacerebbe essere missionario?”. Io non ci avevo mai pensato, ma in quel momento dovevo dire sì o no. Mi sembrava che se gli avessi detto di no l’avrei offeso, allora ho detto di sì. Ho pensato: “Tanto questo non lo vedo più…”. Solo che dopo un mese è tornato in paese e mi ha cercato. Allora io ho cominciato a oppormi: “Ma no, io missionario!”. Lui mi ha detto: “Guarda, vieni e vedi…”, io alla fine sono andato, e sono ancora qui».
In Kenya
Entrato in seminario minore a 11 anni, dopo tre anni Sandro aveva già le idee chiare: voleva diventare fratello. «Dalla quarta ginnasio mi sono detto: “Io non voglio annoiare la gente con le prediche”. Sono stato sempre restio a presentarmi in prima persona».
Allora si è dedicato allo studio della meccanica e, finite le superiori, nell’ottobre 1968, ha fatto la prima professione temporanea. Destinato alla procura di Alpignano (To), vi è rimasto per quattro anni facendo anche un corso di edilizia per corrispondenza.
«Nel 1972 ero ad Alpignano quando padre Guido Motter, vice superiore generale, è arrivato e mi ha chiesto di partire per il Kenya. Quindi sono stato nove mesi in Inghilterra per imparare l’inglese, e in Kenya sono arrivato nel ‘73, destinato a Kaheti, a 140 km a Nord di Nairobi, in una scuola di edilizia e falegnameria. Lì c’era fratel Vincenzo Quaglia. Per tre anni ho gestito la scuola».
Nel frattempo, nella scuola tecnica di Sagana, 30 km più a Sud, volevano aprire la sezione di edilizia. «Il preside padre Giuseppe Bertaina, un giorno mi ha parlato del progetto. Io pensavo che volesse solo una consulenza, invece dopo quindici giorni è arrivato il superiore dicendomi: “Ti sei già messo d’accordo per andare a Sagana? Mi hanno detto che saresti disposto ad aprire la sezione di edilizia”, insomma – ride fratel Sandro -: mi sono trovato incastrato».
A Sagana fratel Sandro è rimasto quattro anni, fino a quando, nel 1980, è stato mandato a Nanyuki per dare una mano nella procura della diocesi di Marsabit. «Lì ho fatto due anni: raccoglievamo e spedivamo materiali di tutti i tipi.
Poi mi hanno chiesto di aiutare padre Ottavio Santoro, amministratore regionale del Kenya, e mi sono trasferito nella capitale».
Qualche gara di rally
Quando fratel Sandro è andato a Nairobi, ha incontrato un suo ex studente che nel frattempo si era sposato, trasferito nella capitale e aveva iniziato a fare i rally.
«A Sagana insegnavo disegno per le costruzioni e disegno meccanico. Quando sono finito a Nairobi e ho incontrato questo mio studente, lui mi ha chiesto se volevo andare nel suo team. Io gli ho detto: “Guarda che non sono un meccanico”. E lui: “Ma come? A scuola mi hai insegnato disegno!”. Comunque, per curiosità, sono andato, e, alla fine, una corsa tira l’altra, mi ha coinvolto nell’organizzare il lavoro dei meccanici, e così sono stato nel mondo dei rally per cinque anni. Ero giovane. Avevo molta voglia di girare. In Kenya ci sono deserti, montagne, pianure, e con i rally ho avuto occasione di girarlo in lungo e in largo. In ogni caso – conclude -, andavo solo qualche domenica all’anno».
A Morijo tra i Samburu
A Nairobi nell’amministrazione, fratel Sandro è rimasto dal 1982 al 1986. «Un giorno il superiore mi ha detto: “Vai in seminario”. Allora ho fatto l’amministratore in seminario per quattro anni. Poi ho detto al superiore che sentivo di non essere mai stato in missione, nonostante fossi in Africa dal ‘73. Un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo andare nel Samburu, a Morijo, con padre Aldo Vettori. Sono stati quattro anni magnifici. Lì mi sono sentito missionario.
Morijo si trova in cima a un cucuzzolo. Per fare una casa, e la chiesa, prendevamo dei pali di legno, poi mandavo gente a raccogliere sassi piatti e li inchiodavo con chiodi di sei pollici. Da fuori sembrava una casa di sassi. Dentro invece mettevo una rete e intonacavo creando una camera d’aria per tenere il fresco.
Poi c’era il problema dell’acqua. In cima al cucuzzolo ho fatto un muretto. Quando pioveva, l’acqua veniva raccolta in due cisterne, e da lì veniva giù e si usava per lavarsi. Per bere veniva bollita e filtrata. Quando pioveva, si formava una specie di torrente. L’acqua veniva fuori da una pietra. Allora ho iniziato a scavare e quando siamo arrivati alla profondità di un metro abbiamo trovato l’acqua. In seguito, abbiamo fatto fare un pozzo».
La ragazza posseduta
«Nel territorio della missione di Morijo c’erano i Samburu e i Turkana. Un giorno mi hanno chiamato per una donna Turkana che dicevano indemoniata. Lì c’era anche l’infermiere che mi ha detto: “No, è epilettica”. Allora abbiamo preso la ragazza, che avrà avuto 18 anni, e l’abbiamo portata all’ospedale di Wamba dove una suora mi ha detto: “Queste sono le medicine da darle, se le prenderà, starà bene”. Allora l’ho riportata al suo villaggio e ho chiesto al catechista di dare tutti i giorni la pastiglia alla ragazza. Dopo un anno, non aveva più crisi epilettiche. La gente del suo villaggio però mi ha detto: “Questa ragazza che hai portato via e guarito, non troverà un marito. Nessuno ha il coraggio di avere una relazione con lei, chissà che non ci sia un rimasuglio del demonio”. E mi hanno detto: “Fai come se fosse tua”. Per gli anziani era diventata mia responsabilità. Allora io l’ho mandata al catechismo nel villaggio, e dopo un po’ è stata battezzata».
L’italia
Dopo l’esperienza nel Samburu, fratel Sandro, nel 1994 è tornato a Nairobi nell’amministrazione. Dopo sei anni, nel 2000, ha ricevuto la notizia che sua mamma stava male, ed era grave: «Nel 1989 era morto mio papà. Lui era paralizzato, e i miei fratelli avevano fatto a turno per assisterlo. Quando si è ammalata mia mamma, una mia sorella mi ha detto. “Ci sono missionari che vengono a casa per assistere i genitori ammalati. Vieni anche tu. Mamma è grave”. Allora ho chiesto di venire in Italia, ma quando sono arrivato, mia mamma è morta dopo due settimane. Era il 2001. Quindi sono andato a Roma per chiedere di tornare in Kenya, ma il vice superiore mi ha detto: “Ti abbiamo destinato in Italia, e adesso rimani in Italia”. Ha chiamato padre Franco Gioda, superiore in Italia in quel momento, e mi hanno mandato ad Alpignano a servizio dei missionari anziani.
Gioda mi ha detto: “Se accetti, io in un anno ti rimando in Africa”.
Passato l’anno mi sono fatto avanti per chiedere di ripartire, ma Gioda mi ha chiesto: “Perché? Non ti trovi bene?”. Poi ha tirato fuori gli Atti degli apostoli… sai com’è Gioda… Alla fine sono stato cinque anni. Fino al 2006».
Liberia
Quando finalmente fratel Sandro è tornato in Africa, non è tornato in Kenya, ma è andato in Liberia, paese appena uscito da 14 anni di guerra civile. «Padre Stefano Camerlengo mi ha proposto di andare nel lebbrosario di Ganta, sul confine con la Guinea Conakry, per aiutare le suore della Consolata.
Se dovessi dire dove mi sono trovato meglio in missione, risponderei a Morijo tra i Samburu e a Ganta tra i lebbrosi. Tra i due, comunque, sceglierei la Liberia. Mi occupavo della manutenzione del lebbrosario, ma tutti i giorni facevo il giro dei malati. Con loro mi sono trovato bene. Subito dopo la guerra erano una quarantina, dopo un po’ sono arrivati a 250. In Liberia quell’ospedale era un punto di riferimento. Venivano anche dalla capitale.
Tra i lebbrosi mi sentivo voluto bene. Quando ho detto che sarei andato via, volevano costruirmi una casetta per quando sarei tornato a trovarli».
In Tanzania
In Liberia, fratel Sandro si era abituato a stare da solo. «Quando sono venuti a dirmi che dovevo tornare in comunità, ho detto: “Guardate che ho 60 anni, mio fratello, che è più giovane di me, è andato in pensione quest’anno, non pensate che possa fare chissà che cosa”. Mi hanno risposto: “Va bene, per la tua pensione vai in Tanzania”».
Arrivato nel 2009, fratel Sandro ha fatto due anni e mezzo in procura a Dar es Salaam, dove ha conosciuto Neema e padre Filippo, e poi quattro anni nella casa regionale di Iringa, come segretario del consiglio regionale.
«Durante la conferenza regionale del 2015, padre Sandro Nava ha parlato di una farmacia a Iringa iniziata da padre Salvador Del Molino, e ha chiesto a me di occuparmene. L’idea era questa: fare una farmacia per vendere i medicinali alle missioni, ai dispensari e alla gente a prezzi accessibili. Si trattava di fare un magazzino per vendere all’ingrosso. Ho iniziato, e ora vendo medicine per un raggio di 200 km».
Quando diventi prete?
Se c’è una cosa su cui fratel Sandro torna volentieri nelle due ore che stiamo insieme, è la specificità della sua vocazione.
«Io non sono un sacerdote. Sono missionario della Consolata, ma sono un fratello.
Da quando sono diventato fratello, tutti mi chiedono: “Quando diventi prete? Perché non diventi prete?”. Io però non mi sono mai visto come un sacerdote. Desideravo andare in missione e aiutare le missioni e la gente.
Anche quando sono diventato fratello mi facevano domande: “Sai quello che fai? Sei sicuro?”.
Ecco, sulla parola sicuro, direi che uno non è mai sicuro, uno ci prova. Avevo 23 anni quando sono partito per il Kenya. Ho detto: “Io ci provo”, e ci sto ancora provando.
Io vedo la vocazione del fratello nella vita di Gesù. Lui infatti ha vissuto come una persona normale, come un laico. Non si è presentato come sacerdote, non era un levita, non era un fariseo. Quando la gente lo vedeva, diceva: “È figlio del falegname”.
Poi guariva, insegnava, s’interessava della gente.
Il fratello trova un esempio per sé nella vita di Gesù. Il fratello è quello che si mette al servizio degli altri. L’evangelizzazione non si realizza con il proselitismo, ma avviene per attrazione: vedono che tu ti comporti in un certo modo e si sentono di fare altrettanto.
Anche noi fratelli, pur non predicando, con il nostro esempio siamo evangelizzatori.
Noi padri e fratelli della Consolata abbiamo gli stessi voti, lo stesso nome, viviamo in comunità, però per gli uni la professione è quella del sacerdote, noi fratelli invece possiamo fare qualsiasi mestiere e ci esprimiamo con quello. Oggi il fratello può essere un avvocato, uno che tiene i conti, un medico, un infermiere, un tecnico.
Questo per dire che la missione non è fatta solo da sacerdoti annunciatori, ma anche da tanti professionisti di qualsiasi campo.
E se ci sono dei laici che desiderano avere il nostro spirito, ben vengano. Perché non è necessario essere dei fratelli, come lo sono io. La missione è aperta a tutti. La missione è aprire il cuore della gente. Tu devi avere un cuore aperto al mondo».
Luca Lorusso