Tutto in 22 km quadrati

Reportage da Lampedusa, tra realtà e narrazione

testo e foto di Simona Carnino |


Nella splendida isola, più vicina all’Africa che all’Europa, i turisti sono in grande aumento. I migranti che vi approdano sono invece in rapida diminuzione. E i giovani cercano di andarsene.

Vista dall’alto di un aereo, sorge come uno scoglio in mezzo al Mediterraneo, più vicina al Nord dell’Africa che all’Italia, si trova a 224 km da Porto Empedocle in Sicilia e a 188 km da Sfax, in Tunisia. È la maggiore tra le Isole Pelagie, che in greco antico significa «in mare aperto». Lampedusa è un’isola rocciosa, terra delle antiche abitazioni in pietra calcarea chiamate dammusi e luogo prescelto dalle tartarughe caretta caretta per la riproduzione. Il mare trasparente e caldo rende piacevole un tuffo anche in ottobre e l’Isola dei Conigli o le spiagge di Cala Madonna e Cala Pulcino fanno sognare i tropici. Nell’aria, il profumo di finocchietto selvatico avvolge ogni cosa.

Nell’ultimo decennio, l’arrivo sulle sue coste di migliaia di persone provenienti dal Nord Africa ha reso i 22 km quadrati dell’isola universalmente conosciuti. Lampedusa è rappresentata oggi dai media quasi unicamente come «l’isola dei migranti». Eppure, come un vero porto di mare, terra di passaggio, sull’isola, luogo utopico e reale, convivono e intrecciano le loro vite viaggiatori di ogni tipo, volontari o forzati, lavoratori stagionali, residenti, gente che arriva e giovani che se ne vanno.

I tanti volti di Lampedusa

Meta di turismo di mare. Così appare Lampedusa agli occhi di Marcello, un impiegato di Milano di 51 anni che, a fine settembre 2019, ha scelto di sfuggire alle prime nebbie padane e di rifugiarsi sull’isola per una breve vacanza. Di giorno trascorre il tempo alla ricerca delle spiagge più belle. La sera, invece, si siede in qualche piano bar di via Roma, tra un bicchiere di vino e un karaoke. Classica vacanza di mare. Non sa niente del tema migratorio e non gli interessa. Migranti non ne vede e gli va bene così.

Meta di turismo solidale. Così vede l’isola Roberta di Perugia che si trova sull’isola nello stesso periodo di Marcello. Anche lei è una turista, arrivata per il Festival di Lampedusa, un appuntamento organizzato da ragazzi residenti e artisti italiani per portare una proposta culturale sull’isola.

Roberta è interessata a conoscere la Lampedusa Porta d’Europa, terra di frontiera e sede di organizzazioni culturali che si occupano di temi sociali, ambientali e promozione dei diritti umani. Trascorre il tempo a Porto M, un piccolo museo gestito dal movimento culturale Askavusa, dove sono contenuti oggetti appartenenti a migranti e ritrovati sulle spiagge. Guarda le scarpe spaiate, frammenti di barche, maglie stracciate e pezzi di giubbotto salvavita. Va all’archivio storico, sfoglia le foto in bianco e nero di una Lampedusa antica e scopre che l’isola è stata sede di un carcere di alta sicurezza agli inizi del Novecento e di una base militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Parla con alcuni residenti dell’isola che non dimenticano i naufragi a cui hanno assistito negli ultimi anni. Roberta vorrebbe anche parlare con qualche migrante per ascoltare la loro storia. Ma rimane delusa. Eppure si era fatta l’idea, leggendo i giornali, che Lampedusa straripasse di migranti.

Luogo da cui scappare. Per Louay, un ragazzo di 21 anni originario della Tunisia, Lampedusa ha l’aspetto di un carcere. Arrivato nella notte del 29 settembre 2019, insieme a circa 180 connazionali divisi su più imbarcazioni, Louay vede l’isola come una zona di transito obbligato. Il suo obiettivo è arrivare in Francia e poi spostarsi in Germania.

Quando Louay arriva a Lampedusa alle 2 di notte, Marcello e Roberta stanno dormendo.

Dormono anche tanti dei seimila residenti di Lampedusa, molti dei quali al mattino si alzano all’alba per lavorare in bar e ristoranti. Per loro Lampedusa è una casa e il flusso turistico rappresentato da Marcello e Roberta è il lavoro.

Non dormono invece gli operatori di alcune organizzazioni umanitarie presenti sull’isola, che si svegliano e si dirigono al porto per portare generi di conforto e documentare l’arrivo di Louay e delle altre persone che i carabinieri trasporteranno nell’hotspot, il centro di prima accoglienza. Per coloro che lavorano in Ong nazionali e internazionali o nelle forze armate italiane, Lampedusa è un posto dove trascorrere una parte della propria vita svolgendo una missione, chi ubbidendo a ordini militari, chi lavorando per i diritti umani o facendo volontariato.

Per altri, infine, Lampedusa è il luogo da cui spiccare il volo. La vedono così i ragazzi lampedusani che desiderano una formazione accademica. I ragazzi in età universitaria sanno che devono trasferirsi in Sicilia o spostarsi in qualche altra regione italiana o magari all’estero, se vogliono ottenere una laurea.

Tra un ragazzo di 18 anni di Lampedusa e Louay non c’è molta differenza. Entrambi hanno il sogno di costruirsi una vita. Però solo il ragazzo con il passaporto italiano ha in mano il lascia passare per trasferirsi in Europa, su un aereo e con le carte in regola. L’altro è forzato a rischiare la vita in mare o nel deserto, cercando di attraversare qualche frontiera.

Bruciare i documenti

Louay è arrivato a Lampedusa su una barca da 20 posti, intercettata in mare dalla Guardia Costiera che l’ha scortato fino al porto. Poi è stato trasferito all’hotspot, dove chi arriva senza documento viene trattenuto durante le pratiche del foto segnalamento prima di essere mandato nei centri della Sicilia o del resto d’Italia, nei quali rimarrà in attesa di una risposta alla richiesta di protezione internazionale. A fine settembre 2019, l’hotspot, che ha una capienza massima di circa 95 posti, è sovraffollato. Sono presenti intorno alle 250 persone in attesa di essere trasferite. La maggior parte sono tunisini. Tra di loro anche alcuni ragazzi eritrei e altri originari dell’Asia, tra cui Bangladesh.

Louay, come altri ragazzi, esce da un buco nella recinzione che percorre il perimetro dell’hotspot e si dirige verso la chiesa del paese, dove il parroco ha messo a disposizione il wifi gratuito.  Indossa pantaloni rossi e una  t-shirt bianca, il vestiario in dotazione dell’hotspot. «Circa il 30% delle persone nel centro ha meno di 18 anni – racconta Louay mentre cammina sotto il sole caldo delle 2 del pomeriggio -.  Il viaggio fino a Lampedusa da Sfax è durato 36 ore circa e la barca su cui ero io era solida e il mare calmo. Ce l’abbiamo fatta. Ora però il mio obiettivo è andarmene da qui».

Quando Louay arriva in paese, la piazza della chiesa è quasi deserta. Qua e là qualche ragazzo come lui cerca la connessione internet. Quando Whatsapp comincia a funzionare, Louay chiama suo padre e gli dice che il viaggio è andato bene. Dall’altra parte dello schermo un uomo sorridente lo saluta felice. «Adesso devo capire come arrivare in Francia – dice Louay -. Ci sentiamo dopo». Poi si dirige verso il porto e cerca di comprare un biglietto del traghetto per Porto Empedocle. Un impiegato della biglietteria gli chiede i documenti. Lui non li ha e quindi non riesce nel suo intento. A poco servono i soldi per pagare.

«No, non ho i documenti con me – ci spiega Louay -. Noi usiamo la parola harga per dire che viaggeremo verso l’Europa in barca, attraverso il Mediterraneo. Harga deriva dalla parola araba che significa “bruciare”. In questo caso, bruciare i documenti, perché non vogliamo essere riconosciuti. Per noi tunisini non ci sono molte speranze di avere un permesso di soggiorno in Italia, quindi è molto meglio non avere nessun documento di identità con noi».

Il decreto interministeriale del ministero degli Affari esteri del 4 ottobre 2019, emanato di concerto con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia, anche detto decreto Di Maio, stabilisce che la Tunisia può essere considerata un paese sicuro, per cui le persone originarie di quello stato, senza un regolare visto, possono essere rimpatriate in pochi giorni, se non dimostrano di aver subito una persecuzione personale nel paese di partenza. Louay, come molti dei suoi connazionali, scappa da un salario misero, dalla carenza di opportunità lavorative, e ha il sogno di vivere in Europa. Tuttavia, non esistono possibilità di accedere a un visto lavorativo se non si ha un contatto diretto con il datore di lavoro nel paese di destinazione. Per Louay non c’era un’alternativa di viaggio, senza visto. L’unica possibilità era bruciare i documenti e provare ad attraversare la frontiera in un altro modo.

Invasione di turisti

Nelle strade di Lampedusa a inizio ottobre ci sono più turisti che migranti. «Lampedusa non è per niente collassata a causa dei migranti – ci spiega Nino Taranto, il direttore dell’Archivio storico del paese -. Spesso i giornalisti confondono l’isola con il suo hotspot. Se il centro di prima accoglienza è sovraffollato, non significa che lo sia l’isola. Lampedusa non è il suo hotspot».

Negli anni, si è radicata la narrazione che l’Italia sia invasa dai migranti partiti dal Nord Africa e che Lampedusa, una delle sue frontiere, sia sprofondata sotto il peso della responsabilità di accogliere tutti. «Si tratta di un immaginario che si è costruito nel 2011, quando sull’isola sono cominciate ad arrivare le persone in fuga dagli scontri prodotti durante la cosiddetta Primavera araba. Oggi le cose non stanno più così – continua Taranto».

Delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, 7.155 sono approdate in Sicilia e le altre principalmente tra Sardegna, Calabria e Puglia. Gli arrivi dei migranti a Lampedusa sono superati dall’arrivo dei turisti. Secondo le ultime elaborazioni prodotte nel 2018 dall’Osservatorio turistico della regione siciliana sulla base dei dati forniti dall’Enac, Ente nazionale per l’aviazione civile, si è verificato un notevole aumento del numero dei turisti passando da 185mila arrivi all’aeroporto nel 2015 a oltre 253mila nel 2017, con un aumento esponenziale dei passeggeri nei mesi estivi. Ad esempio, ad agosto del 2017 sono arrivate all’aeroporto 58.422 persone a fronte delle 4.793 durante il mese di gennaio.

«Il turismo di massa è aumentato a dismisura negli ultimi anni – commenta il direttore -. Ma la gestione di questo settore è lasciata ancora un po’ al caso, manca addirittura un ufficio del turismo ben strutturato e un progetto di sviluppo ordinato».

Negli ultimi anni Lampedusa ha registrato il tutto completo a luglio e agosto e basta fare un giro su blog e siti di prenotazioni e vacanze per leggere recensioni di utenti che consigliano ai futuri visitatori di mettere piede sull’isola in bassa stagione, se si vuole godere di un’esperienza rilassante senza doversi fare largo a gomitate tra gli altri turisti.

Tra percezione e realtà

Nonostante ci siano infiniti modi di guardare Lampedusa, negli anni l’isola si è trovata al centro di un’interpretazione ridotta a due sole narrazioni: descritta a volte come «l’isola dell’accoglienza», altre volte come «l’isola collassata per i troppi arrivi dei migranti». L’immagine dell’isola è stata focalizzata unicamente sui temi migratori e cambia a seconda della maggioranza che governa il paese.

I cittadini di Lampedusa stanno facendo ancora i conti con un’immagine semplificata ed eccessivamente politicizzata che spesso non accettano. «Noi non ci sentiamo rappresentati nei racconti di giornali e televisioni. Vogliamo articolare un discorso su Lampedusa e le migrazioni che si smarchi dalle due retoriche dominanti, quella, per farla breve, dei “migranti cattivi” e quella dei “migranti buoni”, la stessa retorica semplicistica che ha visto i lampedusani passare dall’essere descritti come tutti eroi a tutti razzisti – spiega Giacomo Sfarlazzo del collettivo Askavusa -. Nessuno ha ascoltato le voci dei lampedusani e quelle delle persone migranti, nessuno si è chiesto perché le persone lasciano il proprio paese e quali responsabilità ha l’Unione europea in questi processi, e nessuno ha messo al centro del discorso la regolarizzazione dei viaggi. Perché la cosa importante non è pensare se salvare o non salvare le persone quando stanno già affogando, ma dare loro una possibilità di viaggiare e muoversi in sicurezza in modo che non rischino di annegare».

Nessuno dei pescatori o dei residenti dell’isola che si sono messi a disposizione per dare una mano ai migranti durante i numerosi naufragi si sente un eroe. «Abbiamo fatto il nostro dovere, niente più di questo – racconta Lino, residente a Lampedusa, che ha soccorso alcuni migranti con la sua barca durante il grande naufragio del 3 ottobre 2013 -. Se senti delle persone “vusciare” (disperarsi nel dialetto dell’isola, nda) nell’acqua, che fai? Le salvi, no?».

Sfiducia nello stato

Anche la vittoria della Lega, che ha ottenuto il 45,85% dei voti di Lampedusa e Linosa durante le ultime elezioni europee di maggio 2019, in realtà nasconde un significato che va oltre un semplice trionfo della destra sulla sinistra. A Lampedusa, più del 70% delle persone aventi diritto non è andata ai seggi e l’alta percentuale di astensionismo dimostra una sfiducia della cittadinanza nei confronti dello stato e della politica italiana in generale. Da anni, molti lampedusani si lamentano della raccolta dei rifiuti, della militarizzazione costante dell’isola, della presenza di radar per motivi di sicurezza nazionale e di una gestione limitata della sanità. Sull’isola manca un ospedale attrezzato, cosa comprensibile se si considera il basso numero di residenti, ma che genera scontento nella popolazione.

Eppure sembra difficilissimo per i residenti di Lampedusa liberarsi della narrazione fatta dai media nazionali e dalla percezione che si è creata intorno al fenomeno migratorio e al ruolo dell’isola.

I problemi di percezione dipendono da una rappresentazione mediatica spesso urlata che propone un’immagine dell’isola che ricorda quella del 2011, quando si è verificata un’impennata di arrivi dei migranti rispetto al 2010, ma anche dal fatto che lo stato italiano continua a descrivere l’inclusione dei migranti già presenti sul territorio come un’emergenza. In realtà, la gestione dei processi di integrazione è diventata più caotica in seguito all’introduzione del Decreto sicurezza bis, che ha abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari, condannando molte persone già in Italia alla condizione di irregolarità e ad uscire dai progetti Sprar.

Cala la percezione d’insicurezza

Nonostante i provvedimenti anti migranti, nel 2019 è diminuita la percezione di insicurezza che provano gli italiani nei confronti delle persone che arrivano nel paese.

Un recente rapporto dell’Associazione Carta di Roma, intitolato «Notizie senza approdo» ribadisce che c’è «una assenza di correlazione tra quantità̀ di esposizione mediatica del fenomeno e l’incremento della percezione di insicurezza delle persone». Nel 2019 il tema migratorio è stato molto presente sui media: sui 304 giorni analizzati, solo uno è stato privo di notizie sull’immigrazione. Tuttavia, si è verificato un calo di dieci punti dell’insicurezza percepita nei confronti di migranti e stranieri. Ad aiutare il cambiamento è stata una riduzione dei toni sensazionalistici che sono spesso utilizzati dai media per descrivere il fenomeno migratorio.

Sebbene ancora un italiano su tre consideri i migranti una minaccia alla sicurezza personale e sociale, gli altri invece hanno cominciato a provare meno preoccupazione di fronte agli arrivi delle persone dal mare, forse perché si sono annoiati o talvolta abituati all’eccessiva rappresentazione del fenomeno e hanno cominciato a considerare normale qualcosa che è stato spesso comunicato come anormale.

Inoltre una buona parte di chi arriva in barca sulla rotta del Mediterraneo centrale non vuole rimanere in Italia. Probabilmente in questo momento storico, i migranti e gli italiani condividono le stesse preoccupazioni sulla difficoltà di accedere a un lavoro ben pagato in questo paese.

Secondo i dati Istat del 2019, alla fine del 2018, gli stranieri regolari residenti in Italia erano l’8,7% del totale della popolazione, dato che si conferma più o meno uguale negli ultimi anni. A livello percentuale, c’è stata una riduzione del 3,2% delle iscrizioni all’anagrafe italiana da parte di persone residenti all’estero. Invece è aumentato dell’1,9% il numero degli italiani, in particolare giovani diplomati e laureati, che vivono e lavorano stabilmente all’estero. Negli ultimi 10 anni sono 816mila gli italiani che hanno deciso di partire. Quasi la quantità di persone di una città delle dimensioni di Torino. Il numero è ancora più alto se si considerano tutti gli italiani che di fatto vivono all’estero, ma non hanno trasferito la residenza. Intanto la natalità in Italia si riduce e nel 2018 il saldo tra i nati vivi e i morti è stato negativo di 193mila unità. Nel 2018 sono nati 439.747 bambini, il minimo storico dall’Unità d’Italia.

Se si guarda ai dati, al di là di ogni rappresentazione e percezione, in Italia si nasce di meno e sembra che la gioventù scappi più che arrivare.

A metà ottobre Louay è stato rimpatriato in Tunisia, dopo aver trascorso 9 giorni nell’hotspot di Lampedusa e 5 giorni in Sicilia, dove è stato stabilito che il ragazzo non corre un reale pericolo di vita nel suo paese d’origine. Negli stessi giorni, qualche studente di Lampedusa ha preso il volo verso l’università. In qualche altra regione italiana, una laureata o un diplomato ha fatto la valigia per Londra, o forse Ginevra o magari per la Cina. Sullo sfondo rimane un paese un po’ più anziano e un po’ meno accogliente per i giovani di qualsiasi nazionalità, che si concentra su improbabili invasioni per evitare di riflettere sull’immobilismo a cui sta consegnando il suo futuro.

Simona Carnino

I dati sconfessano le dichiarazioni  dei politici

Arrivi dimezzati,  morti aumentati

Louay è una delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 sulla rotta del Mediterraneo centrale secondo i dati dell’Unhcr/Acnur, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gli arrivi dell’ultimo anno sono i più bassi in assoluto dal 2012 e sono il 50,9% in meno dei 23.370 arrivi via mare del 2018. I numeri si sono molto ridotti negli ultimi 2 anni, se si considera che nel 2017 sono entrate in Italia attraverso il mare 119.369 persone.

Nonostante la riduzione degli arrivi, secondo le statistiche pubblicate il 3 gennaio 2020 sempre dall’Agenzia dell’Onu, nel 2019 sono morte o sono state dichiarate disperse 750 persone durante il viaggio. Nell’ultimo anno è aumentata la mortalità sulla rotta del Mediterraneo centrale con 65 persone morte o disperse su 1.000 rispetto alle 54,7 su 1.000 del 2018.

Negli anni, i governi italiani hanno ridotto o eliminato le iniziative di soccorso in mare, a partire dal 2014 con la chiusura dell’operazione di salvataggio Mare Nostrum, per finire con la criminalizzazione delle navi per il recupero dei naufraghi gestite da Ong nazionali e internazionali. Secondo gli articoli 1 e 2 del decreto legge 53, detto anche Decreto sicurezza bis del 15 giugno 2019, attualmente in processo di modifica, il ministro dell’Interno «può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale» per ragioni di ordine e sicurezza e la sanzione per chi viola il divieto è una multa fino a 50mila euro per il comandante e la confisca della barca. In pratica, il decreto mette sullo stesso piano i volontari e gli operatori delle organizzazioni umanitarie che salvano i naufraghi in mare e i cosiddetti trafficanti, che lucrano sul trasporto dei migranti.

La conseguenza di una condotta politica che elimina i soccorsi non è stata la riduzione degli arrivi, ma l’aumento dei decessi dei migranti in mare, che in genere viaggiano su imbarcazioni precarie ad alto rischio di avaria. Le partenze per l’Europa si sono ridotte non tanto perché siano cambiati i motivi che portano le persone a muoversi verso il Nord geopolitico, ma a causa degli accordi tra Italia e Libia firmati dal governo Gentiloni nel 2017, che autorizzano lo stato nordafricano ad aumentare i controlli per contrastare la migrazione cosiddetta clandestina. Come conseguenza di questo accordo di esternalizzazione della frontiera europea, la polizia libica persegue e reclude nelle proprie carceri i migranti provenienti dall’area subsahariana ben prima che possano prendere la via del mare e dirigersi in Europa.

Simona Carnino

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