testo di Angelo Fracchia |
Gli Atti degli Apostoli crescono: la comunità dei fratelli, o dei credenti, o dei discepoli, ha iniziato ad affacciarsi fuori dalla Giudea, ha avuto il primo martire, Stefano, un ellenista, ossia un ebreo di lingua greca (At 6-7), ma questo, lungi dallo spegnerne l’entusiasmo, ha significato l’inizio della predicazione ai samaritani (At 8,5-25), a un eunuco etiope (At 8,26-39), addirittura a un centurione romano (At 10). Nulla sembra fermare la progressione di una comunità che pare però per ora procedere quasi a caso.
Dal male, il bene
Sembra comunque che anche ciò che potrebbe essere di danno per la nuova comunità, si volga invece a suo vantaggio. La persecuzione contro i credenti (At 4-5) ha significato la possibilità di predicare Gesù anche davanti al sinedrio; un episodio di discriminazione tra i discepoli (il trascurare le vedove ellenistiche: At 6,1) ha regalato alla neonata comunità sette nuovi servitori che hanno inteso in modo molto generoso la loro chiamata; l’affacciarsi di un persecutore particolarmente accanito (Saulo, At 9) diventa l’occasione per uno dei pochi episodi degli Atti in cui Dio si mostra esplicitamente in tutta la sua forza.
Ma il cammino è soltanto all’inizio. Luca sembra quasi suggerirci che ciò che accade potrebbe anche essere interpretato in modi diversi, molto umani, anche se ci mostra in modo chiaro che in quegli snodi a muoversi e manifestarsi è lo Spirito di Dio.
Capita infatti che, in seguito all’uccisione di Stefano, sorga una persecuzione «contro la Chiesa di Gerusalemme» (At 8,1). In realtà, notiamo che gli apostoli non ne sono toccati, benché non facciano nulla per nascondersi, e che questa persecuzione si scatena subito dopo la morte di Stefano: viene da pensare che il suo bersaglio non fossero i cristiani in genere, ma proprio gli ellenisti, quegli ebrei convertiti di lingua greca che probabilmente erano guardati abbastanza male dagli antichi residenti di Gerusalemme. Sembra addirittura che chi li perseguita non abbia neppure di mira i fratelli, i credenti, ma la gente forestiera che si era trasferita a Gerusalemme portando con sé i propri (tanti) soldi, le mogli (giovani e presto vedove) e i (riottosi) figli di età minore. Costoro, quasi certamente poco legati a Gerusalemme, davanti alla persecuzione, hanno la scusa buona per ritornare in quegli ambienti di origine che erano multiculturali, variegati e ricchi di vita e in cui probabilmente preferivano vivere.
Ciò che si può dedurre sul clima ecclesiale, nonostante Luca tenti di non evidenziarlo troppo, non è simpatico. Come abbiamo già in parte ricordato, l’autore di Atti dice che «scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme» tanto che «tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). È un passaggio quanto meno strano: se voglio colpire un gruppo, la prima delle misure da prendere è punirne i capi che, tra l’altro, sono ben noti al sinedrio, che li ha già convocati due volte (At 4,1-21; 5,17-42). Perché questa volta li lascia stare?
Come dicevamo, viene il sospetto che la persecuzione non tocchi poi davvero tutti i credenti in Cristo ma solo quelli di lingua greca, i forestieri. E a questo punto si insinua anche una domanda triste e perfida: perché i dodici non sembrano muovere un dito per difendere i cristiani ellenisti o per condividerne la sorte?
Uno degli aspetti della chiesa delle origini, che Luca dissimula ma ci lascia intravedere, è che non si tratta di una chiesa perfetta. È una chiesa i cui responsabili in fondo condividono i pregiudizi del loro contesto religioso e culturale, o almeno non riescono a ribellarvisi. Verrebbe da dire che questa chiesa, lungi dall’essere ideale, assomiglia molto anche alla nostra. Oggi come allora l’adesione a Cristo non trasforma il nostro sguardo come dovrebbe. Ebbene, Luca fa notare che persino in questa situazione discutibile, lo Spirito è all’opera, e può scrivere dritto su righe storte. Anzi, è proprio ciò che fa.
Annuncio scandaloso
Da Gerusalemme, quindi, parte un certo numero di ebrei cristiani di lingua greca, che tornano verosimilmente nei luoghi da cui sono venuti. E una volta tornati là ovviamente raccontano a chi incontrano la grande novità che ha cambiato la loro vita. Luca, in verità, si premura di dire che gli espulsi annunciano Gesù solo ad altri ebrei (At 11,19). A noi può sembrare una preoccupazione eccessiva, ma per quel mondo certe divisioni erano barriere insuperabili. In Cristo «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28), scrive Paolo, e lo evidenzia in quanto si tratta di una novità inaudita, perché normalmente quelle divisioni erano nettissime. Una preghiera che forse già gli ebrei della fine del II secolo (ma probabilmente anche prima) recitavano al risveglio, diceva: «Benedetto tu, Signore, perché non mi hai fatto goi (cioè «non ebreo»), non mi hai fatto schiavo, non mi hai fatto donna». Gesù si era mostrato molto disinvolto nel valorizzare le donne e incontrarsi con loro, e dai vangeli non ci sono indizi per farci pensare che non abbia mai incontrato persone che chiaramente fossero schiave… ma non aveva quasi mai oltrepassato la barriera che lo divideva dai non ebrei. È uno dei grandi problemi, forse il più grande, che Luca negli Atti deve presentare e giustificare. E si sta impegnando ad arrivarci poco alla volta.
Ha già citato i primi casi (Filippo che battezza samaritani e poi un eunuco etiope) e ha colto Pietro in una situazione estrema (il battesimo di un centurione romano: At 10). Nel capitolo 11 sembra quasi che Luca voglia scaricare la responsabilità di un passaggio ulteriore su gente che era forestiera e, nella mentalità del tempo, forse un po’ più grezza. «Alcuni, gente di Cipro e di Cirene, cominciarono a parlare anche ai greci…» (At 11,20). Succede semplicemente che ad Antiochia semiti e greci vivano gli uni accanto agli altri. E che alcuni, non del posto, non sapendo bene chi sia ebreo e chi no, cominciano ingenuamente a parlare di Gesù ai loro vicini di casa, che ne sono affascinati. E il vangelo inizia a diffondersi ampiamente anche tra i non ebrei.
Si corre ai ripari
A Gerusalemme vengono a sapere che ad Antiochia sta succedendo qualcosa di strano e, come avevano già fatto per l’annuncio del vangelo tra i samaritani (Atti 8,14), mandano qualcuno a controllare (e chissà, forse, nel caso, a castigare). Per questo, incaricano quello stesso Barnaba che era già stato inviato in Samaria.
Dobbiamo fermarci un attimo per capire la preoccupazione del gruppo dirigente di Gerusalemme. Gesù, lo abbiamo già detto, non aveva lasciato intendere di dover ampliare l’annuncio anche ai non ebrei. In più, il momento più importante di celebrazione della fede cristiana è la «frazione del pane» (quella che oggi chiamiamo messa), che è proprio un banchetto.
Ebbene, il mondo ebraico si compattava soprattutto intorno alle norme religiose che toccavano il cibo. Mangiare era un atto religioso. E l’atto religioso privilegiato dai cristiani era un pasto. I doveri religiosi si concentravano, per il cibo, soprattutto su un’alimentazione kasher, «pura», che richiedeva, tra l’altro, il non mescolarsi con i non ebrei. Come tollerare, quindi, dei non ebrei alla «frazione del pane»? Inoltre, se anche si fosse potuto chiudere un occhio, magari ospitando i non ebrei a casa di ebrei (almeno il cibo sarebbe stato kasher, anche se in compagnia di persone non accettabili), come fare a spiegare loro che non avrebbero mai potuto ricambiare l’ospitalità? È probabile che sembrasse più semplice ribadire che si poteva essere cristiani solo se ebrei.
È con questo dilemma che Barnaba si presenta ad Antiochia. E, come era già accaduto in Samaria, Barnaba arriva, guarda, ascolta, discerne e attesta che vede i frutti dello Spirito e non può fare altro che applaudire a ciò che sta succedendo. Quanto è prezioso lo sguardo di chi sa vedere anche il nuovo con gli occhi di Dio!
Non solo. Immediatamente (Atti 11,25), Barnaba si ricorda che per quel contesto particolare, di mescolanza di due culture, lui conosce la guida giusta, un uomo che lui stesso aveva già introdotto a Gerusalemme, dove però non si era integrato bene, troppo avanti e grintoso per una chiesa forse più tranquilla e ancora legata al tempio… E di nuovo Barnaba si fa strumento dello Spirito su strade nuove: parte, va a Tarso, cerca Saulo, e lo porta ad Antiochia. Finalmente al posto suo, in una comunità mista che traccia strade nuove e, restando fedele al tracciato sicuro, ha bisogno di camminare con coraggio!
Sorvegliati dai servizi segreti
Il brano si chiude con un’affermazione che può sembrare una semplice curiosità, ma ha numerosissimi sottintesi: «Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti 11,26). Anche chi la consideri solo una curiosità, sa bene che alla fine quel nome si sarebbe imposto e quindi questo è un passaggio importante. Ma c’è di più. «-iano» è un suffisso latino, che di solito indica l’appartenente a un partito raccolto intorno a una persona-guida. Al tempo di Gesù si conoscono bene gli erodiani (cfr. Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), i pompeiani, i cesariani, e così via. Il greco non usa questo suffisso se non in prestiti dal latino. E gli Atti degli Apostoli sono scritti in greco, e il greco (insieme all’aramaico) è la lingua parlata per le strade ad Antiochia. Perché allora una parola latina per definirsi?
Perché probabilmente non furono i cristiani a trovare per sé questo nome (come d’altronde dice Luca: «Furono chiamati»). Proprio l’origine latina lascia invece intendere che si sia trattato dei romani. Questi, tra gli strumenti che utilizzavano per mantenere l’ordine pubblico, avevano anche un’importante rete di informatori, di infiltrati. Noi oggi li chiameremmo i servizi segreti. Sono questi informatori i primi ad accorgersi che sta crescendo un gruppo nuovo, originale, per il quale non si può più dire che siano semplicemente ebrei. Anzi, non lo sono perché hanno dentro anche tanti altri. E capiscono anche che a caratterizzare questo gruppo è Cristo (che lo scambino per un capo politico si può capire: gli informatori, e molto di più chi li usa, sono ossessionati dalla politica). Questo vuol dire anche che ormai «Cristo» non era più sentito come un attributo (la traduzione di «messia») ma quasi come un secondo nome proprio, come lo usa anche Paolo.
Potremmo aggiungere un’ultima considerazione. Siccome non c’è alcuna notizia di una persecuzione contro i cristiani ad Antiochia, gli informatori romani, i primi ad accorgersi in modo chiaro che i cristiani sono davvero una cosa nuova, dovevano aver deciso anche che questo nuovo gruppo non era pericoloso.
Intorno alla chiesa, fuori dal mondo ebraico, qualcuno ha cominciato a notare i cristiani. E l’esito della persecuzione contro una parte sola della comunità cristiana, che sembra quasi venire abbandonata dall’altra, è un’apertura nuova, una sfida nuova, un’opera nuova dello Spirito.
Con tutti i difetti della Chiesa d’allora o d’oggi, dobbiamo confidare che non c’è limite o cattiveria che riesca a legare lo Spirito, pronto ad agire comunque, e ad agire per il bene.
Angelo Fracchia
(12 – continua)