testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |
A Roraima sono stati allestiti 13 rifugi (abrigos) per i migranti venezuelani. Rientrano tutti nell’ambito della cosiddetta «Operação Acolhida», varata nel marzo 2018 e coordinata dall’esercito brasiliano. A Boa Vista abbiamo visitato l’abrigo di Pintolandia che ospita soltanto indigeni.
Boa Vista. Sul marciapiede opposto, proprio ai margini di un grande piazzale disadorno, sono accampati gruppi di persone con sacchi riempiti dei loro pochi averi, per lo più vestiti e qualche padella. Ci sono bambini e spesso anche neonati. Sono in attesa di poter entrare nel rifugio dall’altra parte della strada. Sono tutti indigeni perché Pintolandia – il nome viene dal quartiere – è un abrigo aperto soltanto a richiedenti di etnia indigena.
L’accesso è presidiato. Ci sono le transenne e ci sono i controlli. Per entrare o uscire, gli ospiti sono tenuti a mostrare un tesserino con foto e dati anagrafici. A tutti gli altri l’ingresso è interdetto a meno di non passare per una lunga e complicata richiesta formale. E la risposta positiva non è affatto scontata. Noi siamo stati fortunati avendo ottenuto un permesso di visita per vie meno formali e più veloci.
Mostrato un documento ai militari di guardia e firmato un registro, possiamo dunque passare e attendere l’arrivo della nostra guida. Meire lavora per la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), un’organizzazione umanitaria brasiliana legata alla chiesa indipendente Rede Luz, fondata da José Trigueirinho Netto nello stato di Minas Gerais. La Ffhi, assieme all’esercito e all’Acnur delle Nazioni Unite, è impegnata nell’Operação Acolhida (Operazione accoglienza), varata nel marzo 2018 dal governo brasiliano per assistere i migranti venezuelani. Ma è il ministero della Difesa che ha la responsabilità della logistica e il comando delle operazioni [vedi sotto: L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)]
Un mare di amache
La prima cosa che vediamo – impossibile non notarla – è uno striscione che penzola dalla tettoia che protegge l’entrata: vi sono elencate le regole dell’abrigo. Severe e dettagliate, come per esempio: nessuna entrata tra le 22,00 e le 5,30; nessun visitatore esterno; niente fumo e alcol all’interno del rifugio.
Già dall’entrata è possibile avere un’idea della struttura del campo: al centro c’è un grande capannone (sormontato da uno striscione con la scritta «Operação Acolhida Abrigo Pintolandia»), mentre ai suoi lati sono state montate tende e tendoni. All’interno del capannone – alto, buio e triste – sono state costruite delle banali strutture in ferro – sia verticali che orizzontali – che hanno uno scopo solo ma fondamentale: consentire agli indigeni di appendere le loro amache. Che sono tante. Un mare. Attorno a esse, indumenti, scarpe, borse. E, come sempre, tanti bambini che giocano nonostante tutto.
La parola ai cacique
A Pintolandia, ci sono nove cacique («aidamo», in lingua warao), ognuno dei quali coordina un gruppo di circa 70-80 indigeni. In sostanza, i cacique fanno da tramite tra gli ospiti e le organizzazioni.
Euligio Baez, 34 anni, una moglie e sei figli, è uno di essi. «Stare bene – racconta – vuol dire avere un posto dove vivere con la famiglia. E un abrigo con 700 persone non è un buon posto. Fa molto caldo sia di giorno che di notte e poi devi avere una tessera per entrare e uscire. Quando vengono a visitarci i nostri familiari, devono stare fuori. Avremmo bisogno di uno spazio per noi, per continuare la nostra vita, come indigeni e come warao. Abbiamo bisogno di terra. Perché dalla terra viene tutto. Tra Brasile e Venezuela un tempo non c’erano frontiere.
I nostri nonni raccontavano che gli indigeni potevano andare dove volevano e viverci, come fossero nella loro terra. Adesso arrivi e non ti fanno passare. Chiedi della terra e ti dicono che non puoi averla».
Anche Adrian Valbuena, 29 anni, è cacique. È arrivato qui da Tucupita (Venezuela) quasi due anni fa. «Non mi piace molto, ma va bene. Avremmo bisogno di una casa e di un lavoro, di andare in canoa, di pescare e seminare, di fare quello che facciamo nelle nostre comunità. I nostri figli stanno imparando un’altra cultura, non stanno seguendo la nostra. Io ho una figlia, che è nata qui, è brasiliana. A lei vorrei insegnare come noi viviamo nella nostra terra».
Tutti i cacique incontrati parlano del cibo, quasi sempre per esprimere lamentele. Come Nazario Olarda, 49 anni: «Una marmita di solito contiene riso e carne o salsiccia. Ma questo non è il nostro cibo. Il nostro è il pesce, la yuca, l’ocumo, il platano. Qui riso riso e ancora riso. Non arriva pollo, ma soltanto maiale».
Il cacique Andres Nuñes, 21 anni, è a Pintolandia con la moglie da un anno. Sua figlia è nata qui. In Venezuela sono rimaste la mamma, una sorella, una cugina. «Ma altre tre sorelle – spiega – sono già a Manaus. Vogliamo andare avanti per migliorare, perché qui non stiamo facendo niente. Vorremmo poter mandare qualcosa alla famiglia in Venezuela. Per tutto questo penso di andare a Manaus per cercare lavoro».
Sotto le tende
Fuori del grande capannone sono state montate delle tende e alcuni tendoni. Qui gli ospiti sono più esposti alle bizze del tempo, ma hanno più luce e più ricambio d’aria. Incontriamo alcune donne warao che, ai lati di una tenda, stanno producendo oggetti artigianali (contenitori, vassoi, braccialetti, eccetera) usando le fibre della palma. L’artigianato è una delle poche attività lavorative che i migranti warao riescono a svolgere in Brasile. Per questo e per molti ltri fattori (tra cui anche la probabile futura conclusione dell’Operação Acolhida) il loro futuro appare molto incerto.
Improvvisamente, tra le amache poste sotto un tendone, notiamo una ragazza – giovanissima e molto bella -, che abbiamo già incontrato nel campo di Ka Ubanoko (MC gen.-feb. 20), dove si era recata per far visita a un’amica. Maglennis – questo il suo nome – è ancora minorenne (è nata a fine 2002), ma è già mamma di una bambina di due, Angelina.
In quell’occasione, oltre a mostrarci il tesserino indispensabile per entrare a Pintolandia, ci aveva raccontato che la sua piccola aveva necessità di una delicata operazione chirurgica, motivo principale che l’aveva spinta a scappare da un Venezuela da tempo senza medicine.
Questa volta ci racconta che l’operazione è stata eseguita con successo all’ospedale di Boa Vista. Inoltre, dal campo d’accoglienza di Pacaraima sono arrivati anche i nonni Ramon e Yolanda e, dunque, lei e la bambina non sono più sole. Oggi Maglennis è felice, ma rimane (comprensibilmente) incerta quando si tratta di disegnare il proprio futuro.
Più decisa appare Katerine Marin, 24 anni. Forse per questo suo atteggiamento è stata eletta cacique, unica donna tra otto uomini. «Prima di me i cacique erano solo uomini. Mi sono detta: perché non può farlo una donna? Siamo capaci, forti. Pur non avendo un’esperienza specifica, le persone mi hanno eletto. Organizzare la comunità, all’inizio è stato difficile. La gente però mi ha appoggiato e continua ad aiutarmi. Tutti insieme possiamo cambiare per il benessere collettivo. Il mio lavoro è dare voce alle molte preoccupazioni delle persone; io raccolgo le informazioni e le porto al coordinamento, che è in mano alla Fraternità, per cercare una soluzione ai problemi».
Katerine è qui con due fratellini di undici e dodici anni. Racconta: «Nostra mamma è morta l’anno scorso. Il papà è in Venezuela, ma si è trovato un’altra donna. Sono rimasta responsabile dei due fratellini. Sto cercando loro un posto per andare alla scuola statale: io voglio che studino. È qualcosa di importante per dar loro la possibilità di una vita degna. L’istruzione è una cosa fondamentale. Abbiamo cercato qui, ma dicono che non c’è posto. Così sono pochi i warao che riescono ad andare a scuola».
Donna, cacique, sorella, mamma. Chiediamo a Katerine cosa sogna per sé: «Vorrei lavorare, perché voglio andare avanti. Non voglio sempre dipendere da qualcuno. Essere indipendente, avere qualcosa di stabile, qualcosa di degno, una casa, ad esempio. Poi, se la situazione migliorerà, vorrei tornare in Venezuela».
Tra cibo e libertà
Luis Ventura, responsabile del Consiglio indigenista missionario (Cimi), del coordinamento regione Nord I, ci spiega le difficoltà: «A partire dal 2017 la misura principale dello stato per i migranti è stata quella dell’abrigo. Sistema caratterizzato da una grande rigidità, a livello amministrativo. Ciò impedisce il movimento dei Warao e il libero accesso degli stessi a relazioni con entità come il Cimi e altre della società civile. Il fatto che l’accesso agli abrigo sia molto controllato, è una difficoltà che ci ha impedito di avere una relazione fluida con loro. Per noi sarebbe importante capire se le loro modalità di organizzazione sono rispettate, i loro desideri e necessità ascoltate.
Nel 2018, i Warao vennero al Cimi per denunciare una serie di situazioni che si verificavano nell’abrigo, e tentammo di avere una relazione con le entità che in quel momento stavano dirigendo Pintolandia, ma non fu possibile. Iniziammo a intervenire come facciamo quando i diritti fondamentali non sono rispettati, pure da parte dello stato, ovvero appellandoci ai meccanismi democratici di garanzia che il sistema brasiliano mette a disposizione».
Gli operatori del Cimi hanno difficoltà a incontrare gli ospiti di Pintolandia e devono farlo all’esterno dell’abrigo, quasi di nascosto. «Molti di essi – ricorda Luis Ventura – sentono che questa rigidità sta bloccando la loro possibilità e capacità di sognare e di prendere decisioni. Mi hanno detto che non possono continuare a vivere semplicemente per avere garantito un piatto di cibo».
E continua: «Purtroppo la gente deve scegliere tra la garanzia di avere da mangiare, che esiste solo negli abrigo, e la garanzia di avere autonomia e libertà per prendere le proprie decisioni. Questa è la grande contraddizione: l’alimentazione è dentro a Pintolandia, mentre in Ka Ubanoko c’è l’autonomia ma non c’è alcuna garanzia di riuscire a sfamarsi».
«Noi diciamo – conclude Ventura – che, se la politica migratoria porta a questo, ha fallito completamente, perché impone una scelta capestro, soprattutto alle famiglie con bambini».
Yakera?
Camminando tra i profughi ospitati a Pintolandia, arriviamo a un gruppo di tende dove si stanno facendo le pulizie. Sono stati portati all’aperto i materassi e stesi i panni. «È piovuto dentro», ci spiega un indigeno.
Nei pressi di una di esse salutiamo con un «Yakera!», pensando di essere gentili e fare cosa gradita. Macché. «Siamo E’ñepá», ci fa presente una ragazzina. L’errore comune di noi bianchi è di non fare distinzioni: per noi gli indigeni sono tutti eguali. Nulla di più sbagliato, invece. Gli E’ñepá (conosciuti anche con il nome di Panare) non sono Warao: altra lingua, altra zona di provenienza, altri costumi. Anche i prodotti del loro artigianato sono diversi. In Venezuela, sono circa 5mila, localizzati soprattutto nella parte occidentale dello stato di Bolívar. In effetti, a ben guardare, i loro tratti somatici sono diversi da quelli dei Warao.
Avviandoci verso l’uscita passiamo accanto a tavoli sui quali alcuni indigeni – vecchi e giovani – stanno giocando a dama o a domino e poi a un banco dove alcune signore e’ñepá gestiscono un piccolo banco di artigianato, anche se dentro l’abrigo gli acquirenti sono quasi assenti. Nello spiazzo antistante, dei bambini – a Pintolandia ce ne sono tanti – si divertono giocando a pallone.
Usciamo dall’abrigo quando è ormai sera e il buio è rischiarato dai lampioni della piazza. Proprio di fronte all’ingresso, dall’altra parte della strada, notiamo uno strano gruppetto. Ci sono due donne, di cui una giovane, e ben sette bambini. Il più piccolo ha pochi mesi. Sono seduti o stesi su alcune panche di cemento, insieme a diversi sacchetti e sacche con il simbolo dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). «Siamo arrivati qualche giorno fa dal Venezuela e siamo stati a centro di transito della rodoviaria (stazione dei bus, ndr)- ci racconta la signora più anziana -. Poi ci hanno detto che a Pintolandia c’erano dei posti e siamo venute. Ma siamo in attesa da alcune ore e non credo che ci prenderanno. Dobbiamo cercare di tornare alla rodoviaria per passare la notte (almeno là sono previste tende, c’è la possibilità di farsi la doccia e di avere del cibo, ndr), però ci servono dei soldi per pagare due taxi perché è piuttosto lontano. Riproveremo nei prossimi giorni».
Una piccola storia di rifiuto che ci fa riflettere su questo «umanitario» senza umanità.
Marco Bello e Paolo Moiola
(2a puntata – continua)
Operazione «marmitas»
Per un pugno di riso
Nei rifugi ufficiali (abrigos) gli ospiti hanno i pasti assicurati. Spesso ne avanzano. Recuperarli e distribuirli è compito dell’«operação marmitas».
Boa Vista. La telefonata arriva durante la cena. Padre Oscar Liofo risponde al suo cellulare sottovoce e in pochi secondi. Alla fine annuncia: «Questa notte, operação marmitas». Detta così, l’affermazione suona come uno scherzo. Invece, si tratta di una cosa seria e soprattutto utile. In portoghese, il termine «marmita» indica un contenitore per cibo d’asporto. Succede che nei rifugi (abrigos) ufficiali, quelli gestiti dall’esercito brasiliano nell’ambito dell’Operazione accoglienza (Operação acolhida), quasi ogni sera venga avanzato un certo numero di pasti. Due (su 11 totali a Boa Vista) di questi rifugi – Nova Canaã e Jardim Floresta – sono in contatto con padre Oscar. Quando c’è cibo in sovrappiù, l’ufficiale di turno chiama il missionario perché passi a ritirare i pasti avanzati per distribuirli a chi ne abbia bisogno, in particolare agli ospiti di Ka Ubanoko, il rifugio autogestito.
Saliamo in auto. «Mi raccomando – avverte il missionario – voi siete dei volontari che mi state aiutando. Quindi, niente foto, niente domande da giornalisti nell’abrigo. Soltanto il vostro aiuto manuale».
Tra le stellette dell’esercito
Il campo di Nova Canaã è ben recintato. C’è soltanto un ingresso. Oltrepassato il quale ci si trova al cospetto di giovani soldati seduti davanti agli schermi di un paio di computer. Non si passa senza identificazione. Per noi è un’utile occasione per guardarsi attorno. Non ci sono tende ma, su un lato, oltre trenta casette prefabbricate e, in fondo, un tendone che protegge i tavoli e le sedie della mensa, oltre a un grande televisore acceso. In mezzo, uno spiazzo non pavimentato dove stanno giocando una decina di bambini.
Nel frattempo, all’ingresso è arrivato l’ufficiale responsabile. Saluta con cordialità il missionario della Consolata e gli chiede chi siano i suoi aiutanti di oggi. Tutto a posto: possiamo passare. Seguiamo l’ufficiale in un container adibito a dispensa al cui interno si gela. Ad attenderci una settantina di contenitori in polistirolo: le fatidiche marmitas. Mettiamo tutto negli scatoloni che abbiamo portato con noi. Ringraziamo e ci avviamo verso l’uscita con la cena per 70 persone. Fuori dell’abrigo ci sono alcuni migranti che vorrebbero avere una marmita. Non sono insistenti, ma la situazione è spiacevole, soprattutto perché non possiamo accontentarli. Ci è infatti fatto divieto assoluto di consegnare cibo nei pressi del centro.
In fila e in silenzio
Terminate le operazioni di carico sul pick up di padre Oscar, ci dirigiamo verso Ka Ubanoko, dove l’organizzazione interna è già stata allertata. Quando arriviamo, troviamo un’illuminazione molto scarsa. La sola cosa che si distingue è lo sgangherato cancello d’entrata. Ad attenderci ci sono due cacique ai cui gruppi oggi sono destinate le marmitas. Scarichiamo tutto in pochi secondi. Un cacique effettua la distribuzione sul posto: i beneficiari si mettono in fila per ricevere il loro pasto. L’altro cacique porta via le sue marmitas. Lo seguiamo verso l’interno del campo, dove – nonostante non siano ancora le 22,30 – regna una grande tranquillità. Dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi perché ci sono pochissime luci. Il cacique si ferma nei pressi dello spazio dove alloggia con la propria famiglia – una stanza in nudo cemento e senza gli infissi -, e inizia la distribuzione.
L’operazione si svolge con ordine e praticamente in silenzio. Chi parla, lo fa sottovoce. Qualche bambino apre subito la marmita ricevuta dalle mani del cacique. Oggi contiene riso, un pezzo di carne e alcune verdure cotte.
A Ka Ubanoko non si soffre la fame. Le persone ospitate – oltre 600 – in un modo o nell’altro riescono ad avere cibo sufficiente. Quello che manca, e probabilmente mancherà a lungo, è il lavoro o almeno una prospettiva di futuro che non sia la permanenza in un campo profughi, non importa se spontaneo o ufficiale.
M.B. – P.M.
Operação Acolhida: qualche riflessione
L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)
La migrazione massiccia dal Venezuela al Brasile inizia nel 2016. La popolazione è confusa, e inizialmente vede i migranti come un nemico. Nel secondo semestre del 2017 arrivano a Boa Vista anche molti Warao. Si accampano negli spazi pubblici, nelle piazze, nei pressi della rodoviaria (la stazione dei bus) divenendo perciò molto visibili. Le abitudini dei Warao sono diverse da quelle degli indigeni di Roraima.
Sempre nel 2017 la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), giunta da poco nello stato, negozia con il governo locale per diventare attore privilegiato nell’assistenza ai migranti. All’inizio non ci sono finanziamenti federali e, sull’emergenza, intervengono sia Fraternidade che i Vigili del Fuoco.
La Fraternidade è una Ong legata alla Comunidade Luz Figueira, una organizzazione religiosa fondata da José Trigueirinho Netto, a Carmo da Cachoeira nel Sud di Minas Gerais. Trigueirinho, definito dai suoi scrittore, filosofo e spiritualista, con all’attivo la pubblicazione di 82 libri e oltre 3.000 prediche, è morto nel settembre 2018 all’età di 87 anni. Ha fondato anche l’Ordem Graça Misericordia, un vero ordine religioso «privato».
La Ffhi firma un primo accordo con l’Acnur nell’agosto del 2017 per la collaborazione nell’assistenza umanitaria ai migranti venezuelani. Nel marzo 2018 è varata l’Operação Acolhida, il cui controllo è in mano al ministero della Difesa.
Quasi contemporaneamente viene creato l’abrigo «ufficiale» di Pintolandia. Qui, nell’omonimo quartiere, fin da fine 2016 si erano radunati dei profughi assistiti da Ffhi e poi Acnur.
Con l’Operação Acolhida scatta la militarizzazione della crisi umanitaria, con la quale il governo del presidente Michel Temer (2016-2018) passa direttamente il potere della gestione all’esercito in luogo della governatrice Suely Campus.
Con le elezioni dell’ottobre 2017 diventa governatore Antonio Denarium, candidato di Jair Bolsonaro, e i militari entrano anche nel governo statale.
È ormai palese il «modello Haiti», ovvero i militari gestiscono le operazioni umanitarie. L’esercito brasiliano lo ha imparato proprio nel paese caraibico, dove era al comando della Minsutah, la missione dei caschi blu dell’Onu, conclusasi nell’ottobre 2018.
Aumentare il numero di effettivi militari a Roraima, stato di confine con il Venezuela, ha fatto pensare a una possibile invasione di quel paese, che sarebbe partita da Colombia (frontiera Est) e Brasile, paesi con governi antagonisti a quello di Nicolas Maduro. Quest’ultimo, nel timore di questa evenienza, avrebbe rinforzato la frontiera con il Brasile.
Ma il nuovo presidente Jair Bolsonaro, già capitano dell’esercito, succeduto a Temer il primo gennaio 2019, avrebbe preferito attendere un momento più propizio. D’accordo con il presidente colombiano Iván Duque e soprattutto con Donald Trump, il quale nel suo discorso sullo «stato dell’Unione», lo scorso 4 febbraio, ha ribadito che «la tirannia di Maduro sarà spezzata».
Marco Bello – Paolo Moiola
L’antropologa
Migranti, ma sempre indigeni
A colloquio con Elaine Moreira, professoressa all’Università di Brasilia e studiosa di popoli indigeni e di Warao.
Boa Vista. Elaine Moreira, antropologa e docente ordinaria all’Università di Brasilia (*), ha lavorato a lungo a Roraima, in particolare sui popoli indigeni presenti nelle zone transfrontaliere. La incontriamo a Ka Ubanoko, mentre sta conducendo un’indagine in collaborazione con la Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sulle condizioni di vita dei Warao.
«I primi di loro sono arrivati a Roraima nel 2014. Si incontravano per strada e ne parlavano i giornali, ma non si sapeva chi fossero. Talvolta, erano confusi con popoli autoctoni. C’erano in particolare mamme con bimbi che mendicavano agli incroci. Questo primo gruppo fu espulso dalla polizia federale, perché non in possesso di documenti».
Negli anni successivi gli arrivi si ripetono. «Le autorità – racconta Moreira – provarono a espellerli tutti, ma società civile, università, defensoria pubblica (organo statale che fornisce assistenza giuridica gratuita, ndr), intervenendo con una ingiunzione in tribunale riuscirono a impedirlo».
Finalmente, nel gennaio 2017, il Ministerio publico federal fa realizzare uno studio da due antropologhe per capire qualcosa di più di questo popolo. «Da quel momento in poi lo stato non ha più potuto dire di non sapere chi sono i Warao. Purtroppo però non si è riusciti a coinvolgere la Funai (Fundaçao nacional do indio), l’ente federale, che si occupa di popoli indigeni. Neppure oggi la Funai si interessa dei Warao, presenti ormai da cinque anni in diversi stati del Brasile».
Dalle città venezuelane a quelle brasiliane
«In Venezuela i Warao vivono in un’area molto delicata dal punto di vista ecologico. Il delta dell’Orinoco, con i suoi 3mila canali. In certe zone c’è stato un impatto molto grande a causa di una diga che ha isolato una parte e reso salino il suolo (diga sul canale Manamo, 1965), facendo perdere loro molte risorse. È poi entrata l’industria del legno e quella del petrolio. Si sono sviluppate alcune città, come Tucupita e Antonio Diaz. Tutti fattori esogeni che li hanno indeboliti». Da non trascurare l’epidemia di colera che si è diffusa in Sudamerica a inizio anni ‘90: nel delta ha colpito duro, uccidendo oltre 500 indigeni. Nei loro racconti ancora oggi riaffiora la paura della malattia.
«In seguito – spiega ancora l’antropologa – ci fu un periodo in cui parte della famiglia andava nelle città del Venezuela a mendicare e vendere artigianato per strada, mentre l’altra parte stava nelle comunità di origine a occuparsi delle terre. Si trattava di un flusso di andata e ritorno. Le forze dell’ordine spesso li riportavano nelle loro zone di origine. Questo ha funzionato per anni, fino all’arrivo della crisi economica». La crisi generalizzata ha acuito la questione della mancanza di cibo e la scarsità di medicine. Così il Warao ha cercato altri sbocchi, in particolare in Brasile.
«Hanno già un’esperienza su come “occupare” la strada. Di solito, sono gruppi con diverse donne, ma anche alcuni uomini per proteggere e negoziare i luoghi. La vera novità è che diventano migranti: passano la frontiera e hanno bisogno di documenti. Quelli che partono mantengono una relazione molto stretta con chi resta. Inoltre, molti viaggiano e poi tornano e c’è un cambio con chi riparte. Portano in Venezuela vestiti, medicine, cibo, e ripartono con artigianato da vendere. Così continua il flusso bidirezionale. Lo stesso sistema usato nel loro paese».
I Warao e gli altri popoli indigeni
Una questione importante è la relazione dei Warao con gli indigeni brasiliani, in particolare a Roraima, dove costituiscono la maggior parte della popolazione. «Sono passati cinque anni e non è cambiato molto nella relazione con gli altri popoli indigeni. Inizialmente Macuxi, Wapixana e gli altri non conoscevano i Warao. Diversamente da quanto accade per i Pemon, che hanno “parenti” a Roraima, perché sono della zona frontaliera. Quella con i Warao è una relazione in costruzione».
La professoressa parla della situazione dei Warao a Roraima. «Il problema sono gli abrigos. Sono affollati, c’è molta precarietà, si tenta di non fare uscire le donne con bambini, perché non si vuole che vadano in strada». In Brasile è vietato mendicare con un minore, e si rischia che venga tolta la tutela. Per i Warao, però, si tratta di una pratica normale, anche perché le mamme non lasciano mai i propri figli. Inoltre per una Warao, chiedere soldi a un incrocio è un po’ come raccogliere la frutta da un albero (cfr. Cecilia Lafée-Werner Wilbert, La mujer Warao, 2008). «Tenendo le donne all’interno dell’abrigo, si limita molto il loro modo di vivere. Se si decide di accogliere gli indigeni si assume una responsabilità rispetto ai loro diritti, che sono quelli dei migranti, ma anche degli indigeni, portatori di proprie specificità».
Dal 2018, con la Operação Acolhida, la responsabilità degli abrigos in Roraima è passata all’esercito brasiliano. «L’esercito ha creato diversi abrigos e rafforzato la gestione della frontiera. È aumentata l’efficienza. Anche l’Acnur ha migliorato il sistema di accoglienza. Ma i Warao hanno esperienza non sempre pacifica con l’esercito in Venezuela, per cui la presenza dei militari li intimorisce. L’abrigo offre la garanzia dell’alimentazione, però si limita a questo».
E questa crisi umanitaria quanto durerà? «La mia impressione è che continuerà per molti anni. Dobbiamo essere preparati».
Marco Bello – Paolo Moiola
(*) Elaine Moreira, Os Warao no Brasil em cenas: “o estrangeiro…”, in «Périplos: Revista de Estudos sobre Migrações», vol 2 – n. 2.
Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.