Adozioni: Tutte le tessere del puzzle
testo di Paola Strocchio |
Per un figlio adottivo, arriva il momento nel quale le domande sulle proprie origini si fanno pressanti. È un’esperienza necessaria per la crescita individuale. Ma non è senza rischi.
Per chi, come la maggior parte delle persone, è abituato a conoscere i dettagli del proprio passato, forse sarà sorprendente scoprire che non per tutti è così. Per chi è stato adottato, le incertezze sono tante. Ed ecco che quello che psicologi e assistenti sociali chiamano il «ritorno alle origini» equivale al tentativo di chiudere un cerchio. Quasi si volesse completare un puzzle in cui mancano tasselli importanti, a partire dalla nascita: dove e quando?
Se abitualmente le persone danno per scontati la loro precisa data di nascita e il luogo, ce ne sono tante che invece non li sanno. Sono incertezze importanti, che vanno ben al di là del conoscere il proprio segno zodiacale o l’ascendente. Significa non sapere da dove si arriva, da chi si è nati. Spesso, quindi, in maniera assolutamente sana, nasce nei figli adottivi il bisogno o semplicemente il desiderio di conoscere le proprie origini. Di assaggiare le ricette tipiche del paese in cui si è nati, di annusare gli odori di una terra cui in qualche modo si è appartenuti, o magari di scoprire le proprie origini biologiche. È un’esperienza che non tutti necessariamente scelgono di vivere, ma che quando se ne sente il bisogno è come un fiume in piena, di emozioni e di paure.
Come ogni esperienza importante, va pianificata e preparata, tenendo conto di quello che potrà accadere.
Per il figlio adottivo si tratta indubbiamente di un’opportunità importante per il suo processo di crescita, di un viaggio che serve a riappropriarsi di una parte di sé per integrarla con quella sviluppata invece in Italia, ma è fondamentale individuare il momento giusto. Ci sono indicatori oggettivi cui prestare particolare attenzione per capire se può essere davvero il momento opportuno. L’età anagrafica, per esempio. È imprescindibile che il figlio adottivo possa comprendere davvero cosa sta succedendo, così come è fondamentale individuare quale tipo di attaccamento il ragazzo abbia sviluppato con i suoi genitori adottivi e quali sono le domande che si pone su quello che è stato e rimane un evento traumatico della sua vita: l’abbandono.
Cercare le radici
Ha provato a spiegarlo Cosmin, 24 anni, che da quando di anni ne ha cinque e mezzo è figlio di Francesca e Gianpaolo grazie all’adozione internazionale, quell’istituto che ha permesso a Cosmin di vedere rispettato il diritto più importante di un bambino: avere una famiglia.
Ci racconta Cosmin: «Qualche anno fa ho capito che era arrivato il momento di ritrovare le mie radici, di sentire il profumo della mia terra di origine, di ritrovare piccoli ricordi e provare a ricostruire il puzzle della mia vita. Da qualche tempo mi confrontavo con un punto interrogativo importante: da dove arrivo? In alcune occasioni i punti interrogativi, che allora erano senza risposta, mi portavano negatività e rabbia, perché mi sentivo lontano dall’obiettivo finale. La frustrazione era davvero tanta».
Cosmin ha trovato nei suoi genitori adottivi due alleati preziosi, anche se comprensibilmente disorientati, soprattutto nei primi momenti. «Credo abbiano avuto paura di perdermi, come se questo mio viaggio stesse a significare che volevo tornare dalla mia famiglia di origine – spiega -. Non era così, naturalmente. Siamo una famiglia, e lo siamo da quando mia mamma e mio papà sono venuti in Romania ad adottarmi. Sono riuscito a spiegare loro che ritrovare le mie origini non voleva dire scappare da loro, ma semplicemente dare a me stesso, la possibilità e la libertà di scoprirmi e di scoprire anche la cultura che in qualche modo mi appartiene. Loro mi hanno dato un presente e un futuro: mi hanno dato la possibilità di crescere e di diventare quello che sono». Ma l’adozione non è e non deve essere gratitudine. Adottare un figlio significa accoglierlo e sostenerlo anche nei momenti più delicati, anche quando palesa il desiderio di scoprire da dove arriva.
Mamma Francesca e papà Gianpaolo lo sapevano bene, e proprio per questo non hanno mai fatto mancare il loro sostegno.
Una presenza discreta
Ci racconta la madre adottiva di Cosmin: «Immaginavo che prima o poi sarebbero arrivate le tanto sospirate domande con cui ogni genitore adottivo deve confrontarsi. Non ho avuto paura, perché non ho mai avuto dubbi sull’intensità del legame che c’è sempre stato tra noi genitori e nostro figlio, ma ammetto di essermi sentita un po’ disorientata. Nonostante questo, ho sostenuto Cosmin come era giusto che fosse. Mi sarebbe piaciuto accompagnarlo nel suo viaggio di ritorno alle origini, ma sapevo che la cosa giusta da fare era stargli accanto rispettando le sue scelte e non imponendo la nostra presenza. Ormai è grande…».
E così, con la loro presenza discreta ma continua, Francesca e Gianpaolo hanno accompagnato il loro ragazzo all’aeroporto, destinazione Londra, dove vive la sua famiglia biologica.
Ci racconta Cosmin: «Dopo tanti anni ci siamo incontrati. Ricordo il primo abbraccio con la mia madre biologica, che aveva lasciato la Romania per trasferirsi a Londra assieme ad altri componenti della famiglia. Le ho fatto un sacco di domande, ma tante sono ancora senza una risposta, anche oggi. Adesso però, nonostante tutti quei punti interrogativi, posso dire di avere aggiunto un piccolo pezzo al puzzle della mia vita. È stato un incontro difficile da descrivere, da raccontare e anche da condividere, ma è stato anche un grande momento di crescita. Nei mesi precedenti, durante tutta la fase di ricerca, mi facevo tante domande e sapevo che le risposte avrebbero potuto anche farmi del male, ma ne è valsa la pena e in qualche modo sono cresciuto».
Quando partire
Chiudere il cerchio, capire cosa ci fosse dietro l’abbandono, ha aiutato oggettivamente Cosmin a fare pace con il proprio passato, con ricadute positive anche sul presente e sul futuro. Continua a raccontarci: «Da quando ho ritrovato le mie origini mi sento meno teso e decisamente più sollevato. Sono convinto che nella mia vita si sia in qualche modo formata una rete familiare più sicura, in cui i rapporti sono più intensi e più veri. Ho capito finalmente cosa significa davvero essere adottato».
La stessa consapevolezza che oggi accompagna la vita di Francesca, che ha ritrovato un figlio più maturo e più sereno: «Ricordo perfettamente il momento della sua partenza. Mi ha salutato e mi ha detto che sarebbe tornato il giorno prima del mio compleanno, il 9 febbraio. Quelle sue parole hanno avuto un significato particolare per me: era come se mi volesse dire che sarebbe tornato da noi, che non se ne stava andando via per sempre. Voleva rassicurarmi, e lo ha fatto a modo suo. È stato un momento molto commovente e riabbracciarlo quando è tornato è stato un istante unico e impossibile da descrivere. È stato lì che ho capito che aveva davvero bisogno di chiudere quel suo cerchio, di capire qualcosa in più sulla sua vita. Spesso nell’adozione internazionale si hanno poche informazioni sul passato dei propri figli, e anche per noi era così. Credo che Cosmin abbia individuato il momento giusto per partire alla ricerca delle sue origini.
Il “quando” è un elemento fondamentale nel percorso, perché devi essere pronto, devi avere tutti gli strumenti necessari per affrontare un percorso di crescita importante, che in qualche occasione può fare anche male». Ma che indiscutibilmente aiuta a crescere, nella propria individualità ma anche nell’essere famiglia.
«Come dico ai genitori e ai ragazzi che a volte si rivolgono a me in cerca di un consiglio – continua Cosmin – è importante compiere questo percorso di ritorno alle origini insieme con le persone di cui ci si fida. Non mi riferisco a una compagnia fisica, perché, nel mio caso, per esempio, ho affrontato il viaggio da solo, senza la mia famiglia adottiva. Mi riferisco a un certo tipo di sostegno che non deve mai mancare, perché provare scoprire dove si è nati e da dove si arriva, è un viaggio difficile e doloroso. Mi sono arrabbiato tante volte, lo ricordo come se fosse ieri. Ma i figli devono sentirsi liberi di prendere le loro decisioni: per esempio, io ho preferito affrontare il viaggio da solo perché mi sarei sentito un po’ confuso a partire con mia mamma e mio papà.
Parlatene con i vostri amici, e preparatevi psicologicamente a un’esperienza che vi cambierà la vita, indipendentemente dal fatto che possiate tornare a casa con qualche informazione in più sul vostro passato oppure no. Preparatevi, perché vi assicuro che non sarete le stesse persone che sono partite. Ai genitori, invece, dico che noi figli sappiamo bene che a volte avete paura di perderci, ma non ci state perdendo. Ci state soltanto accompagnando, anche se magari a distanza, in quello che è il nostro percorso di crescita».
Paura, curiosità e consapevolezza
Essere genitore, del resto, è uno dei mestieri più difficili del mondo. Ma proprio come in ogni «professione» non si finisce mai di crescere e di imparare. Così è successo a Francesca: «A tutti i genitori che si ritrovano a vivere un’esperienza come quella che ho vissuto con mio figlio mi sento di dare un solo consiglio: stategli vicino, sempre e comunque. Accompagnatelo in questa esperienza, e aiutatelo a mettere in valigia tutti gli strumenti di cui ha davvero bisogno: dalla paura, che è un sentimento assolutamente sano, alla curiosità, unite alla consapevolezza di come, una volta tornati da quel viaggio, non si sarà più le stesse persone. Mio figlio è cambiato molto in questi ultimi anni. È cresciuto, è maturato. Sono certa che questo viaggio abbia contribuito a farlo diventare l’uomo che è adesso, con le sue fragilità e con la sua forza. Un ragazzo splendido, che mi rende orgogliosa di essere sua madre».
Se Cosmin ha scelto di affrontare da solo quello che è stato il viaggio più importante della sua vita, c’è anche chi sceglie di condividere l’esperienza con la propria famiglia adottiva. Del resto non esiste un libretto di istruzioni: ogni esperienza è a sé, proprio come ciascuno di noi ha la propria individualità, i propri bisogni e i propri desideri.
Il viaggio di Sara
«Ho fatto il viaggio di ritorno alle origini dopo aver scritto una tesi di laurea sull’adozione (in scienza della formazione primaria) e dopo aver incontrato una quarantina di famiglie adottive. Aver analizzato l’adozione attraverso l’esperienza di altre persone è stato fondamentale per farmi sentire finalmente pronta a partire per il Brasile – ci racconta Sara Anceschi, insegnante di trentacinque anni, adottata quando aveva soltanto pochi mesi -. Appena atterrati a Salvador de Bahia mia mamma mi disse di annusare l’aria del mio paese, per capire se avessi dei rimandi atavici particolari. Ero molto emozionata, ma quando scesi dall’aereo rimasi delusa perché, pur respirando a pieni polmoni, non sentii nulla di famigliare. Avevo atteso ventitré anni per ritornare nel mio paese di origine e ora che finalmente ero arrivata, non provavo assolutamente nulla. I profumi e gli odori erano completamente diversi da quelli cui ero abituata e, soprattutto, a quelli che avevo immaginato. Mi sentivo confusa in quel luogo in cui pensavo che invece mi sarei sentita a casa. Questa sensazione è cresciuta con il passare dei giorni, perché girando per Salvador de Bahia mi sentivo osservata in modo particolare. Percepivo sguardi che non avevo mai colto in Italia: la gente del posto mi guardava insistentemente… in fondo ero somaticamente uguale a loro, ma non capivo né parlavo la loro lingua. Questi sguardi curiosi e insistenti della gente del posto mi infastidivano, tanto più che non avevo mai percepito nulla del genere a Torino: tornavo nel mio paese di nascita e mi sentivo una straniera. Questo viaggio è stata un’esperienza importante perché mi ha permesso di “fare pace” con il mio passato e con la mia madre biologica.
Ho trascorso gli ultimi giorni in Brasile con uno stato d’animo particolare: non vedevo l’ora di tornare a casa, dove sarei ritornata a essere una ragazza come tante. In aeroporto, pronti per tornare in Italia, è capitato poi l’episodio più bizzarro. I funzionari non volevamo lasciarmi partire: il mio passaporto era in regola, ma sostenevano che fossi una clandestina in procinto di lasciare illegalmente il paese. Furono attimi di grande concitazione: mi innervosii e spiegai in inglese la mia situazione. I funzionari si rivolsero a me con un atteggiamento marcatamente razzista e di disprezzo. Dopo mezz’ora la situazione si appianò, ma ero contenta di lasciare quel Brasile che mi aveva profondamente delusa. Nonostante questo, a distanza di dodici anni, oggi spero di poterci tornare, per far conoscere il mio paese di nascita ai miei figli e a mio marito». Un altro preziosissimo pezzo di puzzle da aggiungere, anche in età adulta.
Paola Strocchio
Colloquio con la dottoressa Cinzia Riassetto
Perché il ritorno alle origini
«Per un figlio adottivo la possibilità di tornare nel paese di origine rappresenta un’opportunità molto importante nel suo personale processo di crescita. Rivedere il posto dove è nato, i luoghi in cui ha vissuto, le prime tappe della vita, incontrare magari persone che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, rappresenta un modo molto efficace per riappropriarsi di una parte importante di sé e integrarla con l’identità del presente».
È la dottoressa Cinzia Riassetto, psicologa e psicoterapeuta con indirizzo sistemico relazionale nel campo delle adozioni internazionali dal 2001, a spiegarci cosa si nasconde dietro al desiderio – sano e legittimo – di un figlio nato in un paese lontano, che sceglie di scoprire le proprie origini. Nel corso degli ultimi anni, la dottoressa Riassetto ha accolto decine di ragazzi, spesso giovani adolescenti, che si sono rivolti al Cifa di Torino, ente italiano autorizzato per le adozioni internazionali, per essere guidati in quello che è indubbiamente uno dei viaggi più importanti che le famiglie nate grazie all’adozione possono affrontare nel corso della loro vita. «Il viaggio rappresenta un’occasione preziosa anche per i genitori adottivi che tornano nel paese del figlio insieme con lui, naturalmente quando si tratta di giovani ragazzi che altrimenti non potrebbero affrontare il viaggio da soli – continua a spiegarci la dottoressa Riassetto -. In questo modo si va a condividere questa appartenenza comune e le radici del loro essere diventati famiglia, pur partendo da storie e condizioni di vita così diverse e lontane».
Il percorso di accompagnamento psicologico è previsto sia prima della partenza sia durante il soggiorno nel paese. Continua la dottoressa Riassetto: «Prima della partenza, i nostri psicologi e gli operatori aiutano le famiglie a preparare il loro personalissimo bagaglio emotivo con cui affrontare il viaggio; una volta arrivati là, i referenti che operano sul posto si occupano di accompagnare le famiglie negli spostamenti e nelle visite anche dei luoghi sensibili». L’intervento di un esperto nell’organizzazione del viaggio permette anche di valutare se è effettivamente arrivato il momento di affrontare questa esperienza o se è forse opportuno rimandare di qualche tempo, in attesa di avere tutti gli strumenti emotivi a disposizione. Proprio perché si tratta di un viaggio importante, è imprescindibile avere con sé il «bagaglio» giusto. «È bene che la preparazione venga affrontata con colloqui sia con la famiglia adottiva sia con il ragazzo – continua la dottoressa Riassetto -. Il bagaglio va riempito di aspetti emotivi, cercando di narrare quelle emozioni che lui deve avere nella valigia con cui parte: gioia, ansia, entusiasmo, paura, desiderio. È necessario lavorare sulle aspettative con cui si parte: chi si vorrebbe incontrare? Quali posti si vorrebbe rivedere? E poi: se incontrassi quella persona cosa gli chiederesti? Cosa pensi che potrebbe chiedere lei a te? Questo lavoro lo si fa su un piano simbolico, attraverso narrazioni emotive che la psicologa fa per lui, in un lavoro di immedesimazione, portando dentro di lui pensieri e risposte». È importante anche preparare il ragazzo alle zone d’ombra che incontrerà atterrando nel suo paese. Un paese forse idealizzato in famiglia, ma che non potrà essere romanzato nel momento in cui si toccheranno con mano quei panorami sociali fatti di indigenza, povertà e difficoltà.
Durante questa fase, l’importanza del «bagaglio» è quindi focale, andando a concentrarsi su cosa può essere il ritorno, con un’idea di come si può tornare. Con dei suggerimenti, delle testimonianze di altri ragazzi che hanno affrontato il medesimo percorso. Questo viaggio interiore deve essere costruito parallelamente anche dai genitori: «Il compito del genitore adottivo è quello di accompagnare silenziosamente il figlio senza troppa intraprendenza, con uno stile silenziosamente contenitivo, senza esaltare né limitare il percorso. E questo è possibile solo e soltanto se non ci si sente sostituti dei genitori biologici ma co-presenti con loro».
Paola Strocchio