Missionari della Consolata da 25 anni in Costa D’Avorio
Il logo del Giubileo è un Vangelo aperto.
Sempre e ovunque il punto di partenza e di arrivo della missione non può che essere il Vangelo – la vita e le parole, i gesti e le scelte di Gesù di Nazareth. La sua vita aperta e offerta è la ragione e il cuore amorevole di ogni annuncio vero, rinnovato e fecondo (cf. Evangelii Gaudium 11).
Dalle pagine stesse del Vangelo emergono visibilmente le parole ad gentes
che esprimono l’identità e la vocazione primaria della Chiesa (cf. Evangelii Nuntiandi 14) e della nostra famiglia religiosa missionaria (cf. Costituzioni IMC 5). Ci ricordano il significato carismatico del primo annuncio che abbiamo portato (cf. EG 164) e la particolare bussola vocazionale della nostra consacrazione per tutta la vita per la missione (cf. Cost. IMC 4).
Slogan.
Per rendere più dinamico questo anno di grazia, il logo è accompagnato da uno slogan. Sono parole piene di significato e di risonanza che provengono dal cuore appassionato di Paolo di Tarso: “Tutto per il Vangelo”. Si ispirano a 1 Cor 9,16-23, dove l’Apostolo delle genti afferma con fervore la centralità del suo impegno di evangelizzazione nella sua vita di discepolo-missionario di Gesù Cristo: “Sono diventato tutto per tutti”. Quanto zelo ci fanno vedere queste parole di fuoco…! Per noi Missionari della Consolata della Costa d’Avorio questo è sinonimo del nostro “ardente desiderio” di far conoscere Gesù (cf. Cost. IMC 18) e di lasciarci invadere e trasformare dal suo amore (cf. EG 178).
La Fiamma
Nel logo, al centro del Vangelo, c’è una grande fiamma, simbolo dello Spirito Santo, vero protagonista della missione della Chiesa (cf. Redemptoris Missio 21). “Ci vuole il fuoco per essere un apostolo”, ripeteva costantemente il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari. Alludeva al fuoco dello Spirito che si traduce in segni e gesti di gratuità apostolica. È lo stesso fuoco dello Spirito che ci guida e ci accompagna nelle scelte fondamentali della vita e della missione con la sua presenza creativa (cf. EG 259).
Le Stelle
Questa fiamma è coronata da tre stelle che ci ricordano la nostra madre e fondatrice, la Madonna della Consolata (cf. Cost. IMC 2). Sono tre, come quelle della icona della Consolata, che saggiamente evocano la totale e perpetua verginità di Maria di Nazareth: prima, durante e dopo la nascita del nostro Salvatore (cf. Lc 1,34-37; Mt 1,18-25). La Vergine Maria è anche chiamata la stella dell’evangelizzazione e offre alla nostra spiritualità uno stile tipico e un “come” caratteristico (cf. LG 65) in cui sono sempre presenti tenerezza e affetto (cf. EG 288).
Il sole che sorge
Nella parte inferiore del logo, la presenza del sole che sorge (cf. Lc 1,78), mostra i nuovi giorni che ci attendono e verso i quali tutto quest’anno vuole muoverci e orientarci: la nostra primavera missionaria in Costa d’Avorio (cf. RM 86). Questi giorni saranno segnati dalla gratitudine per la nostra storia missionaria e per i confratelli che si sono succeduti fin dal primo giorno nel Bardot. Vediamo sorgere questo nuovo giorno su un orizzonte tanto straordinario quanto inaspettato, costruito sull’unità d’intenti. Inizia un nuovo giorno, un giorno ricevuto da te, Padre (cf. Inno delle Lodi, Liturgia delle Ore), che ci invita ad approfondire le sfide della missione di oggi con una fedeltà attiva e creativa dalla nostra luminosa storia evangelizzatrice.
I luoghi
Per valutare il cammino vissuto in questi primi 25 anni di consacrazione alla missione, abbiamo voluto presentare, in modo particolare, le diocesi ivoriane che ci hanno accolto e accettato. Da sinistra a destra, in ordine cronologico di arrivo nel paese, possiamo vedere una barca e un faro – mare e pesca – simboli della diocesi di San Pedro e punto di partenza della nostra consolante presenza. Segue una piccola casa e un granaio – famiglia e provvidenza – tradizionalmente riconosciuti nella cultura dei Senufo, seconda presenza consolatrice nella diocesi di Odienné. Infine, la cattedrale di Saint Paul si riferisce alla nostra terza presenza missionaria nell’arcidiocesi di Abidjan con la casa di formazione della Beata Irene Stefani – speranza e futuro – per tutto l’Istituto.
I colori
Infine, la tavolozza dei colori utilizzati (arancione, bianco, verde) si riferisce alla bandiera tricolore della Costa d’Avorio.
P come pace
testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |
Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.
La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.
Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.
Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.
Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.
Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.
Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.
Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.
All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.
Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.
Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.
Marco Bello
Noi e Voi
Faraja house «I care»
Il 3 agosto 2019 per i ragazzi della Faraja è stato un giorno bello è importante: finalmente dopo più di due anni hanno potuto traslocare dalla vecchia alla nuova Faraja che è stata terminata grazie all’intervento della Cei, del gruppo Gms di Savigliano e con il coordinamento del Movimento Sviluppo e Pace di Torino.
Prima di poter illustrare i vari cambiamenti sarebbe necessario ricordare la storia della Faraja.
Nel 1997, i missionari della Consolata, per venire incontro al grave problema dei bambini di strada, diedero inizio alla Faraja House a Mgongo, alla periferia della città di Iringa (Tanzania). Faraja significa consolazione. L’attività, quindi, si ispira alla Consolata e al nostro carisma. Faraja diventa pertanto accoglienza, affetto e futuro.
L’organizzazione e la direzione furono affidate a padre Franco Sordella, missionario della Consolata da più di 40 anni in Africa.
I ragazzi della Faraja
È difficile descrivere le situazioni e le esperienze di vita di questi ragazzi che si sono trovati a vivere per strada. Alcuni di loro hanno già sperimentato il carcere (ricordiamo che in alcune città i bambini vengono detenuti con gli adulti), altri hanno subito ogni genere di violenza psicologica e fisica, e le ferite sono profonde e tangibili. Riportare i ragazzi alla normalità non è facile perché intervengono molti fattori culturali, religiosi e tribali, ma dopo alcuni mesi il cambiamento è visibile soprattutto grazie all’impronta familiare e al grande interesse e affetto con cui sono educati e seguiti fin dall’inizio. Si scrisse che il nostro centro voleva essere una risposta alla necessità di aiutare i bambini che lasciano la scuola per vari motivi e si trovano in strada alla ricerca di piccoli lavori per la sopravvivenza ma poi si trovano in balia di piccole bande, della fame e della necessità di un posto per dormire. Furtarelli, rapine e arresti della polizia, malattie e soprusi vari sono all’ordine del giorno.
Il problema dei ragazzi di strada o in difficoltà si fa sempre più acuto ed è dovuto da troppe cause tra cui l’Aids, la poca consistenza dei nuclei familiari, le ragazze madri, il decadimento dell’educazione scolastica, l’urbanizzazione, la povertà in genere. Normalmente i bambini di strada provengono da ceppi familiari disgregati o assenti che, per vari motivi, possono essere fonti di sofferenze, di amarezze e abbandono.
In molti casi, il sistema di assistenza sociale governativo non ha alcuna consistenza. L’organizzazione di questo tipo di ragazzi è particolarmente problematica proprio perché sono abituati a vivere ai margini della società senza tante convenzioni e regole, se non quelle interne al proprio gruppo di aggregazione.
Attualmente i bambini e ragazzi accolti alla Faraja sono 72 di cui 21 frequentano la scuola secondaria, 6 l’università e 2 il seminario.
Successi e fallimenti
Sono divisi in case e squadriglie per rendere più facile la gestione e l’autosufficienza. Lo studio, il gioco, il lavoro e anche la preghiera scandiscono le ore di ogni giornata. L’amicizia tra di loro, le baruffe e i bisticci, l’amore degli educatori, sono tutti elementi utili per ridare serenità e voglia di riuscire nella vita. I successi sono tanti: ad esempio 5 laureati, un sacerdote missionario della Consolata e, attualmente, due giovani in seminario, ma anche tante sono le difficoltà e gli insuccessi come giovani ritornati alla strada per impossibilità di adattamento, per rifiuto di ogni regola, per il richiamo della strada.
Tanti però sono i bambini e i giovani che sono passati per la casa della consolazione e che già sono ritornati alla vita di società.Ecco la nuova Faraja
Si arriva attraverso una strada di circa 600 metri difficile da percorrere soprattutto durante le piogge e ancora da completare. Il complesso della nuova Faraja è recintato con muretto in pietra e cemento, una rete metallica zincata e l’ingresso è costituito da un portone in ferro battuto.
Il tutto è costituito da sei case indipendenti, anche dal punto di vista energetico. Ogni casa dispone di un impianto fotovoltaico per le illuminazioni e di due pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua. Tutti i pavimenti sono in ceramica per una migliore gestione dell’igiene.
In ogni casa ci sono camere a 6 letti, 4 bagni e 4 docce, una lavanderia, una camera con bagno e piccolo studio per l’assistente e una sala studio per i ragazzi. La casa di quelli più grandi ha anche una sala studio e computer per 70 ragazzi, sala che può essere usata per incontri vari e anche per cerebrale la messa nei giorni feriali. In questa casa vi è anche una cappellina per la celebrazione quotidiana della messa.
Il refettorio con annessa la cucina può ospitare fino a 120 persone. C’è anche una casa per ospiti e volontari.
Da notare le pitture su ogni casa (ancora da completare) opera di un ragazzo che ha vissuto in Faraja fino a rendersi indipendente con la sua attività di pittura.
L’acqua viene prelevata da un vecchio pozzo distante 1.500 metri e pompata con un vecchio motore diesel in funzione 2 ore al giorno in un serbatoio da 2mila litri. Il sistema non è ecologico e il pozzo è in via di esaurimento.
Progetti futuri
Per il futuro immediato sono previste altre migliorie necessarie, per le quali contiamo sull’aiuto di amici e benefattori. Ecco un breve elenco.
Un nuovo pozzo (fortunatamente si è scoperto che a poche decine di metri dalla recinzione si può trovare acqua a una profondità di 90-100 m). Presto inizierà la trivellazione e la sistemazione con una pompa solare e serbatoi adeguati.
È poi necessario rifare la strada di accesso.
Per assicurare l’autosufficienza alimentare dei ragazzi è utile ampliare la stalla per mucche, maiali e pecore e acquistare mucche da latte di razza. A completare il tutto c’è bisogno di un buon congelatore a pannelli solari.
Ci sono le spese ordinarie di manutenzione e mantenimento (vitto, vestiti, divise e medicine…), nonché i salari degli operatori, le rette dei 21 ragazzi che frequentano la scuola secondaria e l’iscrizione di chi frequenta l’università.
Un saluto dalla Faraja.
Padre Franco Sordella Faraja House, Mgongo, Iringa, Tanzania
Chiediamo scusa a padre Franco se, per ragioni di spazio, abbiamo tagliato e ridotto all’osso la sua lettera. La notizia che Faraja è viva e funzionante dopo il terribile incendio, ci rallegra molto. Chi volesse aiutare può farlo attraverso Missioni Consolata Onlus. I bisogni sono tanti, e, come al solito, tante gocce messe insieme fanno un fiume, un fiume d’affetto che rende vivo il nuovo pozzo della casa della Consolazione.
26° Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2019
I Diritti Umani al centro dell’impegno dei vincitori: la risposta per un mondo più sostenibile.
A pochi giorni dal 5 dicembre, Giornata mondiale del volontariato, il XXVI Premio del volontariato internazionale, il 30 novembre, ha consegnato il riconoscimento di Volontario internazionale a Giampaolo Longhi, responsabile in Etiopia di Cvm – Comunità volontari per il mondo, e quello di Volontario dal Sud a German Graciano Posso, rappresentante della Comunità di pace di san Josè de Apartadò in Colombia, candidato da Operazione Colomba della Giovanni XXIII. Il Premio ha ricevuto, come gli scorsi anni, la Medaglia del presidente della Repubblica.
Due difensori dei diritti umani al fianco, in un caso, delle lavoratrici domestiche, una delle categorie sociali più vulnerabili e, nell’altro, della propria comunità per difenderne i diritti.
Giampaolo Longhi, di Foggia, da due anni in Etiopia, è impegnato nel sostegno dei diritti delle donne, con particolare attenzione a quelle dedite al lavoro domestico svolto nel paese, molte delle quali minorenni, e delle lavoratrici domestiche rientrate in Etiopia, forzatamente o volontariamente, da paesi quali il Libano, la Libia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, ecc.
L’altro, German Graciano Posso, colombiano, rappresentante della Comunità di pace di san Josè de Apartadò, impegnato non solo nel processo di resistenza nonviolenta verso il conflitto civile colombiano, ma anche nei confronti di un sistema economico internazionale che vuole spogliare i contadini, anche della sua comunità, delle loro terre in favore dell’ingresso delle multinazionali che non disdegnano l’eliminazione chi si oppone.
«La difesa dei diritti umani è uno dei cardini della storia del volontariato del nostro paese. In molti siamo partiti qualche decennio fa per farli rispettare nelle tante periferie del mondo. Una radice forte quella della solidarietà e del volontariato senza i quali non vi sarebbe un futuro. L’albero solidale che in questi anni abbiamo cresciuto e che oggi va più che mai difeso, alimentato e reso ancora più forte. Ce lo chiedono i giovani che partono ogni anno per il Servizio civile universale, gli espatriati delle nostre 86 Ong federate alla Focsiv e quella parte d’Italia che non si arrende all’odio, all’individualismo sfrenato e alla violenza dei gesti e delle parole – ha dichiarato Gianfranco Cattai, presidente Focsiv -. Il Premio di fatto mette in evidenza come il volontariato sia un’esperienza di valore, che non va intesa solo come momento di formazione individuale per una cittadinanza attiva e consapevole, ma come attore principale nel processo di acquisizione di una maggiore consapevolezza come cittadini chiamati a fare ognuno la sua parte per il bene comune per il proprio territorio, la propria comunità, ma anche per un bene più importante: il futuro dell’Umanità e del nostro pianeta».
Ufficio stampa Focsiv
Venezuela-Brasile. Ka Ubanoko, la nostra casa
Testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |
Reportage dal centro autogestito dei migranti venezuelani
Nella capitale dello stato di Roraima (Brasile), alcune centinaia di migranti venezuelani di etnia warao, rifiutati dalle agenzie Onu, si sono organizzati dal basso e hanno creato un’esperienza unica di convivenza e resilienza. A fianco dei migranti non indigeni e superando varie difficoltà.
Boa Vista. Estrema periferia della città. Superata una scuola militare, arriviamo davanti a uno spazio chiuso da reti e muri. Varcato un cancello semi divelto, abbiamo subito l’impressione di entrare in un piccolo mondo a parte.
Alla nostra destra si erge un ex palazzetto sportivo costituito da due gradinate che circondano lo spazio di gioco in cemento, il tutto coperto da una tettoia di lamiera. Notiamo subito che, sui gradini, sono accumulate, borse, valigie, asciugamani e indumenti vari, utensili, suppellettili e oggetti casalinghi di ogni tipo. Tutto è posizionato con grande ordine. A terra, a fianco delle gradinate, ci sono dei materassi e anche un vecchio letto. Alcune amache sono appese alle colonne della struttura. Sul terreno da gioco è stata sistemata qualche tenda da campeggio. Il tutto ricorda un grande accampamento. Ai lati della struttura sono stesi dei teloni con l’inconfondibile scritta e logo dell’Unhcr-Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Proseguiamo quasi in punta di piedi, cercando di non invadere gli spazi con le nostre videocamere e fotocamere, come troppo spesso fanno i giornalisti. Però non possiamo diventare invisibili. Qua e là tanti bambini si rincorrono e giocano. Parecchi di loro si fermano a guardarci incuriositi. Mentre nei pressi di alcuni alberi ci sono dei focolari accesi con pignatte annerite appoggiate sopra.
Di fronte a noi e ai lati varie casette, meglio dire baracche, realizzate con materiali di recupero, cartoni, assi di legno, lamiere, danno al luogo un’aria di villaggio. Ci sono cartelli scritti a mano: «Si riparano biciclette», «Lavaggio». C’è pure un negozietto che vende piccole cose di utilità quotidiana, proprio come si fosse in un quartiere.
Siamo a Ka Ubanoko, che – ci viene spiegato – nella lingua dei Warao significa «dormitorio comune». Si tratta di un centro sportivo mai terminato e poi abbandonato, del quale sono rimaste in piedi diverse costruzioni tra cui un palazzetto, una piscina e altre strutture.
Ci accompagna padre Oscar Liofo, missionario della Consolata congolese, che da alcuni mesi segue la gente di Ka Ubanoko. In questo spazio occupato e autogestito (come capiremo in seguito) vivono oggi in 639, tutti migranti venezuelani, di cui 150 famiglie indigene, quasi tutte warao, ma anche altre etnie (E’ñepa, Cariña, Pemon), e 76 famiglie non indigene.
Padre Oscar ci guida dentro Ka Ubanoko, verso una zona di tende piantate sotto una tettoia di cemento. Anche qui ogni angolo è diventato un focolare domestico nel quale vive una famiglia, fianco a fianco con la famiglia vicina. Il missionario conosce tutti, saluta, fa battute in portoghese e gli viene risposto in spagnolo.
Fiorella, medico e leader
Padre Oscar ci conduce da Fiorella Ramos, medico internista, indigena warao, «coordinatrice» di Ka Ubanoko. Parla spigliata Fiorella, ha 37 anni e due figli. In Venezuela era direttrice di un ospedale, e in contemporanea faceva visite private. «Con quello che guadagnavo riuscivo appena a comprare da mangiare, intanto correvo da un lavoro all’altro, senza poter stare con la mia famiglia e non restava nulla per aiutare i miei genitori. Nel 2018 ho deciso di partire, ma ci ho messo un anno a prepararmi psicologicamente e a mettere da parte i soldi». È stata una scelta difficile, confessa Fiorella, lasciare i parenti, parte della famiglia, un buon lavoro, il proprio paese. La sua è però una storia condivisa con molti connazionali.
L’8 gennaio 2019 Fiorella parte con la sorella e Fernando, il figlio più piccolo. Il viaggio dal Venezuela al Brasile non è pericoloso né troppo caro, anche se è molto stancante e, se non hai i documenti in regola, devi seguire strade alternative per passare la frontiera.
Fiorella e il suo gruppo arrivano a Boa Vista, capitale dello stato brasiliano più settentrionale, Roraima, la sera del giorno dopo. «Mio fratello – racconta – stava vivendo nell’abrigo (rifugio letteralmente, campo profughi in questo caso, ndr) chiamato Pintolandia, per cui speravamo di poterci sistemare lì, ma ci dissero che non potevamo entrare senza permesso. Ci accampammo non lontani per la strada, dove c’era già una famiglia indigena. Abbiamo vissuto 19 giorni riparandoci sotto le tettoie di una struttura locale. In quel periodo abbiamo chiesto almeno tre volte di entrare a Pintolandia, ma non ci lasciarono, dicendo che era pieno». Altre famiglie si uniscono e il gruppo in strada arriva a contare 38 persone. «Usavamo i bagni di una stazione di benzina non lontana, l’acqua la prendevamo da un rubinetto a cui si poteva accedere. Di giorno dovevamo stare in un parco lì vicino seminascosti, mentre di notte dormivamo sotto delle tettoie. Mio fratello riusciva a portarci del cibo cotto da dentro l’abrigo».
Del gruppo fa parte anche Anibal Pérez, un Warao della comunità di Mariusa. Tra lui, Fiorella e sua sorella nasce un’intesa e i tre, pensando al futuro, iniziano a scrivere un progetto di «Sviluppo integrale», come lo definisce il medico. È l’embrione di Ka Ubanoko. «Nel progetto si pensava a un’organizzazione, si parlava di salute, educazione, economia e infrastrutture. È in quel periodo che conoscemmo padre Jaime Patias e Luis Ventura, entrambi della Consolata, che iniziarono ad appoggiarci con alimenti e materiale per l’igiene personale. Anche quelli dell’Acnur venivano, ma dicevano che non potevano accoglierci nel centro». Intanto continua ad arrivare gente dal Venezuela, e anche indigeni espulsi da Pintolandia: «Eravamo ormai 150 famiglie».
Miracolo a Boa Vista
Poi accade una specie di miracolo. «Un brasiliano informò il cacique Wilson, uno di noi, che non lontano da dove eravamo accampati c’era un grande spazio abbandonato, un club sportivo in rovina, dove avrebbero potuto sistemarsi molte persone».
Un’avanguardia va a visitare il posto. All’epoca è invaso da arbusti ed erba alta. Vi sono nascoste tre famiglie venezuelane non indigene. Il centro è anche luogo di passaggio di malviventi e vi accadono cose strane. Ma la decisione è ormai presa: Fiorella e Anibal guidano il gruppo a prendere possesso di quel luogo. È il 3 marzo 2019, e per Fiorella e i suoi sono ormai due mesi di vita trascorsi all’addiaccio. Appena arrivati, i migranti iniziano a ripulire l’intera area e a dividersi gli spazi.
Fiorella e Anibal portano in questo luogo il modello che avevano pensato nel progetto di sviluppo e che avevano iniziato ad applicare dove erano accampati. «Già sulla strada avevamo sperimentato questa organizzazione. Anche perché erano iniziate ad arrivare donazioni da alcuni enti, ed è stato necessario formare gruppi per evitare conflitti e soprusi».
L’organizzazione si basa su un coordinamento centrale con una coordinatrice eletta, Fiorella, e una vice coordinatrice, Alida Gomez, anch’essa Warao. Le famiglie sono divise in gruppi, normalmente secondo la comunità di origine, che fanno capo a dei responsabili anch’essi eletti, detti cacique («capo», nel mondo indigeno). I cacique sono cinque, di cui quattro warao e una criolla (come vengono chiamati i non indigeni). C’è poi un’organizzazione per settore, tramite comitati, su tutto quello che è fondamentale per la comunità: educazione, pulizia, salute, alimentazione, sicurezza, sport, protezione del bambino e della donna, infrastrutture.
Eppure, la convivenza tra i vari gruppi non è così facile come sembra. Tra gli abitanti di Ka Ubanoko talvolta scoppiano dei conflitti. «Da quando siamo qui, ci sono stati cinque scontri fisici. Quando avvengono, si cerca di regolarli tramite i cacique dei gruppi di appartenenza dei soggetti coinvolti – ci spiega Fiorella -. Alcuni capiscono, altri no. In questo caso siamo costretti ad espellerli». A volte poi ci sono incomprensioni tra indigeni e non indigeni, soprattutto a causa dell’inevitabile distanza culturale.
Fiorella ci mostra dove abita. È un’abitazione improvvisata fatta di materiali di recupero, eretta nella zona perimetrale del centro sportivo, normalmente abitata dai non indigeni. Ci vive insieme a parte della sua famiglia.
Sopravvivere
Torniamo verso il palazzetto vicino all’ingresso. Qui, sulle gradinate, hanno il loro «angolo» Alida Gomez e suo marito.
Alida viene da Tucupita (capoluogo del Delta Amacuro), è una signora di una certa età, con tre figli grandi rimasti in Venezuela. A casa faceva l’insegnante, ma poi ha deciso di partire: «Il Venezuela sta vivendo una situazione molto difficile in tutti gli ambiti: economia, educazione, salute. Ho preso la decisione personale di venire in Brasile per aiutare la mia famiglia – ci confida -. Speravo di poter trovare un lavoro rapidamente, ma la realtà è ben diversa. Essere indigena, avere la nostra cultura, significa essere respinti in tutti gli ambiti qui. Non abbiamo l’appoggio di nessuno, siamo soli». Oggi Alida aiuta la comunità facendo la vice coordinatrice di Ka Ubanoko, ma la vita a Boa Vista è molto dura. «Usciamo prima dell’alba e andiamo in giro a cercare rifiuti che si possono vendere, come le lattine di alluminio. Prendiamo anche i vestiti in buone condizioni. Mettiamo insieme più giorni di raccolta e vendiamo il metallo. In questo modo guadagniamo qualche decina di reais (la moneta brasiliana, ndr) che ci serve per comprare cibo. I vestiti recuperati li laviamo con il cloro. Se ci servono li usiamo, altrimenti li regaliamo ad altre famiglie». In effetti, in tutto Ka Ubanoko, in mezzo agli effetti personali portati dal Venezuela, si notano molti oggetti di recupero, trovati nei cassonetti della città brasiliana.
Alida continua a descriverci la vita quotidiana nel campo: «I bagni sono senza alcuna privacy. Sono senza porte, e pure insieme alle docce. L’acqua che beviamo è del filtro (ci sono due filtri con tre rubinetti ciascuno, installati da Acnur, per oltre 600 persone, ndr). Per cucinare e lavare usiamo l’acqua dell’acquedotto. Cuciniamo su fuochi con legna che recuperiamo in giro. Occorre fare sempre attenzione, perché qui ci sono molte mosche che portano malattie. Con la farina di grano facciamo arepas (delle specie di piadine, ndr). Mangiamo anche riso e salsiccia (wurstel di pessima fattura, ndr). Se abbiamo qualche soldo in più, compriamo del pollo o altra carne. Chi ha amici o parenti a Pintolandia, riceve talvolta del cibo avanzato da loro».
Anche la lingua può essere un problema. I venezuelani, indigeni e non, parlano lo spagnolo (qui detto castellano, ndr), mentre in Brasile devono imparare il portoghese. Alida, che è qui da quasi un anno, ammette di capirlo ma di non parlarlo.
Gli «amici» di Ka Ubanoko
Ka Ubanoko è quindi una grande realtà di migranti autogestita e autorganizzata. Nessuna delle agenzie delle Nazioni unite o delle grandi Ong, tantomeno il governo federale o dello stato di Roraima, o la municipalità di Boa Vista, la controllano e la gestiscono. Diversi enti intervengono con appoggi puntuali e specifici. Fiorella è molto brava a tenere le relazioni e si era già fatta conoscere dalle istituzioni quando il gruppo era accampato sui bordi della strada.
«Ci ha aiutato qualche istituzione civile e religiosa – ricorda lei -. Come la pastorale migranti della diocesi, le suore scalabriniane, i missionari della Consolata, la Caritas. E Ong come Medici senza frontiere e Adra».
Poco appoggio è invece arrivato da Acnur (i due purificatori già citati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). L’esercito brasiliano (che a Roraima controlla gli abrigos ufficiali come Pintolandia) è intervenuto ripristinando l’energia elettrica che il comune aveva tolto e mettendo in sicurezza la piscina (vuota) del centro sportivo.
«Cerchiamo di coinvolgere alcuni enti tramite progetti. I missionari della Consolata, ad esempio, sono attivi su un progetto di alimentazione, sia generale sia per i bambini. Con Fé e alegria (dei Gesuiti, ndr), abbiamo lavorato a un progetto di educazione, differenziato plurilingue, perché qui siamo di diverse etnie e lingue nazionali». Ci sono stati problemi perché Ka Ubanoko non è un posto ufficiale, anzi, è un’occupazione illegale, per cui molte attività non si possono realizzare sul posto, ma occorre appoggiarsi ad altri enti e luoghi. Come il progetto della Consolata che si svolge in un oratorio dei frati Cappuccini, poco distante.
«Con la Caritas abbiamo preparato un progetto di tipo economico: un appoggio per produrre artigianato e per l’agricoltura». Il progetto fornisce la materia prima e alcune donne confezionano prodotti artigianali che poi vendono. Mentre nel secondo caso dovrebbe fornire gli attrezzi per coltivare e le sementi, ma non è ancora partito.
Spiritualità migrante
Superato un campo in terra battuta usato per giocare a calcio o pallavolo, ci spostiamo verso la zona centrale di Ka Ubanoko, dove tante piccole tende a iglù sono appoggiate su un pavimento e riparate da un soffitto in cemento che pare precario. Innumerevoli fili corrono da tutte le parti con panni e vestiti colorati appesi ad asciugare.
Qui incontriamo Leany Torres Moraleda, che coordina il comitato culturale e spirituale di Ka Ubanoko. Leany è una giovane mamma, 29 anni con una figlia di 8, originaria della comunità di Nabasanuka (nel delta del rio Orinoco, ndr), dove la sua famiglia è sempre stata impegnata al servizio dell’identità indigena. Suo papà e suo zio hanno ricoperto anche cariche politiche. È laureata in turismo e ha passato parte della sua vita in città, a Tucupita, dove insegnava nella scuola primaria. Allo stesso tempo era molto impegnata nella pastorale indigena della chiesa cattolica e con un gruppo culturale chiamato Eco Warao.
«Con mia figlia e mia nipote siamo partite a maggio e sapevamo già dell’esistenza di Ka Ubanoko. Arrivate a Boa Vista dopo un viaggio rocambolesco con un gruppo di altri indigeni, passammo la notte alla rodoviaria (la stazione degli autobus, dove c’è un centro di transito per migranti gestito dall’esercito, ndr), senza dormire. Quando riuscimmo ad arrivare a Ka Ubanoko, ad alcuni di noi parve molto brutto. La mia impressione invece fu positiva».
I primi tempi non sono stati facili. «La mia famiglia è conosciuta, così c’era qualcuno che non voleva vederci a Ka Ubanoko e ci diceva di andare a Pintolandia», racconta Leany. «Poi il cacique Camilo ci ha prese nel suo gruppo, e, vista la sua autorità, le acque si sono calmate».
Leany è sempre stata molto attiva nella promozione dei diritti e della cultura warao. Per questo si preoccupa subito della possibile perdita di identità, soprattutto dei bambini migranti. «In Ka Ubanoko stiamo lavorando con l’infanzia missionaria. E all’inizio abbiamo avuto delle incomprensioni con i criollos perché loro sostenevano che noi facciamo un’attività che li esclude. Abbiamo spiegato che la nostra visione è differente. Ovvero non è solo insegnare a pregare, insegnare la parola di Dio, ma stimolare i bimbi affinché conoscano la cultura warao, formino un sentimento di appartenenza, costruiscano un’identità».
Leany ci tiene a spiegare bene la propria filosofia: «In qualsiasi luogo noi siamo, non smetteremo mai di essere Warao: è nel nostro sangue. Anche se andremo in un altro stato del Brasile, fisicamente saremo uguali. Ci adatteremo alla società di questo paese, impareremo la lingua e avremo un lavoro. Ma saremo sempre indigeni. Qui a Ka Ubanoko stiamo facendo un buon lavoro, e ci siamo resi conto che i bimbi non indigeni, dopo aver ascoltato le canzoni e visto i balli warao, iniziano a cantare pure loro. Questo è molto importante. Bimbi warao che non parlavano la lingua madre, adesso iniziano a farlo. Il nostro impegno va molto più in là. Quello che ci unisce è che siamo venezuelani e siamo indigeni. Tuttavia, se non prendiamo in mano la situazione, la nostra gente smetterà di sentirsi indigena».
Ka Ubanoko è un’esperienza importante, anche se è difficile prevedere quanto durerà. Permette ai migranti di non cadere nell’assistenzialismo del campo profughi, di prendere in mano la propria vita e – allo stesso tempo – sentirsi parte di un qualcosa di organizzato, che protegge e permette di essere protagonisti. Per il bene comune.
Marco Bello e Paolo Moiola (1.a puntata – continua)
Yakera!
La parola – «Yakera» – ci è subito piaciuta. Facile da pronunciare. Facile da ricordare. E, soprattutto, portatrice di un significato positivo. Gli indigeni warao la utilizzano in molte circostanze: per dire «va bene», ma anche per salutare.
I Warao sono l’etnia del delta dell’Orinoco, in Venezuela, che sta lasciando le proprie comunità per rifugiarsi in Brasile. Abbiamo percorso un pezzo del loro viaggio di migrazione (Boa Vista, Pacaraima, Santa Elena de Uairén, Manaus) e visitato i centri che li ospitano per cercare di capire dalla loro viva voce il perché di una scelta difficile, spesso drammatica. In questa indagine ci hanno aiutato i missionari della Consolata che da tempo lavorano con i Warao, sia in Venezuela che in Brasile.
M.B. – P.M.
Breve descrizione del popolo Warao
Un futuro senza canoe?
La gente delle canoe è nativa del delta dell’Orinoco. Oggi sono almeno 50mila, rappresentando la seconda etnia indigena del Venezuela.
I Warao costituiscono una delle principali etnie indigene del Venezuela. Per numero infatti sono il secondo gruppo più numeroso dopo i Wayú (Guajiro). Secondo il censimento del 2011, i Warao sarebbero 48.771, una cifra probabilmente sottostimata. Il loro nome è un’autodenominazione che significa gente (arao) di canoa o, secondo altri studiosi, gente delle terre basse. Gli indigeni chiamano i non Warao hotarao, gente delle terre alte. Sia in un caso che nell’altro il significato di Warao rimanda ai luoghi da essi abitati. Che sono i canali (caños) del delta dell’Orinoco nello stato Delta Amacuro e, dopo varie migrazioni, anche le aree adiacenti della Guayana Esequiba (un territorio conteso tra Guayana e Venezuela), nonché gli stati venezuelani di Bolivar, Monagas e Sucre.
Conoscere l’ambiente naturale in cui vivono i Warao è indispensabile per capire questo popolo. Anche se esso è cambiato e sta cambiando a causa dei mutamenti climatici e dei disastri prodotti dall’uomo e anche se una parte consistente dei Warao si è urbanizzata (soprattutto a Tucupita, capoluogo del Delta Amacuro) o è emigrata – non si sa se in maniera stabile o temporanea – in Brasile.
Come si diceva, la gran parte delle comunità tradizionali dei Warao è posta lungo i canali dell’Orinoco. Questo fiume, che nasce nella cordigliera di Parima (massiccio della Guayana), ha una lunghezza di 2.140 chilometri e una portata d’acqua imponente, seconda soltanto a quella del Rio delle Amazzoni. Prima di gettarsi nell’Oceano Atlantico, l’Orinoco forma un delta che raggiunge un’apertura di circa 400 chilometri. La vastità della regione deltica (circa 22.500 km2, poco meno della Toscana) determina diversità tra le comunità warao a causa dei maggiori o minori contatti con il mondo non indigeno (criollo) e delle diverse condizioni di ciascun microambiente. La vita è scandita dall’acqua. La stagione secca va da gennaio ad aprile, con molti canali che diventano salmastri. La successiva stagione delle piogge dura fino a settembre con una piena (detta creciente) che sommerge coste e isole del delta. Le case dei Warao – chiamate janoko, che significa il luogo della ja, l’amaca – sorgono lungo i canali, ma sono costruite su palafitte proprio per essere pronte a resistere alle maree. Per sopravvivere nel delta è necessaria una conoscenza precisa dell’ambiente naturale, che comunque oggi risulta meno gestibile e prevedibile di un tempo a causa dei mutamenti prodotti da fattori antropici (inquinamento delle acque fluviali e deforestazione, su tutto). Le attività tradizionali dei Warao sono la pesca (in particolare del morocoto o pirapitinga e dei granchi), la caccia e la raccolta di frutti silvestri. Ad esse si sono in seguito aggiunte alcune coltivazioni agricole, in primis quella del riso e poi la Colocasia Esculenta della quale vengono mangiati sia i tuberi (bolliti oppure grigliati) che le foglie (come verdure cotte). La pianta autoctona per eccellenza è la palma di moriche (conosciuta come palma di buriti in Brasile), una vera ricchezza della natura. Tutti i suoi componenti (foglie, frutti, semi, corteccia) sono infatti utilizzabili per fare prodotti di artigianato o come alimento. Dall’amido del moriche si ricava una farina (aru) che è alla base della dieta dei Warao.
Come sempre accade per i popoli indigeni, la cosmovisione e la vita religiosa dei Warao sono difficili da comprendere per i non indigeni. Quello che si può affermare è che tradizione orale e mondo magico-religioso sono strettamente legati all’ambiente naturale in cui essi vivono. La presenza e l’attività dei missionari sono cambiati nel corso del tempo, soprattutto in ambito cattolico. Dalla filosofia coloniale del «civilizzare l’indio selvaggio» si è passati a interventi nel campo dell’istruzione e della salute, rispettando i valori indigeni.
Negli ultimi anni, la situazione per le comunità warao si è complicata a causa della presenza di varie bande criminali che agiscono impunite lungo l’Orinoco trafficando con la droga, la tratta delle donne e il contrabbando di benzina.
Al momento, il futuro dei Warao non pare promettente. Molte comunità lungo l’Orinoco sono state abbandonate o si sono spopolate. Molti indigeni si sono urbanizzati, ma senza una vera integrazione con i criollos. Altri sono emigrati, ma si trovano a vivere in una condizione di isolamento e pura sopravvivenza. Una parte consistente dei Warao, popolo delle canoe, sembra dunque aver perso per sempre la ragione prima del proprio nome.
M.B. – P.M.
La voce del governo venezuelano
«I Warao si spostano perché nomadi»
A Boa Vista, non c’è semaforo o incrocio dove non ci sia un venezuelano. E gli indigeni warao si notano anche di più. Nella capitale di Roraima, abbiamo incontrato il console del Venezuela, per chiedergli i motivi di tanti migranti del suo paese e di tanti Warao per le strade delle città brasiliane.
Boa Vista. L’indirizzo è Av. Benjamin Constant 968, nel centro della città, capitale dello stato di Roraima. È una modesta casa su un solo piano, resa facilmente riconoscibile dal suo vivace color arancione e naturalmente dalla grande bandiera venezuelana che sventola sul pennone posto nel giardinetto antistante l’entrata.
A sorvegliare la sede consolare c’è una sola persona, una poliziotta brasiliana, seduta tranquillamente davanti a un tavolino a lato della porta d’ingresso. All’interno ci sono due impiegate e alcune persone in attesa. Sulla vetrata che separa le addette dal pubblico è appeso un foglio che informa del piano Vuelta a la patria: requisiti, documenti, condizioni. È un programma istituito dal governo di Caracas per tentare di far tornare a casa i migranti.
Il console si chiama Faustino Torella Ambrosini. Ci accoglie con cordialità ricordandoci subito le origini italiane: i suoi genitori arrivarono in Venezuela dalla provincia di Avellino. Prima di diventare diplomatico insegnava storia all’Università Centrale del Venezuela, il principale ateneo pubblico del paese. È console generale del Venezuela a Boa Vista dal dicembre 2018, dopo un’esperienza analoga di cinque anni a Manaus. Boa Vista non è una metropoli come quest’ultima ma è importante perché dista soltanto 215 chilometri da Pacaraima, porta d’ingresso in Brasile per molti venezuelani (indigeni inclusi) che infatti si vedono ad ogni incrocio, nei rifugi ufficiali (abrigos) e in quelli improvvisati.
Nello studio dove ci accomodiamo, accanto alla bandiera, il ritratto del presidente Maduro sta in mezzo a quelli, più piccoli, dell’eroe nazionale Simón Bolívar e di Hugo Chávez. Siamo qui per chiedere al console della migrazione dei Warao, ma non possiamo non iniziare dalla situazione generale del paese. Com’è?, domandiamo. «Difficile», risponde senza pensarci su un attimo. E aggiunge: «È la situazione che vivono i paesi e i popoli che soffrono a causa di un embargo illegale imposto da uno stato che si considera al di sopra di tutti gli altri. Il Venezuela è un paese la cui economia si fonda sul petrolio e con la valuta che ottiene dalla sua vendita compra alimenti e medicinali, come anche materie prime e prodotti industriali di uso comune. Non avendo libero accesso al mercato estero e ai nostri conti bancari in dollari, per il cittadino venezuelano la quotidianità si è fatta molto complicata».
Anche per la popolazione dei Warao. Il console parla di un numero di indigeni attorno alle 69mila persone, mentre l’ultimo censimento – risalente al 2011 – ne contava circa 49mila. Rispetto alla gravità del problema della loro migrazione, il nostro interlocutore minimizza. «Sono – ci spiega – una popolazione nomade e in quanto tale si muovono. Dal Delta Amacuro si sono distribuiti negli stati Monagas, Sucre, Bolivar, ma anche in Caracas, Valencia… Voglio dire che non è da oggi che stanno venendo in Brasile. Sono sempre venuti qui. In questo momento, semplicemente ne arrivano di più e si fermano più a lungo».
Chiediamo al console se i Warao abbiano lasciato i loro fiumi anche sulla spinta di fattori ambientali e invasioni di gruppi non indigeni. «Il mondo è cambiato ed è cambiato anche per i Warao. Le condizioni ambientali nel delta dell’Orinoco non sono certamente le stesse di un tempo, ma rimangono sostenibili. È possibile continuare a pescare e a seminare, soprattutto palme e frutta tropicale».
Facciamo notare al console come molte comunità warao lungo l’Orinoco e i suoi canali (i cosiddetti caños) si siano svuotate. «Abbiamo una popolazione che è indigena e vive nel proprio habitat e una popolazione indigena che è trapiantata in città. Lo dico perché molte persone che s’incontrano qui in Brasile sono indigeni urbanizzati. E poi vi chiedo: perché tra tutte le etnie indigene del Venezuela in Brasile arrivano soltanto i Warao? Perché – lo voglio ribadire – loro già venivano qui. Quasi tutti gli altri gruppi indigeni sono sedentari, nonostante l’embargo economico (che è la vera motivazione della migrazione dei venezuelani) valga per tutti».
Nomadi ma anche urbanizzati: sembrerebbe un ossimoro, o almeno una contraddizione in termini. Faustino Torella Ambrosini ribadisce i due concetti aggiungendo: «L’indigeno warao che è andato in città difficilmente torna indietro. Ha tutto il diritto di agire così: queste persone appartengono ai popoli tradizionali, ma sono anche venezuelani. E poi, in questo loro cambiamento, c’è un ministero che li aiuta».
Il console si riferisce al Ministerio del Poder Popular para los Pueblos Indígenas, attualmente guidato da Aloha Núñez, indigena Wayú (Guaijra). Cosa fa questo ministero?, gli chiediamo. «È stato creato per aiutare i popoli indigeni a integrarsi. A incorporarsi nella società venezuelana. Sempre con rispetto per la loro volontà». Incorporarsi come?, insistiamo. «Ad esempio, con la Gran mision vivienda para indigenas. Noi li aiutiamo a costruire le loro case utilizzando materiali e disegni tipicamente indigeni. Come per le palafitte». Il console ricorda anche l’esistenza di un’università, la Universidad indígena de Venezuela, istituita appositamente per gli indigeni negli stati Bolivar e Amazonas.
Chiediamo anche dell’operazione Vuelta a la patria pubblicizzata dal volantino affisso all’entrata. «È un progetto – spiega il diplomatico – del nostro governo per i venezuelani che non hanno avuto fortuna nei paesi – Ecuador, Perù, Panama, Colombia, Argentina e Brasile – dove sono emigrati e che vogliono tornare a casa. L’esecutivo favorisce il rimpatrio di queste persone. Hanno partecipato anche gli stessi Warao per una cifra importante: non meno di mille».
Mille indigeni che sono rientrati, tornando da dove erano partiti. Non possiamo verificare la veridicità di questo numero, a prima impressione piuttosto elevato. Il console Faustino Torella Ambrosini è un rappresentante ufficiale del governo di Caracas e, in quanto tale, non può che difenderne l’operato. A suo merito, va detto però che non è rimasto chiuso nella propria sede consolare, ma ha visitato di persona gli abrigos di Boa Vista (compreso quello spontaneo di Ka Ubanoko) e di Pacaraima, dove sono concentrati molti Warao. E gli indigeni ci hanno confermato sia la visita del console che la sua disponibilità.
Marco Bello – Paolo Moiola
Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.
Sudafrica: Caccia allo straniero
testo di Enrico Casale |
Nel paese di Mandela cresce la xenofobia contro gli stranieri e gli atti di persecuzione e violenza si moltiplicano. Complici la crisi economica e la corruzione dilagante, ma anche la politica.
È come un fiume carsico. Emerge a tratti e con una violenza inaudita, per poi sparire. La xenofobia in Sudafrica si scatena improvvisamente. Poi si placa. Ondate di scontri, pestaggi, uccisioni, incendi di attività di stranieri. Almeno 60 persone sono state uccise nel 2008, sette nel 2015, dieci a settembre dell’anno scorso. Le città più colpite sono state Johannesburg e Durban, ma anche Città del Capo non è rimasta immune.
Ma che cosa scatena questa violenza? E perché la Nazione Arcobaleno, che era riuscita a uscire da un duro regime di segregazione razziale, è precipitata in un vortice di razzismo di africani contro africani?
Forse le radici dell’odio etnico si trovano proprio nell’eredità lasciata dall’apartheid. «Vent’anni di democrazia – spiega Pablo Velasquez, religioso scalabriniano che lavora nelle periferie di Johannesburg – non hanno risolto i problemi del paese. La differenza tra i ricchi, la maggior parte dei quali bianchi, e i poveri è enorme. La disoccupazione è altissima (ufficialmente è al 30%, ma probabilmente è più elevata, ndr). In molte zone rurali mancano i servizi di base: acqua, elettricità, linee telefoniche, gas, strade, scuole. Il problema della casa è molto sentito. Tutto ciò provoca forti tensioni».
Inurbamento continuo
Molti sudafricani si spostano dalla campagna alle baraccopoli delle grandi città. Qui incontrano gli immigrati, poveri come loro, se non di più. «In molti sudafricani neri – osserva padre Filippo Ferraro, scalabriniano che lavora a Città del Capo – è ancora vivo il senso di inferiorità imposto per decenni dal regime di segregazione dei bianchi boeri. Il fatto di essere stati sempre trattati come “cittadini di serie B” fa sì che la loro frustrazione si riversi sugli immigranti che oggi sono gli ultimi degli ultimi. Molti sudafricani vedono nei nuovi arrivati un nemico da combattere che potrebbe sottrarre loro le poche risorse a disposizione. Così scattano violenti pogrom che distruggono le attività dei migranti e, in alcuni casi, arrivano a uccidere gli stranieri».
«Dopo gli attacchi dei primi giorni di settembre – spiega Pablo Velasquez -, in città è tornata la calma, ma c’è ancora paura. Ho trascorso qualche periodo in un campo profughi irregolare, dove vivono zimbabweani, mozambicani, somali, etiopi, nigeriani, ghanesi, congolesi. Qui ho toccato con mano il terrore. La gente non si fida a lasciare l’area e ad andare in città per vendere le loro povere merci. Teme di essere maltrattata, picchiata, che le proprie cose siano distrutte».
Ma il razzismo non colpisce tutti gli africani in modo uguale. L’odio si concentra soprattutto su quelli che vengono da più lontano: congolesi, eritrei, maliani, nigeriani, somali. Meno colpiti i vicini malawiani, mozambicani, zimbabweani. Probabilmente conoscono meglio l’ambiente del Sudafrica e si integrano meglio nella sua società e nella sua economia. Ma tutta la comunità di migranti è una risorsa per il Sudafrica. Secondo un report della Banca mondiale, i quattro milioni di stranieri che vivono nel paese producono un impatto positivo su occupazione e salari. Il rapporto ha calcolato che ogni migrante genera un effetto moltiplicatore del mercato del lavoro creando circa due impieghi.
Lo zampino della politica
Il presidente Cyril Ramaphosa è stato costretto a lanciare un messaggio di pacificazione: «Attaccare gli esercizi commerciali gestiti da stranieri è qualcosa di inaccettabile, qualcosa che non possiamo permettere che accada in Sudafrica».
A queste tensioni non è estranea la politica. Secondo Shenilla Mohamed, direttrice generale di Amnesty international Sudafrica, in questi anni molte personalità politiche, per ottenere una manciata di voti in più, hanno incolpato gli stranieri degli elevati livelli di criminalità e dell’inadeguatezza dei servizi pubblici, accusandoli inoltre di gestire esercizi commerciali illegali. Gli stranieri, secondo Shenilla Mohamed, «diventano i capri espiatori di politici privi di scrupoli che promuovono la narrativa dello straniero venuto a rubare il lavoro e che è responsabile di tutto ciò che di negativo accade qui». In realtà, si tratta di un’opera di distrazione dai veri problemi del paese come le profonde disuguaglianze sociali, la complessa situazione economica che, da anni, vede il sistema dominato dalla stagnazione, e la corruzione, ormai diffusa non solo tra i politici ma anche tra i funzionari dell’amministrazione pubblica, che indebolisce l’economia e accresce ancora di più la disoccupazione e la povertà.
Contro odio e intolleranza
In questo contesto, la Chiesa cattolica, pur minoritaria in Sudafrica (10% della popolazione), negli ultimi anni ha levato la sua voce contro gli atti di violenza xenofoba. Monsignor Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg, ha paragonato la xenofobia al nazismo. «Siamo di fronte a una marea crescente di odio e intolleranza – ha detto il prelato -, non diversa dalla marea crescente di odio nella Germania nazista. Se non prendiamo provvedimenti urgenti per fermare questo fenomeno, diventerà troppo tardi». Monsignor Tlhagale, che dirige l’ufficio migranti e rifugiati della Conferenza episcopale dell’Africa australe, ha osservato che le autorità sudafricane hanno fatto «ben poco per proteggere le vittime» degli ultimi attacchi. «Abbiamo ricevuto segnalazioni di agenti di polizia che sono rimasti pigramente in disparte mentre i negozi venivano saccheggiati e le persone attaccate – ha dichiarato -. Cerchiamo di essere assolutamente chiari – questo non è un tentativo dei sudafricani di liberare le città dagli spacciatori» né «il lavoro di alcuni elementi criminali, questa è xenofobia, pura e semplice».
«È probabile che gli attacchi alle comunità di migranti e alle loro attività continuino nel futuro – ha aggiunto il vescovo – perché tali attacchi sono ora indissolubilmente legati alle rivendicazioni di servizi di base. Districare il razzismo dalle sacrosante esigenze dei poveri sudafricani sarà una grande sfida […]. La profonda insoddisfazione dei sudafricani per la corruzione e l’inefficienza dei loro comuni e del loro governo nazionale non dovrebbe ricadere sui migranti. Non è assolutamente etico trascinare i migranti nelle liti dei sudafricani. […] I sudafricani non dovrebbero indurire i loro cuori e dovrebbero eliminare il loro odio per i migranti innocenti. I migranti hanno il loro onere da portare. I sudafricani dovrebbero portare il proprio».
Una nuova legge contro i migranti
In numerosi documenti, i vescovi hanno appoggiato le istanze a favore dei migranti e di una politica più aperta nei confronti dei rifugiati. Tra le prese di posizione più dure dei prelati c’è l’opposizione alla riforma della legge sui rifugiati. Questa normativa, che è stata approvata subito dopo la fine dell’apartheid, è molto liberale e permette ai migranti che attendono il riconoscimento dell’asilo di essere liberi di muoversi nel paese, di lavorare e di studiare.
«La nuova legge – spiega padre Filippo – intende creare centri di detenzione in cui ammassare i richiedenti asilo. Sebbene sia previsto che lo status di rifugiato debba essere riconosciuto entro otto mesi, i migranti aspettano anche nove anni prima di avere una risposta. Ciò significa che si verrebbero a creare veri e propri campi di concentramento. Una cosa assurda. Anche perché la società sudafricana ha bisogno dei migranti: lavorano in settori in cui i sudafricani sono esclusi, creano imprese e offrono lavoro. Il loro dinamismo è essenziale».
I principali poli di attrazione sono i paesi che hanno le economie più forti: Sudafrica (4 milioni di migranti), Costa d’Avorio (1 milione), Nigeria (1,5 milioni). Il Sudafrica attrae la manodopera da Zimbabwe e Mozambico e poi, in larga parte, la impiega nelle miniere (oro, platino, diamanti), ma anche nell’economia informale (soprattutto nel commercio). La Costa d’Avorio, tra i principali produttori mondiali di cacao, importa da Mali e Burkina Faso braccianti per le sue piantagioni. La Nigeria è un polo per molti paesi confinanti per la sua economia diversificata.
Ma non è solo il buon andamento economico ad attrarre migranti. Molti di essi non cercano tanto la sicurezza economica quanto un luogo sicuro che li metta al riparo da conflitti o da regimi illiberali. L’Etiopia, per esempio, ospita circa 900mila rifugiati – la seconda popolazione rifugiata più ampia in Africa. La prima è in Uganda, che a maggio 2019 ospitava 1.276.208 rifugiati. La maggior parte è stata costretta a lasciare le proprie case in Somalia, Sud Sudan, Eritrea, Sudan e Yemen affrontando pericoli e discriminazioni lungo il percorso. Anche il Kenya ospita migliaia di rifugiati. Il solo campo profughi di Dadaab ne accoglieva, a fine agosto 2019, oltre 200mila (era arrivato a ospitarne fino a 600mila). Sono in gran parte somali che cercano pace dalla guerra civile che da quasi trent’anni sconvolge il loro paese.
In Africa centrale in molti fuggono dalla Repubblica democratica Congo e cercano rifugio nelle nazioni confinanti. Al 31 agosto 2019, secondo le statistiche fornite dall’Acnur (agenzia delle Nazioni unite che si occupa dei rifugiati), erano 890mila i congolesi ospitati in Angola, Zambia, Tanzania, Uganda. «L’Africa subsahariana – ha scritto nel dossier Giovanni Carbone, dell’Ispi Africa Programme – è, e continuerà a essere, attraversata da rapide e profonde trasformazioni su una molteplicità di fronti: le distinte traiettorie di crescita seguite dalle economie della regione; le pressioni demografiche che portano alcune aree ai limiti della sostenibilità, intensificando sfruttamento, competizione e frammentazione delle terre nonché i processi di urbanizzazione; le sfide connesse al cambiamento climatico, inclusa la desertificazione e il moltiplicarsi di fenomeni climatici estremi; il divario tra la relativa stabilità politica di alcune aree e la persistente o rinnovata conflittualità di altre; gli altalenanti ritmi di integrazione delle diverse comunità economiche sub regionali e dei processi di cooperazione continentali. È solo un elenco parziale di veloci mutamenti che i paesi della regione si trovano simultaneamente ad affrontare, ciascuno di essi destinato a ripercuotersi a sua volta sull’evoluzione delle dinamiche migratorie intra-continentali».
En.Cas.
Ri-animare l’economia
testo di Maria Gaglione |
Migliaia di giovani economisti, imprenditori e promotori di cambiamento da 120 paesi s’incontreranno a fine marzo ad Assisi per fare un patto per un nuovo modello economico.
«Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda».
Papa Francesco apre con queste parole la sua lettera, firmata il 1° maggio 2019, memoria di san Giuseppe lavoratore, indirizzata ai giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per invitarli ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020.
«Occorre “ri-animare” l’economia! E quale città è più idonea per questo di Assisi, che da secoli è simbolo e messaggio di un umanesimo della fraternità? Se san Giovanni Paolo II la scelse come icona di una cultura di pace, a me appare anche luogo ispirante di una nuova economia. Qui infatti Francesco si spogliò di ogni mondanità per scegliere Dio come stella polare della sua vita, facendosi povero con i poveri, fratello universale. Dalla sua scelta di povertà scaturì anche una visione dell’economia che resta attualissima. Essa può dare speranza al nostro domani, a vantaggio non solo dei più poveri, ma dell’intera umanità».
È un appello a radunarsi per stipulare un patto nel segno del Santo di Assisi e del Vangelo che egli visse in totale coerenza anche sul piano economico e sociale, e nel segno della Laudato si’, la lettera enciclica nella quale lo stesso papa ha denunciato lo stato patologico di tanta parte dell’economia mondiale e ha invitato a mettere in atto un modello economico nuovo.
Comunione, fraternità, equità
Nella Laudato si’, papa Francesco sottolinea come oggi, più che mai, tutto è intimamente connesso, e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. «Purtroppo – scrive Francesco nella lettera per l’evento di Assisi – resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità. […] Mi vengono in mente le parole rivolte a Francesco dal Crocifisso nella chiesetta di san Damiano: “Va’, Francesco, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. Quella casa da riparare ci riguarda tutti. […] Ma ho pensato di invitare in modo speciale voi giovani perché, con il vostro desiderio di un avvenire bello e gioioso, voi siete già profezia di un’economia attenta alla persona e all’ambiente.
Carissimi giovani, io so che voi siete capaci di ascoltare col cuore le grida sempre più angoscianti della terra e dei suoi poveri in cerca di aiuto e di responsabilità, cioè di qualcuno che “risponda” e non si volga dall’altra parte».
Portatori di una cultura coraggiosa
All’appello del papa hanno risposto migliaia di giovani da oltre 120 paesi. Sono dottorandi di ricerca, giovani ricercatori e professori (di economia, management, filosofia, sociologia, teologia), imprenditori, dirigenti di azienda, startupper, innovatori sociali, promotori di progetti e attività al servizio del bene comune. Si occupano di ambiente, risorse naturali, consumo responsabile e stili di vita, produzione, innovazione, lavoro, finanza, sviluppo, povertà, uguaglianza, educazione, intelligenza artificiale e nuove tecnologie.
Stanchi di un sistema in cui non si riconoscono, sono portatori di una cultura coraggiosa capace di realizzare altri modi di intendere l’economia e il progresso e vogliono essere parte di un processo di cambiamento globale. Aspettano di vivere l’incontro di Assisi come occasione di confronto e di relazione con altri giovani e sperano di poter condividere l’esperienza con e per le comunità e i paesi a cui appartengono.
Civiltà della gratuità
Francesco d’Assisi era figlio di un ricco mercante borghese, ed era giovane quando decise di lasciare le ricchezze di suo padre e di dedicarsi alla sua vita nuova.
All’alba di ogni autentica vocazione, c’è sempre la tappa della spoliazione. Arriva quando la persona chiamata capisce che deve operare un «reset» della propria esistenza: ripartire da zero, perché sta rinascendo.
Quando il carisma francescano ha fatto irruzione nella storia, con esso ha fatto la sua comparsa anche una nuova concezione della ricchezza e della povertà. Essa ha operato una vera rivoluzione culturale che avrebbe poi portato alla nascita dell’economia moderna: infatti, non solo furono francescani alcuni tra i più importanti teorici dell’economia medioevale, ma dai francescani dell’Osservanza nel XV secolo nacquero i Monti di Pietà, protobanche civili, i primi istituti di microfinanza nati senza scopo di lucro per curare la povertà e l’usura nelle città del centro Italia.
Dalla povertà scelta liberamente dai francescani nacquero, dunque, istituzioni per liberare dalla povertà chi non l’aveva scelta, ma subita. «Finché c’è un povero – dicevano i francescani – la città non può essere fraterna».
Quel gesto, dunque, fu l’atto di nascita di una oikos-nomos diversa, di un nuovo «governo della casa», fu la genesi di un regno dove la moneta è la charis.
Quella prima gratuità fece nascere un’economia e una civiltà che ha liberato e continua a liberare milioni di poveri. Solo chi conosce la gratuità, infatti, può dar vita a nuove economie, perché essa dà il giusto valore al denaro e ai profitti, e alla vita.
Un carisma che ha posto al proprio centro «sorella povertà», il distacco dai beni, diventa la scuola economica dalla quale emergerà in seguito il moderno spirito dell’economia di mercato.
Protagonismo giovanile
Nel nostro mondo oggi continua a esserci un infinito bisogno di gratuità e fraternità. Papa Francesco lo sa molto bene e affida ai giovani la costruzione di una nuova economia: l’economia di Francesco.
«Le vostre università, le vostre imprese, le vostre organizzazioni sono cantieri di speranza per costruire altri modi di intendere l’economia e il progresso, per combattere la cultura dello scarto, per dare voce a chi non ne ha, per proporre nuovi stili di vita – continua il papa nel suo messaggio -. Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».
«The Economy of Francesco» sarà dunque un incontro internazionale con un grande protagonismo del pensiero e delle prassi dei giovani.
E di giovani è composto anche il gruppo di economisti, imprenditori, artisti ed esperti della comunicazione che sta lavorando per la preparazione dell’evento insieme a un comitato scientifico internazionale coordinato dall’economista Luigino Bruni, professore ordinario alla Lumsa.
Insieme ai migliori cultori della nuova economia
«Insieme a voi, e per voi, farò appello ad alcuni dei migliori cultori e cultrici della scienza economica – prosegue il papa nella sua lettera di maggio scorso -, come anche a imprenditori e imprenditrici che oggi sono già impegnati a livello mondiale per una economia coerente con questo quadro ideale».
A questo appello hanno risposto in molti: economisti e imprenditori di fama internazionale che accompagneranno i giovani nei giorni dell’evento, anche attraverso sessioni interattive e colloqui personali, approfondimenti di storie ed esperienze.
Tra essi Amartya Sen, economista e filosofo indiano, premio Nobel per l’economia 1998, Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana, tra i principali leader dell’International forum on globalization, Stefano Zamagni, docente di economia all’Università di Bologna, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Kate Raworth, economista inglese che lavora per l’Università di Oxford e l’Università di Cambridge, senior associate all’Istituto per la leadership della sostenibilità di Cambridge, e altri.
Ridisegnare il sistema
Fra i primi a rispondere, Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese, ideatore e realizzatore del microcredito moderno e Nobel per la pace: «The Economy of Francesco è un esempio globale che può ispirare persone in tutto il mondo, riguarda il modo in cui la vita, per i poveri, può essere cambiata – ha dichiarato -. Dobbiamo capire che la povertà è creata dal sistema economico che abbiamo costruito. Perciò il sistema va orientato, perché sta producendo povertà a dismisura, ogni giorno. Dobbiamo rivedere tutto e cercare l’origine della povertà. Tutta la ricchezza del mondo è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 99% dipende da quell’1%. Questo è totalmente inaccettabile. Abbiamo bisogno di dare vita a un’economia circolare che non distrugga continuamente la ricchezza globale. Dobbiamo farlo, dobbiamo progettarla e proteggere l’ambiente perché siamo nel bel mezzo di un disastro che va fermato.
Di questo discuteremo nel prossimo marzo, di come ridisegnare il sistema e di quale ruolo possono avere i giovani. I ragazzi hanno un enorme potere, grandi capacità e incredibili strumenti tecnologici fra le mani. Se fissano un obiettivo, possono cambiare il mondo molto rapidamente. È ciò che papa Francesco sta provando a fare: riunire i giovani, lanciare loro la sfida del cambiamento perché il nostro mondo sta affondando, sta soffrendo e va ripensato. Così andremo nella direzione di costruire un pianeta bellissimo per tutti, non solo per pochi fortunati. Vogliamo cogliere l’opportunità di ridisegnare l’economia e poter dare un contributo importante al welfare».
Far parte del cambiamento
Anche per Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense e direttore dell’Earth institute alla Columbia University, The Economy of Francesco è «un evento per dare vita a una nuova economia globale che sia equa, prospera e sostenibile sotto il profilo ambientale. Il lavoro che verrà fatto ad Assisi sarà rivoluzionario, stimolante per tutto il mondo e costruttivo per le future generazioni. I giovani stanno urlando “vogliamo un cambiamento”, scioperano per la salvezza del clima, dicono “il nostro mondo non può continuare a essere maltrattato” come adesso. Vogliamo pace, cooperazione, sostenibilità ambientale, giustizia. I ragazzi di tutto il mondo stanno dicendo che la Economy of Francesco mostrerà, attraverso dibattiti e decisioni, come tutto ciò può essere realizzato. Io ci sarò in quei giorni perché abbiamo bisogno di una nuova economia, una nuova visione, e gli insegnamenti di papa Francesco contenuti nell’enciclica Laudato si’ e in altri scritti ci aiutano a tracciare il sentiero verso un mondo migliore, più felice, sostenibile ed etico. Rappresentano una spinta a far parte del cambiamento che garantirà più felicità per tutti».
Un patto solenne
Non sarà un congresso tradizionale, dunque, ma l’avvio di un processo che consenta di pensare e domandarsi, sulle orme e nei luoghi di Francesco d’Assisi, cosa significa oggi costruire un’economia nuova che non emargini nessuno.
Sarà soprattutto il momento in cui i giovani stringeranno un patto solenne con papa Francesco, assicurando il proprio impegno: «Per questo desidero incontrarvi ad Assisi, per promuovere insieme, attraverso un patto comune, un processo di cambiamento globale che veda in comunione di intenti non solo quanti hanno il dono della fede, ma tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, uniti da un ideale di fraternità attento soprattutto ai poveri e agli esclusi. Invito ciascuno di voi a essere protagonista di questo patto, facendosi carico di un impegno individuale e collettivo per coltivare insieme il sogno di un nuovo umanesimo rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio».
La ventinovesima scena
Solo quando san Francesco si avvicinò ai più poveri, al suo tempo rappresentati soprattutto dai malati di lebbra, egli rafforzò l’amore che avvertiva dentro e che lo sollecitava a operare per la carità.
Visitando il meraviglioso ciclo giottesco sulla vita del santo di Assisi si scopre, però, che il solo episodio che manca in quelle ventotto scene, è proprio il bacio di Francesco al lebbroso a Rivotorto, un episodio centrale e decisivo nella vita del poverello e del francescanesimo.
La scena non è entrata in quel ciclo pittorico, forse perché i borghesi di Assisi, finanziatori della basilica, non volevano che il mondo ricordasse la presenza dei lebbrosi nella loro città.
I ricchi possono anche donare molto denaro per i poveri, ma in genere non li vogliono vedere: i lebbrosi sono scarti della storia e della narrazione stessa di quella storia.
La prima povertà di molti è l’invisibilità, il fatto di non essere visti e raccontati.
«The Economy of Francesco», dunque, ci aiuterà a restituire al mondo la 29esima scena: le fragilità e le povertà di oggi, osservate e chiamate per nome, e incluse nella vita, nell’economia e nella storia, con l’attenzione e le risposte che meritano.
L’ecologia francescana sa intuire una fraternità cosmica, perché il primo fratello che ama è il povero scartato. Quando papa Francesco scelse di intitolare Laudato si’ la sua enciclica sull’ecologia e sull’economia ci ha ricordato che il Cantico delle creature inizia con l’abbraccio al lebbroso e che l’economia circolare, green, sostenibile, assomiglia all’economia di Francesco solo se inizia dagli ultimi di oggi.
Maria Gaglione
Un evento,molti eventi
L’evento «The Economy of Francesco» ha prodotto in tutto il mondo un gran numero di altri eventi che nei mesi scorsi hanno radunato e fatto riflettere migliaia di persone da Lisbona a Vienna, da Palermo a Bergamo, in Brasile, Spagna, Colombia, Corea del Sud, Perù, Camerun, Usa, Polonia.
Organizzati a livello locale o regionale, sotto forma di workshop, laboratori, seminari di studio, conferenze, promossi da organizzazioni, movimenti, associazioni, università, imprese, gruppi informali, sono nati dall’esigenza di ascoltare e valorizzare il pensiero e l’agire economico dei giovani attraverso l’incontro e il dialogo tra economisti e imprenditori a partire dal messaggio di papa Francesco.
La città più santa e più antica dell’India ha molti nomi: Varanasi, Benares (Benaras), Kashi. Un viaggio nella città in riva al grande fiume Gange porta al cuore della religione e della cultura induista.
Sono le cinque del mattino, i vicoli della vecchia Varanasi brillano della pioggia della notte appena passata. Uno di essi, appena sufficiente a consentire il passaggio di due persone, conduce tra i negozi fino al sacro fiume Gange.
È appena l’alba ma l’intrico di vie della città vecchia è già immerso nel caos. Gli uomini spingono le donne, le donne spingono i grossi buoi, i buoi evitano di calpestare i bambini. Tutto è in vendita: piccole bottiglie di acqua «santa» del Gange, bottiglie di acqua minerale, amuleti, bracciali, anelli, immagini del dio Shiva.
I turisti camminano ancora addormentati. Molti, soprattutto le donne, indossando abiti tradizionali nel tentativo di confondersi con la folla e immedesimarsi nello spirito della città.
I negozianti osservano l’attività dei vicoli affollati con indifferenza, sorseggiando il tè del mattino. Se qualcuno si ferma a chiede loro indicazioni, riprendono vita descrivendo il percorso con gesti saldi ed energici.
Linee infinite di pellegrini indiani camminano scalzi per i vicoli tenendo costantemente il loro sguardo verso il fiume sacro. Alla fine, i vicoli si allargano e appare l’acqua di un colore marrone scuro, torbido. È il Gange, Ganga come lo chiamano gli indiani. Quest’anno le piogge monsoniche sono state particolarmente copiose e il fiume ha ricoperto gran parte dei ghat (scalinata che scende al fiume, ndr).
L’alba è l’ora più fortunata per un fotografo. Quasi non riesco a impugnare la macchina; sono incantato dalla folla che ignorando completamente tutto ciò che la circonda, ha come unico scopo quello di tuffarsi in quell’acqua torbida e dalla forte corrente.
Più vecchia della storia
Dopo aver camminato per alcuni giorni lungo le stradine di Varanasi, aver trascorso molte ore seduto sui gradini dei ghat del sacro Gange e aver assistito alle cremazioni al ghat Manikarnika, ho compreso perché Mark Twain, sconcertato visitatore occidentale nei primi del Novecento, abbia scritto: «Banares è più vecchia della storia».
Varanasi è una città dalle mille contraddizioni. Dall’Assi al Panchganga ghat, ho camminato alla ricerca di una fede inafferrabile per capire le ragioni di una condizione umana e sociale così diversa, lontana e incomprensibile ai miei occhi. Interrogativi sul valore dell’essere umano e della sua condizione di vita mi hanno accompagnato e tormentato durante tutta la mia permanenza in città.
Non è il mio primo viaggio fotografico in India. Ho trascorso molto tempo in questa terra dai mille volti. Avevo sempre rinviato il mio confronto con Varanasi fino a quando, al rientro dal Ladakh all’estremo Nord del paese, lo scorso ottobre, ho deciso finalmente di affrontarla.
Visitare questa città è un sogno per i fotografi. Ha un’attrattiva molto particolare. C’è di più dei ghat, dei templi e del caos cittadino.
Gli stretti vicoli sono colorati e impregnati di un fascino unico; i ghat portano mille aromi di incenso ed emanano odori che anche gli olfatti più abituati stentano a sopportare. C’è qualcosa di diverso da scoprire dietro ogni angolo.
La città e il fiume
Varanasi è conosciuta come la capitale religiosa dell’induismo. Sia gli indù che i non indù di tutto il mondo la visitano per motivi diversi: le sue tradizioni, la spiritualità, l’architettura, la storia. Altri ancora viaggiano in questa città alla ricerca del significato della vita. Altri vengono alla ricerca dell’anima gemella. Alcune donne danno alla luce bambini sui ghat, molti vi si sposano e tanti altri vengono qui a morire.
Tutti sono convinti che il fiume sacro li purificherà dalle loro sofferenze e laverà via i loro peccati. Ci sono cerimonie e rituali quotidiani che prendono vita sulle rive del Gange e migliaia di persone si riversano lungo le sue rive per il «santo tuffo».
Un amico fotografo indiano, esperto di Varanasi, mi ha raccontato che esiste un potere molto speciale nella città. Gli indù credono che il bagno nel Gange rimetta i peccati e che morire qui assicuri il rilascio dell’anima dal ciclo della sua trasmigrazione (reincarnazione). Molti indù vengono in città per morire, altri risparmiano per tutta la vita per assicurarsi di essere cremati e avere le ceneri gettate nel Gange.
Rupie miracolose
Ho avuto modo di assistere alle cerimonie di cremazione e documentare i vari rituali, tra difficoltà e anche intimidazioni. Già lungo i vicoli verso il ghat Manikarnika, dove avvengono queste cerimonie, ogni persona che incontravo mi lanciava dei moniti: «Nessuna foto! È proibito!». Le persone più ostinate mi seguivano chiedendomi insistentemente di mettere via la macchina fotografica elencandomi i rischi: l’arresto, la prigione, l’espulsione.
Successivamente ho scoperto che elargendo qualche rupia per ogni scatto avrei potuto addirittura accedere all’interno dell’edificio dove avvengono le cremazioni e fotografare senza alcun problema. Così è stato.
Quello a cui ho assistito è stato emotivamente e visivamente toccante. Per rispetto di quei corpi e del rituale hindu, mi sono limitato a pochi scatti. Le immagini raccolte non possono testimoniare gli odori, l’atmosfera, le sensazioni, la spiritualità che ho vissuto di persona. Il fumo acre e denso delle pire ha intriso i miei vestiti e le mie narici rimanendo con me per giorni. I corpi arrivano giorno e notte senza fermarsi. Manikarnika non dorme mai.
Intorno al ghat, la morte è una forma di sostentamento permolti: falegnami, barbieri, antyeshti (sacerdoti che eseguono riti e preghiere), venditori di fiori e gruppi di emarginati (intoccabili) che setacciano i resti sotto i forni crematori e il fango sul fondo del Gange, alla ricerca di anelli e gioielli rimasti tra le ceneri dei corpi.
Esplosione di colori
Varanasi è pura esplosione di colori, emozioni, espressioni. Le persone non sembrano notare mentre scatti, non provano a inserirsi nell’inquadratura e non posano. Eccezion fatta per i sadhu, gli asceti religiosi, mendicanti, persone sante, anche donne, che nell’induismo e nel giainismo hanno rinunciato alla vita mondana.
Un sadhu dedica la propria vita al raggiungimento della liberazione, il quarto e ultimo stadio dell’esistenza. La liberazione è raggiunta attraverso la meditazione e la contemplazione del Brahman. Ci sono circa 5 milioni di sadhu in India: Naga, Bandu, Yogi, Siwadas, Bakti e molti altri. Tutti cercano di ottenere l’illuminazione religiosa e la liberazione dal ciclo della reincarnazione.
Varanasi è una città di leggende. La sua stessa storia è un enigma come lo resteranno i quesiti su quello che ho visto. Nella città sacra le condizioni di vita, gli stenti, gli eccessi e i paradossi dell’India raggiungono i livelli più estremi.
Daniele Romeo
Primo degli apostoli, primo dei romani
testo di Angelo Fracchia |
Ci è già ben chiaro che uno degli obiettivi di Luca nello scrivere gli Atti degli Apostoli è di spiegare che l’ampliamento della schiera dei «fratelli in Cristo» in numero ma anche in schieramento di campo, fuori dal mondo ebraico, è stato voluto dallo Spirito Santo e infatti non è stato causato da colui che molti accusavano di tradimento dell’ebraismo, ossia Saulo di Tarso. A un terzo del racconto degli Atti i cristiani si sono già fatti notare per delle frontiere molto porose: hanno già annunciato il vangelo, e battezzato, fuori dai confini più rigidi e stretti del popolo ebraico, vale a dire a samaritani (At 8,5-25) ed eunuchi (At 8,26-39). Alcuni tra i fratelli continuano a frequentare religiosamente il tempio (At 2,46; 3,1; 5,21) anche se altri contro quel tempio pronunciano parole di fuoco (Stefano: At 7). Finora, tuttavia, il movimento cristiano sembra uno tra i tanti gruppi ebrei, sicuramente tra i più aperti ed elastici, ma sempre all’interno di una varietà che era comunque ampia.
I lettori degli Atti sapevano però già che il cristianesimo si era espanso ben oltre i confini ebrei, e voci calunniose sostenevano che a operare quel cambiamento, forzando la mano alla comunità, fosse stato uno che non aveva neppure conosciuto Gesù, un rabbino originario di Tarso.
Con il capitolo 10 degli Atti degli Apostoli, Luca prende decisamente posizione contro queste voci: il movimento di Gesù si apre a chi viene dal paganesimo, ma lo fa nella sua guida più ufficiale e autorevole, Pietro (anche se di certo non dobbiamo pensarlo come un papa odierno), con il pieno avallo dello Spirito Santo (che anzi deve anche spingere un po’…) e nell’approvazione consapevole di tutta la chiesa.
Un poco di contesto
Per apprezzare fino in fondo il peso della storia, dobbiamo ricordare che i romani non erano soltanto degli «invasori» stranieri. Roma porta nel Mediterraneo orientale ordine, ricchezza, commerci e un modello ideologico potente. Roma si ritiene la garanzia della vita ordinata e felice del mondo. Quando gli imperatori si faranno venerare come dèi, daranno in fondo visibilità a una dimensione che, in forma implicita, era già presente. Per i romani la vita e la storia avevano solo una garanzia sicura: il loro potere, che garantiva a tutti di vivere bene. Appoggiandosi e innestandosi sulla cultura greca, già diffusa nel Mediterraneo, i romani si pensano come coloro che insegnano a vivere a tutti e risolvono tutte le tensioni. Dovremmo pensare al modo con cui, nella seconda metà del XX secolo, si è proposta da noi l’egemonia statunitense, non solo e non tanto con la forza degli eserciti, ma con il fascino della sua ricchezza, della sua sicurezza, della sua moda. Non è un nemico più forte che mortifica, ma un fratello maggiore che punta a convincere e a sedurre, a offrire un modello di vita.
Per questo il mondo ebraico – che pensava di non avere nel proprio Dio semplicemente un aiuto per uscire indenne dai rischi della vita, ma davvero un punto di riferimento definitivo per il quale si poteva addirittura mettere in pericolo la stessa vita – coglie nel potere romano qualcosa di affascinante (molti ebrei, commercianti, sfrutteranno la pace e il benessere romani) ma anche di sottilmente pericoloso.
Dentro a questo impero, poi, i centurioni non sono dei «romani» come gli altri. Intanto sono soldati, cioè rappresentano il volto più antipatico e violento di quella forza seducente. Poi, in quanto centurioni, non sono neanche soldati come gli altri, ma capi, che hanno voluto diventare tali e che possono fungere da funzionari dello stato. Nessuno diventava o restava centurione per caso o perché costretto dalle circostanze.
Cornelio, peraltro, sembra essere il ponte più verosimile verso il mondo ebraico: è un centurione, sì, ma «religioso e timorato di Dio» (At 10,2), generoso in elemosine e pronto a pregare Dio. È uno di quei non pochi che vedevano nell’ebraismo un movimento profondo, spirituale, attraente e convincente.
Protagonista è lo Spirito
Non è Cornelio ad avvicinarsi di propria iniziativa al cristianesimo, è invece Dio stesso, sotto forma di un angelo, a offrirgli di perfezionare il proprio avvicinamento al Dio vero. Neppure gli spiega chi sia Gesù o gli fa direttamente dono dello Spirito Santo, perché il Dio cristiano, che ha creato il mondo come autonomo, non sopporta di violentare la libertà umana, e si dà sempre attraverso gli uomini. Le voci divine, l’intervento diretto di Dio nella storia, è ben previsto negli Atti degli Apostoli, ma solo come anticipo o conferma di iniziative umane, non al loro posto. Nel mondo cristiano, Dio e l’uomo operano soltanto insieme.
La visione spiega a Cornelio chi dovrà chiamare.
Ma l’opera dello Spirito non è finita qui. Se infatti il romano poteva non sapere di chi avesse bisogno, colui che è chiamato dai suoi servi deve a sua volta convertirsi.
Pietro era il primo degli apostoli, il primo dei Dodici, ma nei fatti non era il capo del movimento cristiano che non aveva un vero centro. Se davvero i cristiani avessero voluto un tale centro, l’avrebbero cercato a Gerusalemme, dove la chiesa sembrava essere già guidata da «Giacomo, il fratello del Signore» (At 12,17; 15,13; cfr. 1 Cor 15,7; Gal 1,19).
Non a caso, Pietro non si trova a Gerusalemme, a gestire la chiesa, ma a Giaffa, sul mare Mediterraneo, in casa di un altro Simone, conciatore.
Il particolare del lavoro del Simone che ospita Pietro non pare essere secondario. Sembrerebbe quasi che Luca intenda portarci per mano, passo dopo passo, a scoprire che cosa Dio abbia in serbo per i suoi. Pietro, infatti, mentre è in preghiera, si trova davanti a una visione strana (At 10,10-16). Ha fame, e dal cielo scende una tovaglia con tanti animali di ogni tipo, compresi quelli che per la tradizione ebraica sono impuri. Sempre dal cielo viene una voce che invita Pietro a uccidere e cibarsi, ma lui si rifiuta, facendo notare che fin da quando era bambino aveva solo mangiato cibi puri. La voce, però, lo invita a ripensarci: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano». L’invito è chiaro, spinge il primo degli apostoli a non rispettare più le regole di purità rituale. L’obiezione può essere che si tratta di una regola religiosa, e violarla significa andare contro Dio.
Ma è qui che ci accorgiamo che Pietro già sta violando quella legge, in quanto i conciatori erano considerati impuri (erano costretti infatti a maneggiare cadaveri, che rendono impuri). Pietro supera già la legge quando entra in rapporto con le persone, proprio come aveva fatto anche Gesù, mangiando con peccatori e lebbrosi (Mt 26,6), senza farsi scrupoli (Gv 8,3-11, ma gli esempi sarebbero tanti). Al centro della proposta cristiana c’è l’incontro, con Dio e con gli altri, e non c’è legge religiosa che possa venire invocata per contestare questa intenzione divina di fondo.
Dio alla guida
Pietro, dunque, segue i servi inviati da Cornelio a chiamarlo. Non è senza significato la scena che si svolge quando entra in casa del centurione (At 10,25-26), con lo stesso che si china davanti a Pietro che lo rimprovera spiegando: «Anche io sono un uomo!». Luca fa di tutto per ricordarci che anche quando è Dio a prendere in mano il volante della storia (e qui lo fa!), non si muove senza la presenza collaborante degli uomini. Senza di noi, non vuole agire, non vuole forzarci ad andare dove non vogliamo: può spingerci, esortarci, invitarci, ma mai contro la nostra volontà e collaborazione.
Potremmo pensare che Pietro vada da Cornelio per predicare, evangelizzare e battezzare, cosa che farà. Ma intanto i due dialogano, si parlano, si chiariscono le intenzioni e condividono le esperienze (At 10,27-33). Il vangelo, innanzi tutto, mette in contatto le persone. Quindi Pietro spiega, in breve, la vicenda di Gesù (At 10,36-43), sottolineando che «Dio non fa preferenza di persone», quale che sia l’origine, il popolo o la storia personale, e di questo Pietro appena adesso sta rendendosi conto (At 10,34).
Quando ha finito di parlare non ha bisogno di attendere la reazione di chi è radunato in quella casa, perché, come è già successo altre volte ma soprattutto nella grande Pentecoste di Atti 2, lo Spirito Santo scende sui presenti senza aspettare il battesimo, che arriva quasi a conferma formale di ciò che già Dio ha operato (At 10,44-48).
Verifica ecclesiale
Il racconto non finisce qui. Persino Pietro, il primo degli apostoli, deve rendere conto ad altri di che cosa è successo. Benché la notizia che giunge a Gerusalemme sia che «i pagani avevano accolto la parola di Dio», che sembrerebbe essere presentata come una notizia positiva, quando Pietro arriva nella città santa viene rimproverato, perché si è mescolato con dei pagani, trascurando le norme di purità (At 11,1-3).
Deve quindi nuovamente riprendere l’intero racconto (che così Luca ci richiama ancora, perché non ce ne scordiamo: come i migliori professori, ci ripete più volte gli aspetti essenziali), al termine del quale i presenti si calmano e cominciano a lodare Dio (At 11,18).
È chiaro che cosa Luca vuole spiegare di questo passaggio delicato e fondamentale. Dio ama gli uomini, vuole entrare in rapporto e relazione con ognuno di loro, senza che alcun aspetto secondario e superficiale possa impedirlo. Si può essere addirittura dei pagani romani e centurioni, ma se si cerca autenticamente Dio, lo si potrà incontrare, e non c’è legge ecclesiale che lo possa impedire. Nello stesso tempo, Dio non si muove fuori dalla chiesa, fuori dai suoi credenti, che devono mettersi a disposizione, lasciarsi scomodare, uscire e andare là dove la legge religiosa sembrerebbe non volerli lasciar entrare, e poi ancora devono cercare di capire quello che è successo e accettare di dover cambiare la propria idea su Dio.
Il Dio cristiano ha le idee chiare sulla propria intenzione di incontrare tutti gli uomini. Ma non agirà nonostante i suoi fedeli, bensì puntando a coinvolgerli e convincerli. Con la consapevolezza che, senza la loro collaborazione, anche l’azione di Dio sarà tarpata. Se Pietro non fosse uscito per seguire gli uomini che erano venuti a chiamarlo, Cornelio non avrebbe ricevuto lo Spirito. Ecco che il compito della Chiesa si riempie anche di responsabilità.
Angelo Fracchia (11 – continua)
Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico
Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |
Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).
Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.
Diversi gli invasori, identici i risultati
La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.
Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.
Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.
La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.
Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.
Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.
Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.
Una Chiesa che ascolta
Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.
La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.
Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.
Dalla connessione all’alleanza
«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.
La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.
Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).
Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.
Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».
I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.
Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.
L’introduzione del «peccato ecologico»
Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).
In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.
Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.
Il volto femminile
Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.
Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.
Amazzonia, «locus theologicus»
Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.
Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.
Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.
Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.
Gaetano Mazzoleni
Il documento finale del sinodo, una lettura laica:
L’Amazzonia, cuore biologico del mondo
Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.
La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).
Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).
Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).
Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).
La visione indigena e quella occidentale
Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).
L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).
Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).
La visione indigena e quella occidentale
Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).
È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).
Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).
La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).
Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).
La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).
Valorizzare la donna e le lingue autoctone
La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).
Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).
Paolo Moiola
Scheda
Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista
Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.
Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».
Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.
Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedereriquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».
Il Sinodo è una minaccia
L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.
Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.
I tre vaticanisti
L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).
In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».
Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».
Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.
Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».
Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.
Pa.Mo.
Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria
Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione
Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.
Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.
La sfida ad «altari» e «troni»
Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.
Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).
D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.
È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».
Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.
I nuovi percorsi della Chiesa
Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.
Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).
Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).
Una revisione dello stile missionario
Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).
La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).
Davanti alla realtà amazzonica
Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.
Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.
L’ambiente e il «peccato ecologico»
Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.
Decolonizzare la missione
Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).
Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.
Jaime C. Patias
Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019
Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova
Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.
Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.
Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.
Una nuova alleanza per la casa comune
Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019, giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.
Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.
Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.
Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.
Tra martiri e profeti
Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.
L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.
Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.
Nella casa comune tutto è connesso
A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.
Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.
Saper ascoltare le voci scomode
Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».
Jaime C. Patias
Hanno firmato questo dossier:
Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Il nostro cervello e il frigo intelligente
testo di Rosanna Novara Topino |
Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?
Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.
La tecnologia 5G
L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?
Le radiazioni e le frequenze
La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz, 3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.
Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.
Studi e rapporti: a chi credere?
Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?
La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).
La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.
Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.
Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).
Accade nelle nostre scuole
Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.
Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.
Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.
Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.
Ne vale la pena?
Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.
Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?