È una qualità tipica del cristiano che mi ha sempre affascinato. È sintetizzata nella parola greca parresia che ricorre più di trenta volte nel Nuovo Testamento (soprattutto in Giovanni, Atti degli Apostoli e Lettera agli Ebrei) ed è riferita sia a Gesù che ai suoi discepoli. Letteralmente vuol dire «libertà di dire tutto», con sfumature che vanno dall’imperturbabilità alla sincerità, con il rischio della sfacciataggine e dell’impertinenza e con i pregi della confidenza e della letizia.
Declinata come verbo indica il «parlare apertamente con coraggio» e l’«avere fiducia». Applicata a Gesù vuol dire che lui si esprime, soprattutto con i suoi discepoli, apertamente e senza sottintesi. Mentre gli Atti degli Apostoli presentano continuamente Pietro, Paolo e altri che annunciano con audace franchezza e senza paura le opere di Dio, senza lasciarsi intimorire da opposizioni, minacce, botte e carceri.
A inizio febbraio scorso, abbiamo avuto un assaggio della franchezza cristiana. Papa Francesco, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato il mondo islamico ottocento anni dopo l’incontro di san Francesco con il Sultano. Insieme all’imam Ahmad Al-Tayyeb di Al-Azhar, l’università del Cairo che è punto di riferimento per l’Islam sunnita, il papa ha
lanciato un documento di grande umiltà e coraggio che interpella ogni uomo in quanto membro della famiglia umana e cittadino del mondo.
Il documento affronta tutti i temi caldi che fanno soffrire l’umanità di oggi. Fa sue le speranze dei poveri, dei piccoli, degli ultimi, di ogni uomo in quanto uomo. Difende con passione questo nostro mondo minacciato da avidità, inquinamento e guerre. E fa un’operazione essenziale: rimette Dio al centro per aiutare l’uomo a ritrovare la sua identità più profonda e indicargli la modalità «bella»
di relazionarsi agli altri (praticando pace, giustizia, libertà, rispetto, compassione) e al creato (da «giardiniere» e non da padrone).
Il documento restituisce a Dio il suo volto più vero: quello del Dio misericordioso. È un «franco» rifiuto del Dio violento e intollerante dei fondamentalisti, di quello indifferente, pigro e godereccio dei materialisti, di quello tutto precetti, riti e incensi dei tradizionalisti.
«Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia -, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere*».
È «in nome di Dio» che «tutti gli esseri umani (sono) uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e (sono) chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace*».
Ed è «in nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere*». Da qui scaturisce la difesa dei «poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati*»; «degli orfani, delle vedove,
dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra
e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna*».
La franchezza di Francesco, capace di riconoscere con umile realismo gli errori della Chiesa e dei cristiani, gli permette di condividere con l’imam affermazioni forti che declinano il vero volto di Dio. Impariamo da Francesco, sia il santo che il papa, la franchezza che ci appartiene come figli e figlie di Dio, un Dio che ha rivelato il suo volto di amore e misericordia nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù.
Franchezza e Francesco, vengono dalla stessa radice: «franco», il nome di un popolo (quello dei Franchi) orgoglioso della sua libertà. Ma la nostra franchezza/parresia non è frutto di politica e di guerre. È un dono, fa parte della nostra identità profonda: in Gesù noi siamo davvero il popolo dei «Franchi», perchè liberati dalla schiavitù del peccato (che è tutto quello che disumanizza) possiamo vivere la libertà dell’essere figli e figlie di Dio, uomini creati a «sua immagine» e da Lui amati.
Per questo non permettiamo ad alcuno di zittire la nostra coscienza, di manipolarci con paure alimentate ad arte, di farci svendere la nostra umanità con false promesse di sicurezza, benessere
e privilegi. Mors tua vita mea (la tua morte è la mia vita), dice un proverbio. Invece noi diciamo: vita tua vita mea, cioè: «Chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera*».
Buonasera,
sono un vostro abbonato, nonché estimatore. Ho letto che don Paolo Farinella, che conduceva la rubrica Insegnaci a pregare, lascia. Intanto ringrazio MC per aver fatto una scelta così importante a suo tempo. Mi dispiace che lasci; il suo linguaggio, la sua rubrica l’aspettavo ogni mese. Mi è stata compagna di meditazioni ogni mattino; vi ritornavo spesso sempre sullo stesso numero. Devo dire che ho atteso più di 50 anni prima di trovare chi facesse scivolare/penetrare la Parola di Dio, così come l’ha fatto lui; quanto scriveva mi suscitava il gusto di accedervi più volte. Sì, quando uno ti mette nella condizione di gustare (io che sono uno qualsiasi) e di progredire, puoi solo essergli grato.
Posso dire che come Piero Angela ha saputo parlare alla gente della complessità della scienza e farla gustare, così ha fatto don Paolo nel suo ambito. Don Paolo, un abbraccio riconoscente.
Ottorino Saccon 21/12/2018
Questa è la risposta di don Paolo.
Carissimo Sig. Ottorino
[…] la ringrazio per la e-mail che padre Gigi, direttore di MC, mi ha fatto avere. Non le nascondo che mi sono sentito in grave imbarazzo leggendo, e nello stesso tempo ho provato la gioia di sapere che la Parola di Dio può essere indirizzata a tutti, anche non specialisti, basta studiare tanto per parlare un linguaggio umano accessibile e comprensibile. Se lei vuole e se le interessa può visitare il sito www.paolofarinella.eu/ oppure digiti «Paolo Farinella, prete» su Google, e lo trova. Poi alla finestra Liturgia trova tutti i commenti alle domeniche e feste di tutto l’anno (quello in corso è l’Anno-C).
Da 13 anni non ho solo scritto per la rivista, ma consapevole della mia responsabilità, ogni giorno portavo i lettori di MC, verso i quali ho sempre nutrito una grande stima, nel mio cuore e nella mia preghiera perché, pur non conoscendoli, io entravo tutti i mesi nelle loro case, non sapendo quale effetto potessero avere le mie parole. Per questo tutti gli articoli erano prima pensati e poi pregati e poi pubblicati, nel tentativo di aiutare qualcuno a uscire dal «raccontino biblico» per avere un «incontro» vitale con la Parola che è comunione con Dio.
Lei mi ha dimostrato che è possibile e quindi mi conferma che è questa la strada giusta e l’obiettivo di una vita per cui vale la pena vivere.
Da questo momento lei e tutta la sua famiglia, le persone che ama, siete presenti nella mia Eucaristia e nella mia amicizia, oltre il tempo oltre lo spazio. Con affetto.
Paolo Farinella, prete Genova, 22/12/2018
Abbiamo ricevuto anche altre email in proposito e le abbiamo girate a don Paolo che, come suo solito, ha risposto immediatamente. Grazie ancora Paolo Farinella, prete innamorato della Parola. Anche noi ti portiamo nel cuore e preghiamo per te. Sul nostro sito è possibile trovare i testi pubblicati e scaricarli in formato pdf dallo sfogliabile. Entro Pasqua contiamo di raccogliere i testi di don Paolo pubblicati in un unico pdf per facilitarne la lettura e la consultazione e scaricarli con facilità.
Ho paura, ma voglio ancora diventare prete
Dal Carmel di Bangui, Rep. Centrafricana.
La mattina del 15 Novembre ad Alindao, cittadina a circa 500 km da Bangui, un campo di sfollati situato nei pressi della Cattedrale, è preso d’assalto da un gruppo di ribelli islamisti che porta il curioso nome di «Unione per la pace in Centrafrica». Si tratta di uno dei tanti gruppi agli ordini di un certo Ali Darassa, sorti dalla dissoluzione della Seleka e che ancora infestano i tre quarti del paese. I morti sono più di ottanta. Un vero massacro. Anzi, una razzia: oltre alle persone uccise, i ricoveri degli sfollati sono incendiati, l’intero sito è raso al suolo, le abitazioni sono saccheggiate, la chiesa è profanata. La strage avviene davanti all’inerzia del contingente dell’Onu che avrebbe, di per sé, il mandato di proteggere i civili. Tra le vittime, oltre a donne, bambini e persone anziane, anche due sacerdoti: abbé Célestin e abbé Blaise.
Il coraggio del giovane vescovo di Alindao, Cyr-Nestor Yapaupa (nella foto qui sotto), impedisce che il bilancio sia ancora più pesante. Invece di accogliere la gente, che vorrebbe trovare rifugio all’interno della cattedrale, ordina a tutti di scappare nella savana. Se i cristiani non gli avessero obbedito, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto. Il vescovo e alcuni sacerdoti decidono di restare comunque.
La notizia e i dettagli dell’avvenimento ci raggiungono increduli e scoraggiati. Le foto dei cristiani carbonizzati fanno il giro del mondo. Le già lentissime lancette dell’orologio della pace sembrano improvvisamente e drammaticamente correre all’indietro. Il Centrafrica sembra ormai essersi ingarbugliato in un inestricabile groviglio d’ingerenze straniere, inadempienze della comunità internazionale e incapacità del governo locale. L’elemento confessionale non fa che rendere il cocktail ancora più micidiale.
Alcuni giorni dopo gli avvenimenti, partecipiamo a un incontro di sacerdoti a Bangui. È presente abbé Donald, appena arrivato da Alindao. Originario di Bangui, sacerdote da poco più di un mese, aveva trascorso al Carmel i giorni di preparazione all’ordinazione, ascoltando con attenzione le conferenze del sottoscritto. Conferenze che avrebbero dovuto dargli le ultime istruzioni prima di essere un ministro di Dio per sempre.
Da qualche settimana Donald era stato inviato in aiuto alla diocesi di Alindao. Questa volta sono io che ascolto con attenzione la sua conferenza, nonostante sia ancora sotto shock, circa quanto avvenuto ad Alindao. Donald non ha ancora avuto il tempo d’imparare a fare il prete; ma ne ha già visti due morire, davanti ai suoi occhi, uccisi per il vestito che indossavano e il mestiere che esercitavano.
In classe, durante la lezione, è quindi un dovere parlarne. Gli studenti che ho davanti non sono allievi qualunque. Sono i futuri sacerdoti del Centrafrica. Provengono dalle città e dai villaggi dell’intero paese. Hanno visto la guerra e ora sono nel Seminario di Bangui perché vogliono fare lo stesso mestiere di Célestin e Blaise. Poi ripartiranno, sacerdoti, nelle diocesi da cui sono venuti. Chiedo loro se hanno ancora voglia di continuare il cammino intrapreso e se sono consapevoli dell’alto rischio che li attende.
Odilon, dall’alto dei suoi vent’anni, risponde per tutti: «Ho paura, mon père. Ho tanta paura. Ma non cambio idea. Voglio ancora diventare prete». La sua sincerità e il suo coraggio disarmerebbero anche Ali Darassa. Vorrei dire a Donald che ho paura anch’io. Ma nessuna voglia di cambiare mestiere. Penso al giorno in cui sono diventato sacerdote. Proprio non immaginavo che sarei finito qui, a spiegare chi era Origene e Agostino, a decine di volti neri, curiosi e imprevedibili, ostinatamente convinti che si può e si deve diventare preti, anche in un paese in guerra.
[…] C’è forse un legame tra il sacrificio dell’abbé Célestin e dell’abbé Blaise, il coraggio del vescovo Cyr-Nestor, quanto ha visto abbé Donald, la solenne promessa di Odilon e il «per sempre» di fra Michaël?
Sant’Agostino chiedeva a Dio, per sé e i suoi pastori, di amare il proprio gregge fino a morirne aut effectu aut affectu, cioè di fatto, con il sacrificio della vita, o con il cuore, nella dedizione senza risparmio al servizio del popolo di Dio. In passato gli argomenti per parlare male di questa giovane chiesa non sono certo mancati. Questo 2018, nel quale ben cinque sacerdoti e decine di cristiani sono stati uccisi durante le celebrazioni o nei pressi delle loro chiese, ci consegna una chiesa sicuramente ancora giovane e fragile, ma che non scappa davanti al nemico e i cui pastori non sono mercenari.
Padre Federico Trinchero
Bangui, 17/12/2018
Rinnovi e cancellazioni
Spett. Redazione Rivista Missioni Consolata,
vi sarei grata se sospendeste l’invio della rivista all’indirizzo […] a causa del decesso del destinatario. Vi sarei altresì molto grata se la sospensione avvenisse nel più breve tempo possibile per non riempire eccessivamente la cassetta delle lettere. Cordiali saluti
Email firmata, 22/01/2019
Desidero continuare a ricevere la vostra interessantissima rivista. Grazie per gli articoli che riportano notizie serie, non facilmente reperibili in altra carta stampata.
M.P., 22/12/2018
Buongiorno. Vi scrivo per disdire l’abbonamento alla rivista Consolata, che continua ad essere spedita all’indirizzo di mia zia, nonostante lei sia morta dall’anno 2005. Se vi chiedete perché io non doni al posto suo, vi dico che ho scelto di aiutare l’Unicef. Potreste risparmiare carta e quindi alberi; è pur vero che avrei potuto scrivervi prima di adesso. Vi auguro di continuare la vostra missione nel miglior modo possibile.
Email firmata, 17/11/2018
Con la presente vi chiederei cortesemente di non inviarmi più la bella rivista Missioni Consolata, la rivista aveva incominciato ad arrivare a casa dopo che mio figlio aveva fatto una bella esperienza in Africa, tanti anni fa. Adesso lui non vive più in questo indirizzo ed io non riesco che a leggere ogni tanto un articolo e mi dispiace che venga sprecata.
Email firmata, 22/10/2018
Abbiamo condiviso con voi alcune delle email ricevute di questi tempi. La maggior parte riguarda benefattori delle nostre missioni che sono andati alla casa del Padre. Non finiremo mai di ringraziare il Signore per il loro affetto e il loro sostegno.
Naturalmente non tutti i messaggi ricevuti sono benevoli. Alcuni, inviati dagli «eredi» dei nostri lettori/benefattori suonano come aspri rimproveri perché in tutti questi anni abbiamo approfittato della loro buona fede per spillare soldi.
Non è piacevole neppure sentirsi dire che la nostra rivista riempie eccessivamente la cassetta postale, come se fosse insistente e invasiva alla stregua della pubblicità dei supermercati.
Quanto alla scelta di aiutare un’agenzia Onu invece dei nostri missionari, pur rispettando la libertà personale, inviterei a valutare le percentuali dei fondi usati per il personale in quelle agenzie e quanto usi invece la nostra Onlus o altre simili alla nostra.
Yukari passava di lì
Yukari passava di lì, quando vide una strana costruzione e vari stranieri che andavano e venivano. Pensò: «Se gli stranieri qui sono i benvenuti, allora accoglieranno bene anche me». Salì una gradinata ed entrò: stava cominciando la messa. Lei non sapeva che quella era una chiesa, in particolare la chiesa di Tong Du Chon dove i nostri padri Tamrat Defar e Patrick Mrosso portano avanti la pastorale dei migranti.
Yukari è una donna giapponese nata dalle parti di Osaka e sposata con un coreano. Si sono conosciuti e sposati in Giappone ma, per ragioni di lavoro, lui è cuoco, si sono dovuti trasferire in Corea del Sud. Yukari era in Corea da pochi mesi, non conosceva ancora la lingua ed era triste quel giorno. Entrata in chiesa rimase colpita dalla luminosità dell’edificio. Finita la messa qualcuno si accorse che lei non era una dei soliti fedeli, la invitò a prendere un caffè con gli altri migranti e le spiegò come poté che ogni domenica c’era una scuola di coreano gratis. Fu così che Yukari cominciò a frequentare la comunità di Tong Du Chon e a partecipare alla messa domenicale. Quel giorno, il 6 agosto 2017, le è rimasto impresso nella memoria come uno degli eventi più belli che le siano capitati.
«Ogni volta che partecipavo alla messa – mi dice – sentivo la gioia che entrava in me, in piccole dosi, come pacchettini di gioia e vedevo la luce brillare intorno a me. Allora chiesi a una delle volontarie, insegnante di lingua, cosa dovevo fare per diventare cristiana. Da quel momento cominciai il catecumenato e a Pasqua del 2018 (nella foto: Yukari – a destra – il giorno del battesimo) ricevetti il battesimo e scelsi come nome nuovo quello di Justina».
«Come è cambiata la tua vita da quando sei diventata cattolica?», le chiedo.
«Adesso non ho più paura», mi risponde senza esitare. «Per esempio – mi dice – a metà del 2018 ci fu un forte terremoto nella zona di Osaka e l’epicentro era proprio dove stanno tutti i miei parenti. Normalmente sarei stata terrorizzata, ma quel giorno invece ero serena. Guarda che combinazione – e mi mostra sul suo telefonino un’app in giapponese – quel giorno la Parola di Dio diceva di non temere e di confidare nel Signore».
Adesso Yukari si difende bene col coreano, partecipa al coro e ad altre attività della parrocchia e ha stretto una bella amicizia con le altre volontarie. Parla della sua esperienza anche alle sue amiche giapponesi che vedono ancora Chiesa e cristianesimo come una cosa strana (ricordiamoci che in Giappone solo lo 0.35% della popolazione è cattolico). È attiva, allegra e ha partecipato perfino alla nostra festa della Consolata, incaricata di leggere una preghiera, per mostrare che il Signore continua a chiamare pecore nel suo gregge da qualsiasi terra Lui voglia.
Yukari passava di lì, ma diamo grazie al Signore perché quel giorno c’era anche qualcuno pronto ad accoglierla!
padre Gian Paolo Lamberto Daejeaon, Corea del Sud, 16/10/2018
Informazione sicura
Caro padre,
[…] sfogliando il numero (di ottobre 2018) ho visto la lettera «Ha ragione Salvini?». Lì si parla in realtà del fenomeno (che è tra lo strambo e il surreale) del gender e delle sue conseguenze ma si cita Salvini che è uno dei simboli […] di questa presunta deriva anti-cristiana.
Ora, Salvini sì o Salvini no, a me interessa poco adesso, quello che mi fa riflettere è che siamo in tempi in cui sostenere ovvietà come il fatto che il matrimonio è tra uomo e donna e un bambino ha un papà e una mamma oppure che i fenomeni migratori vanno regolati e sono comunque un sintomo di squilibri sociali da «riaggiustare», si passa per intolleranti e brutti e cattivi e anche per cattivi cristiani. Ma anche un’opinione (questa sì è un’opinione, diversamente dal fatto naturale che i genitori sono papà e mamma) come lo ius sanguinis… apriti cielo! Non si può. […]
Rimanendo all’immigrazione penso che, nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio Africa-Europa così come lo vediamo non è per nulla spontaneo, come non lo è quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano lì apposta per «formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della politica invece che osservatori.
Ancora rifacendomi a cose già dette, se MC fa giornalismo, allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiano «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta. Un saluto
Andrea Sari 15/01/2019
Caro Sig. Andrea,
mi perdoni se ho di nuovo tagliato la sua lunga email. La questione dei migranti è molto complessa e il modo con cui è trattata nei mass media (e dai politici, e non solo quelli nostrani) non aiuta a capire che questa tragedia, vissuta da milioni di uomini che fuggono dalla loro terra e altri milioni che si vedono «invadere», non è «il problema», ma solo l’effetto di problemi ben più gravi, certo non causati dai mass media. Guerre, riscaldamento climatico, sfruttamento sconsiderato delle risorse, dominio incontrollato delle multinazionali, debolezza dell’Onu, dittature, corruzione e altro, sono i veri problemi da affrontare. MC, nel suo piccolo, cerca di dare un’informazione documentata, puntuale e non di moda.
Esseri umani respinti da un’Europa disumana
Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.
Testo e foto di. Alberto Sachero
I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.
Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.
Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.
Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.
Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.
La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.
I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.
Perché i confini sono chiusi?
Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.
Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».
Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».
Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».
L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.
Manganelli e spray
Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.
Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.
Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.
Confinati e ignorati
La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.
Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.
L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.
Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.
Alberto Sachero
L’amicizia che rende santi
Nell’Algeria del decennio nero (1991-2002) della guerra civile, 19 religiose e religiosi vengono uccisi. Avevano deciso di rimanere al fianco degli amici algerini, per condividere con loro quel momento buio e animare la chiesa locale. Una presenza discreta ma efficace, nel quotidiano. Abbiamo chiesto al postulatore della causa di beatificazione l’attualità del messaggio dei martiri.
Nel decennio degli anni ‘90 in Algeria divampa la guerra civile. Gruppi islamisti, tra i quali il più feroce è il Gia (Gruppo islamico armato), compiono assalti e attentati a civili inermi, in un paese nel quale l’esercito ha preso il potere. Il conflitto causa 150mila morti. Tra loro vi sono 19 tra religiose, religiosi, monaci e un vescovo, uccisi tra il ’94 e il ‘96. I più noti sono i sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e poi uccisi in circostanze non ancora totalmente chiarite.
Tutti i 19, uomini e donne, pur sapendo di rischiare la vita, invece di andarsene, preferiscono rimanere a fianco degli amici algerini, nel momento più buio della loro storia. Una scelta dunque, di donare la propria vita, già nel quotidiano, di non essere padroni della propria morte, come ricorda Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione, nel libro scritto con il giornalista Christophe Henning, e pubblicato per la Emi, «La nostra morte non ci appartiene. La storia dei 19 martiri d’Algeria». La causa di beatificazione, iniziata nel 2007, ha avuto un’accelerazione quando papa Francesco, il 26 gennaio 2018, ha indicato che sarebbero stati beatificati entro l’anno. E così l’8 dicembre scorso nel Santuario Notre-Dame de Santa Cruz di Oran sono stati proclamati beati. Incontriamo padre Thomas Georgeon, monaco trappista, durante la sua tournée in Italia, per parlare dei martiri.
Una storia che interessa
«Sto trovando molto interesse su questa vicenda nel vostro paese. La gente viene ad ascoltare. E poi ci sono tante domande in giro che si fanno sull’islam. È importante poter provare a spiegare qual era, e qual è, lo spirito della chiesa algerina. Nel libro parliamo di 19 martiri, però tanti altri membri della chiesa algerina hanno attraversato questo periodo drammatico che è stato il decennio nero in Algeria. Non sono stati uccisi, ma hanno vissuto la stessa esperienza interiore, con la scelta di rimanere quando molti spingevano affinché lasciassero il paese, compresa la Santa Sede. A un certo punto è infatti stato chiaro che la chiesa era nel mirino dei fanatici».
Padre Georgeon, come spiega questo interesse?
«Uno dei motivi dell’interesse è il film “Uomini di Dio” (del regista Xavier Beauvois, sui monaci di
Tibhrine, ndr), che è stato un successo. Devo ammettere che sia il nostro ordine, sia le famiglie dei monaci, non abbiamo voluto aiutare quest’opera, perché ci siamo detti: “Cosa uscirà da un film?”. La loro vita non era un romanzo. Il regista non è una persona di fede. Alla fine, però, al contrario, come ha detto il regista, anche gli attori sono stati toccati dalla grazia per realizzare questa pellicola, che ha permesso una diffusione importante del messaggio e della vita dei martiri. Qui in Italia si conoscono soprattutto i monaci di Tibhirine. Abbiamo scritto il libro per ricordare che la beatificazione riguarda 19 persone, tra cui ci sono suore sconosciute che hanno fatto un lavoro splendido di convivenza e amicizia con il popolo algerino».
I giovani tendono ad allontanarsi dalla chiesa e dalla fede in generale, mentre si è appena svolto il sinodo per loro. Secondo lei quale può essere il messaggio dei martiri?
«I messaggi sono due. Il primo è il dono dell’alterità. In un mondo in cui l’individualismo sfrenato ci penetra da tutte le parti, i martiri hanno vissuto l’opposto, rimanendo sempre aperti sulla differenza dell’altro. Cerchiamo di arricchirci della differenza. Spesso la differenza ci fa paura. L’altro la pensa diversamente da me, questo a volte ci fa costruire delle barriere tra di noi. Mentre i martiri ci spingono a uscire dai nostri circoli. È facile rimanere in amicizia con chi mi assomiglia. Più difficile fare amicizia con chi vive una diversità di vita, di fede. Loro ci sono riusciti, hanno vissuto un legame di amicizia profonda con credenti di un’altra religione.
Un secondo insegnamento è il dono della la propria vita. Non tutti siamo chiamati a essere missionari, religiosi o cose del genere, però tutti siamo chiamati alla santità. E dobbiamo porci la domanda: vogliamo diventare santi? E non si tratta di una santità da eroi o grandi personaggi, con fenomeni mistici, o da gente che ha scritto cose importanti. È una santità ordinaria, come dice l’esortazione apostolica di papa Francesco sulla santità (Gaudete et Exsultate). Questi martiri ci mostrano la santità della porta accanto alla nostra, molto vicina, nella mitezza, in una vita semplice, umile. E penso che per i giovani il messaggio possa essere: “Come vivere la propria vita come un dono”. Per vivere il mio dono, qualunque sia, devo andare fino in fondo. Nel mondo di oggi i valori cristiani non sono molto di moda e ci vuole una bella perseveranza, una fedeltà molto forte in un contesto in cui tutto va in un’altra direzione.
Il messaggio è quindi di rimanere forti nella fede e non essere ignoranti dell’altro quando egli è diverso. C’è una grande ignoranza tra cristiani e musulmani: non conosciamo bene la loro fede e loro non ci conoscono. In un’epoca in cui siamo tutti in comunicazione con i social, non basta.
Prendo l’esempio di Facebook: scelgo i miei amici e posso buttare via chi non mi piace più. Ma nella vita non è così. Se vivessi così, mi mancherebbe qualcosa. Rimango in un piccolo giro, con persone che mi assomigliano, ma è un cammino di crescita? Piuttosto l’alterità è un cammino di crescita. Guardiamo l’atteggiamento di Gesù nei Vangeli, penso a quello di Giovanni, il modo in cui Gesù va incontro alle persone, non è un messaggio che s’impone, ma c’è, innanzi tutto una relazione che bisogna tessere piano piano, nel quotidiano. Una cosa abbastanza semplice».
I messaggi che si stanno veicolando in Europa e in Usa sono piuttosto quelli della xenofobia, della costruzione di muri per paura dell’altro, dello straniero. Come ci possono aiutare le storie dei 19 martiri?
«Essendo ignoranti di quello che l’altro è, cadiamo facilmente nella paura, quindi ci fermiamo e ci rinchiudiamo e vogliamo costruire delle mura per essere circondati e protetti.
Nella storia dell’umanità, quando i paesi hanno provato a vivere così, a un certo momento sono crollati. L’altro, nella sua diversità, mi aiuta a capire qual è la mia identità, chi sono io, e mi aiuta anche a crescere nella mia fede, a radicarmi. Quando s’incontra qualcuno che ha una fede diversa non si tratta di diventare un altro, si tratta di vedere nell’altro ciò che mi può arricchire nella mia identità e nella mia fede cristiana. È una chiamata a conoscere bene e integrare bene cos’è la fede cristiana, e qual è il messaggio che Gesù ci ha lasciato. Questo è un cammino che ci porta a non costruire barriere tra di noi perché Gesù ci ha chiamati ad amarci gli uni gli altri e ci ha chiesto di amare i nostri nemici. Oggi viviamo in un mondo in cui i politici provano a chiudere le frontiere. Anche nella realtà cattolica avviene questo: alcuni credenti preferiscono rimanere tra di loro. Al contrario, cosa ci chiede il papa dall’inizio del suo pontificato? Di uscire dalle nostre chiese e andare incontro agli altri, andare nelle periferie. Questi martiri hanno vissuto il pontificato di papa Francesco con 20 anni di anticipo».
Guardando all’Africa, vediamo alcuni paesi a maggioranza islamica nei quali la chiesa sta soffrendo. Penso a Niger, Mali, Burkina Faso. Che paragone si può fare con l’Algeria di quegli anni?
«In Algeria era una guerra civile. La chiesa non è mai stata perseguitata, ha sempre fatto parte della società algerina. C’è stato un cambiamento notevole dopo la guerra d’indipendenza (1954-1962, ndr), perché molti cristiani andarono via, lasciando chiese, centri diocesani, opere di carità.
Poi, sotto l’impulso del cardinale Léon-Etienne Duval, la chiesa cattolica decise di diventare una chiesa algerina. L’intuizione del cardinale Duval è stata quella di dire: «Dobbiamo diventare una chiesa dell’amicizia, dell’incontro». I cattolici erano presenti in ambiti che andavano incontro ai bisogni degli algerini, come quello educativo, sociale, sanitario. Anche negli anni ’90 la posizione della chiesa è stata bella, perché durante quel periodo tragico sarebbe stato più facile andarsene, ma molti hanno fatto la scelta di restare, facendo questo cammino interiore, un discernimento per decidere di rimanere fedeli a Cristo, al Vangelo, ma anche all’amato popolo algerino. La chiesa in tanti paesi oggi è una presenza ospite, non più trionfale: una realtà piccola, umile, però sempre aperta. Ma per dialogare bisogna essere in due: o ci troviamo di fronte a persone che hanno il desiderio della condivisione e della costruzione di una fraternità universale, come diceva il padre Charles de Foucauld, oppure ci troviamo di fronte a persone che non vogliono vederci, sentirci, amarci, e che fanno di tutto per farci andare via».
Qual è oggi il senso di vivere come cristiani in terra islamica?
«Può essere diverso a seconda dei paesi. È diverso in Iraq, Siria, dove c’è una persecuzione. C’è gente che vuole azzerare le differenze e tutto deve sparire. Lo abbiamo visto con le statue giganti e le chiese distrutte. Un azzeramento delle diversità.
Inoltre è difficile parlare di un islam, in quanto ci sono tante correnti diverse. Ci sono correnti che non vogliono sentire parlare di violenza e provano a vivere un legame di amicizia con chi è diverso. E ci sono anche i fanatici.
Ammazzano in nome di Dio, ma che Dio portano dentro? Lo fanno davvero in nome della religione o ci sono altri motivi? Nell’islam spesso c’è un misto tra potere temporale e spirituale. In Europa adesso questa commistione non c’è più, ma in passato non è stato così, come ai tempi dei crociati.
Ha un senso essere missionari in questi paesi e portare le presenza di Gesù Cristo in mezzo a popoli diversi, per essere portatori di speranza, in un mondo che non vive nella speranza, ma fa fatica a vedere una via d’uscita. Poi c’è il senso dell’accoglienza che fa parte della fede cristiana, entrare nel volto dell’altro che è un pezzo del volto di Cristo; il prendersi cura delle persone. Tanti missionari hanno dato la loro vita fino in fondo, per rimanere fedeli al popolo a cui erano stati inviati».
Il processo di beatificazione dei 19 martiri è stato piuttosto rapido.
«La rapidità della procedura è significativa. Da parte della Santa Sede c’era il desiderio di mandare avanti la cosa, perché queste storie ci portano su una via diversa da quello che è il dialogo interreligioso. Piuttosto una condivisione di vita, non grandi discorsi teologici. Esperienze semplici e legami di amicizia che si possono tessere nel quotidiano. La causa di beatificazione è stata voluta anche da papa Francesco, ma fin dall’inizio i papi hanno contribuito non poco a diffondere il messaggio. In prima linea c’è stato papa Giovanni Paolo II, che ne ha parlato a lungo durante il suo pontificato e ha fatto rappresentare il priore dei monaci, padre Christian De Chergé su un mosaico nella cappella Redemptoris Mater che è quella del papa in Vaticano. Lo ha fatto fare nel 2000, meno di quattro anni dalla loro morte. Poteva essere rischioso, essere intesa come provocazione. Lui ha deciso di rappresentare questa presenza della chiesa nel mondo musulmano».
Padre Thomas Georgeon è monaco trappista dal 1994. Ha fatto parte del gruppo di trappisti che nel 1998 è tornato in Algeria a quattro anni dal martirio dei sette confratelli, per verificare se c’erano le condizioni per riprendere la vita monastica nel paese. Ma i tempi non erano ancora maturi e l’esperienza si è chiusa nel 2000.
Intanto padre Georgeon ha avuto altri incarichi per il suo ordine, compresa una permanenza di otto anni in Italia. Nel 2013 è diventato postulatore per la causa di beatificazione dei 19 martiri. «Quando mi è stato chiesto dall’arcivescovo di Algeri di essere postulatore mi sono ricordato le parole dell’abate che aveva seguito il tentativo di reinserimento in Algeria. Al mio ritiro, per vari motivi, mi aveva detto: “Vedrai che il tuo dono per l’Algeria e la chiesa algerina un giorno prenderà un’altra forma, che oggi non conosci”».
Marco Bello
Anche le capre sono parte del gregge
In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.
È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.
Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».
In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».
Da Belluno a Maralal
Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.
Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.
La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».
La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».
Uno stile semplice e profondo
Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.
Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.
Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.
Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.
L’arrivo in Kenya
Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.
Marsabit-Londra e ritorno
Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.
È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.
Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».
Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».
E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».
Ministero della riconciliazione
La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».
È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».
Dialogo, scuola, commercio
Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».
Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.
Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.
«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».
Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».
Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».
Contro la politica dell’odio
«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».
Una Chiesa in transizione
Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».
Il carisma della Consolata
La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.
Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».
Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».
Luca Lorusso
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Ecumenismo per le migrazioni
La Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese, insieme alla Comunità di sant’Egidio, stanno sperimentando un metodo per far giungere in sicurezza richiedenti asilo in Italia. Il programma prevede poi un percorso di integrazione. Sono numeri ancora modesti, ma rilevanti. In questo modo intere famiglie siriane possono essere «salvate» e vedere un futuro per i loro figli. Senza pagare trafficanti e senza rischiare vite umane.
Cattolici e riformati insieme per salvare i rifugiati siriani. Una collaborazione dal forte valore ecumenico, quella tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di sant’Egidio. Un sodalizio nato nel 2014, subito dopo l’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa nel quale perirono 366 persone (ma c’è chi dice fossero in numero maggiore). «Di fronte a una tragedia simile – ricorda Paolo Naso, responsabile del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche -, le nostre chiese si sono interrogate: è possibile trovare un modo per far arrivare i migranti in Europa in modo sicuro? È possibile garantire corridoi umanitari che evitino lo sfruttamento da parte dei trafficanti? È possibile creare percorsi di integrazione in Italia? Da queste domande è nato un articolato progetto sulle migrazioni».
Un osservatorio
Il primo passo della Fcei, d’intesa con la Tavola valdese, è stata la creazione, nei primi mesi del 2014, di un osservatorio a Lampedusa. L’osservatorio, tuttora attivo, lavora su più fronti: monitora gli sbarchi, le condizioni della prima accoglienza, l’impatto delle migrazioni sulla popolazione locale; cura i rapporti con gli isolani, con l’associazionismo, con le istituzioni locali, regionali e nazionali; collabora con la parrocchia cattolica dell’isola; promuove la costruzione di reti nazionali e internazionali per la sensibilizzazione sul tema delle migrazioni. Successivamente è stata creata la Casa delle culture di Scicli (Rg) che conta una quarantina di posti letto e offre ospitalità ai migranti particolarmente vulnerabili (giovani mamme, donne incinte, minori non accompagnati).
La Fcei ha però deciso di andare oltre. «Lo choc della strage di Lampedusa è stato forte – ricorda Naso -. A pochi giorni da quell’evento, insieme alla Comunità di sant’Egidio, ci siamo impegnati a cercare soluzioni per far giungere i migranti in Italia in sicurezza e indirizzarli verso programmi di integrazione efficaci. Abbiamo subito scartato l’idea di chiedere cambiamenti normativi perché non c’erano le condizioni, né in Italia né a livello continentale. Studiando le norme europee abbiamo scoperto che l’art. 25 del Regolamento CE 810/2009 concede ai paesi dell’area Schengen la possibilità di rilasciare visti umanitari validi per il proprio territorio. Una volta in Italia, i beneficiari del progetto possono poi fare regolare richiesta di asilo». Il 15 dicembre 2015, la Fcei e la Comunità di sant’Egidio hanno firmato con i ministeri dell’Interno e degli Affari esteri italiani il primo protocollo che prevede l’arrivo, con un regolare volo di linea, di mille profughi in due anni.
La scelta dei siriani
In Libano, un team di operatori, in collaborazione con organizzazioni umanitarie che operano nel paese, si è occupato di redigere le liste di chi poteva imbarcarsi per l’Italia. «In questi anni – spiega Simone Scotta che lavora per la Fcei a Beirut – abbiamo scelto di far arrivare rifugiati siriani: famiglie sunnite, le più perseguitate in patria, donne sole, persone malate, ragazzi sunniti renitenti alla leva. Ogni due-tre mesi sono stati organizzati voli con un minimo di 60 e un massimo di 80 persone».
Una volta arrivati in Italia questi rifugiati sono stati presi in carico dalla Diaconia valdese che ha offerto loro vitto e alloggio, corsi di italiano, una piccola somma per le spese quotidiane, aiuto per le pratiche burocratiche, assistenza medica e psicologica. «Accoglienza, accompagnamento e assistenza – continua Scotta – non costano nulla allo stato italiano. Tutte le spese sono a carico della Fcei e della Diaconia valdese che attingono ai fondi dell’8 per mille delle Chiese metodista e valdese. Tra i sostenitori del progetto figurano anche donatori internazionali come la Chiesa evangelica della Vestfalia, la Chiesa riformata degli Stati Uniti, diverse comunità evangeliche in Italia e singoli privati in Italia e all’estero».
Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo del millesimo rifugiato, si è conclusa la prima sperimentazione. Ma il progetto è andato avanti. Il 7 novembre dello stesso anno è stato infatti firmato il rinnovo dei corridoi umanitari per altri mille profughi per il biennio 2018-2019. «Il progetto continua ed è un dato positivo – conclude Naso -. Segna una forte collaborazione ecumenica tra strutture delle Chiese riformate e cattolica. I corridoi umanitari sono poi un modello unico che si differenzia dagli inserimenti organizzati dallo stato o dagli enti locali. Noi abbiamo definito uno schema di accoglienza diffusa che evita di dar vita a grandi concentrazioni di migranti a favore di un inserimento molecolare. I migranti vengono inoltre accompagnati passo per passo da operatori professionali e da comunità che si prendono cura di ogni loro esigenza. I risultati sono positivi. Crediamo perciò che il modello possa essere preso ad esempio e replicato in futuro».
Enrico Casale (seconda puntata – fine)
Attorno al fuoco, nella casa comune
Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.
Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.
Cacciatori e contemplatori
Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?
«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».
Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?
«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».
Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?
«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».
E degli Yanomami?
«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».
Maloca, comunità, famiglia
Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?
«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».
E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?
«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».
E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?
«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».
Banane per tutti, dunque?
«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».
I misteri dello sciamano
Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?
«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».
Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.
«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.
Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».
Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?
«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».
Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?
Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».
Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?
«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.
Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».
La poligamia: responsabilità e sorellanza
Rimaniamo in tema di bambini. Quanti sono in media per famiglia?
«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».
Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.
«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.
Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».
La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros
A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.
«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».
Si tratta di persone singole o di vere imprese?
«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».
Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?
«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».
Senza strade è meglio
Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?
«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).
Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».
Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.
«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».
Donne indigene, donne yanomami
Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?
«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».
Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?
«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».
Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?
«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.
Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.
Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».
La malaria a Catrimani
Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?
«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».
Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.
«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».
Paolo Moiola
Terminologia:
maloca – la casa comune degli indigeni;
sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.
Testi di Vittoria Pollini, dossier a cura di Paolo Moiola
Il cielo sopra Pechino
Cristianesimo e fede nel Paese di mezzo
La religione, dall’Impero al Partito
Cina e Santa Sede sono a un crocevia dove si decide il futuro del cattolicesimo nell’«ex Impero celeste» e dell’umanità cinese con i suoi legami sociali, politici, pedagogici. Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio» (e non pubblico) per introdurre elementi stabili di collaborazione e per il riconoscimento dei vescovi. Un cammino iniziato più di 400 anni fa su vie di conciliazione tentate da alcuni uomini di pace come il missionario gesuita Matteo Ricci (Li Madou) e il mandarino ebreo Ai Tian. Il loro messaggio parla all’oggi partendo da un passato che non va dimenticato. Anche dagli stessi cinesi emigrati in Italia.
Il tema al centro di questo dossier è il dialogo tra Occidente (in particolare, la Santa Sede) e Cina. Dialogo che, nei secoli XVI e XVII, sarebbe potuto essere fruttuoso se non fosse scivolato su fraintendimenti e interruzioni a causa di reciproche diffidenze.
Matteo Ricci, missionario gesuita del 1600, durante il suo viaggio in Cina incontrò a Pechino il funzionario mandarino Ai Tian, di religione ebraica, che aveva l’incarico di verificare l’identità monoteista di Li Madou (nome cinese del Ricci), soprattutto la sua non appartenenza a religioni allora bandite dall’Impero. Con intelligenza e umiltà entrambi compresero che la via per il riconoscimento della reciproca identità religiosa avrebbe facilitato l’amicizia fra Oriente e Occidente.
Nota per i lettori: per completezza, per desiderio dell’autrice, ma anche per motivi di mera curiosità intellettuale, in questo dossier abbiamo utilizzato gli ideogrammi cinesi; accanto a essi il lettore trova la traslitterazione in pinyin e, infine, la traduzione in lingua italiana. Facciamo notare che, al contrario delle nostre parole, tra gli ideogrammi cinesi non si utilizzano spazi.
Pechino e il dipartimento «Affari religiosi»
Va poi ricordato che i rapporti tra Santa Sede e Cina, dall’Ottocento a oggi, hanno attraversato alterne vicende: dalle guerre dell’oppio al protettorato francese delle missioni, dall’invasione giapponese della Manciuria al massacro di Nanchino, dalla Rivoluzione culturale di Mao alla rivoluzione della soft power dell’attuale presidente Xi Jinping.
In alcuni proverbi di saggezza orientale (chengyu, in cinese) si legge che la pace è possibile solo se si tiene conto delle difficoltà, delle possibilità di scambio e di intesa culturale e linguistica fra le istituzioni religiose e governative e anche fra le persone comuni. È in questa prospettiva di apertura alla lingua dell’altro che la gente, le comunità, le persone tengono vivo il valore della diversità nel dialogo.
In Cina, oggi più che mai, è vivo il dibattito fra autorità cinesi – responsabili dell’«Associazione patriottica cattolica cinese», fondata nel 1958, che non riconosceva l’autorità del papa e controllata dall’ufficio degli «Affari religiosi» gestiti dal «Dipartimento di lavoro del Fronte unito», a sua volta dipendente dal «Comitato centrale del Partito comunista» – e chiesa cattolica «sotterranea» fedele al papa, non riconosciuta dallo stato e quindi clandestina.
Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Con questo atto […] le parti hanno concordato il metodo di una soluzione condivisa: la Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica, mentre il governo cinese da parte sua accetta che la decisione finale, con l’ultima parola sulla nomina, spetti al Pontefice e che la lettera di nomina dei vescovi sia rilasciata dal Successore di Pietro»1. L’accordo pone le basi per risolvere l’annosa questione delle nomine episcopali delle circa 150 diocesi cinesi e sana la situazione di sette vescovi non ancora riconosciuti da Roma, anche se la garanzia di una vera libertà religiosa in Cina è ancora molto lontana.
Ma c’è anche un altro soggetto da considerare in questa storia. Si tratta della società cinese e anche della stessa umanità (仁 = rén, termine polisemantico: umanità, persone, gente, popolo, società) cinese oggi descritta dagli antropologi come amante del cambiamento, obbediente al Partito, ma anche profondamente e radicalmente operativa sul piano religioso: al proverbiale senso pratico della rén, oggi, si unisce un nuovo ed inaspettato desiderio di sognare e di ricerca di libertà spirituale.
Quella cinese è una società, una politica, un’economia non senza contraddizioni. È una società complessa, fortemente centralizzata, organizzata in uno stato che si estende su una superficie di oltre nove milioni di chilometri quadrati: il terzo più grande al mondo. Uno stato grande come un continente. E compatto. Anche quando si tratta di pensare, ascoltare, parlare. E di scrivere.
Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città
L’attuale presidente Xi Jinping ha intrapreso una riforma di apertura e sviluppo economico fondato sulle 开发区 kāifāqū zone di sviluppo2.
Si tratta di città come Tianjin e Shanghai dove sono state introdotte imprese di proprietà straniera, istituzioni scientifiche, zone di base per sviluppare la collaborazione con i paesi esteri. Un elemento della riforma è infatti la strategia del soft power e del trasferimento tecnologico nelle aree di sviluppo: più che l’investimento nella sicurezza e nella forza militare, la diplomazia pubblica, la cultura popolare ed economica. Un secondo elemento è la percezione della povertà: chi è povero, oggi, in Cina è considerato sostanzialmente «un tale che non ha saputo riscattarsi, colui che non ce l’ha fatta ad ottenere l’assistenza sanitaria (che è a pagamento), colui che non ha accesso alla tecnologia»3 e che non può permettersi di entrare nei «grandi quartieri supermercato», che improvvisamente sono aperti nelle metropoli. Quando un uomo chiede l’elemosina per pagare l’operazione al cuore della moglie attaccata ai tubi della flebo, riceve indifferenza. Gli abitanti di questo ventunesimo secolo, infatti, non sono solo i nativi digitali che marciano verso il domani scintillante della robotica con lo smartphone in mano. Sono anche questi poveri, i quandilong, che provengono della campagna che oggi chiedono rifugio alla città4, rovesciando il mito dell’era maoista che incoraggiava invece esodo verso le campagne. Durante la «Rivoluzione culturale», il trasferimento forzato degli intellettuali verso le campagne fu imposto da Mao con un duplice scopo: da un lato modernizzare l’attività agricola – la Cina era un paese rurale – all’interno di un progetto per il quale la classe contadina doveva diventare indiscusso motore della rivoluzione, e dall’altro conformare sempre di più l’intellighenzia borghese all’ideologia del Pcc – Partito comunista cinese -, un’intellighenzia dotata fino ad allora solo di un’istruzione libresca che si doveva attrezzare con l’esperienza del lavoro fisico nei campi. Gli intellettuali erano concepiti esclusivamente in questo modo e solo così potevano diventare lo strumento di diffusione della filosofia dell’educazione secondo Mao5. Le campagne erano al cuore della propaganda maoista. Oggi i poveri che necessitano di «una rivoluzione», non sono più in campagna. Oggi sono gli anziani esiliati dal sentimento della pietà filiale di cui la società post-moderna si vergogna; sono coloro che sono scappati dai villaggi e che vivono ai bordi delle metropoli.
Per strada, oggi, è difficile resistere alla smemoratezza. L’individuo cinese, uomo o donna che sia, considerato innanzitutto un’unità lavorativa nella Cina comunista, catapultato poi nella frenesia dell’apertura economica inaugurata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta, si dimentica della storia e «come il bambino è destinato a prendere la forma spirituale e intellettuale che gli darà l’ambiente e l’educazione. Tutto lo sforzo del Partito comunista cinese è stato quello di creare una totale smemoratezza nei cinesi»6.
La potenza cinese nel 2019
La Cina di oggi è un paese con cui l’Italia (grande come la sola provincia di Zhejiang, luogo da cui – come vedremo – provengono molti migranti cinesi), deve imparare ad interfacciarsi.
È una nazione sempre più simile – per abitudini sociali – all’Europa e all’America: è il paese in cui non si ha più fretta di sposarsi e di avere figli; in cui, dal 2016, si decide di investire nelle riserve auree e in altri metalli preziosi più che nei titoli di stato e nelle valute estere (troppo soggette a fluttuazioni commerciali repentine). Addio, quindi, al trattato di Bretton Woods7, ed anche addio allo strapotere del dollaro e di altre monete estere. Sono la Bank of China e l’Hsbc Bank che decidono giorno per giorno il tasso di interesse nel cambio. Ed è consigliabile, per chi volesse fare il turista in Cina, imparare a utilizzare «We-chatPay», un’applicazione dello smartphone, con cui si effettuano i pagamenti mediante ricarica, anche solo per affondare i kuaizi (le bacchette cinesi) nella fumante ciotola di jiaozi (ravioli) da acquistare in rosticceria.
La Cina è oggi economia, impresa, turismo (si prevede che, entro il 2030, diventerà il primo paese al mondo per frequentazioni turistiche). È il paese in cui il partito unico resta il Pcc, ma in cui tra la gente si respira una vena spontanea di democrazia: persone sempre disposte all’autocritica, che non giudicano in base a categorie professionali e individualistiche il valore del lavoro, ma in base alla qualità della tecnologia e al livello di cooperazione; il paese dell’educazione secondo i principi confuciani, non della religione trascendentale. In Cina le università si inseriscono nella normalità delle strade, davanti ai parchi, nei pressi degli enormi parcheggi dei supermercati, come parte dell’habitat urbano: 34 sono i campus cinesi che si posizionano tra le prime 500 università al mondo per qualità di certificazioni e rapporto laurea-occupazione.
È il paese dove la società matriarcale delle etnie Moso e Na non solo sopravvive tra lo Yunnan e il Sichuan8, ma vive serenamente come depositaria di tradizioni. Qui la donna è legittima ereditaria di tutti i beni di famiglia. È una società, in queste due regioni della Cina, nella quale la Natura è intesa al femminile e dove non esiste una parola per la violenza di genere. Le donne godono di particolari diritti nella sfera sentimentale, sono svincolate dagli obblighi del matrimonio, vengono valorizzate come madri e sono guida della società; anche durante la politica del figlio unico che imponeva per legge l’aborto soprattutto nel caso di figlie femmine.
Ad oggi la Cina è la più grande produttrice di giochi online, ma anche il primo paese che sta studiando un sistema per limitare ad 1-2 ore l’uso-abuso di videogiochi per minori. È il paese che sta tentando una coesistenza imprenditoriale con l’acerrimo nemico, il Giappone. A ottobre 2018 la visita ufficiale di Shinzo Abe nella Repubblica Popolare, dopo quasi tredici anni, ha evidenziato che l’interdipendenza commerciale e di impresa fra i due paesi è di altissimo livello, anche se manca la fiducia politica reciproca.
È giunta l’ora, ormai, in cui anche l’Europa, l’Italia, l’Occidente distratto imparino a farsi delle domande sui protagonisti di questo scenario Cina-Giappone, in una prospettiva tutt’altro che lineare, attenti all’attualità dei processi, e non semplicemente alla cronologia di fatti. Perché l’Occidente possa pensare il futuro delle relazioni con la Cina, però, occorre che ripensi a quelle passate.
Partire dai proverbi
Il chengyu è un’espressione proverbiale idiomatica composta di quattro ideogrammi. Nel chengyu, che usa la metafora e che può apparire linguaggio criptico, c’è sempre un significato pratico.
Il chengyu cinese 安不忘危 (Ān bù wàng wéi) «Vi può essere pace solo se non ci si dimentica dei pericoli»,può essere una utile chiave di lettura degli scenari che si aprono nel 2019 per le relazioni tra Cina ed Occidente. La pace va conquistata. Non è scontata, non è un regalo dell’Impero Celeste o una concessione dell’Occidente: per custodirla è necessario mettersi in gioco da entrambe le parti, tenendo conto dei rischi.
La costruzione di un legame fra Cina e Occidente, la 关系, la guānxì, richiede un interlocutore dell’ex Impero Celeste che non sia solo la Santa Sede. Per cogliere i segni dell’epoca che stiamo vivendo, può essere utile un viaggio indietro nel tempo per ritrovare così quell’incontro fra il gesuita Matteo Ricci e il mandarino Ai Tian, vissuti oltre quattrocento anni fa. Un incontro gravido d’insegnamenti utili per noi oggi.
Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino
Allo scalo nella capitale Pechino devi scendere con i bagagli, fare il controllo, compilare il cartoncino giallo senape dove dichiari – come straniero – i tuoi dati, la tua nazionalità, il motivo della tua permanenza, il luogo in cui alloggerai.
Non è diretto l’imbarco dei bagagli da Pechino per qualsiasi altra città cinese. Figuriamoci se questa si trova nello Henan, estremo Nord Est del Paese di mezzo. E fin qui nulla di nuovo.
Sul retro del cartoncino, si trovano invece le «important notices», gli avvisi importanti. Come straniero (= 外国人 = Wàiguó rén) nella traduzione in inglese si diventa un «alien». A Pechino gli «aliens» devono registrarsi entro 24 ore (al massimo 72 ore, se si è in zone rurali). Se gli aliens non alloggiano in hotels, bed and breakfast o altro devono al più presto registrarsi alla stazione di polizia. Non possono viaggiare o muoversi (si intende anche a piedi) sprovvisti di passaporto e permesso.
Zhengzhou è la città più importante dello Henan. È qui che, all’ingresso della chiesa, si può leggere: «È vietato garantire l’educazione religiosa cattolica ai minori di 18 anni». Il giorno di Pasqua del 2018 la polizia ha fatto irruzione durante la celebrazione e ha ordinato ai bambini di uscire dalla chiesa. Il vescovo di Zhengzhou era allora riconosciuto ufficialmente solo dalla Santa Sede ma non dal governo. E tantomeno dal Pcc.
Da Zhengzhou, poi, si prende il treno per Kaifeng: sessanta chilometri di ferrovia ad alta velocità. Kaifeng, situata nello Henan, la provincia attraversata dal Fiume Giallo, è una cittadina postmoderna di oltre quattro milioni di abitanti. Fu capitale durante la dinastia Song. All’epoca, Kaifeng era una splendida città fortificata con una forte presenza ebraica.
A Kaifeng, nel 1605, iniziò la storia di incontro e dialogo fra il cinese ebreo Ai Tian, funzionario mandarino dell’impero e il cattolico italiano Matteo Ricci, teologo, cartografo che difese i riti degli antenati seguendo l’insegnamento di Confucio.
Per recuperare una riflessione sul dialogo Cina-Occidente, iniziamo dalla loro storia.
L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian
La ragione per la quale, nel 1605, Ai Tian, ebreo cinese di Kaifeng e funzionario amministrativo, intraprese il viaggio fu l’incarico istituzionale di verificare l’identità religiosa di Matteo Ricci. Un incarico che nessuno prima – all’interno della comunità di Kaifeng – si sarebbe mai sognato di ricevere dall’Impero Centrale.
A quell’epoca, 中国 (pronuncia secondo pinyin: zhōngguó = Paese di mezzo)9, lo «stare in mezzo» (termine composto di 中 = zhōng = centro, mezzo e di 国 = guó = paese, nazione) della Cina imperiale era anche «uno stare amministrativo», non ancora repubblicano-popolare.
L’autorizzazione a risiedere in Cina era concessa solo ai membri di religioni dell’Occidente riconosciute dall’Impero, quali erano cristianesimo, ebraismo, islam. Ai Tian doveva incontrare Matteo Ricci per conto dell’imperatore Wanli (1563-1620) e verificare l’effettiva appartenenza ad una delle religioni ufficialmente riconosciute come forestiere e autorizzate a convivere con il confucianesimo. Il viaggio fu da «ordalia»10 poiché non esistevano indizi sull’identità di Ricci. Occorreva «affidarsi» alle sorti, occorreva rischiare. L’unico modo per verificare che Ricci non fosse legato a religioni malviste dall’impero era quello di incontrarlo e vagliare la sua fede monoteista. Matteo Ricci (Li Madou) era, prima di tutto, per Ai Tian, un uomo europeo: girovago, forse monoteista, non confuciano.
I protagonisti
Le dinastie imperiali
221-207 a.C. QIN SHI HUANGDI – L’imperatore che pose fine al periodo degli Stati combattenti e che realizzò il sogno di fondare il primo Impero Celeste.
618-907 d.C. Dinastia TANG – È la dinastia per la quale assunse maggior rilievo il ruolo dei mandarini (questo termine ha un’origine portoghese). I mandarini sono ufficiali, consiglieri, capi amministrativi addetti al controllo del potere centrale su una vastità territoriale che è continentale. Per diventare mandarino, occorreva superare degli esami.
960-1279 Dinastia SONG – I Song istituzionalizzarono il sistema degli esami e il meccanismo di selezione di tutti i funzionari amministrativi. Istituirono anche la fasciatura dei piedi. Furono anni di grande prosperità in cui fiorì l’arte, la cultura, la tecnologia. L’epoca della dinastia Song fu caratterizzata anche dalla guerra. Per brevi periodi, Kaifeng fu capitale in modo intermittente a causa di questi conflitti. Nel 1126 Kaifeng cadde nelle mani dei Jurchen (Mongoli), prima identificati come nemici invasori non cinesi che spinsero i Song a stanziarsi a Sud, con capitale Linan, attuale Hangzhou.
1264-1368 Dinastia YUAN – Nel 1258 Gengis Khan invase il territorio dei Song Meridionali, occupò Hangzhou e distrusse definitivamente i Song.
1368-1644 Dinastia MING – Nel 1555 un esploratore portoghese, Duarte Barbosa, iniziò a pubblicare in Occidente alcuni documenti in cui appariva per la prima volta il termine Cina. Ufficialmente nel Trattato di Nerchinsk (1689) viene utilizzato questo termine dalla sua derivazione persiana o sanscrita. Fu alla corte dell’imperatore Wanli della dinastia Ming che Matteo Ricci rimase ammirato dalla sapienza dei mandarini ed anche dal sistema degli esami che era meritocratico. Ricci proveniva infatti da un’Europa dove i titoli dei principi venivano ereditati di padre in figlio, e non certamente seguendo il criterio di sensibilità per la scienza e di rispetto dell’intelligenza. Dell’incontro avvenuto nel 1605 a Pechino fra Ai Tian e Matteo Ricci non rimasero molte tracce anche a causa dell’alluvione del Fiume Giallo nell’anno 1642.
1636-1912 Dinastia QING – Fu l’ultima dinastia della Cina imperiale. Il più noto tra i suoi imperatori fu Kangxi che governò dal 1661 al 1722.
Ai Tian, l’ebreo
Ai Tian (艾田), mandarino di Kaifeng. Poco si conosce di questo funzionario amministrativo dell’Impero Celeste. Era ebreo e il suo compito era di verificare l’identità monoteista di Matteo Ricci, la sua non appartenenza agli «adoratori della Croce» (*), una setta che aveva sostenuto l’invasione mongola nei secoli precedenti. L’incontro istituzionale fu un dialogo fra persone e la fiducia che ne sortì permise a Ricci di ottenere la stanzialità come missionario straniero nell’Impero. Fu Ai Tian, fu lui che avvisò il padre missionario gesuita della presenza degli ebrei a Kaifeng, nello Henan. Nei suoi appunti Matteo Ricci lo descrisse così: «Un giudeo di Natione e professione» che avrebbe dovuto verificare qual era la legge di provenienza di Li Madou. Ai Tian non si dovette augurare l’appartenenza di Ricci alla legge del popolo invasore. Piuttosto, dal suo primo incontro, si convinse che questo missionario scienziato venuto da lontano doveva proprio essere della stessa legge mosaica.
Quando – era il 1605 – Ai Tian fece visita a Matteo Ricci, nella capitale che era stata trasferita a Pechino almeno trecento anni prima anche a causa dell’invasione dei Jurchen, gli disse che a Kaifeng c’erano degli «adoratori della Croce». Il segno della Croce proteggeva i bambini, benediceva le bevande e il cibo. Un rito di protezione diffuso soprattutto nel Sichuan e nel Sud della Cina. Furono i Jurchen, i Mongoli che invasero Kaifeng e che avevano conosciuto il cristianesimo di Nestorio, a portare il culto degli adoratori della Croce.
La storia di Ai Tian – funzionario sconosciuto, mai citato nei libri di storia occidentale – è raccontata nel Prologo di «Mandarins, Jews and Missionaries – The Jewish experience in the Chinese empire» di Michael Pollak, con i contributi di Timoteus Pokora (Repubblica Ceca) e di René Goldman (Canada).
(*) Il loro culto è il cristianesimo nestoriano. I Nestoriani credono che Gesù Cristo sia due persone; credono che Maria sia solo Madre della Persona Cristo (Christotókos), negano che sia Madre del Figlio di Dio (Theotókos). Tale religione era pertanto «straniera» per i cinesi altrettanto quanto l’ebraismo e l’islam. Tuttavia gli adoratori della Croce furono avvertiti con timore perché furono i Mongoli a trasportare dalla Persia il culto nestoriano. Il pericolo di un ritorno degli invasori mongoli non era sparito durante i Ming. Da non dimenticare che, quando in Cina c’erano i Mongoli della dinastia Yuan (1264- 1368), il papa tentò più volte di usarli per un’alleanza con i crociati e vincere sui musulmani. Senza risultato.
Matteo Ricci, il gesuita
Matteo Ricci (利玛窦 = Li Madou) nacque nel 1552 a Macerata. Iniziò la scuola dei gesuiti all’età di nove anni. I primi cristiani ad arrivare in Cina furono i nestoriani che, tra il 365-980 d.C., avevano fondato alcune comunità. Poi arrivarono i francescani dal 1245 -1368, periodo in cui la Cina subì l’invasione dei Tartari. Non restano però tracce significative di questi passaggi. La Compagnia di Gesù fece il suo primo ingresso in Cina nel 1552, con il suo fondatore, Francesco Saverio.
Ricci iniziò il suo viaggio nel 1598 verso Pechino ma non vi arrivò subito. Rimase a Nanchino fino al 1601. Fu in quell’anno che venne invitato a Pechino, alla corte dell’imperatore Wanli, dinastia Ming.
Matteo Ricci non entrò in Cina con un visto a scopo missionario. Sin dall’inizio comprese che, per introdurre il cristianesimo nel grande «Paese di mezzo», non bastava evangelizzare secondo i metodi tradizionali di missione.
Ben presto avrebbe dovuto imparare a «stare» dentro l’impero celeste, conoscere le tradizioni, i riti. Solo risiedendo stabilmente in Cina, sarebbe stato possibile il dialogo con una tradizione di simboli e di ideogrammi che non si possono semplicemente scomporre, ma che si devono comprendere per aprire il pensiero di volta in volta a sintesi più alte, nella traduzione. Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610.
Martino Martini, un altro missionario gesuita in Cina
Gesuita, storico, scienziato, cartografo, Martino Martini (卫匡国 = Wèi Kuāng Guó), nato a Trento nel 1614, fu un volto di pace, consapevole del rischio che una mancata
conciliazione tra Cina e Occidente avrebbe potuto avere. Dopo gli studi nella sua città natale, entrò nella Compagnia di Gesù. Fu lui stesso che chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario in Cina. Nel 1640 avvenne il suo primo ingresso in Cina, a Macao. Successivamente fu a Nanchino e ad Hangzhou. Fu il primo che compilò una grammatica cinese secondo canoni occidentali. Il suo ingresso nell’Impero Celeste coincise con il passaggio fra le due dinastie, Ming e Qing. Al suo arrivo in Cina, trovò una situazione complessa. La capitale della dinastia Ming, Pechino, era caduta nelle mani dei ribelli di Li Zecheng. Il malcontento era causato dalle malattie (tra cui il vaiolo) e altre piaghe economiche (aumento delle tasse) di cui soffriva il mondo delle campagne.
Ci furono poi i Manciù che invasero il paese fino alla provincia di Zhejiang. Martini venne riconosciuto come «dottore della Legge divina, proveniente dal Grande Occidente» anche durante l’assedio della futura dinastia Qing.
L’opera di Martini che difese la pratica dei riti e il culto degli antenati fu la Brevis Relatio de Numero et Qualítate Christianorum apud Sinas (Bruxelles 1654), indirizzata alla Sacra Congregazione De Propaganda Fide.
Il missionario fu richiamato a Roma nel 1651 nella veste di delegato delle missioni superiori cinesi. Il suo viaggio fu lungo: attraversò le Filippine, presentò le sue informazioni all’imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando III d’Asburgo prima di giungere a Roma, nel 1655.
Nella storia della Chiesa, il 1645 fu l’anno che segnò l’inizio della «controversia dei riti», il cui esito fu l’immediata condanna del papa Innocenzo X, dopo la denuncia di Juan Bautista Morales, domenicano. L’ordine di Sant’Ignazio, cui Martini apparteneva, cercò di porre riparo a questa controversia sortita con una denuncia proprio con il lavoro missionario di Martini che convinse il successore di Innocenzo X, Alessandro VII, della giustezza delle tesi e dei percorsi di missione in Cina da parte dell’ordine dei gesuiti. Purtroppo la testimonianza di Martini che ritornò poi in Cina, ad Hangzhou (dove nel 1661 morì) non bastò a spegnere la controversia che divenne una diatriba per interessi di fede, tecnico-scientifici, economici. Ancora cinquant’anni dopo la questione divise l’imperatore cinese Kangxi (1654-1722) e il papa Clemente XI (1649-1721) che continuò a sostenere la linea dura dei domenicani e dei suoi predecessori. A questa situazione, si aggiunse come aggravante l’interesse del re francese Luigi XIV alla questione dei riti. Il re inviò missionari gesuiti francesi fra cui il vicario apostolico Maigrot del Fujian. La Francia aveva colto la decadenza del Portogallo nelle rotte commerciali e la controversia teologica potè facilmente diventare espediente per la disputa pubblica che si allargò anche alle missioni straniere.
All’interno dello stesso ordine, i gesuiti dovettero difendersi dall’accusa di eresia e di idolatria poiché sostenevano il dialogo con il confucianesimo cinese.
Religione, un termine senza ideogramma
Almeno fino alle guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860), la Cina resterà l’Impero Celeste. All’interno di esso, la parola «religione» non trovava ancora una traduzione ideografica: non aveva cittadinanza culturale nella lingua scritta.
Occorrerà attendere il passaggio tra Ottocento e Novecento per arrivare all’introduzione di un termine: 宗教 (zōng jiào composto di 宗 = zōng = antenato e di 教 = jiào = insegnamento). Dove l’ideogramma 教 jiào è polisemico: insegnamento, trasmissione di conoscenze e abilità, addestramento, culto.
L’esito fallimentare dell’incontro fra Cina e Occidente fra il Seicento e il Settecento produsse una frattura gravida di conseguenze. Una frattura che si sarebbe potuta evitare se si fosse tenuto conto delle tradizioni e delle fatiche, dei tentativi di comunicazione fra Ricci e Ai Tian. Il loro dialogare di fronte all’icona di Maria e Gesù con gli apostoli e gli evangelisti portò infatti a prospettive di conciliazione e al completamento della stesura del trattato Dell’Amicitia (iniziato a Nanchino nel 1595) di Matteo Ricci. Tuttavia, questo non bastò ai successivi imperatori e rappresentanti della Santa Sede che si abbandonarono alla disputa e alle ragioni della guerra, piuttosto che alle motivazioni della pace.
Un secolo dopo l’incontro tra Ricci e Ai Tian, fu l’illusione epocale dell’imperatore Kangxi che portò al fallimento del dialogo. Nel 1700, all’inizio della sua ascesa politica, Kangxi aveva celebrato e promosso l’apertura delle frontiere dell’Impero Celeste: una sfida al futuro che trovava la sua condizione di base nello scambio culturale fra istituzioni e gesuiti che abitavano la capitale. Questo obiettivo non aveva trovato, tuttavia, risonanza e sintonia nel mondo cattolico e a Roma. La crisi europea post Riforma e Controriforma aveva assopito l’interesse per la cultura e la conoscenza del Paese di mezzo, nonostante la positiva riflessione del Concilio di Trento e lo sforzo da parte di alcune istituzioni ecclesiastiche di uscire dal contrasto tra diritto canonico e diritto positivo della società secolarizzata11.
Incomprensioni e conflitti
Nel 1692, l’imperatore Kangxi aveva invitato alla sua corte studiosi e missionari; aveva concesso loro la libertà di culto e il permesso di praticare i riti cristiani. Questa concessione di «pax augustea» fra culti e riti in una versione orientale non fu accettata da tutti nel mondo cattolico.
In Cina e a Roma iniziarono una serie di dispute fra le congregazioni e, in particolare, fra i gesuiti presenti in Cina e gli altri ordini. I riti che venivano contestati erano soprattutto i riti funebri che, in Cina, venivano officiati seguendo pratiche come l’offerta di cibo, di beni materiali (ad esempio, il denaro che veniva fuso o comunque incenerito). L’invocazione dei defunti attraverso le tavolette su cui era incisa la genealogia familiare non era considerata degna di valore spirituale. Ciò che veniva contestato era l’ambiguità del termine 天主 = tiānzhŭ = Signore del Cielǒ, che compariva nelle iscrizioni proprio come segno di compatibilità fra la religione cristiana e rito confuciano: il Signore del Cielo venne malamente interpretato come il capo supremo di cielo e terra dall’interlocutore occidentale che lo identificò come un pericoloso Imperatore avido e invadente nei confronti della religione cattolica, minoritaria in Cina. Furono soprattutto gli ordini di domenicani e francescani e alcuni missionari sotto il protettorato francese che evidenziarono la seduzione spirituale dei riti12.
Il vicario apostolico del Fujian nel 1693 scrisse il primo decreto che proibiva l’uso dei nomi Tiān (Cielo) e Shàngdi (Signore supremo). Nel 1704 la Commissione del Sant’Uffizio di Roma inviò la costituzione apostolica Cum Deus Optimus in cui si decise che le tavolette in pietra dove venivano ritratti gli avi defunti adottate dai cattolici dovevano omettere gli ideogrammi finali di «luogo dell’anima». Gli ideogrammi erano stati interpretati dagli avversari dei riti come 迷信 (= míxìn = credenza superstiziosa), quasi che l’anima fosse presente sulla tavoletta. Di qui la reazione di Kangxi che nel 1706, sostenuto dai gesuiti a corte, emise a sua volta un decreto che regolava rigidamente la presenza dei missionari cattolici.
Ci furono poi diversi tentativi di dialogo, ma papa Clemente XI nel 1715 emise la bolla Ex Illa Die che ribadiva e confermava tutte le proibizioni ed esigeva un giuramento dai missionari, abolendo di fatto una prima apertura tollerante di papa Clemente IX nel 1669. L’ultima parola da Roma fu nel 1742 quando con la bolla Ex quo singulari papa Benedetto XIV impose l’obbedienza e proibì ulteriori discussioni. La soppressione della Compagnia di Gesù voluta dai re europei nel 1747 tolse poi di mezzo i paladini del dialogo.
Una questione non solo «romana»
Questa concezione fraintesa di 天 («cielo») non solo vedeva contrari i gesuiti (che a corte avevano a che fare con la parte più colta e istruita della società cinese), ma anche la comunità ebraica di Kaifeng che fino ad allora aveva convissuto in modo pacifico con la comunità dei cattolici, pur rispettando i tre insegnamenti (buddhismo, taoismo, confucianesimo). Questa rifiutò l’interpretazione che equiparava il termine 天主 (= tiānzhŭ = Signore del Cielo) al significato di «signore-capo». Per loro il Signore del Cielo non era da identificare con un Imperatore supremo, capo del Cielo su una terra ridotta ad uno squallido materialismo. E si poteva essere fedeli al Cielo, pur rispettando le autorizzazioni imposte dall’imperatore e dal potere centrale di Pechino.
L’attribuzione del Signore-Capo del Cielo era una lettura occidentale che non teneva conto della storia di Kaifeng. Ed era proprio la religione straniera che presumeva di interpretare i riti senza conoscere le persone.
Tale visione del mondo negava la storia della comunità che, fino a quel momento, aveva trovato sintesi coerenti di vita e di prassi fra l’ebraismo e l’insegnamento di Confucio. Si confinava, così, il confucianesimo sul precipizio di un’illusione, di un paganesimo che non riconosceva possibilità di dialogo e di rapporto fra società cinese e religioni monoteiste. Venivano così frantumati i valori della pietà filiale.
I protagonisti di questa controversia non furono solo l’Impero Celeste di Kangxi e la Santa Sede con i suoi vescovi. C’erano comunità, persone, valori, tradizioni, economie, legami (关系, guānxì) che si erano instaurati nella diversità̀ dei tre Sanjiào (= i tre insegnamenti cioè confucianesimo, taoismo, buddhismo) e delle tre religioni monoteiste che avevano imparato a stare insieme. Purtroppo, furono esse che si trovarono travolte dall’effetto valanga di questa disputa.
Lo scontro di civiltà che ne derivò, ancora una volta, non venne previsto. Ma arrivò nel 1938. A Kaifeng. Fu infatti nel Novecento, durante il conflitto sino-giapponese, che il Giappone, alleato dei nazifascisti europei, invase l’ex capitale della dinastia Song, defraudando la storia della sua cultura e approfittando della debolezza interna dell’imperatore cinese Po Yi. Attraverso un censimento, e quindi attraverso un controllo militare delle persone residenti a Kaifeng, i giapponesi presero il controllo degli abitanti e della loro religione. Kaifeng morì spiritualmente, poiché molti ebrei si trasferirono e furono costretti dalle circostanze a vendere la loro Torah e le suppellettili della sinagoga.
Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica
Kaifeng, 8 dicembre 1938. Siamo alla fine dell’anno in cui l’armata giapponese ha fatto la sua marcia verso la città. In quello stesso anno Sogabe e Mikami, membri dell’intelligence giapponese, stanno violentando l’intera Cina. Iniziano il loro dominio a livello giuridico e amministrativo con l’imposizione di un controllo sugli abitanti di Kaifeng per verificare quanti ebrei ci fossero nella comunità con un censimento giustificato da «ragioni di sicurezza» nei confronti di un popolo che, in Occidente, era stato designato come «pericoloso nemico» dal nazismo. Quale occasione migliore di seduttiva complicità con la Germania per la politica giapponese: la sicurezza diviene il pretesto per legittimare l’invasione del «Paese di mezzo».
Fino ad allora, gli ebrei non erano mai stati perseguitati in Cina. L’antisemitismo era sconosciuto anche al Giappone. Furono i nazisti a disprezzare gli asiatici perché inferiori alla razza ariana. Il progetto nipponico aveva il principale obiettivo di impadronirsi delle risorse naturali cinesi, necessarie per lo sviluppo della propria industria. Il panasiatismo nipponico fu un progetto alternativo al colonialismo occidentale in Cina.
Dal versante occidentale si aggiunse la real politik nazista che imponeva agli stati amici l’applicazione delle leggi razziali e le pratiche di sterminio. La scommessa con l’hate speech panasiatico del Giappone, complice della Germania di Hitler, divenne la base più sicura, il tavolo su cui negoziare la posta in gioco: dare legittimità al potere del Mănzhōuguó, lo stato fantoccio della Manciuria, per deporre definitivamente la dinastia Qing e distruggere la Repubblica popolare nascente. Proprio non si poteva immaginare nulla di più facile per i nipponici.
Nel 1938 era passato un solo anno dal massacro di Nanchino. Nel ’37, oltre 300mila civili erano stati trucidati, oltre 20mila donne violentate. Non bastò la «zona di sicurezza» di John Rabe, imprenditore filonazista della Siemens, a favorire il salvataggio di migliaia di civili. Rabe decise di aprire la fabbrica per accogliere donne e bambini, abitanti della città in quella notte del 13 dicembre 1937. I morti di Nanchino sono rimasti nel silenzio e nell’anonimato per troppi anni nei cicli di una storia senza pace, come quegli ideogrammi finali di «luoghi dell’anima» cancellati dalle tavolette degli antenati.
Solo recentemente, a ottant’anni di distanza, nelle librerie di Nanchino si trovano testi, lettere e scritti che documentano lo stupro. Ad oggi le autorità giapponesi non hanno dato segnale ufficiale di riprendersi dalla «dimenticanza». L’olocausto asiatico continua a rimanere nell’oblio.
A Kaifeng, nel 1938, le autorità giapponesi, oltre ad assicurarsi il riconoscimento dell’alleanza con la Germania, intendevano anche «dare ragioni oggettive» di sicurezza alla guerra e di legittimazione alla politica di invasione della Manciuria. Già dal 1895, i militari giapponesi avevano iniziato a costruire una propria identità nazionale, fondata su un’idea di straniero, opposto all’autoctono del Sol Levante. Ciò che caratterizzava lo straniero non poteva definire ciò che era giapponese: in questo contesto, la Cina fu vista come «società di banditi», barbara che avrebbe infestato «la civiltà mondiale». Obiettivo del progetto panasiatico nipponico era seguire il colonialismo occidentale e sabotare l’immagine della civiltà cinese, anche dall’interno (approfittando del clima di guerra interna fra esercito del Guomindang ed esercito comunista).
Allargandoci a uno sguardo antropologico, comprenderemo ben presto che la posizione di quell’invasore fu molto distante da quella dell’ospite «non ancora autorizzato» quale fu Matteo Ricci: qualitativamente lontano dalle mire espansionistiche dell’invasore giapponese, qualitativamente diverso il suo volto, orientato alla via dell’inculturazione e non al colonialismo. Quando ancora a Kaifeng si poteva respirare un clima che metteva in circolo la cultura, i linguaggi, le religioni, per custodire il futuro. Senza usurparlo.
L’ospite non gradito
Nel 1600 Ai Tian fu animato, prima di tutto, da una ragione13: quella di controllare ciò che l’arrivo di Matteo Ricci avrebbe potuto provocare come impatto nell’ordinata capitale. Ma fu mosso anche da un sogno. Un sogno che aveva iniziato a realizzarsi già prima della partenza: un desiderio di successo e visibilità verso il servizio civile dell’Impero Centrale e l’ambizione di controllo su un fenomeno inaspettato. Li Madou: un cristiano, non un ebreo, un monoteista ma non un confuciano, un missionario e non un funzionario; per Ai Tian, rappresentava un uomo che probabilmente era stato costretto ad allontanarsi dall’Europa e a errare per la Cina fino a giungere alla capitale.
Un passaporto identitario, quello di Matteo Ricci tracciato da Ai Tian, molto diverso da quello proposto nei libri della storia italiana, europea ed occidentale.
Matteo Ricci: teologo e cartografo, fu il pioniere che entrò in conflitto col «Vaticano» per difendere le pratiche degli antenati, tipiche del confucianesimo. Ricci fu il primo anello di congiunzione tra la cultura europea rinascimentale e quella cinese: resta comunque tra i pochi stranieri a figurare nell’«Enciclopedia nazionale» della Cina.
Fu il primo missionario che ottenne dall’Imperatore l’autorizzazione a fondare una chiesa a spese dell’erario: resta il primo europeo che si vestì da mandarino perché aveva colto che la trasmissione del suo messaggio cristiano sarebbe stato poi diffuso dalla classe dirigente agli ultimi della storia non solo con le lettere e le parole.
Per Ai Tian il viaggio fu un passaggio da una periferia come Kaifeng alla capitale dell’impero dove sopravviveva una colonia monoteista (la piccola chiesa di San Giovanni Battista nella quale viveva Ricci): una comunità ecclesiale avvertita «come una bizzarra intrusa», all’interno della capitale dell’Impero Celeste e che, dal punto di vista dell’ordine amministrativo, doveva essere autorizzata alla stanzialità.
Prima dell’incontro, lo stesso Ricci non avrebbe mai immaginato la presenza di ebrei in Cina. Viceversa, Ai Tian avrebbe potuso solo ipotizzare che quel cristiano europeo fosse un esponente di una setta: Ricci era un monoteista, non un cinese, non confuciano e neppure ebreo. Per Ai Tian, l’aver ottenuto il permesso di sostare nella capitale dell’Impero Celeste era l’unico punto di privilegio riconoscibile nel volto del suo interlocutore extracontinentale.
Un funzionario ambizioso incrocia, dunque, la sua noiosa vita di burocrate con quella di un reietto, uno dei tanti ospiti indesiderati, un letterato giunto a Pechino dopo un lungo percorso da Occidente ad Oriente. Non un esiliato, non un rifugiato, non un naufrago. L’espressione riferita a Ricci è di ospite non gradito, «uno degli ospiti indesiderati»14.
Il lettore non può, a questo punto, dimenticare un altro chengyu cinese: 接风洗尘 jiē fēng xĭ chén15
che significa «far entrare il vento per lavare la polvere». Esso chiarisce bene il gioco delle parti: l’espressione di benvenuto rivolta all’ospite, ricorda anche al padrone della dimora che occorre «fare entrare il vento» affinchè la casa si possa lavare dalla sua stessa polvere. L’ospite, seppure indesiderato, porta qualcosa di nuovo. Fu forse questa ispirazione che aprì il dialogo fra i due.
L’incontro e il dialogo
L’incontro fra Matteo Ricci e Ai Tian avviene così: davanti al dipinti della Madonna con Bambino e di san Giovanni Battista, disposti ai lati dell’altare della piccola chiesa di San Giovanni Battista, a Pechino.
L’interpretazione di quei dipinti è la prima occasione di traduzione. Mancata, sospesa, fraintesa e infine aggiustata. Non è costume del popolo di Kaifeng venerare le immagini. Quando Ai Tian vede Matteo Ricci-Li Madou che si genuflette davanti alla maternità, lo imita «assumendo che i due individui rappresentati fossero Rebecca e i suoi figli Jacob ed Esaù, con cortesia seguiì il costume»16.
È il culto degli antenati della tradizione confuciana che induce Ai Tian, ebreo, a vedere i suoi patriarchi e a compiere il gesto di genuflettersi. Si trattava della maternità cristiana, ma ma lui vi scorse Rebecca con Giacobbe e, nell’altro dipinto, Esau. Rebecca resta comunque un’antenata di Maria. Matteo Ricci non vede un’incongruenza nell’interpretazione dei simboli e delle immagini. Poi Ai Tian osserva i quattro evangelisti e si domanda se quelle figure possano essere quattro dei dodici figli del bambino ritratto sull’altare. Li Madou non lo corregge, pensa solo che c’è stata una confusione fra evangelisti ed apostoli: in fondo i dodici apostoli possono essere interpretati simbolicamente come i figli spirituali di Cristo.
Fu questo il primo incontro, la prima mediazione culturale che seppe realizzarsi tramite il fascino suscitato dall’arte in ciascuno dei due interlocutori. Uomini esploratori, liberi di entrare nei significati della traduzione e capaci di disvelare strade nuove attraverso la curiosità, capaci di mantenere il respiro davanti a ciò che «non è ancora» compiuto e di conservare il timore, quel timore che ciò che si attende dalla storia, in un attimo può scomparire e diventare «un non più».
Cosa rimane, nella nostra normale quotidianità, dopo aver rispolverato questa vicenda attraverso il libro di Michael Pollak Mandarins, Jews, and Missionaries, dedicato alla testimonianza del passaggio e della stanzialità della comunità ebraica nell’impero cinese? Una testimonianza che ha conservato il sapore della dimensione esperienziale, di vita. Posso tentare di rispondere che cosa ha significato per me, nel mio lavoro di mediatrice culturale e lo faccio partendo da un altro chengyu. Dal linguaggio metaforico dei proverbi, da parole che parlano all’anima popolare, si può infatti imparare a tradurre l’inesauribile ricchezza di umanità, presente nella nostra esistenza, in azione concreta.
Note culturali
La Cina e il culto degli antenati
Dal suo inizio, la dinastia Shang (XVI-XII secolo a.C.) praticava la divinazione con le iscrizioni incise sulle ossa dei buoi o sui carapaci che venivano fatte screpolare nel fuoco. I segni dell’ignipuntura venivano poi interpretati a seconda della preghiera che veniva realizzata durante la loro invocazione. Li si pregava, ad esempio, di far scendere la pioggia, di far cessare un’epidemia, di allontanare i nemici. L’equilibrio fra i vivi discendenti e i defunti avi è di natura omeostatica: il debito dei posteri nei confronti dei predecessori viene sciolto nel momento in cui si mantiene la promessa di comportarsi bene sulla terra, senza farli arrabbiare e il mantenimento in vita sulla terra avviene attraverso la generazione della prole. Il debito con gli antenati si contrae e si riscatta periodicamente con offerte e sacrifici, soprattutto durante la festa. Le tavolette funerarie sono racchiuse in urne di pietra. In passato, in occasione di tutti i grandi eventi del regno e di tutte le solennità della vita di palazzo, un lettore veniva a renderne conto, con voce possente. Delle gocce di sangue, venivano versate nei punti delle tavolette dove si presupponeva ci fossero le orecchie e la bocca del defunto. Ancora oggi, secondo la tradizione, le famiglie preparano per la notte di Capodanno (cade sempre tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio) un altare con l’incenso e le offerte sul quale mettono i ritratti degli antenati, e le «tavolette degli antenati» con i nomi della genealogia della propria famiglia. Dopo aver bruciato tre fasci di incenso ci si inchina davanti agli antenati, vengono recitate le preghiere e si fanno le offerte per un raccolto proficuo nel prossimo anno. Infine, le immagini di carta e il denaro offerto vengono bruciati: il fumo trasporta le preghiere della famiglia al Cielo.
Nella stele di Kaifeng, anno 1489 – oggi conservata nel Kaifeng Museum of Jewish History – si trova l’iscrizione in ideogrammi da cui si deduce che l’insegnamento delle Sacre Scritture è compatibile con l’insegnamento confuciano. Evidentemente già da allora la traduzione dell’iscrizione espose gli israeliti ad una sinizzazione. Un’iscrizione su pietra, un segno ideografico, una scrittura che non doveva morire. Il culto degli antenati dialoga con la religione delle Sacre Scritture partendo dal mito. Il patriarca Abramo viene da Pangu, creatore, all’inizio di Tutto. È da un uovo che contiene il Caos che Pangu viene creato. Ma è necessaria una rottura del guscio, da parte del gigante Pangu dall’interno: una volta divenuto adulto dalla rottura dell’involucro, il tuorlo diviene la Terra e l’albume il Cielo. Il corpo del gigante ha continuato ad allungarsi generando montagne e fiumi finchè è sparito interamente come corpo ed è divenuto creato. Si comprende bene da questo mito che, all’origine, l’universo e il modo di percepirlo da parte dell’umanità ha come punto di contatto il riconoscimento di un’osmosi di rapporto fra Cielo e Terra. Anche il ruolo del sacrificio e degli antenati risente di questa concezione immanente della realtà.
«Servire i morti come si servono i vivi, non usare la scusa della scomparsa dei capostipi antenati sulla terra che vedi per smettere di pregare… continuare a servire i dimenticati come se fossero gli ultimi sopravvissuti… offrire buoi, offrire capre a seconda della stagione, in legame con te». Così si legge nella stele.
La scelta dell’immanenza del pensiero fra mito e cosmogonia cinese trova qui la sua radice culturale e nella pratica rituale comunitaria dello sciamanesimo. Ma non entra in collisione con le religioni della Bibbia.
Il Signore del cielo
Il carattere 天 Tiān significa «cielo», ma è polisemico e quindi suscettibile di possibili interpretazioni. Nella controversia sui riti che si accese nel settecento, venne frainteso come «paradiso terrestre»: una terra del cielo potenzialmente seduttiva e spiritualizzata, in cui i riti sono interpretati secondo un principio di realtà che gioca al ribasso nella traduzione poiché non considera la possibilità di una conciliazione fra le tradizioni e le identità culturali. L’ideogramma 主 zhǔ si traduce con «signore, padrone, capo». La combinazione polisemantica dei due ideogrammi può dare luogo ad una traduzione deviante: il «signore del cielo» era diventato il «capo del cielo» secondo la Congregazione dei riti e l’espressione era scomoda sia per l’orecchio di alcuni ordini religiosi e per Clemente XI sia per lo stesso imperatore Kangxi. Si liquidò, per una scelta semplicistica ed anche per interessi economici, la traduzione facendo coincidere il signore del cielo con il capo-sovrano del cielo, l’Imperatore. C’era infatti il re Luigi XIV di Francia che in quegl’anni, a seguito del declino del Portogallo, aveva intuito la possibilità di allargare il proprio dominio commerciale in Estremo Oriente. Il re comprese bene che inviare missionari della Società delle missioni estere di Parigi avrebbe facilitato questo percorso. Il vicario apostolico che fece guerra ai gesuiti e alla tolleranza nei confronti del culto degli antenati, adottata dai successori di Matteo Ricci, fu il francese Charles Maigrot. Nella sua interpretazione imprecisa di 天主 Tiānzhǔ, l’imperatore celeste, il titolo non poteva essere applicato a Dio e, allo stesso tempo, all’imperatore, «capo» di un «cielo-paradiso» un po’ troppo edonistico e terrestre per poter essere annoverato fra le categorie dello Spirito delle religione cristiana monoteista.
Poco importò ai custodi della purità del linguaggio religioso il significato epocale che quei due ideogrammi avrebbero potuto aprire alla comunicazione fra Occidente ed Oriente. Poco importò loro il percorso storico delle comunità cristiane, ebraiche, confuciane, taoiste, buddhiste che fino ad allora avevano convissuto insieme secondo pratiche, liturgie e socialità. Chi condannò i riti, rifiutando a priori lo scontro-incontro culturale con la traduzione, fece un‘operazione molto simile a quella illusoria di liquidare una tradizione culturale un po’ troppo lontana per essere presa sul serio. E non tenne conto di aver derubato due civiltà.
Cina e religione
Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica
Kangxi (1654-1722) è l’imperatore della «controversia sui riti» con la Santa Sede. Nel 1692 promulga l’«Editto di Tolleranza religiosa» che autorizza la conversione al cristianesimo e concede il diritto di costruire chiese e predicare pubblicamente. Un missionario gesuita, Martino Martini (riquadro a pagina 38, ndr), fa discendere il nome Cina dalla dinastia 秦 (= Qin) la stessa dinastia che nel 220 a.C aveva realizzato il sogno di unificare il regno degli Stati Combattenti. A differenza dei missionari francescani e domenicani che volevano vietare il culto degli antenati, i gesuiti hanno un approccio di comprensione. È proprio Martino Martini ad essere inviato a Roma per chiarire la controversia dei riti e della traduzione di «Signore del Cielo». Questa azione viene pesantemente contestata da altri missionari presenti in Cina e il vicario apostolico della provincia di Fujian (Sud Est del paese), Charles Maigrot della Società per le Missioni estere di Parigi, proibisce di iscrivere ed incidere sulle tavolette dei defunti l’espressione «sede dell’Anima». Questo divieto viene poi ufficializzato da papa Clemente XI con la costituzione apostolica Cum Deus Optimus del 1704. Nel 1742 papa Benedetto XIV conferma questa proibizione.
La grande paura di Kangxi è quella di venire sopraffatto dalla superiorità tecnica europea: in breve tempo, l’imperatore cambia la sua politica di tolleranza nei confronti dei missionari cristiani presenti in Cina, demarcando in modo molto netto il rifiuto del cristianesimo. L’identità cristiana viene fatta coincidere con quella dell’intruso occidentale, imperialista, assetato di colonialismo.
1839-1842 e 1856-1860 – Con i Trattati Ineguali delle Guerre dell’Oppio, le missioni cattoliche finiscono sotto il protettorato della Francia, con i loro cristiani stranieri e da autoctoni. Il papa Leone XIII non osa inviare il suo nunzio apostolico in Cina.
1900 – Odio xenofobo verso i cattolici. La rivolta dei Boxer uccide missionari e semplici cristiani. Cristo è identificato come un uomo con la pancia piena nei manifesti dei rivoluzionari, simbolo del capitalismo e dell’occidente che avanza.
1912 – Repubblica cinese di Sun Yat Sen: abolizione della legge che impone alle donne la fasciatura dei piedi.
4 maggio 1919 – Rivoluzione degli studenti che si ribellano alla politica imperialista e all’imposizione del Trattato di Versailles: gli studenti sono contro la risposta del governo cinese che cedeva lo Shandong alle potenze coloniali, in primis al Giappone.
1937 – Nanchino, la capitale del nazionalismo cinese, cade davanti ai giapponesi. È un massacro. Solo il 13 dicembre di quell’anno, nella sola Nanchino si stima che siano stuprate tra le 20.000 – 80.000 donne. Era già cominciato il progetto di panasianesimo imperiale del Giappone che trovava nella Germania nazista il suo principale alleato.
1938 – Dopo il massacro di Nanchino, i giapponesi arrivano a Kaifeng già da giugno. L’esercito nazionalista cinese del Guomingdang, guidato da Chiang-Kai-Shek, deve allearsi con l’acerrimo nemico interno, il Partito comunista cinese, per fermare i giapponesi.
1939 – Papa Pio XII dichiara compatibili fede cristiana e riti confuciani e autorizza la traduzione in cinese della liturgia.
1949 – Fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). Negli anni Sessanta la direzione del partito era assolutamente contraria alla Chiesa cattolica. Il partito sfrutta la lotta contro la «superstizione religiosa» per potersi rafforzare.
1957 – Fondazione dell’«Associazione patriottica dei Cattolici cinesi» con l’appoggio dell’«Ufficio governativo degli Affari religiosi» della Rpc. Circa tre milioni di cattolici cinesi aderiscono. Desiderano l’indipendenza della Cina. Lottano contro l’imperialismo, contro la miseria, contro il capitalismo. Sono per la fine di tutte le superstizioni, per l’uguaglianza fra gli uomini, per il presidente Mao. Sono sotto la guida del Pcc.
1976 – Fino al 1976, anno della morte di Mao e della fine della «Banda dei quattro», per il Pcc i vescovi «controrivoluzionari» e «illegittimi» sono quelli che hanno relazioni con gli imperialisti americani e che tentano di restaurare «la dominazione reazionaria del Vaticano».
1978 – È l’anno di Deng Xiaoping e della politica di 开发展 apertura allo sviluppo economico. Le cose cambiano con la liberalizzazione delle attività commerciali. Anche da parte del popolo cinese nei confronti delle comunità cattoliche. Innanzitutto sono tollerate le chiese.
1981 – Giovanni Paolo II rivolge a Manila un saluto a tutti i cattolici della Cina. In quello stesso anno, il Vaticano viene accusato di interferire sul riconoscimento dell’arcivescovo di Canton. A seguito ci sono consacrazioni di vescovi della Chiesa patriottica senza la consultazione della Santa Sede. Questa situazione porta il cardinal Rossi, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ad autorizzare i vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» a ordinare altri vescovi, se necessario, senza previa intesa con Roma. Questo privilegio (già concesso in passato per i paesi europei sotto il regime comunista) porta però all’inasprimento dei rapporti fra vescovi «clandestini», «ufficiali» e «patriottici».
22 settembre 2018 – Tra Vaticano e Pechino viene firmato un accordo provvisorio.
Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?
«I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono, in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini e interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».
Così recita l’articolo 36 della Costituzione cinese. Le religioni ufficialmente riconosciute sono: buddhismo, taoismo, islamismo, protestantesimo, cattolicesimo.
Nel 2008, anno delle Olimpiadi cinesi, molti vescovi e sacerdoti della Chiesa clandestina sono posti agli arresti domiciliari o costretti «all’ozio forzato» prendendosi delle vacanze ed è loro proibito di incontrarsi anche con membri provenienti dall’estero in occasione dei giochi olimpici. Trattamento diverso per chi ha visitato il villaggio olimpico di Pechino dove sono stati costruiti appositi spazi di «spiritualità e preghiera» con rigorosa attenzione al cibo offerto secondo le fedi: cristiana, buddhista, musulmana, ebraica, indù. Trattamento di privilegio per gli ospiti stranieri. Evidente che, una volta, terminati i giochi olimpici, questa «liberalità di facciata» è finita.
Si arriva così al 22 settembre 2018 con la firma dell’Accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi. Nella Nota informativa si legge: «Al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina, il Santo Padre Francesco ha deciso di riammettere nella piena comunione ecclesiale i rimanenti Vescovi «ufficiali» ordinati senza mandato pontificio: (segue il nome di sette vescovi)» (vedi nota 1).
I vescovi definiti «ufficiali» fino a quel momento sono quelli scelti dalle autorità cinesi senza o in opposizione al consenso della Sede apostolica. In realtà molto pochi – sette -, perché di fatto molti dei vescovi «ufficiali» avevano già chiesto in segreto l’approvazione papale. Tale accordo va ora tradotto nella realtà storica che è ricca di sfaccettature.
Per ora, stando all’accordo, i candidati dell’episcopato verranno scelti dal basso, cioè dai rappresentanti delle diocesi e con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica. Alcune linee guida cominciano a dischiudersi, ma occorre poi la pazienza di stare dentro le contraddizioni della quotidianità e della storia.
Infatti, l’identità dei vescovi non è sempre categorizzabile secondo questo binomio: legittimo-illegittimo. E l’altro interlocutore è il Pcc che, secondo ragioni di convenienza, ha – in un passato recentissimo – chiamato i vescovi legittimi (approvati da Roma) come «controrivoluzionari» (in epoca maoista) o «clandestini» ed alcune comunità cristiane come «eretiche».
Ancora lungo e difficile è il cammino verso la libertà di professione dell’insegnamento cristiano e della fede nel Paese di mezzo. Non può sfuggire che ad oggi nelle diocesi di Luoyang e Xinxiang le chiese cattoliche sono state demolite, che a Puyang i presidenti dei Consigli Pastorali sono stati forzati dal governo ad indicare identità e professione, unità lavorativa e certificato di famiglia dei membri della comunità. Ed ancora che nella diocesi di Kaifeng, come a Zhengzhou, si legge all’entrata lo slogan: «Avvertimento contro il culto – Campagna di educazione nella Chiesa cattolica: nei luoghi di attività religiose non si deve predicare ai minori».
La questione della croce. In un paese grande e variegato come la Cina non c’è uniformità sul tema. Di norma (ma non sempre), è possibile l’esistenza di croci – anche esterne – in edifici autorizzati. Rispetto al segno della croce è proibito sia privatamente che pubblicamente, perché in Cina non è concesso a nessuno di vivere la propria fede (forestiera, cioè estranea ai tre insegnamenti originali che restano confucianesimo, taoismo e buddhismo, in particolare il primo) se non in chiese ufficialmente riconosciute dal Partito.
La Cina in Italia
I ragazzi della provincia di Zhejiang
安不忘危 Ān bù wàng wéi:
non dimenticare il pericolo; non c’è pace se c’è
dimenticanza. La pace è nelle dinamiche
della storia, non è statica.
A Rimini, quando chiedo ai ragazzi della provincia di Zhejiang17 se hanno mai letto di Li Madou e Ai Tian sui loro banchi di scuola mi rispondono che la storia si studia dalla seconda media. E si parte da Mao: 1949. E poi si ritorna frettolosamente alle dinastie imperiali. Ma il percorso che va dalla caduta degli Han orientali alla dinastia Tang e poi anche oltre fino ai Qing, è sospeso dai banchi di scuola. Non perché proibita, quella storia, ma perché ormai è l’idolo della tecnologia liquida che impone i programmi di studio. Facili, veloci, efficienti. Semplificativi. Non c’è il tempo di attraversare le cause, i processi, le dinamiche e non c’è spazio per entrare nei significati, per interpretare i simboli in unità di senso. La storia diventa una materia sconosciuta. Aliena.
Chen Jūn Yŏng arriva in una scuola del riminese all’età di dodici anni nell’anno 2009. Il suo nome Jūn Yŏng corrisponde ai due ideogrammi di 君勇 cioè valoroso e coraggioso. Secondo la legge italiana (Dpr 394/99), Yŏng viene inserito in una classe seconda media: spiego alla famiglia che in Italia non è possibile che i ragazzi frequentino una classe troppo bassa. È questo, invece, che la famiglia chiede.
Secondo loro Yŏng deve prima apprendere tutti i segni alfabetici della lingua italiana e le loro combinazioni. Solo più tardi potrà frequentare la scuola dove si studiano le discipline: storia, geografia, scienze. Spiego che, in Italia, la normativa tutela lo sviluppo psicofisico degli alunni che devono studiare con i pari, i propri coetanei. Inoltre, considerata l’affluenza di numerosi alunni non madrelingua italiana, sono previsti nella scuola, piani di studio personalizzati e corsi di lingua base di italiano.
«Io non ho religione»
Al momento dell’iscrizione, mi accorgo che non basta alla mamma di Yŏng leggere la traduzione del modulo alla domanda sulla scelta della religione cattolica. «Religione cattolica» è tradotto con 天主教 tiānzhŭ jiào in cui 天主 tiānzhŭ è il «signore del Cielo». In alcuni moduli viene tradotto semplicemente 宗教 Zōngjiào, religione (= Zōng = antenato + jiào = insegnamento), mentre in realtà dovrebbe essere 基督教 jīdūjiào l’insegnamento di Cristo, la religione cristiana.
La madre di Yŏng è mia coetanea, ha frequentato le medie in Cina. Quando le chiedo se è religiosa, lei mi risponde: 我没有教 Wŏméiyŏu jiào («Io non ho religione»).
La generazione dei genitori di Yŏng migra anche perché porta con sé il desiderio di migliorare la propria condizione con i guadagni all’estero e poi reinvestire in patria: passaggio questo, che svela anche le contraddizioni «fra un nuovo coraggioso mondo generato dalle riforme di mercato operate da Deng Xiaoping con l’apertura al capitale, alle idee, alle immagini»18 ma che – come tutti i progressi troppo rapidi – celano fallimenti sul piano sociale ed educativo. Hanno vissuto quegli anni Ottanta lì, gli anni Ottanta della loro infanzia. Ne vedono la fallimentare illusione quando si accorgono che il loro lavoro sottopagato e sancito dalla guānxì da fratello maggiore a fratello, da cinese a cinese, si riconsegna alla logica del profitto passando per classi dirigenti italocinesi di commercialisti e avvocati, medici e magistrati, disposti a coprire facilmente «il paradiso fiscale» di denaro liquido proveniente dal lavoro del capitale umano sfruttato.
Un sabato pomeriggio dai carabinieri
Il sabato pomeriggio di un novembre malinconico del 2013, poche settimane dopo la fiera di San Martino di Santarcangelo di Romagna, la madre di Yŏng mi chiama per chiedere di accompagnare lei e suo figlio a fare una denuncia di aggressione avvenuta davanti alla scuola.
Non è per il lavoro di mediazione nella scuola che mi chiama. Avrebbe potuto mantenere la riservatezza di fronte a me, ai professori, ai banchi dei bianchi «che olezzano di formaggio» e che sono sempre pronti ad etichettare «sì… ma voi cinesi, il commercio, l’illegalità, la contraffazione». Avrebbe potuto trovare facilmente aiuti dai suoi connazionali, «i giovani generazione-banana». Figli di migranti, gialli fuori e bianchi dentro, che parlano bene italiano… bene nel senso che sono molto veloci nell’esposizione, che non parlano per monosillabi, che centrano tutte le erre… perfetti nella traduzione. La donna però, non fa questa scelta.
Le dico che non posso fare quel genere di mediazione, perché è al di fuori di quelli che sono «i miei mandati istituzionali» (le autorizzazioni di Ai Tian non sono poi del tutto passate, anche sul versante occidentale). Ma poi lei mi dice: «安不忘危 Ān bù wàng wéi. Non c’è pace senza previsione di guerra, non c’è pace se manca il coraggio per la verità. E non c’è coraggio se non si osa sognarla, la pace. Ogni giorno. Non c’è pace nella misura in cui ti dimentichi di quali siano i rischi».
Per lei, come madre che deve accompagnare suo figlio aggredito da compagni di scuola davanti ai carabinieri. Rischi forse molto diversi dai dubbi di ieri, quelli che avranno attraversato il pensiero e la decisione di Li Madou davanti ad Ai Tian: restare senza scappare; ascoltare; i dubbi e i timori, ma restare; avere il coraggio di stare in mezzo.
La madre di Yŏng teme che, se non c’è una persona italiana, non verrà creduta e nemmeno ascoltata. Non teme solo questo. Alcuni suoi connazionali residenti nella comunità della nostra civilissima Italia sono stati insultati e maltrattati. A Roma, Prato, Reggio Emilia.
Il sistema di 关系 guānxì (ovvero – come già abbiamo spiegato – i legami che si stabiliscono nelle comunità cinesi) accorcia le distanze in un territorio. Si sa, fra i migranti cinesi per i quali le guānxì, le relazioni, i legami sono il principale e più attendibile modo di comunicare. Si sa che in Italia è così: quando si denuncia qualcuno che non è un tuo connazionale rischi di non essere creduto. E magari anche pestato. Alcuni membri della comunità sono stati picchiati da «certe forze dell’ordine» che avrebbero dovuto solo raccogliere la testimonianza e verificare «le autorizzazioni a stare»: oggi quell’autorizzazione è il documento di permesso soggiorno.
«Certi carabinieri funzionari dell’ordine pubblico – ribadisce la madre di Yŏng – 没有教 Méiyŏu jiào, non hanno insegnamento».
Anche se hanno più possibilità di trasporto e comunicazione, certi detentori che abusano del loro potere non si metterebbero mai in viaggio come fece invece Ai Tian davanti a «un ospite indesiderato», stanziatosi nella capitale, quale era stato Matteo Ricci. E nemmeno quei carabinieri sarebbero stati capaci di rimanere fermi davanti al dubbio, per giungere ad una verità più profonda. Non abbastanza fermi davanti al dubbio, come rimase fermo Matteo Ricci, accettando il rischio di essere espulso dall’impero per un mancato permesso.
Il viaggio e il valore della diversità
Entrambi, Ai Tian e Li Madou, l’ebreo cinese di Kaifeng e il gesuita italiano di Macerata, seppero restare custodi di un’insufficienza di fronte alla traduzione e resero possibile l’incontro di due mondi proprio perché mantennero viva la curiosità per «l’assolutamente diverso», l’uno dell’altro, che veniva incontro. Nel dialogo, non cedettero alle lusinghe di preconcetti e di linguaggi tecnicisti che avrebbero facilmente creato distanze interpretative, con inimicizia e diffidenza. Seppero, pur nei loro silenzi, guardare alle analogie, alle immagini; seppero cercare la traduzione, pur non conoscendo bene l’uno la lingua dell’altro. Seppero rimanere aperti al futuro, anche se mancavano le parole del passato poiché quell’incontro fu il primo inedito, storico. Fra un funzionario mandarino confuciano ebreo e un missionario, gesuita, cattolico, italiano. Oggi si è più vicini grazie alle connessioni internet, si viaggia con più rapidità, si può disporre in pochi secondi di tutte le traduzioni negli spazi virtuali del web, tuttavia con più facilità si edificano prigioni di comunicazione davanti allo schermo di un computer. Manca il coraggio di intraprendere un viaggio, il coraggio di vivere il valore della diversità nel dialogo, di incontrare l’identità «assolutamente altra» assumendosi tutti i rischi che una mancata tensione verso una cultura di pace può causare.
La guerra è già oggi scontro di civiltà. E la pace richiede responsabilità e risposte da parte di tutti.
Tempi inediti ci attendono per vivere il coraggio «in quel punto zero in cui si apre a sorpresa il Cielo»19. Non serve, come mi ha insegnato Jun Yŏng, essere degli eroi per «stare dentro» a una cultura di pace, viverla in una dimensione esperienziale, in un gesto, in una parola, in un rapporto umano nella normalità che ciascuno di noi è, con tutti i limiti del nostro «essere persone».
A volte, forse, basta solo avere il coraggio di sorprenderci davanti alle nostre mancanze, e cambiare sguardo: sorprenderci al punto da uscire da noi stessi per diventare partecipi della bellezza del Cielo e anche su questa nostra amata Terra – direbbe l’ebreo di Kaifeng – mettersi in viaggio per amare l’«emèt», cioè la verità (in lingua ebraica).
Vittoria Pollini
Appendice
Storia degli ideogrammi cinesi
Le tre più antiche forme di scrittura del mondo sono: i caratteri cuneiformi dei Sumeri, i geroglifici degli egiziani e gli ideogrammi dei cinesi. Fra le tre, solo gli ideogrammi sono ancora in vita ed in uso. Gli ideogrammi sono anche caratterizzati da uno stretto legame con i pittogrammi. Ogni forma di scrittura ha avuto origine da forme pittografiche. La scrittura cinese conserva la sua peculiare originalità perché non si è mai diretta verso una trascrizione fonetica come invece è accaduto con le lingue occidentali.
Il 1949 è l’anno di fondazione della Repubblica popolare cinese. Solo nel 1956 fu ufficialmente stabilito che il 普通话 (pǔtōnghuà = lingua comune) sarebbe stato l’idioma nazionale. Nell’epoca delle dinastie, la «lingua comune» era patrimonio esclusivo di chi possedeva gradi di istruzione elevata ed apparteneva alle classi privilegiate. Nel 1911, anno di fondazione della Repubblica Nazionalista di Sun Yat-Sen, la lingua nazionale era ancora solo il 国语 (guóyǔ= lingua nazionale, cinese mandarino meno classicheggiante rispetto alla lingua 官话 guānhuà = la lingua dei funzionari amministrativi dell’epoca imperiale), una lingua più vicina al 白话 báihuà = il vernacolare, la lingua colloquiale dialogica dell’epoca imperiale che veniva trascritta nelle opere minori, non nella stesura dei 经 jìng, i libri dei classici.
Questa lingua 白话(= báihuà), la lingua chiara (白 = bái = chiaro, bianco), era la lingua del dialogo «caratterizzato dalla bianca chiarezza», non rappresentava ancora la lingua parlata dalla popolazione, che – per la maggior parte – si esprimeva in forme dialettali.
Occorre dunque attendere il 1956 per assistere alla riforma della lingua che prevede l’adozione di un sistema di traslitterazione fondato sull’alfabeto latino detto 拼音 (= pinyin, letteralmente significa «annotazione piana di suoni»). Il pinyin è attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe.
Le 400 sillabe del pinyin sono la base per la lettura fonetica degli oltre 40.000 ideogrammi cinesi attualmente presenti nel Dizionario Kangxi. Oggi, la soglia di alfabetizzazione minima della popolazione cinese si posiziona sulla conoscenza di almeno 2000 caratteri/ideogrammi. Si può chiaramente comprendere che le 400 sillabe tonali del pinyin non trovano corrispondenza univoca negli oltre 40.000 ideogrammi e nelle loro combinazioni: si tratta appunto, di un sistema convenzionale di note fonetiche che «si appoggiano» sugli ideogrammi per supportare l’occhio occidentale nella lettura. Ma la conoscenza degli ideogrammi e la loro memorizzazione, il loro inscindibile legame con la scrittura, ha un’altra storia.
Note
(1) Il comunicato ufficiale: Nota informativa sulla chiesa cattolica in Cina del 22/09/2018, reperibile su press.vatican.va. Il commento su avvenire.it: Stefania Falasca, Santa Sede e Cina, firmata la storica intesa, 22 settembre 2018.
(2) Si veda il glossario sul sito della rivista.
(3) Così la professoressa Zhang di Scienze Giuridiche, che insegna cinese agli studenti stranieri a Nanchino.
(4) È l’espressione che – negli anni Sessanta – indicava coloro che abitavano nei rifugi di paglia. Si veda Dentro la Cina rossa di Virgilio Lilli, Mondadori editore 1961, cap. 3 pp. 76-103.
(5) A partire dagli anni Cinquanta, ci fu nella Rpc una massiccia espansione dell’istruzione di base. Il governo si interessò attivamente alla condizione educativa in un contesto in cui i contadini, quasi del tutto incapaci di leggere e scrivere, cominciavano a formare le prime cooperative rurali. Gli intellettuali divennero il principale strumento di diffusione della filosofia dell’educazione e prassi maoista: non dovevano solo alfabetizzare, ma dovevano imparare dalla popolazione rurale il valore del lavoro fisico. Furono nel contempo strumenti e vittime della Rivoluzione Culturale. Molti intellettuali vennero anche uccisi dalle Guardie Rosse.
(6) Ibidem, Virgilio Lilli, pag. 16.
(7) Il trattato di Bretton Woods del 1944.
(8) Sono due province cinesi, rispettivamente a Sud Ovest e centro del paese.
(9) Il pinyin (拼音) è l’attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere dell’alfabeto latino che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe. Fu Mao Tse Dong a ufficializzare questo sistema nel 1956. C’era stato già nel 1859 un tentativo di «romanizzare» la lingua cinese attraverso il sistema Wade-Giles che fallì poiché risultava troppo pressapochista. Più dettagli nel riquadro di pag. 46 e sul sito.
(10) «Ordalia»: Giudizio di Dio, verifica – attraverso dure prove – dell’innocenza o colpevolezza altrimenti non regolabili con mezzi umani. È chiamato anche duello di Dio.
(11) Si veda in proposito Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.279-288. «La scienza canonista perse la sua funzione fondamentale di generatrice di diritto». Le istituzioni ecclesiastiche subirono un’accelerazione verso due direzioni: imitazione della società statale da un lato e, all’opposto, sforzo di creare una dimensione normativa che si potesse sottrarre alla dimensione positiva dello stato.
(12) Sul significato di seduzione spirituale si legga Pavel Florenskij, Le porte regali, nell’edizione italiana Adelphi, gennaio 2012. Si veda anche il glossario.
(13) Si veda il prologo in Mandarins, Jews and Missionaries- The Jewish experience in the Chinese empire, di Michael Pollak, ed. Society of America, 1980.
(14) Ibidem, pag.4: «Eppure Ai Tian stava pianificando una visita alla piccola colonia (di Kaifeng) da parte di un contingente di ospiti (venuti dalla lontana Europa), un contingente di ospiti che si era stabilito recentemente a Pechino». Da queste poche righe si intende che – almeno nella fase preliminare all’incontro con Matteo Ricci – Ai Tian considerava l’arrivo degli stranieri d’Occidente in Cina come un rifiuto degli stessi nel loro paese d’origine. Ai Tian sapeva che Matteo Ricci non era stato invitato dall’imperatore ed aveva inizialmente immaginato che i viaggiatori forestieri fossero stati allontanati dalla madrepatria per una qualche ragione «non autorizzati» più a stare. Da questo punto di vista, il compito di Ai Tian non sarebbe stato solo quello di verificare l’identità dell’ospite sgradito ma anche quello di cercare di capire perché fosse indesiderato in patria. Fu quindi il dialogo fra i due che chiarì la sorte di Matteo Ricci. Una volta riconosciutane l’identità religiosa (era comunque un fedele della religione dei patriarchi), Ai Tian pensò di pianificare una visita alla colonia ebraica di Kaifeng.
(15) La traduzione del chengyu è «accompagnare il vento» (si sottintende: «facendolo entrare nella propria casa») per lavare la polvere (della propria dimora). È un chengyu, un’espressione a quattro ideogrammi con significato particolare. Proverbiali gocce di saggezza che sciolgono importanti nodi conflittuali nella comunicazione. Chi padroneggia bene i chengyu, oltre ad essere un grande saggio, è capace di elevare il pensiero alla metafora e di concretizzare il pensiero in situazioni di vita.
(16) Ibidem, Mandarins, Jews and Missionaries.
(17) Provincia a Sud Est della Cina, una provincia grande come l’Italia. Sono del distretto di 青田 Qīngtián, i genitori di Yŏng. Mi spiegano che, oggi, Qīngtián è diventata una colonia commerciale, una metropoli grazie anche agli investimenti degli attuali postmoderni 华侨 = huáqiáo, i cinesi d’oltremare che ritornano a casa a fare le ferie ad agosto. Quando le fabbriche a Forlí, Cesena e Rimini chiudono, sono finalmente liberi di andare «a rinfrescare lo spirito
(神经 = shénjīng). Si dirigono velocemente a Bologna con i loro Suv o Wuling per acquistare l’ultimo biglietto last minute AirChina. Lo 神经 (shénjīng) è da ritrovare nella loro Zhejiang. Lo shénjīng non è solo il sistema nervoso: è prima di tutto il respiro che alita sulla parola affinché il pensiero scorra meglio. In un’intervista-dialogo fra generazioni a suo figlio Zhenyu, scrive Ai Cui, signora che esce dalla strada «quando vai in Cina, le parole scorrono meglio, ti porti indietro quello spirito, di nuovo, poi finalmente ti rialzi. Quello spirito combattivo che ti porti, di nuovo ti fa rialzare».
(18) Secondo Jonathan Noble, la politica di Deng Xiaoping di liberalizzazione economica e commerciale, la politica del 开放 kāifàng, non bastò però al progresso di civile economia perché non fu supportata dalla trasmissione e traduzione dei valori estetici, etici, culturali che fanno la storia di un paese.
(19) Scrive il teologo Herbert Lauenroth: «È nel punto zero che si apre a sorpresa il Cielo [ …] Solo l’esperienza umana della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo, un tempo in voga, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto il coraggio di esistere». Pag. 164-165 del suo articolo Nell’era della paura, in Gen’s, rivista di vita ecclesiale n°4 ed. 2016.
Hanno firmato questo dossier:
Vittoria Pollini, 朵朵波林老师 (Duǒduǒ Bōlín lǎoshī) – Laureata in filosofia presso l’Università di Bologna e in lingua e letteratura cinese presso l’Università di Kunming, Yunnan (Cina), è mediatrice culturale. Frequenta la Cina dal 2008. Il suo ultimo viaggio risale a gennaio 2019. Lavora nella progettazione di piani di comunicazione interculturale e facilitazione linguistica; collabora nelle scuole per servizi di traduzione e interpretariato cinese-italiano. Vive e lavora tra Cesena e Rimini.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC, 保罗墨流拉期刊记者, MC 编辑部 (Bǎoluó Mòliúlā – qíkān jìzhě, MC biānjí bù).
Pentecoste: Il compimento della Pasqua
Da Pasqua a Pentecoste
Gli inizi degli Atti degli Apostoli narrano la vita dei discepoli di Gesù, prima dispersi dalla sua morte e poi di nuovo insieme radunati nella visione del Risorto, al punto da ricostituire anche il numero dei dodici. Però il Signore è risorto, certo, ma è poi salito al cielo e non è più fisicamente tra i suoi (At 1,3-11). Da dove e come ripartire? Sarà ancora attento a ciò che succede nella sua comunità? Come? Se il Vangelo secondo Giovanni ripete più volte che la partenza di Gesù avrebbe comportato il dono dello Spirito, negli Atti vediamo questo Spirito all’opera, nella vita quotidiana della Chiesa.
Il cuore del Vangelo, infatti, non è il seguire una morale o il compiere determinate preghiere o gesti religiosi, ma la relazione con Gesù. Non sempre i discepoli l’avevano capito o si erano comportati correttamente, ma erano sempre rimasti con lui. E anche alla fine, il Risorto non aveva lasciato profondi messaggi sull’aldilà: era comparso ai suoi salutandoli semplicemente con un «Pace a voi» (Lc 24,36). Come pensare allora di mantenere il rapporto con lui, ora che sembra non esserci più?
Gli Atti degli Apostoli non ci raccontano questi interrogativi, ma sembrano passare direttamente alla risposta, a ciò che porta a compimento quanto, pure, era iniziato in modo decisivo al sepolcro vuoto.
I discepoli avevano trovato la pietra rotolata via e il sepolcro vuoto la mattina del primo giorno della settimana di Pasqua. Questa era una festa che raccoglieva in sé tre diverse celebrazioni. In passato significava:
• la partenza primaverile dei pastori dagli accampamenti invernali, celebrata con il sacrificio di un agnello nato nell’anno, i sandali ai piedi e i fianchi cinti… esprimeva l’azzardo di chi abbandonava la sicurezza per trovare la vita;
• il memoriale di un gruppo che era stato fatto fuggire dalla schiavitù, sfidato ad abbandonare le certezze e garanzie che pure una tale vita offriva per fidarsi di una parola che li chiamava a libertà;
• la celebrazione agricola della mietitura dell’orzo, con la distruzione del lievito (la pasta madre) utilizzato fino a quel momento per cominciare con lievito nuovo nella speranza e promessa che anche nel nuovo anno si sarebbe vissuti del frutto della terra.
Anche nel terzo aspetto della celebrazione c’era una dimensione di fiducia, perché buttare via la massa di pasta lievitata che durante l’anno era stata utilizzata come madre per fare un nuovo impasto dal nuovo raccolto, significava scommettere e fidarsi di riuscire ad averne abbastanza da vivere, tanto più che il raccolto dell’orzo da solo non era sufficiente per passare l’anno. C’era bisogno che anche il grano, maturo all’inizio dell’estate, non tradisse le attese. In qualche modo, però, il successo della mietitura dell’orzo poteva essere un invito alla fiducia anche per il futuro raccolto, circa cinquanta giorni dopo.
Ecco perché anche nell’anno liturgico ebraico la festa dell’inizio estate, al cinquantesimo giorno (in greco, appunto, «Pentecoste») dopo Pasqua, rappresentava il perfezionamento di ciò che a Pasqua era stato iniziato in modo decisivo ma ancora incompiuto. Questo valeva per il raccolto, ma non solo: se l’uscita dall’Egitto, celebrata a Pasqua, era il segno più chiaro della benevolenza divina e della sua intenzione di proteggere la vita del popolo, quella liberazione si compie nel dono della legge sotto il Sinai, a Pentecoste.
Il compimento del sepolcro vuoto
Anche per i cristiani, oggi, la Pentecoste porta a compimento ciò che si inizia a Pasqua.
A Pasqua Gesù risorge, ma è a Pentecoste che con il dono dello Spirito si garantisce la presenza divina nella storia e la capacità di capire ciò che è accaduto in Gesù.
Abbiamo sicuramente presente il racconto della prima effusione spettacolare dello Spirito Santo sulla Chiesa. Probabilmente lo ricordiamo così: gli apostoli erano chiusi nel cenacolo quando si vedono scendere addosso lingue di fuoco, si mettono a parlare e tutte le persone presenti a Gerusalemme, di tante nazioni diverse, li capiscono.
Sembrerebbe un miracolo spettacolare che serve per convincere i presenti dell’autenticità della testimonianza dei dodici e insieme diventa «scorciatoia» per cominciare ad annunciare a tutti il Vangelo, visto che subito dopo Pietro inizierà a raccontare di Gesù, spiegando che sono contenti sì ma tutt’altro che ubriachi (At 2,13-15).
Ma davvero le cose sono andate come ho appena ricostruito?
Uno dei motivi per cui è tanto prezioso tornare a rileggere i testi biblici è che spesso li ricordiamo in modo approssimativo dipendendo dal come ce li hanno raccontati o dal come noi li abbiamo interpretati nelle situazioni in cui ci trovavamo. Questa imprecisione non è segno della nostra scarsa attenzione, tutt’altro! La nostra memoria non ricorda mai ciò che è accaduto, ma il significato che ha avuto per noi. Quello che ricordiamo del testo spesso lo abbiamo memorizzato così perché allora era per noi significativo così.
Ma tornare al testo ci permette di risintonizzarci con l’originale, così da scoprirlo ancora ricco e profondo per la nostra vita, a volte anche in modi che ci risultano nuovi.
Se vogliamo ad esempio iniziare a restituire la parola al brano, notiamo intanto che non è chiaro quanti siano i protagonisti (Spirito Santo a parte): si tratta davvero dei «dodici», oppure di qualcun altro? «Erano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Sì, ma tutti chi? Subito prima, nel capitolo precedente, si era detto che gli undici erano ridiventati dodici, ma a fare la scelta dei candidati e l’estrazione a sorte del dodicesimo erano state in realtà centoventi persone (At 1,15). Sembrerebbe più logico che questi siano i «tutti». Quindi, ciò che accade non è riservato alla cerchia più importante che guida la comunità, ma tocca tutti i «fratelli».
Poi, al versetto 2, arriva un «fragore», qualcosa che succede da fuori ma non è comprensibile (al v. 6 il greco non parlerà più di «fragore» ma di «voce», anche se nella traduzione Cei la differenza non è così chiara), e appaiono «lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (At 2,3). Luca sa come raccontare bene, sa che abbiamo bisogno di immagini per intuire qualcosa; e, insieme, è un teologo preciso, consapevole che l’opera di Dio si può narrare sì, ma solo per approssimazione. Non è fuoco, quello che scende su di loro, ma semmai «vento» (Spirito, appunto…), e si mostra con «lingue come di fuoco».
Si vede qualcosa, insomma, e quel qualcosa chiaramente scende su «ognuno» dei presenti, ma non si riesce a definire proprio bene di che cosa si tratti. C’è una fonte unica, ma la sua espressione è molteplice. C’è un solo Spirito, ma le lingue parlate sono tante. Se Dio è uno, il modo con cui le persone vivono la loro relazione con lui non è sempre la stessa.
Geografia biblica
Luca sembra volerci lasciare a bocca aperta, offrendoci un elenco di tutti i luoghi da cui provengono i presenti. Se guardiamo con attenzione il suo elenco, però, non possiamo non porci alcune domande.
Non stupisce, innanzi tutto, che i luoghi citati siano i luoghi nei quali, in quei tempi, c’è una forte presenza ebraica. Le persone lì presenti sono probabilmente pellegrini venuti a Gerusalemme per una delle feste di pellegrinaggio. Come tutti i pellegrini, si fidano dell’accoglienza che trovano nonostante siano magari deboli con le lingue. È però vero che nelle regioni attorno al Mediterraneo, ormai da secoli, la lingua che tutti capiscono all’epoca di quei fatti è il greco (sarebbe come dire l’inglese per noi oggi), ben diffuso in Cappadocia, Ponto, Asia, Frigia e Panfilia – quella che per noi oggi è la Turchia – e nell’Africa del Nord Est (Egitto e Cirenaica), nonché a Roma e a Creta. Appena più a oriente, l’aramaico è la lingua madre degli abitanti della Mesopotamia (e forse già della Giudea, quasi di sicuro della Galilea), ampiamente conosciuta e utilizzata come lingua dei commerci e dei viaggi dai Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia e dell’Arabia.
Un osservatore neutrale e un po’ malizioso, insomma, ridimensionerebbe probabilmente di molto la portata del miracolo. Per farsi capire ai discepoli bastava parlare nella loro lingua madre per raggiungere già metà della folla lì presente. Sicuramente poi tra loro c’era qualcuno in grado di tradurre anche in greco – ricordiamo che Gesù stesso sapeva parlare in quella lingua (cfr. Mt 15,21-28) -, ed ecco che così raggiungo l’altra metà. Mettersi a parlare tante lingue strane non sembrava davvero necessario.
Il senso
C’è allora qualcosa che Luca vuole suggerirci, con l’episodio che narra in Atti 2,1-13?
Forse questo. Dio con la Pasqua ha mostrato di volere la vita dell’uomo, e che Gesù era davvero chi pretendeva di essere. Ma la Pasqua rischia di restare soltanto un evento che si chiude su Gesù. Invece l’opera di Gesù deve essere portata a compimento, e questo avviene a partire dalla Pentecoste, quando Dio, nella forma dello Spirito Santo, si prende cura di entrare nei cuori dei suoi fedeli, per renderli testimoni coraggiosi e – soprattutto – affidabili. E non va solo nel gruppo ristretto degli apostoli, ma in ciascuno. Ognuno dei credenti è dotato di Spirito, per comprendere Gesù e per annunciarlo. E non è soltanto un annuncio che risulta comprensibile, ma suona davvero intimo, diretto, personale, come se detto nella lingua o nel dialetto che più ognuno ha nel cuore: diventa una comunicazione sorprendentemente interessante, comprensibile, attraente per gente proveniente da ogni dove, quali che siano i loro retroterra e i loro modi di pensare. Il cuore del racconto, allora, non è il prodigio, ma una promessa davvero consolante e rasserenante per la chiesa di ogni tempo e luogo: Dio si farà capire, perché parla al cuore dell’essere umano. Di ogni singolo essere umano.
Angelo Fracchia (2 – continua)
Filippine: La (sporca) guerra alla droga
Il presidente Rodrigo Duterte ha fatto della lotta alla droga la sua bandiera. I metodi che usa, tuttavia, non sono dei più legali. Spacciatori e consumatori possono essere freddati dalla polizia al minimo sospetto. Mentre le carceri del paese sono sovraffollate e i centri di riabilitazione (per tossicodipendenti) pure. Reportage (a caldo) dal paese delle settemila isole.
Testo e foto di Luca Salvatore Pistone
Canottiera bianca, pantaloni neri e mocassini marroni. Orly Fernandez veste sempre alla stessa maniera. Il viso, scarno, è incorniciato da capelli a caschetto neri corvino. Gli rimangono pochi denti, ma, tutto sommato, dimostra meno di sessant’anni, la sua età.
Esce dal suo laboratorio con un foglio tra le mani. «Glielo hanno appiccicato sul petto con del nastro adesivo. C’è scritto: “Sono uno schifoso tossico”. Gli hanno legato mani e polsi e gli hanno sparato alla tempia. Ha il cervello spappolato».
A Malabon, una città di quasi 400mila abitanti a pochi chilometri a Nord della capitale delle Filippine, Manila (nella Regione capitale nazionale), tutti conoscono Orly. Dal 2001 manda avanti la Eusebio Funeral Services, la più famosa agenzia di pompe funebri della zona.
Siede alla scrivania nello studiolo dove tiene la contabilità, accanto alla sala del commiato. Osserva per qualche secondo un cartello sopra la sua testa con la scritta «L’autopsia è gratis».
«I nostri prezzi sono competitivi. Per le persone uccise per fatti di droga – di solito le più povere – chiediamo 35mila pesos (quasi 600 euro). I nostri concorrenti arrivano a chiedere anche più del doppio».
Guerra alla droga
I governi che negli ultimi anni si sono succeduti nelle Filippine hanno dichiarato guerra allo shaboo, una metanfetamina molto potente. Il suo costo è accessibile: un grammo può valere tra gli 80 e i 100 euro, di solito è acquistato con una colletta. Le diffuse problematiche sociali hanno favorito l’ingresso e la diffusione dello shaboo nel paese. Ma è stato con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, che si è registrato un netto aumento delle operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti. Un personaggio, Duterte, che ha fatto della guerra alla droga la sua personalissima crociata. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime, nda) […] ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli. […] Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me». Queste le sue parole al momento dell’insediamento.
Sia in patria che all’estero Duterte è accusato di essere il mandante di esecuzioni extragiudiziali. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio del suo mandato i morti ammazzati per questioni relative allo shaboo sono più di 20mila. Per la polizia questi sarebbero meno di un quarto – tutti passati a miglior vita perché avrebbero messo a rischio l’incolumità degli agenti -, mentre il numero degli arresti ammonterebbe a 100mila.
I fatti parlano chiaro: oggi nelle Filippine chi viene sorpreso a spacciare o a consumare shaboo muore. Chi ammazzato da sicari in motocicletta – qui meglio conosciuti come vigilantes -, che non si prendono nemmeno la briga di coprirsi il volto; chi in retate della polizia che viene sospettata di introdurre sulla scena del crimine armi posizionate ad hoc, per sostenere che l’agente di turno ha dovuto fare fuoco per legittima difesa; chi giustiziato con un colpo in testa e fatto ritrovare in una pozza di sangue su un marciapiede.
Così l’avvento di Duterte ha fatto la fortuna delle pompe funebri, tra cui la Eusebio. «Ho molti contatti con la polizia. Quando trovano un morto chiamano me. Anche cinque o sei cadaveri in una notte.
Ci tengo però a dire che non paghiamo nessuno per questi favori». Chi muore per fatti di droga non viene neanche più portato all’obitorio. La scientifica fa i suoi rilievi e il medico legale si limita a constatare il decesso. Lo spacciatore, o il tossicodipendente di turno, va liquidato subito, facendo spendere il meno possibile allo stato, così le forze dell’ordine si rivolgono direttamente alle pompe funebri.
«Nel caso in cui nessuno viene a reclamare il corpo – spiega Orly – lo avvolgiamo in un lenzuolo bianco e lo portiamo al cimitero. Lì viene seppellito insieme ad altri corpi non reclamati o identificati».
Pronto intervento
Sono quasi le undici di sera. Squilla il cellulare di Orly. «Ok», si limita a rispondere. Mette giù e corre ad avvisare i suoi due «giovani»: è così che chiama i suoi assistenti, coetanei Carlos e Joseph. «Andiamo, hanno trovato il corpo di un ragazzo non molto lontano da qui».
A quest’ora non c’è traffico e in pochi minuti raggiungiamo il luogo del misfatto: un vicolo cieco poco illuminato nel baranggay (quartiere) Baritan. La pioggia battente non fa desistere i più curiosi intorno al perimetro delimitato dalla scientifica.
Una signora anziana si dispera. Ha continui mancamenti. È la madre della vittima e Orly si catapulta su di lei mettendole in mano il suo biglietto da visita. Le sussurra qualcosa all’orecchio e sale sul furgoncino.
Herman, questo il nome del ragazzo ammazzato. Ventotto anni. Era uno del baranggay. È stato freddato con un colpo di pistola in un occhio mentre rincasava. Ha il volto e il busto interamente coperti dal sangue. La scientifica non si degna neanche di coprirlo.
«Fumava shaboo tutto il giorno. Sapeva quali rischi correva», dice a bassa voce una sua giovane vicina di casa. «Mi hanno detto che aveva cominciato a spacciare», le fa eco un signore di mezza età.
I poliziotti finiscono i rilievi e fanno cenno ai «giovani» di Orly di prendersi il loro morto. Lo spettacolo è finito e la folla si disperde.
Il «metodo» Duterte
Punta di diamante della crociata di Duterte è la strategia tokhang (dalla contrazione delle parole toktok «bussare» e hangyo «richiesta»), già ampiamente rodata ai tempi in cui era sindaco a Davao. I poliziotti, grazie a una rete di informatori, sono dotati di elenchi dettagliati di utilizzatori e venditori di shaboo. Sulla base di questi invitano gli spacciatori a consegnarsi alle autorità e ad avere in tal modo salva la vita. Un solo avvertimento: chi sgarra ha le ore contate. Il tokhang sembra avere dato i suoi frutti. Secondo gli archivi della polizia nazionale, in poco più di due anni di governo Duterte sarebbero state più di un milione e mezzo le autodenunce che hanno comportato un impressionante sovraffollamento delle carceri e dei centri di riabilitazione.
«La polizia ha almeno una spia in ogni baranggay. Quando questa viene a sapere di un tossico o di uno spacciatore in zona, spiffera tutto ai poliziotti che fanno fare il lavoro sporco ai vigilantes».
Fe Siega Peregrino ha 54 anni, è vedova e vive insieme ai quattro figli nell’umilissimo Distretto 2 a Quezon City, una città di oltre due milioni di abitanti confinante con la capitale Manila, sempre nella Regione capitale nazionale.
Da un anno a questa parte alla famiglia Peregrino si è aggiunta Lady Love, 12 anni, figlia di un cugino di Fe Siega. «I suoi genitori sono stati uccisi davanti ai suoi occhi. Adrian e Vivian sono stati giustiziati con una pistola da uomini mascherati. Non è importato loro di farlo davanti alla bambina. È stata Lady Love a raccontarcelo. La polizia non ha mai aperto un’indagine».
Con una scopa Fe Siega caccia un ratto che si è intrufolato in casa. «Mio cugino Adrian tirava un risciò, un lavoro molto faticoso. Non guadagnava abbastanza per mantenere moglie e figlia. Vivian faceva l’estetista a domicilio e anche i suoi guadagni erano scarsi. Poi, un giorno, hanno provato lo shaboo. Annullava la stanchezza, così potevano lavorare più ore al giorno. Hanno cominciato a spacciarla entrambi per fare più soldi. Le spie sono venute a saperlo e li hanno uccisi. Non so se avessero avuto qualche avvertimento».
In un recente dossier di Amnesty International dal titolo Se sei povero, vieni ucciso1, supportato da inchieste, reportage e testimonianze, viene spiegato come nelle Filippine nascono le liste stilate dagli informatori della polizia. Viene dato risalto a dicerie, rivalità, trascorsi reali o completamente inventati. Un agente riceve delle mazzette per delle esecuzioni: tra i 155 e i 285 euro, talvolta con un’aggiunta da parte delle autorità locali. Succede anche che un ufficiale retribuisca i vigilantes per ammazzare al posto suo.
La via della riabilitazione
Per gli spacciatori grandi, medi e piccoli delle Filippine dell’era Duterte, è possibile scegliere tra morte violenta e carcere: sono le uniche due alternative. Per i tossicodipendenti si aggiunge una terza scelta: la riabilitazione. Essere accettati in un centro di riabilitazione è una vera e propria benedizione: non c’è il rischio di essere ammazzati e dopo un periodo, relativamente breve, di trattamento, si può ricominciare una nuova vita.
Il Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Bitucan si trova a Taguig City, altra città alle porte di Manila. Ubicato all’interno di un compound della polizia, è uno dei più grandi del paese e rientra nelle quaranta strutture di recupero riconosciute dal governo.
Il dottor Bien Leabres è il direttore sanitario della struttura: «Nell’agosto del 2016 abbiamo toccato un picco di 1.500 persone. Da allora la media mensile è di mille pazienti, anche se il nostro centro non potrebbe ospitarne più di 500 tra uomini e donne».
Tutti s’inchinano al suo passaggio. «Good morning Sir!», sono le uniche parole proferite dalle bocche dei pazienti. Ovunque regnano il silenzio più assoluto e la disciplina. Indipendentemente da età e sesso, sembrano tutti automi svuotati di ogni volontà.
«Nel 90 per cento dei casi, i nostri pazienti fanno uso di shaboo. Il restante 10 per cento si divide tra marijuana, ecstasy e cocaina». Il dottor Leabres viene interrotto in continuazione da infermieri che gli portano incartamenti da firmare. «L’intero ciclo di riabilitazione può andare dai sei mesi a un anno. Successivamente i nostri pazienti devono tornare qui con una certa regolarità, di solito una volta a settimana, per seguire un altro programma sanitario. Pagano solo una parte della quota mensile, 3mila pesos (circa 50 euro), mentre alla parte restante, 12mila pesos (circa 200 euro), ci pensa lo stato. Ma se il paziente è povero è lo stato a sobbarcarsi l’intera retta. Quasi il 70 per cento dei nostri pazienti è qui a titolo gratuito». Nella clinica, che dipende dal ministero della Sanità, ci sono scuole, atelier, mense, dormitori e un campo da pallacanestro, lo sport nazionale. I pazienti indossano dei pantaloncini e una t-shirt il cui colore varia a seconda dello stadio di guarigione. Chi è all’inizio del percorso porta il verde, chi è alla fine il bianco.
Sveglia alle cinque di mattino. Poi attività fisica e pulizie degli spazi comuni. Corsi di teatro, pittura e falegnameria. Il pasto, a pranzo e a cena, è sempre lo stesso: riso, pollo, verdure e un frutto. Nel tardo pomeriggio ogni paziente deve scrivere su un diario personale come ha trascorso la giornata, che sarà letto dalla squadra di psicologi. Alle nove in punto si spengono le luci.
«Tutte le rehab (i centri per la riabilitazione) – dice il direttore – sono sovraffollate. È per questo motivo che in parlamento si è votato lo stanziamento di fondi per la creazione di un nuovo centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Manila che potrà arrivare a ospitare fino a 5mila persone».
Nelle carceri di Mindanao
Le rehab hanno molto in comune con le carceri. Il sovraffollamento prima di tutto. L’intero sistema penitenziario filippino sembra dovere implodere da un momento all’altro. Le prigioni, sia maschili che femminili, ospitano da due a quattro volte il numero di persone per cui sono state pensate. Costruzioni che, già sul nascere, non rispettano neanche lontanamente gli standard dettati dalle Nazioni Unite.
Dall’isola di Luzon, dove si trova la Regione capitale nazionale, andiamo in aereo a Davao, una delle città più grandi del paese, sull’isola di Mindanao. Davao è la roccaforte della famiglia Duterte, e oggi è governata dalla figlia di Rodrigo, Sara. Qui tutto inneggia ai meriti del presidente per aver ripulito le strade dell’arcipelago da tossici e spacciatori. La prigione e fattoria penale di Davao si perde a vista d’occhio. Un’area di 30mila ettari, 8mila dei quali destinati a due carceri, una maschile e una femminile. Un’immagine che più di tutte descrive le condizioni in cui versa la struttura e, più in generale, l’universo delle prigioni filippine ai tempi di Duterte è la seguente: letti a castello fino a quattro piani, due persone per materasso e amache – per chi se le può permettere – montate all’interno degli stessi letti a castello.
Nella sezione maschile, che potrebbe ospitare massimo 3mila detenuti, ce ne sono 5.400. I dormitori sono un’accozzaglia di spranghe di ferro – i letti – malamente saldate una all’altra. I prigionieri più anziani si trovano in una camerata dove i letti a castello non superano i due piani. C’è anche una camerata riservata agli stranieri, in buona parte occidentali.
Il carcere maschile di Davao è diviso in tre sezioni separate una dall’altra da una rete di ferro ricoperta di filo spinato. Nella prima, chiamata Inmate Minimum, i detenuti indossano una maglietta marrone e scontano pene sotto i dodici anni; nella seconda, Inmate Medium, magliette blu e pene dai dodici ai ventidue anni; nella terza, Inmate Maximum, indumenti colore arancione e pene dai ventidue anni all’ergastolo. In quest’ultima sono rinchiusi quasi esclusivamente tossicodipendenti e spacciatori.
Le giornate sono scandite da un programma denso. Sveglia alle 4:30; ginnastica con tracce pop e dance, doccia, colazione a base di riso e uova, lavanderia, attività facoltative come artigianato e corsi di teologia. I detenuti con la maglietta marrone possono andare a lavorare, retribuiti, nella fattoria penale. Poi pranzo, pomeriggio libero durante il quale è possibile continuare con le proprie attività, i corsi letterari, guardare la Tv o giocare a biliardo e a pallacanestro, andare a messa in chiese improvvisate o a pregare alla moschea e infine la cena. Le luci si spengono alle 21:30 in punto.
La voce dei reclusi
Incontriamo alcuni detenuti: «Il mio vicino di casa aveva allestito nel suo appartamento un piccolo laboratorio per la produzione di shaboo. Una sera, durante una retata, mi trovavo sul pianerottolo. Gli agenti arrestarono anche me credendomi un suo collaboratore». Quando accadde il fattaccio, Brian aveva 23 anni. Oggi ne ha 38. Il giudice lo ha condannato all’ergastolo.
Persone nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambi di persona, errori giudiziari nella classificazione delle prove. Già da prima dell’arrivo di Duterte, la politica della «tolleranza zero» nei confronti delle droghe era in voga. Ufficialmente il suo governo non ha fatto altro che inasprire le leggi e mostrare i muscoli attraverso le retate della polizia.
«Vi rendete conto che sono qui per due maledettissimi grammi di shaboo? Forse ci dovrò passare tutta la vita. Non sono un drogato, volevo solo provare una cosa nuova». Ronald ha appena 22 anni.
Virgilio, 56 anni, dovrà invece scontare una condanna di vent’anni per tentato omicidio. «Un anno fa ho provato ad ammazzare mio nipote perché era diventato il disonore della famiglia. Si drogava e vendeva shaboo». Eric, 47 anni, ha stuprato una minorenne. È accaduto quasi due anni fa. «Sono pentito», è l’unica frase che si sente di dire. Dovrà rimanere dietro le sbarre sedici anni.
Le sentenze per il tentato omicidio e lo stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Poco importa se i quantitativi di droga siano bassissimi. Tocchi lo shaboo e, se non vieni giustiziato, finisci al fresco per oltre vent’anni o fino all’ultimo dei tuoi giorni, a discrezione del giudice.
Ciò che più sorprende, parlando con i detenuti, è che quasi nessuno si lamenta del sovraffollamento del carcere. In molti lamentano l’ingiustizia per la condanna ricevuta – quasi il 70 per cento dei prigionieri si trova qui per reati connessi alla droga – ma tutti sembrano sopportare senza eccessive rimostranze una vita tanto congestionata.
«Certo – spiega Arthuro, 61 anni, un ex professore di liceo, mentre gioca con un cucciolo di cane divenuto la mascotte del suo dormitorio – non è piacevole vivere così. Alla radio ho sentito che il congresso sta votando un disegno di legge per stanziare 3 miliardi di pesos l’anno (quasi 50 milioni di euro), per cinque anni, affinché vengano migliorati e ampliati gli istituti penitenziari esistenti. Ma io penso che siano altri i problemi. Ad esempio le visite. Sono permesse tutti i giorni, ma molti di noi provengono da altre località, da altre isole e i nostri parenti e amici devono sopportare alti costi per raggiungerci. Io vengo da lontano, sono qui da cinque anni e in tutto questo tempo ho ricevuto solo tre visite».
Chi è sposato e possiede un documento che lo certifichi, ha diritto ad accedere alla room for conjugal visit use, una stanzetta dove è possibile avere rapporti sessuali con la propria coniuge. L’ambiente consiste in quattro pareti di legno senza tetto all’interno delle camerate. Ogni camerata ha almeno quattro di queste stanze per le visite coniugali, ognuna delle quali contrassegnata da un carattere # seguito da un numero. Pertanto la moglie, non solo deve attraversare ali del carcere colme di detenuti, ma deve anche consumare l’atto con il marito nella totale assenza di privacy. A completare la scena, immagini pornografiche che tappezzano le pareti della room e ciabatte messe a disposizione delle signore. Nelle carceri femminili, invece, le camere per le visite coniugali non sono previste perché a seguito del rapporto la reclusa potrebbe rimanere incinta.
Altro fatto impressionante è il numero delle guardie. La buona condotta dei galeotti influenza il numero dei secondini preposti alla loro sorveglianza. Nella sezione Maximum, che ospita circa 1.500 persone, ci sono appena tre agenti. Una guardia per 500 persone. «Ad aiutarci – confida un secondino che chiede di rimanere anonimo – ci sono alcuni detenuti modello, come i capi dormitorio. Hanno il compito di far rispettare le regole e raccogliere eventuali lamentele. Vanno in giro con i nostri stessi manganelli, ma è raro che se ne servano. Lavoro qui da diversi anni e non abbiamo mai registrato disordini».
Luca Salvatore Pistone
(1) Il rapporto di Amnesty International citato è reperibile sul web: www.amnesty.it/filippine-la-guerra-della-polizia-ai-poveri.