Mi hai vinto, non ho perso


L’editoriale di Amico

La morte e il lutto sono il nostro pane quotidiano. Il lamento, il pianto e l’affanno, una postura consolidata. La fame e la sete non si smorzano mai. Nessun riparo dall’arsura, nessuna tenda da abitare (cfr Ap 7, 9-17), nessuno sguardo al quale affidare la nostra vita. Tantomeno un Dio che elimina la sofferenza.

«È triste, ma è così», dicevo.

Allora, quando ti ho visto passare tra la folla che t’insultava, anch’io ti ho sputato. E quando eri in croce, anche io ti ho detto di scendere, di salvare te stesso (e me) dalla morte, se veramente eri Dio (cfr Lc 23, 35-39). Quando hanno chiuso il sepolcro con la pietra, ho dato una mano a sigillarla, e ho portato cibo e bevande alle guardie perché tenessero la tua morte, la tua speranza morta, sotto controllo (cfr Mt 27,66).

La speranza, quand’è illusione, fa male, bisogna tagliarla via e togliere le radici dal terreno. E io ce l’ho messa tutta per farlo.

Poi è successo l’imprevedibile. Un terremoto, la pietra ribaltata, i guardiani stesi a terra, la tomba vuota. Quei codardi dei tuoi amici che ti dicevano risorto.

«Davvero quella speranza era un’illusione?», mi sono chiesto.

E alla fine ho ceduto. Ce l’ho messa tutta per tenerti a bada, ma tu sei più forte e mi hai vinto. Senza lasciarmi sconfitto. Mi hai mostrato che il male non è la sofferenza, ma l’assenza di amore, e che ogni assenza d’amore può essere colmata con la tua presenza, amore eccedente. Hai beffato la morte passandoci dentro, hai restituito alla vita la pienezza desiderata da Dio fin dal principio.

Quella che credevo illusione si è rivelata speranza. Bisogna coltivarla perché porti frutto e lo porti per tutti.

Buon tempo di Pasqua, da amico
Luca Lorusso

 


Bibbia on the road

Quando Gesù prega

La spiritualità missionaria si fonda sulla preghiera.
E la preghiera del missionario si fonda sulla preghiera di Gesù descritta nel Vangelo di Luca.
Ecco la quarta puntata sulla spiritualità missionaria.

Le comunità cui si rivolge Luca sono ormai convinte che il ritorno in gloria del Risorto non è imminente. Per questo motivo esse sentono vivo il compito di continuare a dare testimonianza a Cristo. E per Luca il compito missionario richiede preghiera assidua e meditazione quotidiana sugli insegnamenti del Maestro. Ecco perché presenta diverse volte Gesù in preghiera, molto più che non Matteo e Marco.

Gesù prega durante la vita pubblica

Nella descrizione che Luca fa della Chiesa delle origini negli Atti degli apostoli, viene messo in rilievo come i fratelli di Gerusalemme (Atti 1,4), Pietro (Atti 10,9; 11,5), Giovanni (Atti 3,1), Paolo (Atti 9,11) si ritirino in solitudine per pregare.

Una simile esigenza ha il suo modello nel Gesù storico che lo stesso Luca descrive nel suo Vangelo. Gesù, inviato del Padre, descritto in preghiera in alcuni momenti decisivi della sua missione, è origine e fonte della preghiera delle comunità.

A differenza di Matteo e Marco, Luca presenta Gesù «in preghiera» (3,21) nel momento del battesimo al Giordano, quando riceve lo Spirito e ascolta la voce del Padre che lo chiama «figlio amato». In un’atmosfera di preghiera, il battesimo di Gesù diventa il luogo teologico della rivelazione.

Luca riprende l’episodio di Marco 1,35 nel quale Gesù «si ritirò in un luogo deserto, e là pregava», e lo colloca in un momento diverso: dopo la guarigione del lebbroso (5,16). Questo spostamento rende la preghiera di Gesù non più un evento come tanti altri, ma uno schema che guida la sua missione: la preghiera è sorgente delle sue parole e dei suoi gesti. Nel terzo Vangelo, Gesù si ferma a pregare anche in altri due eventi importanti: prima della scelta dei Dodici (6,12) e in occasione della trasfigurazione (9,28-29). La preghiera prima di designare i suoi accompagnatori sottolinea l’importanza della scelta. I Dodici sono persone per le quali anche in seguito egli pregherà (9,18; 17,5; 22,32). La preghiera prima della trasfigurazione prepara Gesù a rivelarsi come il Servo sofferente.

Nel racconto dell’attività pubblica di Gesù prima della passione, Luca riferisce le parole di una sola preghiera: l’atto di ringraziamento per la diffusione del Regno attraverso la predicazione ai «piccoli». Con un acume letterario di rilievo Luca fa coincidere l’esultanza di Gesù con il ritorno dei 72 discepoli dalla missione, e dice: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (10,21). Quindi Gesù esulta di gioia nello Spirito nel momento in cui i discepoli lo ragguagliano sul successo della loro missione, durante la quale la misteriosa azione del Padre diventa visibile.

La spiritualità missionaria lucana scaturisce dalla centralità della preghiera: la proclamazione della parola e il dono del battesimo devono di necessità essere preceduti da essa. Ancora oggi il missionario è chiamato a proclamare l’evento Cristo e a operare l’elezione dei catecumeni durante la Quaresima accompagnandoli verso la grande notte della salvezza, la notte di Pasqua, lasciandosi guidare da criteri spirituali. Nella scelta dei battezzandi deve seguire la sapienza del cuore che si ottiene solo attraverso un’assidua e costante vita di preghiera. Il missionario che non prega è un «cembalo che tintinna».

Gesù prega durante la sua passione

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Durante la celebrazione della Pasqua nel cenacolo, Gesù rivela a Pietro che Satana è in cerca di loro per vagliarli come si fa con il grano (cf.

23,31) e, ancor prima di predire che Pietro lo tradirà, dice: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22:32).

Il Signore conosce coloro che ha scelto e coloro che hanno creduto in lui, e sa anche che la loro fede può soccombere se si lasciano ingannare da Satana. Essi devono, quindi, essere accompagnati e confermati dalla preghiera.

Alla stessa maniera il missionario deve far crescere e confermare la fede delle giovani chiese con la sua preghiera. Essa otterrà certamente l’effetto desiderato se il missionario s’ispira all’esempio del Maestro, il quale ha dimostrato che la preghiera provvede la forza necessaria per superare ogni tipo di tentazione.

Un altro momento importante della preghiera di Gesù è quello dell’orto degli ulivi. Similmente a Marco e Matteo, Luca presenta la filiale preghiera di Gesù, la sua tensione tra il rifiuto e l’accettazione della volontà del Padre, la sua solitudine nella notte, e la decisione finale di rimanere fedele.

Tuttavia Luca ha alcuni tratti che sono solo suoi. Solo Luca sottolinea il fatto che la preghiera di Gesù è difficile e sofferta al punto che un angelo viene a consolarlo (cf. 22,43-44). Si tratta di una lotta, un momento di angoscia, una prostrazione psicologica. Nell’orto degli ulivi Gesù suda sangue. Questo episodio è preceduto e seguito dal racconto dell’esortazione del Mastro ai discepoli, «pregate, per non entrare in tentazione» (22,40), che richiama l’esortazione che si trova in Marco: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Nella versione lucana l’espressione assume un valore di rilievo poiché sottolinea quanto è stato affermato nei versetti 43-44 tramite la scena dell’angelo che consola Gesù: è difficile e doloroso pregare quando ci si sente deboli e soli.

L’evento della croce segna un altro momento significativo della preghiera di Gesù. Sulla croce egli prega per coloro che lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,23). Il Signore ha speso tutta la sua vita per portare la salvezza a tutti. Per questo le sue ultime parole sono una preghiera: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (23,46). Nel Vangelo di Luca le prime (cf. 2,49) e le ultime parole di Gesù sono rivolte al Padre. Tutta la sua vita è stata vissuta in perfetta unione con il Padre e in totale dipendenza da lui fino al momento supremo della croce. Anche in questo frangente Gesù offre le linee portanti di una spiritualità missionaria.

Il missionario è inviato dalla Chiesa a impiantare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra (1,8), e, seguendo l’esempio del Maestro, egli deve essere in totale dipendenza dal Padre e in perfetta comunione con Lui. Questo è possibile solo se la vita del missionario è segnata da un costante e assiduo ritmo di preghiera. Senza preghiera nessun campo, per quanto arato, produce frutto.

Antonio Magnante


Parole di corsa

Gesù ha bisogno di noi

Padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953 ha vissuto la sua chiamata alla missione tra Italia, Portogallo, Inghilterra e Sudafrica. Una vita spesa a dire sì al Signore e ai fratelli.

Ciao amico. Mi presento: sono padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953. Da ragazzino frequentavo la parrocchia come ministrante e membro del coro. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto professionale di Casarano, è nato in me il desiderio di diventare missionario per portare il Vangelo ai popoli che non lo conoscevano, così ho deciso di entrare in seminario.

Ho scelto l’istituto dei missionari della Consolata quando ho capito che era una congregazione dedicata alle missioni tra i popoli più poveri e ancora non cristiani. Ma anche per la mia forte devozione a Maria: mi piaceva che l’istituto si chiamasse «missionari della Consolata».

Tra Veneto, Piemonte e Londra

Così sono andato in provincia di Treviso, nel seminario di Biadene, e ho frequentato le scuole superiori di Montebelluna. Subito dopo gli esami di maturità ho fatto l’anno di noviziato in Certosa di Pesio (Cuneo). Per gli studi di filosofia e teologia, invece, sono stato al seminario internazionale di Londra per cinque anni.

La prima sfida a Londra è stata quella di imparare la lingua inglese per poter affrontare gli studi teologici.

È stato un periodo bello, ricco di esperienze arricchenti umanamente, spiritualmente e culturalmente. A Londra, oltre alla cultura inglese, si viveva anche un’atmosfera mondiale.

Tappa in Portogallo

Dopo essere stato ordinato diacono a Londra ero pronto per la missione in Africa o in America Latina, ma i superiori mi hanno destinato in Portogallo. Così ho imparato un’altra lingua facendo una bellissima esperienza nella parrocchia della Serafina nella periferia di Lisbona nel Bairro da Liberdade.

Il 27 giugno del 1981 sono stato ordinato sacerdote a Specchia. Sarei ritornato volentieri nella parrocchia della Serafina per continuare il servizio pastorale tra la gente della quale ormai ero innamorato. Invece mi è stato chiesto di andare a Ermesinde, sempre in Portogallo, nel seminario di Aguas Santas con i ragazzi delle scuole medie.

Dopo due anni sono passato al seminario di Fatima. Essere responsabile della formazione dei giovani, inizialmente mi ha preoccupato, ma ho trovato dei bravi confratelli che mi hanno aiutato a inserirmi in quel ruolo delicato. Era bello pensare che tra quei ragazzi c’erano alcuni futuri missionari della Consolata.

Nel Sudafrica dell’apartheid

Dopo tre anni a Fatima è giunta per me l’ora di cambiare continente. Sono stato destinato in Sudafrica. Finalmente la tanto desiderata Africa!

Quando sono arrivato in Sudafrica nell’agosto del 1987, Nelson Mandela era in prigione, il paese era ancora in pieno regime dell’apartheid: i popoli delle varie tribù africane erano vittime del regime razzista. Questa era la sfida che si affrontava con sofferenza ma anche con determinazione annunciando il Vangelo di Cristo. Era un periodo di intense lotte per l’uguaglianza, la libertà, la giustizia e la pace tra tutti i popoli.

Quotidianamente eravamo testimoni di episodi di insurrezione da parte degli oppressi e di repressione da parte degli oppressori.

L’apartheid non solo divideva le varie etnie, ma era una ferita profonda che ci tagliava dentro l’anima. Come Cristo è il Cristo di tutti, così il missionario è missionario di tutti: lo sforzo quotidiano era quello di combattere le divisioni, spegnere il fuoco dell’odio per accendere quello dell’amore fraterno. Per contrastare la lotta armata dei vari gruppi, portavamo avanti la lotta spirituale della preghiera.

E il Signore ha ascoltato il grido del suo popolo ed è venuto in suo aiuto. Ho avuto la gioia di votare «sì» nel primo referendum che chiedeva il cambiamento del regime.

Ero ancora in Sudafrica quando Nelson Mandela è stato liberato nel 1991. Nel 1994 ho potuto partecipare alle prime votazioni democratiche e universali, quelle nelle quali Nelson Mandela è stato eletto presidente della Repubblica. Abbiamo vissuto momenti di grande trepidazione, commozione e gioia. Un grande senso di gratitudine a Dio Padre di tutti e commossa gratitudine ai fratelli e sorelle che avevano sacrificato la loro vita nella lotta per la libertà, la giustizia, la pace e l’uguaglianza.

Mandela è stato un grande dono di Dio, non solo per il Sudafrica, ma per tutta l’umanità.

Ritorno in Italia

Dopo dieci anni di Sudafrica sono stato richiamato in Italia, nella parrocchia Maria Regina delle Missioni a Torino. Dopo 21 anni, ci ho messo un po’ per «rientrare» in un paese cambiato.

A Torino ho trovato una calorosa accoglienza. Gli otto anni trascorsi in parrocchia sono stati belli, di intenso lavoro pastorale tra i giovani e gli adulti. Anche lì, come in Sudafrica, la fatica principale è stata quella di creare comunione nella comunità.

Nel 2005, per obbedienza, ho lasciato Maria Regina delle Missioni e, prima di andare in una nuova missione, ho frequentato dei corsi di aggiornamento presso l’Università urbaniana a Roma. Poi sono stato destinato al Centro di animazione di Martina Franca (Ta) dove ho lavorato molto con i giovani e per i giovani.

Questa bella esperienza è terminata dopo due anni, quando mi è stato chiesto di tornare a Roma per fare il segretario generale dell’Istituto.

Dopo aver svolto per quattro anni questo importante servizio, ho continuato la mia missione a Galatina, in provincia di Lecce, dove mi trovo ancora attualmente.

Viviamo la pastorale parrocchiale come animazione missionaria e vocazionale. Lavoriamo per evangelizzare e costruire una comunità cristiana nella quale il Signore possa chiamare giovani che sappiano accogliere l’invito a seguire Cristo e mettersi al Suo servizio per portare il Vangelo a tutti i popoli.

L’umanità ha bisogno di Gesù Cristo.

Gesù Cristo ha bisogno di noi, uomini e donne che abbiano il coraggio, la generosità di lasciare da parte il resto e dedicarsi a seguire Cristo per conoscerlo e farlo conoscere a tutti.

Osvaldo Coppola


Progetto Colombia

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Giovani di Solano costruttori di pace

Un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano violenza fin dalla nascita e sono corteggiati dai gruppi armati in cerca di nuove leve.

Educare alla pace i giovani di Solano, villaggio nel Sud della Colombia, in un territorio per decenni dominato dalla guerriglia e oggi da gruppi armati che non hanno accettato gli accordi tra Farc e governo del 2016.

Tentare di sottrarre i ragazzi poveri e privi di strumenti culturali e di rete sociale ai gruppi armati sempre in cerca di nuove leve.

Mettere in sinergia questo lavoro di prevenzione della violenza con l’educazione ambientale, perché in quelle terre una buona relazione con la natura è parte del cammino di pace.

Ecco gli obiettivi del nuovo progetto di amico per il 2019, anno del sinodo panamazzonico.

Un territorio immenso e ricco

I padri Angelo Casadei e Rino Dellaidotti, missionari della Consolata impegnati nella parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes di Solano, propongno ai lettori di amico un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano la violenza fin dalla nascita.

Solano si trova nel dipartimento del Caquetá, in piena foresta Amazzonica, nella Colombia del Sud. Nel villaggio vivono 2mila abitanti, mentre il territorio municipale, che è uno dei più estesi della Colombia (43mila km2, come Lombardia e Veneto messi insieme), conta in tutto 24mila abitanti, distribuiti in circa 100 villaggi raggiungibili solo a piedi, via fiume o a cavallo. Questi sono organizzati in nove «nucleos», raggruppamenti di 8-12 villaggi che fanno capo a quello più facile da raggiungere nel quale vi è di solito la scuola media e superiore e un collegio che alloggia i ragazzi dei villaggi vicini.

Nella giurisdizione della parrocchia sono presenti anche sedici comunità indigene.

La città più vicina è Florencia, la capitale del Caquetá a 170 km via fiume.

Nell’immenso territorio di Solano è presente uno dei più bei parchi amazzonici della Colombia, la «Serrania del Chiribiquete», nel quale vivono popolazioni indigene isolate e specie di flora e fauna ancora non catalogate.

Una storia in movimento

A Solano i missionari della Consolata sono presenti dal 1952. Nella sua storia, questo territorio è stato meta di varie ondate di colonizzazione dovute allo sfruttamento della foresta, delle pelli pregiate, dei suoi animali, del caucciù, del legname e alla coltivazione della pianta di coca. Esso è anche rifugio di banditi. Per lungo tempo è stato dominato dalla guerriglia: prima la M19, poi le Farc-Ep. Oggi, dopo l’accordo di pace del 2016, gruppi «dissidenti» continuano la lotta armata, imponendo la loro legge, e arruolando giovani nelle loro fila.

Le attività economiche

Tra la popolazione locale è diffuso l’allevamento del bestiame e la produzione di latte e formaggio per l’industria, nonostante il trasporto verso Florencia e le altre comunità della zona sia molto costoso perché avviene solo via fiume.

Le altre attività sono tutte finalizzate all’autoconsumo e al commercio locale: si coltivano yuca, banane, canna da zucchero, mais, riso; vengono allevati galline, polli, tacchini, capre, maiali e viene praticata la pescicoltura su piccola scala.

A 2 km da Solano vi è una base aerea militare che effettua voli di appoggio per la popolazione civile in caso di emergenza.

Il rischio per i giovani

«La Colombia dopo 60 anni di guerra ha firmato un accordo di pace con la Farc-Ep, una delle guerriglie più forti in questo paese», afferma padre Angelo. «Stiamo vivendo una tappa storica e allo stesso tempo delicata. Soprattutto nel nostro territorio dove la guerriglia era molto forte: come ricostruire una società che per decenni è stata governata dalle armi? Chi occuperà gli spazi di potere lasciati vacanti dalla Farc in un territorio dove lo stato si fa presente a fatica?». In questo periodo di post conflitto stanno emergendo gruppi di «dissidenti» composti da guerriglieri che non hanno aderito al processo di pace e che vogliono continuare a governare il territorio con la forza, in modo autonomo.

«Pensiamo che le future generazioni siano quelle più a rischio – prosegue padre Angelo -: sia perché manca una formazione umana e religiosa che li possa orientare verso i valori della vita, sia perché, per sete di potere, ambizione, ignoranza, i giovani si lasciano convincere ad arruolarsi nei gruppi armati illegali. È importante formare giovani leader che diventino capaci di attirare e animare altri giovani. Inoltre altro punto importante è un lavoro sulle coscienze: perdono e riconciliazione con se stessi, gli altri e verso la creazione».

Padre Angelo accenna al tema della creazione. Il progetto infatti prevede, tra gli obiettivi, anche quello di educare all’ambiente: «Viviamo nella conca Amazzonica, uno dei territori che dobbiamo conservare per il bene dell’umanità. È importante educare le nuove generazioni nell’amore per il luogo privilegiato nel quale vivono».

Luca Lorusso




Aleida Guevara, una degna figlia del Che


Il papà è stato e ancora rimane un’icona globale. Lei, medico pediatra, ha girato il mondo per ricordare la sua figura. Lo scorso marzo Aleida è tornata in Italia. A pochi giorni dall’approvazione definitiva della nuova Costituzione cubana.

Testo di Gianni Minà

Essere figlia di un mito della storia del ventesimo secolo è un impegno che può schiacciarti o, al contrario, esaltarti. Ho conosciuto e frequentato, negli anni, Aleida Guevara March, figlia di Ernesto Che Guevara, e posso dire di ammirarla per la sua capacità di sostenere questo peso nel tempo con assoluta leggerezza umana.

Aleida, che gli amici chiamano Aliucha, è oggi un medico pediatra all’ospedale William Soler di La Habana, ma il destino ha voluto che venisse scelta anche come rappresentante della famiglia e della rivoluzione nel difficile compito di continuare a portare, in giro per il mondo, la parola di suo padre, il Che, in decine di avvenimenti dove si narrano le gesta e spesso anche l’epopea di Ernesto Guevara.

La storia ha voluto così, disegnando per lui un ruolo di esempio indiscutibile a fianco di Fidel Castro e per lei un compito importante all’interno della rivoluzione stessa.

Aliucha è stata ed è la portavoce dell’utopia di suo padre e ancora adesso, a 58 anni, è capace di rinverdire, con le sue conferenze e le interviste, una testimonianza che sfiora la leggenda in Africa come in Australia, nella scettica Europa o nel Sud del mondo e nel cuore dell’America Latina.

«Il fatto è che ho dovuto supplire a volte alla timidezza dei miei fratelli. Di Hilda, figlia del primo matrimonio di mio padre, di Camilo, responsabile del Centro culturale Che Guevara, e di Celia, che è veterinaria all’acquario nazionale di Cuba, e di Ernesto, che lavora nel settore turistico. Il merito è stato di mia madre, un’antica combattente della rivoluzione che pure seppe conciliare i suoi doveri di madre con quelli da militante (è stata per anni deputata e guidava la delegazione della commissione esteri del parlamento cubano, ndr)».

Aleida nel tempo si è preparata con puntiglio, conscia del dovere di essere pronta per questa incombenza e fornendo un esempio tangibile pure alle figlie Celia, anch’essa medico, come tradizione famigliare, specializzata in chirurgia cardiovascolare, ed Estefania, studentessa di economia.

Nel 1996 accompagnai Aleida a un ricevimento che le sorelle Fendi, le signore della moda italiana, offrivano per festeggiare l’uscita italiana della rivista «George», fondata da John John Kennedy, che era ospite dell’evento. Nell’occasione colpiva il contrasto tra lo sguardo affascinante, ma discreto del giovane Kennedy e quello sbarazzino della figlia del Che.

John evitava di guardare negli schermi dove passavano le immagini della presidenza tragica di suo padre, Aleida invece raccontava le sue esperienze fatte in Angola e in Nicaragua nell’impegno di alleviare le difficoltà di quei popoli. I due simpatizzarono. Purtroppo, tre anni dopo il giovane Kennedy sarebbe perito in un incidente accaduto su un aereo che lui stesso pilotava.

Aleida l’ho rivista l’11 marzo scorso in un incontro ad Assisi per una conferenza sulla mediocrità della vita che attualmente viviamo, in una sala della Pro Civitate Christiana che straripava di persone. Nella circostanza la figlia del Che, in due ore, ha chiarito molti degli interrogativi, che la nuova Costituzione, recentemente varata a Cuba, aveva posto, avendo come obiettivo una migliore qualità della vita.

L’iter di questo rinnovamento, dopo la scomparsa di Fidel Castro, era stato avviato dal Parlamento cubano con un progetto costituzionale discusso poi in tutti i Cdr (Comitati di difesa della Rivoluzione). I cittadini cubani avevano presentato a loro volta un milione di modifiche al progetto iniziale e il Parlamento, grazie a queste proposte, aveva rettificato il progetto iniziale del 60%. Il 24 febbraio 2019 si è poi svolto un referendum per rendere ufficiale il cambiamento. L’85% degli aventi diritto al voto si sono recati ai seggi e l’83% di questi ha votato sì.

Cuba ha mantenuto così la prerogativa di nazione latinoamericana più equa e più sicura del continente malgrado un vergognoso embargo degli Stati Uniti che dura da più di mezzo secolo. Credo che questa caratteristica, al di là di qualunque sbaglio, sia il frutto di una nazione ancora unita che si riflette nella serenità del suo popolo.

Non è un caso che quando finalmente, nel 1997, il corpo dell’eroe più splendido di tutta l’America Latina era stato restituito a Cuba dalla Bolivia, Aleida, la figlia che non si arrende, aveva salutato la salma del padre con queste parole:

«Più di trenta anni fa i nostri padri
si congedarono da noi.

Partirono per tenere alti gli ideali di Bolivar, di Martì:
un continente unito e indipendente, ma nemmeno
loro sono riusciti in questo intento
Erano coscienti che i grandi sogni si avverano
solo a costo di immensi sacrifici.

Non li abbiamo più visti.
Allora quasi tutti noi eravamo molto piccoli,
adesso siamo uomini e donne
e abbiamo visto e vissuto,
forse per la prima volta, momenti
di grande dolore, di pena intensa.

Sappiamo come si sono svolti i fatti
e ancora ne soffriamo.

Oggi tornano a noi le loro spoglie,
ma non tornano sconfitti. Tornano da eroi,
eternamente giovani, coraggiosi, forti, audaci.
Nessuno può toglierci questo.
Saranno sempre vivi, insieme ai loro figli,
nel loro popolo».

Gianni Minà

 




Torre Maura: calpestare il pane – spezzare il pane

Quei Rom che vivono nei campi, sotto le diverse denominazioni: attrezzati, abusivi, istituzionalizzati, micro insediamenti, villaggi… sono sostanzialmente stigmatizzati da tutti, lo fanno i partiti di ogni tendenza, dalle stesse organizzazioni che vorrebbero tutelarli, dall’opinione pubblica in generale. Il risultato è sempre lo stesso, una disparità pericolosa e dannosa per i Rom che vivono nei campi, chi per scelta, per costrizione o per mancanza di alternativa. I Rom dei campi sono di fatto accusati come fossero dei “parassiti”, dei privilegiati, approfittatori, incapaci di volersi integrare. Cosa poi significhi integrare è ancora tutto da valutare e capire. I fatti di Torre Maura di Roma sono la conseguenza di questo e di altro ancora, soprattutto decenni di esclusioni, di pregiudizi e di un clima di odio che ha portato a gettare per terra e calpestare il pane destinato a quel gruppo di Rom, collocati provvisoriamente in un alloggio, dopo lo sgombero del loro campo.

Spezzare il pane è sempre stato il gesto carico di significato, esprime condivisione, accoglienza, il riconoscimento della dignità umana dell’altro, senza esclusione di ceto, classe, religione ed etnia. Nel dare un pezzo di pane, non solo riconosco la dignità dell’altro, ma valorizzo anche la mia, la nostra.” Un pezzo di pane non lo si nega a nessuno!” Era un dato di fatto indiscutibile fino a qualche anno fa, ora non più!

Questo principio, quello di non negare il pane, piano piano ha cominciato a sgretolarsi, già da diversi anni: vedi le ordinanze di diversi sindaci (di ogni orientamento politico) che vietano di dare una semplice bevanda calda con una brioche ai clochard che gravitano attorno le stazioni, o ai migranti che cercano di attraversare il confine: vietato aiutarli! Tutto per il così detto “decoro cittadino” da salvaguardare! Dare del pane a chi è nel bisogno, da qualche anno a questa parte, è diventato una minaccia al decoro cittadino. Il decoro sembra ormai avere la priorità sul quel sentimento umano, primordiale che ha caratterizzato il genere umano e l’Occidente stesso, quello di garantire e donare il pane a tutti.

Ma spezzare il pane per un cristiano o per chi vive una sua fede religiosa, ha dei significati immediati, chiari: rimandano al Mistero stesso di Dio. La Bibbia, La Torah e il Corano sono ricchi di richiami e di messaggi “teologici” riguardo il pane da spezzare, da condividere soprattutto di fronte all’affamato, al bisognoso, come all’ospite e al viandante di passaggio.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo!” (Gv, 6, 41) Pane come dono di Dio, Gesù pane spezzato per la salvezza di tutti: buoni e cattivi, meritevoli o meno. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo.” Gettare a terra il pane e calpestarlo perché non sia dato ai Rom è come calpestare il volto di Gesù, figlio di Dio che si è identificato con l’affamato, il povero, la vedova, il forestiero… Come tale è un gesto sacrilego che offende Dio e l’Uomo allo stesso tempo, umiliando non solo i Rom, ma l’intera umanità. Per il cristiano Cristo è presente in tutti, ma nei poveri tale presenza acquista una importanza tale, da essere paragonata allo stesso Mistero Eucaristico. Che senso può avere, non solo per coloro che hanno profanato il pane o per i tanti che si definiscono i “difensori della civiltà cristiana”, ma soprattutto per le nostre comunità cristiane, celebrare l’Eucarestia domenicale, se poi nella vita non riusciamo a spezzare il pane dell’amicizia e della giustizia con i privilegiati del Regno che Gesù stesso ci ha annunciato? Che senso può avere rimanere ancora distanti, indifferenti, appollaiati sui nostri balconi, assistendo passivi alla sorte di questi “poveri Cristi”, gettati per terra e calpestati?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc, 18, 8)

don Agostino Rota Martir (campo Rom – Pisa)
p. Luciano Meli (Lucca)
12 Aprile 2019




L’alluvione che ha preparato il ciclone Idai


Dunque, qui è stato un disastro. C’è stato un’alluvione come quello che ho vissuto a Vilanculos nel 2000.

All’inizio di marzo, è cominciato a piovere tantissimo sull’altopiano di Angonia (nella zona montuosa a Nord della città di Tete, verso il lago Niassa), dove ha piovuto per 5-6 giorni continui, con vento forte. Nella parrocchia di Mpenha circa 200 famiglie hanno perso casa e campi. E adesso si stanno aggiustando con capanne alla meglio

Angonia è una zona particolarmente agricola con colline e valli. Le nostre prealpi. Ben 7 cappelle hanno ceduto e sono andate distrutte

L’acqua scesa dall’altopiano di Angonia, si è riversata nei ruscelli. Questi, cresciuti sono sfociati nel Rowubwe, ingrossandolo all’inverosimile. Il Rowubwe è un’affluente dello Zambesi, al quale si unisce proprio qui vicino a Tete. Il Rowubwe  di solito è mezzo secco, ma in quei giorni giorni era in piena e ha cercato di riversarsi nel fiume Zambesi, che pieno a sua volta non ha potuto accoglier quella quantità di acqua.  Per cui, il Rowubwe è straripato, invadendo campi, isolotti e villaggi in riva la fiume. Il grande ponte, ne ha risentito, e tuttora e intransitabile.

Centinaia di famiglie, si dice 860 famiglie, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno appena salvato la vita. Casa, cose, utensili, tutto… alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina.

Le famiglie da allora accolte nella scuola industriale di Tete, alla belle-meglio.

Governo e privati hanno e stanno soccorrendo alla meglio. Noi pure per tre volte nel centro di accoglienza abbiamo dato viveri e vestiti, frutto di una generosa raccolta tra le parrocchie.

Adesso lo stato sta assegnano un pezzo di terra, in altra zona, per costruire case.  Non so se daranno anche i mezzi… Dal centro di accoglienza li stanno mandando in questo quartiere nuovo. Con tende.

Io aspetto qualche giorno, per vedere come andrà a finire e quali saranno i bisogni, almeno che non manchi il mangiare.

Non so poi come sarà la zona di Doa e Mutarara, lontana 200 e 290 Km rispettivamente dalla città di Tete, dove lo Zambesi, ha invaso tutti i campi.  Tuttora abbiamo una 15 di villaggi che non siamo riusciti a contattare, e il granoturco è a bagno nell’acqua.  Il raccolto non ci sarà per questo anno.

Altra cosa è stato il ciclone che qualche giorno dopo ha colpito Beira e dintorni. Una tragedia, quella che si vede alla TV. Non so quando Beira potrà rialzarsi. Tutto distrutto. Grazie a Dio, anche la ONU sta intervenendo. I danni sono ingenti.

padre Sandro Faedi
amministratore apostolico di Tete




Il creato in «Ardente aspettativa»

Testo di Gigi Anataloni |


Il sole del mattino illumina di luce radente il marciapiede segnato da una serie di brillanti macchie arancio che colorano il suo grigiore. Una visione poetica, ma la poesia dura poco. Non sono fiori spuntati dall’asfalto, sono solo bucce di mandarino: il segno di un’incuria «ordinaria» fatta di cartacce, escrementi canini, mozziconi di sigaretta, per restare sotto casa. Un’incuria «normale» fatta di rifiuti domestici e industriali ai margini delle strade, discariche abusive (anche di materiali tossici) nei campi, in riva ai fiumi, nel mare, se allarghiamo lo sguardo. Una «normale» gestione ambientale diffusa in tutto il mondo, con rare eccezioni: rivedo il deserto del Nord del Kenya con i cespugli spinosi coronati di sacchetti di plastica sbattuti dal vento, segnale sicuro della vicinanza di un villaggio; ricordo i bidoni azzurri sepolti sotto una grande superstrada – costruita da un’impresa nostrana – in una capitale africana («solo bidoni vuoti», mi hanno assicurato allora, malizioso io a pensare che fossero pieni di rifiuti tossici); penso alla nuova collina – di rifiuti organici garantiti – sorta vicino alla casa dei miei nel bresciano, ormai punto di riferimento paesaggistico.

Immagini banali le mie, ma tutt’altro che banale è il problema del degrado ambientale a cui rimandano, dell’inquinamento, del cambiamento climatico. È una realtà che interpella tutti, che è sotto gli occhi di tutti e richiede da ciascuno una risposta. La rassegnazione e il senso d’impotenza non portano a nulla.

Nel suo messaggio quaresimale, papa Francesco ci parla di questo, ricordando che: «Quando non viviamo da figli di Dio, mettiamo spesso in atto comportamenti distruttivi verso il prossimo e le altre creature – ma anche verso noi stessi – ritenendo, più o meno consapevolmente, di poterne fare uso a nostro piacimento. L’intemperanza prende allora il sopravvento, conducendo a uno stile di vita che vìola i limiti che la nostra condizione umana e la natura ci chiedono di rispettare, seguendo quei desideri incontrollati che nel libro della Sapienza vengono attribuiti agli empi, ovvero a coloro che non hanno Dio come punto di riferimento delle loro azioni, né una speranza per il futuro (Sap 2,1-11). Se non siamo protesi continuamente verso la Pasqua, verso l’orizzonte della Risurrezione, è chiaro che la logica del tutto e subito, dell’avere sempre di più finisce per imporsi. […] Quando viene abbandonata la legge di Dio, la legge dell’amore, finisce per affermarsi la legge del più forte sul più debole. Il peccato che abita nel cuore dell’uomo (Mc 7,20-23) – e si manifesta come avidità, brama per uno smodato benessere, disinteresse per il bene degli altri e spesso anche per il proprio – porta allo sfruttamento del creato, persone e ambiente, secondo quella cupidigia insaziabile che ritiene ogni desiderio un diritto e che prima o poi finirà per distruggere anche chi ne è dominato». L’uomo è padrone nella logica del peccato, giardiniere nella logica dell’amore.

Sono parole forti quelle del papa, ma rispecchiano bene la realtà nella quale viviamo. Siamo a un bivio. Occorre scegliere tra la vita e la morte, l’essere «uomini» o essere «belve». Citando la lettera ai Romani, Francesco ricorda che tutto il creato ha «l’ardente aspettativa» e il «desiderio intensissimo» di vedere che noi uomini siamo davvero «uomini» secondo lo standard pensato da Dio nella creazione (immagine di Dio) e confermato da Gesù nella redenzione (figli/figlie di Dio). Tutto il creato non vede l’ora che noi ci svegliamo, perché adesso, comportandoci da «padroni», stiamo creando il deserto e distruggendo il giardino del mondo.

È urgente un profondo cambiamento di mentalità (conversione) perché la nostra e quella del creato è un’unica storia di salvezza. Non ci si può rassegnare all’impotenza, vivere l’attimo presente senza preoccuparsi del futuro pensando che il problema sia più grande di noi. Forse siamo anche vittime di un sistema sociale ed economico che tende a usarci invece di renderci protagonisti, ma la nostra fede ci conferma che siamo soggetti della storia, non marionette, e che la conversione, il cambiamento di rotta, comincia da noi. La vera rivoluzione non la fanno i potenti, ma le scelte quotidiane che ciascuno può fare. Scelte che Francesco sintetizza in tre parole: elemosina, preghiera e digiuno.

«Digiunare, cioè imparare a cambiare il nostro atteggiamento verso gli altri e le creature: dalla tentazione di “divorare” tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore, che può colmare il vuoto del nostro cuore. Pregare per saper rinunciare all’idolatria e all’autosufficienza del nostro io, e dichiararci bisognosi del Signore e della sua misericordia. Fare elemosina per uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene. E così ritrovare la gioia del progetto che Dio ha messo nella creazione e nel nostro cuore, quello di amare Lui, i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore la vera felicità». Per dire davvero «Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature».

Gigi Anataloni




Cari missionari


Ricordi indelebili dal Mozambico

Suor Elisabetta lascia Maimelane

Un anno dopo il mio rientro, voglio dire un grosso grazie ai missionari e missionarie della Consolata. Sono un sacerdote della diocesi di Vercelli e dal 2002 al 2018 ho vissuto con loro in Mozambico, dove ho trovato già formazione ed animazione cristiana. Quando parlo dei missionari della Consolata è come se parlassi della mia famiglia. Ho vissuto a lungo a Maimelane, una missione da voi fondata. Lì ho trovato ancora tre suore della Consolata che dopo la rivoluzione sono ritornate per continuare l’evangelizzazione. E con esse ho appreso ancora meglio il vostro carisma. Sì, perché le suore erano sempre assistite dai padri che vivevano a Villankulo o a Mambone o a Massinga.

Quello che mi ha lasciato sbalordito è l’enorme lavoro fatto per fondare quelle missioni, sia lavoro manuale e che lavoro di evangelizzazione. Nelle due missioni in cui ho vissuto mi ha impressionato l’enorme costruzione della stupenda chiesa. Poi la costruzione delle aule per scuola e catechesi e anche un ospedale che però, appena finito, è stato nazionalizzato dal governo e ora giace abbandonato e cadente.

La presenza delle suore ha dato continuità alla vita della missione. Dopo la guerra tre suore sono rientrate a Maimelane e sr. Elisabetta Possamai ha riaperto le cinquanta cappelle sparse nella foresta formando, in cinque anni, almeno 250 catechisti di cui dodici, i più validi, sono diventati formatori dei futuri nuovi catechisti. L’altra suora, sr. Clemenzia, infermiera, aveva avuto in dono una motocicletta con la quale andava a casa degli ammalati ed aveva fondato un centro nutrizionale (dove i bambini ricevevano cibo e cure mediche).

Poi c’era sr. Florentina, la quale seguiva le donne insegnando a cucire, rammendare e tenere il decoro della chiesa, della loro casa e l’igiene dei figli. Ed al sabato riusciva a dare catechesi in lingua locale alle mamme.

Ho cercato in questi anni di conservare la vostra missione perché in essa vedevo un enorme lavoro fatto con competenza e fatica. I padri a Maimelane avevano pure fatto una piantagione di arance, mandarini e pompelmi. Una scelta fatta con oculatezza, perché non maturavano tutti allo stesso tempo ma a tempi alternati. Siamo riusciti a conservarne solo un centinaio di piante, perché il resto fu distrutto da anni di incuria e abbandono. Abbiamo anche rimesso in ordine un’enorme cisterna che serviva per recuperare acqua piovana per tutta la missione.

Dopo vari anni sono passato alla missione di Mangonha prima sede della missione Massinga. Anche lì era tutto nazionalizzato ed abbandonato. In quel periodo mi ha aiutato molto padre Arturo Marques con i suoi insegnamenti, orientamenti e memorie del passato, essendo stato uno dei tanti ad avervi servito. Lì ho riordinato la chiesa che era alquanto abbandonata, anche se i cristiani continuavano ad andarci per pregare. Ma era proprio ridotta male, diventata la casa dei pipistrelli, senza banchi o arredamento liturgico. Nel ristrutturarla abbiamo constatato che l’intelaiatura del tetto era fatta con enormi travi di palissandro. Parlando con padre Arturo mi disse che furono ricavate dalla foresta di Fughaloro (una delle prime missioni della Consolata in Mozambico). Le travi venivano portate sulle spalle da un centinaio di operai da oltre 120 km di distanza. Avevano costruito anche tre case: una per i missionari e due per le suore. Poi un dispensario e otto casette per la formazione dei catechisti che studiavano a Mangonha per due anni e dopo passavano a Guiúa, alla scuola per catechisti, per altri tre anni. Insomma, hanno dato un’impronta solida e meravigliosa dove essi sono passati. A Mangonha hanno pure fatto una enorme piantagione di palme da cocco, e aranci, limoni e pompelmi, tutto per alimentare se stessi e la popolazione, specie per i bambini. Poi avevano canalizzato l’acqua del fiume. Avevano fatto anche una vasca (che ho trovato ancora funzionante) per disinfettare le mucche, essendo quella una zona di pastori.

L’impronta dell’Allamano io sono riuscito a coglierla nel profondo. Certo erano tutti sacerdoti giovanissimi così pure le suore, per cui le fatiche non le misuravano. Nella gente ho trovato ancora forte la devozione all’Eucarestia e alla SS. Consolata. Tutto questo che vi ho descritto è la minimissima parte delle missioni che la Consolata ha aperto e della grande formazione e devozione che ancora ho trovato. Ringrazio il Signore di aver sperimentato un carisma così meraviglioso e travolgente. Poi non per ultimo lo stile di famiglia che ho scoperto in alcuni padri, come padre Tavares che mi ha seguito paternamente, e i padri Alceu (Agarez), Carlo (Biella), Gabriele (Casadei), Sandro (Faedi) e fratel Pietro (Bertoni) che non passavano mai da queste parti senza entrare nella missione per un saluto.

A me questi esempi umani, cristiani e sacerdotali mi hanno lasciato un grande desiderio di imitazione e di stima. Prometto che porterò sempre in me questi esempi così luminosi e caritatevoli ed umani per il mio apostolato in Italia. Ma devo dire che il cuore è nelle missioni e con i missionari e missionarie della Consolata.

Don Carlo Donisotti
16/02/2019

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La formula padre Lerda

Rev. padre Gigi,

ho raggiunto una età, dove sono maggiori i ricordi, che le nuove aspettative. Nel cuore sono rimasti nove splendidi anni vissuti nell’Istituto Missioni Consolata, prima a Bevera (Co), poi a Varallo Sesia (Vc). Credo di ricordare quasi tutti i volti di padri, suore, assistenti e compagni. Usando le parole di papa Francesco, dette il 1° novembre, posso dire di aver avuto al fianco molti veri «santi poveri», di quelli che non si arrampicheranno mai sulle colonne del Bernini.

Non ebbi il loro coraggio e la loro fede. Sono uscito, ho lavorato, ho formato una bellissima famiglia e, ora, mi trovo nonno a tempo pieno, con una nipotina di tre anni e mezzo e due gemellini di 15 mesi. Ho un nodo di riconoscenza, che vorrei alleggerire.

Per mitigare la lacuna, ho provato a dedicare a padre Attilio Lerda (1929-2011), mio professore di matematica (e con lui, a tutti coloro che hanno cercato di insegnarmi, non solo a usare penna e calamaio, ma anche un modo di vita) la formula principale, almeno così la ritengo, di una ricerca matematica, sia pure modesta, che ho completato dopo otto duri anni di lavoro da pensionato e dopo 45 anni di abbandono dei libri.

Sono tre formule. La prima, che dovrebbe individuare se un numero è numero primo, l’ho dedicata alla mia nipotina Matilde. La seconda, che costruisce e dà ordine logico a tutti i numeri primi, l’ho chiamata «formula padre Lerda» ed è ovviamente dedicata a lui. La terza, che individua i fattori primi di tutti i numeri, l’ho chiamata «procedura Gemelli», dedicandola ai miei nipotini di 15 mesi, gemelli appunto.

Era il minimo che potessi fare.

Non mancherò di inviarle una mia povera preghiera, ma non si dimentichi di ricordare i miei tre piccolini alla Madonna Consolata.

Ferruccio Vitali
Alzano Lombardo (Bg), 20/02/2019

 


Penetrare il mistero di Cristo

Caro padre Gigi, ho letto il primo intervento del nuovo biblista, Angelo Fracchia, padre di famiglia e docente. Sono rimasto ammirato dalla sua capacità di rendere semplici anche le cose più complicate come è la Scrittura, almeno nella sua parte letteraria e quindi anche gli Atti degli Apostoli. Un plauso e una bellissima occasione per i lettori di MC che meritano particolare attenzione. Angelo Fracchia può aprire infinite porte e aiutare tanti a penetrare sempre di più il «mistero di Cristo» che è la Parola/il Lògos.

Leggerò mensilmente con atteggiamento spirituale quanto il servo della Parola «Angelo-Messaggero» e quindi «evangelizzatore» ci proporrà per ispirazione dello Spirito.

In un tempo come il nostro in cui l’Africa, depredata da secoli dall’Occidente, è ripudiata come il Lazzaro del Vangelo (Lc 16,19.31), la rivista MC è la migliore informatrice dell’Africa sull’Africa e del mondo. Essa è in se stessa la forma più vera di evangelizzazione dell’occidente che ha dimenticato il proprio passato e da dove derivano le proprie ricchezze che inesorabilmente perderà perché incapace di condividerle con i figli e le figlie di Dio.

Come lettore attento e fedele, vi sono grato, vi sono vicino e prego con voi e per voi come anche invoco lo Spirito sul nuovo biblista Angelo e sui Lettori e Lettrici ai quali va il mio abbraccio e il mio augurio di una vita nel Signore.

Paolo Farinella, prete
01/02/2019


Padre Giordano Rigamonti

Tre parole per

Tre parole descrivono la vita di padre Giordano Rigamonti: missione, sogno, laici. Parole divenute subito ideali, scelte, fatti.

Missione: sentirsi inviati dalla Provvidenza ad annunciare a tutti un messaggio di speranza, di audacia, di misericordia.

Sogno: «sognare in grande», sapendo che tu sei fatto ad immagine di Dio, da Lui coronato di «onore e gloria».

Laici. No, non si escludono i preti e i frati, né i conventi né gli episcopi. Ma i laici hanno una marcia: la concretezza, l’aderenza alla storia.

Missione, sogno, laici: realtà che si arricchiscono a vicenda, che hanno arricchito padre Giordano e quanti lo hanno avvicinato.

Abbiamo iniziato con i «Convegni Missionari Nazionali», con circa 400 giovani provenienti dall’intero stivale italiano. Poi i «Viaggi di Conoscenza in Missione», le «Mostre Missionarie», le «Campagne» per la «mucca per l’indio», contro la Coca, l’Alcool. Poi, poi… E tu ti trovavi accanto a professori, magistrati, primari, politici. E tanti missionari.

Ti sentivi accanto soprattutto lui, Giordano, missionario della Consolata esigente… perché sapeva che tu potevi dare molto per la missione. Tu, ti sei tirato indietro?

Padre Francesco Bernardi
per gli 80 anni di padre Giordano, 30/04/2018

Con i membri del CAM di Torino a Bevera nel 1983

Carissimo p. Giordano

Mentre mi accingo a scriverti mi vengono alla mente tantissimi ricordi legati a te, d’altra parte per anni abbiamo passato dalle otto ore in su a lavorare fianco a fianco!

Al primo incontro mi eri stato subito «antipatico» … Ero arrivata da te con cinque amici per andare a fare un campo di lavoro in Congo, allora Zaire. Noi (che non sapevamo neanche dell’esistenza dei missionari della Consolata) pieni di energia, grinta ed entusiasmo… tu che subito ci avevi smontato dicendo che le cose andavano fatte bene, con una preparazione lunga e precisa sia a livello individuale che di gruppo con sensibilizzazione missionaria nelle parrocchie, nella città dove vivevo… e di lì è iniziato il tutto.

Campo di lavoro in Congo forte e stupendo, e mille agganci con persone che si appassionarono alla missione e la tua richiesta, a me, di lavorare per il Centro di Animazione Missionaria di Torino (Cam) appena iniziato e che tu dirigevi!

Quante iniziative hai promosso e portato avanti… I mitici Convegni missionari giovanili per tutta Italia, primi nel loro genere, che portavano a Torino 400 e più giovani appassionati alla missione; i campi di lavoro e di formazione in Italia e all’estero nei quali i partecipanti vivevano realmente «il mettersi a servizio».

I viaggi di conoscenza in missione per gruppi di persone che volevano vedere il Kenya, il Tanzania in un modo non turistico. Ricordi il primo che facemmo in Kenya? Avevamo 45 persone da portare di missione in missione e tu con tutti riuscivi a essere disponibile e attento.

I corsi di formazione missionaria, le mostre missionarie, le campagne missionarie, eri un vulcano di idee.

Avevo il terrore quando mi chiedevi «che impegni hai per stasera?», perché già sapevo che non si sarebbero contate le ore che sarebbero passate per organizzare, preparare, pensare a iniziative a favore della missione. Tu con le tue segreterie allargate…

Eppure, in tutto questo bailamme riuscivi ad essere vicino alle persone nella quotidianità e negli eventi della vita, come molte volte hai fatto con me e la mia famiglia nei momenti belli e nei momenti tristi.

Quando al mattino arrivavo in ufficio, da come mi stavano i capelli mi dicevi di che umore ero… Avevi la capacità di entrare in sintonia!

Ricordi? I giovedì comunitari con i giovani, le messe, le cene condivise.

E quando si facevano le macchinate e si partiva all’alba per le giornate missionarie per sensibilizzare la gente e si tornava a sera inoltrata? Noi giovani distrutti e tu che ancora sfornavi idee! Tutto entusiasmante e anche sfinente… non c’era tregua… ma almeno c’era vitalità, vitalità per il sogno in cui credevi di una missione qui e là con un ponte infinito fatto di persone. Non ti fermava nulla. Nessun rifiuto, nessuna problematica, in qualche modo riuscivi a catalizzare le persone attorno a te e farti dire sì nelle attività che volevi portare avanti. Non ti fermava neanche la salute che già all’epoca non era proprio delle migliori. In tutto mettevi la passione per la missione e la Madonna Consolata che sempre hai tenuto presente in ciò che facevi.

Poi sei andato a Roma. Non eri più il mio capo, mentre io ho continuato a lavorare al Cam (e ora Missioni Consolata Onlus) e poi a Rivoli dove hai portato avanti altri mille progetti con l’Associazione Impegnarsi Serve.

Non ho più potuto condividere personalmente le varie iniziative, ma sapevo che nulla era cambiato. Il padre Giordano che conobbi 37 anni fa era uguale: pieno di grinta, carica e passione missionaria.

Ora smetto con i ricordi per non stufarti, ne sto dimenticando tanti e soprattutto mi sta venendo un po’ il magone. Ti ho scritto, caro p. Giordano, per ringraziarti. Sì, per dirti un grazie davvero grande per ciò che sei stato nella mia vita, perché mi hai fatto appassionare alla Missione, mi hai fatto conoscere realtà che mai mi sarei sognata di vedere, perché mi hai aperto gli occhi e il cuore a un mondo senza confini.

Sicuramente ora starai programmando qualche incontro in cielo e qualche riunione… e mi raccomando non dimenticarti di noi!

Ciao p. Giordano

Antonella Vianzone
Torino, 11/02/2019


In Madagascar perché siamo missionari ad gentes

È proprio nel dies natalis dell’Istituto che la Consolata ufficialmente è arrivata in Madagascar, isola rossa, la quarta isola più grande del mondo. Alle ore 13:40, (ora locale) del giorno 29 gennaio 2019, all’aeroporto di Nosy Be, l’aereo è atterrato. E così è iniziata ufficialmente l’avventura dei missionari della Consolata in questa terra.

Ad attendere l’arrivo di padre Godfrey Msumange, consigliere generale della Consolata per il continente dell’Africa, a nome dell’istituto, c’erano rappresentanti di tutta la chiesa locale: il vescovo, il vicario, i sacerdoti, i religiosi ed i laici. Nella santa messa celebrata la sera dello stesso giorno nell’isola di Nosy Be, padre Godfrey ha annunciato ufficialmente l’apertura dell’istituto in Madagascar. «È significativo che questo accada proprio il 29 gennaio. Infatti, esattamente 118 anni fa nasceva l’istituto dei missionari della Consolata. È lo stesso fondatore che oggi vuole che nasca questa avventura missionaria qui nell’isola rossa, Madagascar», ha sottolineato.

La nostra presenza per il momento sarà nella diocesi di Ambanja. Per circa un anno, i tre missionari incaricati di questa apertura impareranno la cultura ed in modo speciale la lingua malgascia, ospiti del vescovo mons. Rosario Vella, salesiano. E lungo l’anno si sceglierà una delle missioni tra le due individuate: Beandrarezina e la periferia della città di Antsohihy. I protagonisti, che per questioni burocratiche non hanno ancora potuto partire per il Madagascar, ma che partiranno a breve, sono di tre nazionalità diverse. Si tratta di padre Kizito Mukalazi, dalla diocesi di Masaka in Uganda, che prima lavorava in Kenya, padre Jean Tuluba, dalla diocesi di Wamba, in RD Congo, che prima lavorava nell’Amazzonia in Brasile, e padre Jared Makori, dalla diocesi di Kisii in Kenya, alla sua prima destinazione.

I tre iniziano questa missione dopo un anno di preparazione, che ha avuto il suo culmine il 27 gennaio presso la parrocchia di Kahawa West, dove hanno ricevuto il loro mandato missionario.

Perché iniziare l’avventura missionaria in Madagascar? È una delle domande che tanti si fanno. Semplicemente perché siamo cristiani, consacrati alla missione, ed alla missione ad gentes secondo lo stile consolatino. La nostra vocazione come cristiani, e ancora di più, come consacrati alla missione, è quella dell’annuncio.

Se la notizia è buona, perché trattenerla per noi stessi? È fondamentale condividerla. È nel nostro Dna condividere, annunciare la buona novella soprattutto in quegli ambienti dove non è ancora arrivata, dove la vita vale meno, dove il donatore della vita Gesù Cristo è sconosciuto. E per noi missionari della Consolata, consacrati alla missione, questo è un dovere assoluto. Guai a noi se non annunciamo il Vangelo (1 Cor 9:16).

La zona dove lavoreremo è un territorio ad gentes. Su 100 persone solo otto sono cristiani. E di più come fanno vedere le statistiche, il Madagascar è uno dei paesi più poveri del mondo.

I missionari della Consolata in Madagascar hanno come loro patrona, la beata Sr. Leonella Sgorbati, suora missionaria della Consolata, martire che nella sua vita ha saputo amare senza misura. È stata beatificata l’anno scorso a Piacenza in Italia.

Baba Godfrey Msumange
da Nairobi, 21/02/2019




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Dopo la pentecoste: Una predicazione «arcaica»

Testo di Angelo Fracchia |


La prima chiesa, ritratta dagli Atti degli Apostoli, non si limita ovviamente a ricevere dei doni (la visione di Gesù risorto, l’effusione dello Spirito), ma si impegna da subito a testimoniare e annunciare ciò che le è accaduto. È quanto Luca ci racconta in un lungo discorso attribuito a Pietro, che parte dalla buffa osservazione che questi uomini, che parlano in lingue strane e potrebbero sembrare ubriachi, in realtà non hanno ancora bevuto vino, anche perché è mattina presto, ma si comportano in questo modo per un’altra ragione (At 2,14-15).
Come è ovvio per ogni opera che pretenda di essere storica e come ci capiterà di chiederci più volte lungo la lettura degli Atti, insieme alla domanda su che cosa insegni ancora a noi oggi questo annuncio nasce quella riguardante la verità di ciò che è narrato: davvero Pietro ha detto queste cose?

Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ma la proclamazione di una storia che non abbia alcun fondamento storico sarebbe falsa. È ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole ed è anche altamente improbabile che spunti una cronaca diversa ma altrettanto vicina a quegli avvenimenti. In loro mancanza, dobbiamo provare a ragionare su ciò che leggiamo.

Se da una parte Pietro, già nei vangeli, era in qualche modo il portavoce dei dodici, tanto che poteva essere naturale che fosse lui a parlare a nome di tutti (benché in fondo non ci importi chi avesse parlato allora, l’importante era che rappresentasse i discepoli), dall’altra parte qualcosa possiamo ricavare da ciò che Pietro dice. E prima ancora di entrare nel cuore delle questioni, da buoni detective dell’antichità, possiamo trarre importanti deduzioni da due particolari che potrebbero sfuggire a una lettura superficiale.

Intanto, Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come «Gesù (il) Cristo», come se il fatto fosse qualcosa già ben noto a tutti. Presenta invece uno che gli interlocutori non conoscono.

Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, in realtà, nel suo Vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito solo nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.

Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo Vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto, a costo di essere impreciso. Luca voleva farci sentire «il profumo» dell’inizio.

Fondati nella Scrittura

Da dove parte, allora, Pietro?

Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse avremmo fatto noi. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.

In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il salmo 15 che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33).

In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo (il 109), che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati grazie alle parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma per la cui descrizione mancavano loro le parole adeguate.

Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro nel quale Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti avrebbero potuto parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi (non schiavi), o maschi, o ebrei, ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.

Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?

È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è il capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.

Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con «convertirsi» è «cambiare pensiero».

Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.

A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi. Grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si spalanca davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.

Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di «persone» ma di «anime», che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.

Angelo Fracchia
(3. continua)