Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)

Testo di Francesco Gesualdi |


Un sistema economico fondato sulla competizione internazionale tende a comprimere salari e diritti. In questo modo i nemici dei lavoratori diventano altri lavoratori. L’introduzione di salari minimi che assicurino la vivibilità appare ancora lontana. Intanto l’occupazione continua a ridursi a causa dell’avanzata dell’automazione. Una questione affrontabile soltanto con la ridistribuzione: del lavoro o del reddito.

Una società che si preoccupa del lavoro mi è sempre sembrata strana. Quando, ancora ragazzo, passai dal mondo rurale a quello urbano, rimasi sbalordito sentendo che la gente si angosciava per il lavoro. Davanti agli occhi avevo l’immagine del contadino sfinito dietro all’aratro. Fra lui e i buoi non si capiva chi faticasse di più, ed ero cresciuto con la convinzione che meno si lavora, meglio si sta, perché il lavoro è abbrutimento e fatica. Ma poi mi ritrovai in un mondo dove la gente si disperava se non faticava. Che fossero tutti matti? Tanto più che guardandomi attorno vedevo un sacco di lavoro da fare. Strade sporche da pulire, scuole scrostate da intonacare, giardini pubblici da sistemare. Se la gente aveva così tanta voglia di fare, perché non si dedicava a ciò di cui c’era bisogno?

Mi ci volle del tempo per capire che si scrive lavoro, ma si pronuncia denaro. Non potevo immaginare che il mondo fosse popolato da una massa di nullatenenti che per vivere devono implorare un padrone perché compri il loro lavoro in cambio di un salario che poi spenderanno in un supermercato. Tanto meno potevo immaginare che questa dipendenza fosse considerata normale. Dov’è la nostra libertà se la nostra sopravvivenza dipende dalle decisioni di altri?

Lavoratori contro lavoratori

Ora che siamo in trappola abbiamo due problemi: come vivere da prigionieri nel miglior modo possibile e come uscire dalla trappola. Finché siamo in prigionia il nostro obiettivo è un posto di lavoro a condizioni decenti. Compito non facile, perché per costringerci ad accettare di lavorare per salari sempre più bassi, il mercante ha cercato di trasformarci in gladiatori: lavoratori contro lavoratori in lotta per posti di lavoro sempre più scarsi. In passato il gioco al massacro venne evitato perché invece di combattersi, i lavoratori si allearono. Così riuscirono ad imporre aumenti salariali, diritti sindacali, tutele previdenziali. Per tutti. Oggi dobbiamo fare lo stesso se vogliamo uscire dall’angolo. Ma il contesto si è fatto più difficile e servono nuove strategie.

Un tempo, quando le economie erano più chiuse, la competizione si giocava fra lavoratori che potevano dialogare fra loro perché appartenevano agli stessi territori. E avevano capito che conveniva unirsi piuttosto che combattersi. Ma oggi che merci, capitali e investimenti sono stati messi in libertà, la competizione si è fatta internazionale. Le imprese si comportano come avvoltoi che volteggiano in cielo pronti a gettarsi dove avvistano la loro preda. Che tradotto significa trasferimento della produzione dove i salari sono più bassi e i diritti meno tutelati.

Così abbiamo finito per sentirci in guerra col cinese, con l’indiano, col polacco e acclamiamo chi paventa guerre commerciali con paesi stranieri e applica riduzioni di tasse sui capitali per richiamare la produzione in patria.

Salari minimi: dignità è vivibilità

Il nostro progetto deve essere ambizioso. Dobbiamo costringere a livello globale le imprese a mettere radici nei territori in cui si impiantano perché, ogni volta che se ne vanno, gettano decine, se non migliaia di famiglie nella disperazione. E poiché le differenze salariali sono il grande incentivo alla delocalizzazione, l’obiettivo su cui dobbiamo concentrarci è l’uniformità salariale. Certo non si può pretendere di avere contratti collettivi mondiali, né salari uguali in tutti i paesi. Ma si può cercare di ridurre le differenze spingendo tutti i paesi del mondo ad adottare gli stessi criteri per la definizione dei salari minimi. Criteri che per essere dignitosi non possono essere che quelli del salario vivibile, un concetto messo a punto dalla «Clean Clothes Campaign» (vedi riquadro p. 42) secondo la quale il salario deve coprire quanto meno le spese per i bisogni fondamentali del lavoratore stesso, del coniuge e di due figli a carico. Se in Italia avessimo un salario minimo legale fissato secondo questo criterio non esisterebbe lo scandalo di contratti pirata che per le categorie più basse prevedono salari inferiori ai sei euro all’ora. Non avremmo neanche lo scandalo di paesi con salari minimi legali ben al di sotto della soglia di vivibilità. In Ungheria ad esempio il salario minimo corrisponde appena al 22% di quello necessario per vivere dignitosamente, mentre in Bulgaria al 18%. Queste gravi sfasature non potrebbero esistere se il principio del salario vivibile facesse parte integrante della normativa internazionale. Ma si può sempre rimediare spingendo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), l’organismo dell’Onu dedicato al lavoro, ad adottare una convenzione ad hoc. L’aspetto interessante è che dentro a questo organismo siedono anche i sindacati che potrebbero farsi promotori di una simile iniziativa. Una circostanza che permette anche a noi di giocare un ruolo attivo, portando la proposta dentro al sindacato in cui militiamo. Senza dimenticare che in attesa di una convenzione internazionale, potremmo attivarci per ottenere un’anticipazione almeno a livello di Unione europea. Il tempo pare propizio considerato l’impegno assunto dalla neo commissaria Ursula von der Leyen a favore di un salario minimo comunitario. Ma tutto dipende dai contorni che assumerà. Sarebbe un grave flop se,  invece di affermare il principio del salario vivibile, ancora una volta trionfasse la logica dei costi e della concorrenza.

L’avanzata dell’automazione

L’altro grande nemico dell’occupazione è l’automazione. Per ammissione generale il settore che ne risentirà di più sarà quello manifatturiero, e per ironia della sorte i lavoratori maggiormente a rischio saranno quelli dei paesi di recente industrializzazione. Foxconn, l’azienda taiwanese che produce quasi la metà dei componenti elettronici destinati al consumo di massa e che ha tra i suoi clienti tutti i colossi del settore, da Apple a Microsoft, ha già intrapreso una lenta, ma costante, marcia verso l’automatizzazione.

Anche in ambito tessile sono stati messi a punto robot capaci di tagliare e assemblare vestiti rendendo superflui milioni di lavoratrici asiatiche e mandando contemporaneamente in fumo i sogni di sviluppo occupazionale perseguiti da un paese come l’Etiopia che ambisce a diventare la Cina dell’Africa. Uno studio condotto nel 2016 dall’Oil su Cambogia, Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia, prevede che a causa della tecnologia, questi paesi avranno una perdita del 56% dei posti di lavoro. Praticamente tre su cinque.

A fine Settecento, era sorto un vero e proprio movimento, il luddismo, contro l’avanzare della tecnologia che estrometteva manodopera. Ma il movimento venne sconfitto, le macchine continuarono ad avanzare e la catastrofe non si palesò. Soprattutto a causa della crescita economica che assorbiva i fuoriusciti. Tutt’oggi il sistema propone questa ricetta come soluzione, dimenticando però, che non siamo più all’anno zero. Dopo due secoli di crescita galoppante, le risorse si sono assottigliate e i rifiuti accumulati: la crescita non è più possibile a meno di non volerci votare all’autodistruzione. E allora non ci rimane che una strada, in parte già battuta nel passato.

La necessità di ridistribuire

Se di lavoro salariato ce n’è meno perché le macchine si sostituiscono a noi, dobbiamo accettare di vivere in una società dove pochi lavorano e molti fanno la fame oppure dobbiamo ridistribuire ciò che c’è. Con due opzioni possibili: la ridistribuzione del lavoro o la ridistribuzione del reddito.

Ridistribuire il lavoro significa creare lavoro per tutti tramite la riduzione dell’orario di lavoro. Ridistribuire il reddito significa garantire una sopravvivenza a tutti prelevando i soldi a chi ce li ha. In un caso abbiamo una società di uguali tramite il lavoro; nell’altro una società di uguali tramite il sistema fiscale. Personalmente propendo per una distribuzione del lavoro: non mi pare né logica, né dignitosa, una società di pochi che lavorano e molti che vivono alle loro spalle. Ma la riduzione dell’orario di lavoro è fortemente osteggiata dalle imprese perché, a loro dire, fa aumentare il costo del lavoro. Forse anche per questo si è fatta strada la proposta della distribuzione del reddito che però non ha vita facile neanch’essa. La prospettiva di pagare più tasse fa torcere il naso non solo agli ultra ricchi, ma anche al ceto medio. E nel tentativo di non scontentare nessuno, una certa politica sceglie l’assistenza finanziata a debito. Ma si tratta di una toppa peggiore del buco perché, passato il sollievo del momento, la situazione si fa ancora peggiore per gli interessi da pagare e il capitale da restituire.

Per la casa comune con la tassazione del tempo

Se proprio debito deve essere fatto, che almeno sia a vantaggio della casa comune, la parte di economia che dovremmo rafforzare per tre buone ragioni.

La prima: si occupa di beni comuni e bisogni fondamentali. La seconda: è a vantaggio di tutti perché funziona sulla base della solidarietà invece che della compravendita. La terza: può essere un volano potente di creazione di posti di lavoro. Un aspetto, quest’ultimo, che ci sfugge perché abbiamo la testa impregnata di mercato. Nel nostro immaginario le uniche che possono creare lavoro sono le imprese che producono per vendere. Invece esiste anche l’altra possibilità: la comunità imprenditrice di se stessa che si organizza per la difesa dei beni comuni e la garanzia dei diritti per tutti. E se da una parte si attrezza di campi, boschi, macchinari, fabbriche e tutto il resto che serve per produrre beni e servizi, dall’altra fa funzionare la sua macchina produttiva col lavoro di tutti retribuito non con un salario, ma con l’accesso a servizi gratuiti. Ecco il nuovo patto che ciascuno di noi dovrebbe stipulare con la collettività: lavoro gratuito in cambio di servizi gratuiti. Se entrassimo nella logica di contribuire alla cosa pubblica più che attraverso la tassazione del reddito attraverso la tassazione del tempo, potremmo trasformare la macchina pubblica in una grande area di sicurezza occupazionale per tutti. Il tempo di lavoro calcolato in base ai bisogni da soddisfare e all’ammontare complessivo di tempo che i cittadini possono mettere a disposizione. Forse non verrebbe fuori neanche una giornata a testa a settimana, ma rappresenterebbe un minimo occupazionale garantito per tutti che ci farebbe sentire tutti cittadini con pari dignità. La dimostrazione che per risolvere i problemi sociali serve testa, cuore e fantasia.

Francesco Gesualdi

 


Una proposta dall’Asia

Il salario «vivibile»

  • Cos’è: salario che permette al singolo lavoratore e ai suoi familiari (partner e due figli) di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. L’orario di riferimento è quello previsto dalla legislazione nazionale, in ogni caso mai superiore alle 48 ore settimanali.
  • Chi l’ha promosso: a livello mondiale il gruppo che ha elaborato la proposta più articolata di salario vivibile è l’Asia Floor Wage Alliance, espressione asiatica della Clean Clothes Campaign. La campagna comprende organizzazioni sindacali e non governative non solo dell’Asia (Bangladesh, India, Indonesia, Hong Kong, Malesia, Pakistan, Sri Lanka, Thailandia), ma anche d’Europa e America del Nord.
  • Progressi realizzati: nel 2009, l’Asia Floor Wage Alliance ha messo a punto un sistema di calcolo di salario vivibile valido per i paesi asiatici. La proposta è usata come base di contrattazione dalle diverse piattaforme nazionali. In Europa il concetto di living wage è stato inserito nella legislazione inglese, ma assume come riferimento la linea di povertà individuata nel 60% del salario medio nazionale.
  • Il sito: https://asia.floorwage.org
  • Il fumetto: dal sito è possibile scaricare due fumetti in inglese che possono servire a due scopi: far riflettere i ragazzi (e gli adulti) sulla tematica del salario giusto e ripassare la lingua inglese.

F.G.

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