Testo di Gigi Anataloni |
Nel mese di ottobre c’è stato il Sinodo sull’Amazzonia, un avvenimento atteso tra grandi speranze e pesanti critiche sia dentro la Chiesa che nel mondo politico ed economico.
Il Sinodo è stato celebrato in un periodo nel quale i segnali d’allarme lanciati dalla natura sono davanti agli occhi di tutti e stanno provocando una vasta mobilitazione, bellissima, benché non priva di dogmatismi, equivoci e manipolazioni. Nessuno è autorizzato a restare neutrale o a fare lo spettatore, è necessario però dar voce ai dubbi e fare emergere interrogativi.
Il primo riguarda la prospettiva dalla quale guardiamo il problema. Quando sento Greta all’Onu gridare tra le lacrime «avete rubato i miei sogni, la mia infanzia con le vostre vuote parole», penso che è coraggiosa nel suo appello ai grandi – ci voleva -, ma allo stesso tempo rimango perplesso di fronte al suo «my». Lo trovo poco inclusivo, anche se credo che Greta sia ben cosciente di non parlare solo per sé, ma anche per i suoi coetanei nel mondo. Mi sarebbe piaciuto che quel «my» fosse stato piuttosto un «our». Un «nostri», detto per dare voce ai milioni di ragazzi e ragazze dell’età di Greta che non possono andare a New York, che fanno fatica a fare un pasto al giorno, lavorano nei cunicoli del coltan, frugano nei rifiuti nelle discariche delle grandi città, vedono scuola e vacanze e cure mediche come chimere, sono trafficati e sfruttati in condizioni impossibili con paghe irrisorie, sono costretti a imbracciare armi o annegano nel «nostro» mare. Un mondo di invisibili che quando fanno notizia disturbano la nostra pace.
Sarebbe bello se fossimo capaci di guardare oltre le nostre mura e smettessimo di ritenerci il centro del mondo. Se soffriamo noi per i disastri ambientali, tanto più sono danneggiati coloro che vivono al di fuori del nostro centro di benessere, dal quale guardiamo con i nostri satelliti i fumi dei fuochi dell’Amazzonia (ma non solo) senza vedere chi dai quei fuochi fugge o viene bruciato.
Non ho dubbi invece su quanto sono ripugnanti certe analisi o racconti che enfatizzano i cellulari dei migranti o i televisori satellitari nelle baraccopoli e in certi villaggi indigeni, come se fossero il segno qualificante di una vita bella, pacifica e ricca e non invece gli indicatori della disintegrazione di società e gruppi umani a cui è stato impedito di vivere la propria cultura e tradizioni, a cui è stata tolta la libertà. È indegno presentare come segno di benessere quello in realtà che è indice di alienazione e disgregazione sociale.
Tornando ai dubbi, ne ho molti anche sulle soluzioni proposte per salvare il pianeta. Si parla di energia pulita e si costruiscono enormi wind farm, come quella che occupa 162 km2 nei pressi del Lago Turkana in Kenya, o le grandi dighe per produrre energia pulita sul rio delle Amazzoni o sul fiume Omo in Etiopia, senza tenere conto delle popolazioni che lì vivevano da millenni, costrette a lasciare le loro terre. Pulita per chi allora? Si parla di case a impatto zero, per le quali il legno gioca una parte fondamentale. Ma gran parte di quel legname viene dal disboscamento abusivo di foreste equatoriali. Si vogliono le automobili elettriche, e tutte le industrie del settore si lanciano a produrle. Ma qual è il costo ambientale e umano del coltan e di altri minerali usati per le nuove batterie? Si promuove lo stile di vita vegetariano e vegano. Ci si domanda chi paga il prezzo dell’espansione di monocolture (per lo più in paesi del Sud del mondo) per la produzione dei prodotti di base per quelle diete? Si attaccano gli allevatori intensivi di bovini o maiali, ma quanto si fa per ridurre davvero il consumo di carne sulle nostre tavole? Siamo disposti a pagare di più per avere carne da allevamenti che trattino meglio gli animali?
E i biocarburanti? Sicuri che la loro produzione che esige grandi monocolture sia davvero amica dell’ambiente? Non parliamo poi del nostro rapporto con le automobili. Se la produzione diminuisce e calano le vendite si parla subito di crisi nazionale. Ma anche, dall’altra parte, vedi la promozione dell’uso della bici. «Bici è bello», vero. Ma certe politiche di fare piste ciclabili a tutti i costi, anche a quello di causare lunghissime code su strade dove prima il traffico passava sciolto, sono scelte che davvero rispettano l’ambiente? O forzature ideologiche?
Credo che il rispetto dell’ambiente e delle persone, la pratica di politiche ambientali che tengano conto di tutto l’uomo e di ogni uomo, soprattutto di chi è socialmente più debole e marginale, e la condivisione paritaria dei benefici tra ricchi e poveri, siano condizioni indispensabili per curare questo giardino che Dio ci ha affidato per il bene di chi lo abita, l’uomo e tutte le creature.