Una moto rombante mi sveglia di soprassalto. Sono le 3 di notte. Nel silenzio per diversi minuti seguo le accelerate assordanti del superbiker che si dirige verso il cuore della città. Il sonno se n’è andato e mi domando che gusto ci sia a svegliare la gente così. Una bravata? Una scommessa con amici? Una dimostrazione di «onnipotenza» da postare sui social? Il grido di libertà di un paladino che non si lascia imbrigliare dalle regole di un perbenismo noioso?
Quale sia la risposta non lo so, la fantasia però mi spinge a immaginare il superbiker come uno che si ritiene il coraggioso contestatore di una società addormentata. Questo mi richiama altre immagini di eroi che spopolano nelle cronache quotidiane e sui social: ragazzi che si filmano mentre si prendono a botte in piazza, torturano un povero vecchio, terrorizzano un loro coetaneo, imbrattano muri, treni e monumenti, violentano compagne di classe, minacciano i loro insegnanti, saltano sui tetti, si fanno selfie in bilico sul vuoto, sfidano i divieti, pestano i migranti, rubano in un supermercato, bullizzano un senzatetto. Una lunga lista di oscenità, viste da alcuni come prove di «coraggio» e vissute come antidoto alla noia e al vuoto interiore.
Questi pensieri, poi, ne suggeriscono altri, ancora più cupi, che riguardano altri coraggiosi eroi, sprezzanti delle ipocrisie del politicamente corretto: quelli che dalle tribune politiche, o dai social, urlano di porti chiusi, «legittima» difesa, più armamenti, invasori da cacciare, difesa dei confini, prima gli italiani, Ong trafficanti di uomini, navi da demolire. Il tutto sulla testa del parlamento e della gente attraverso decreti d’urgenza sempre più aspri fatti circolare sui social (a beneficio dei «60 milioni» di fans) prima che nei documenti ufficiali del governo.
Ma queste cose non si devono pensare, né tanto meno scrivere su una rivista missionaria. «Vi siete svenduti alla sinistra? Cattocomunisti! Da quando in qua fate politica? Non sono affari che riguardano la missione. Guardate piuttosto alle vostre malefatte come Chiesa, all’Inquisizione, alle crociate, ai soldi del Vaticano. E i preti pedofili, e il papa eretico?» (per citare solo alcuni dei commenti più moderati che si trovano sui social).
Infine si intromette il Vangelo di Luca che ci sta accompagnando in questo anno 2019. Luca presenta Gesù che, dopo l’assassinio di Giovanni Battista, rende la sua faccia dura come pietra e comincia a marciare davanti ai suoi discepoli verso Gerusalemme dove sa che sarà «innalzato». I suoi sono convinti che «innalzato» significhi «portato in alto» (sulle spalle di schiavi) alla maniera dei grandi del tempo e secondo le aspettative popolari: per esprimere potere, autorità, prestigio, regalità, distruzione dei nemici. Lui invece è ben cosciente che il suo essere innalzato significherà andare sulla croce, come uno schiavo, un oggetto, e non come un uomo. Ancor meno come un re. Questo non lo ferma, anche se ne ha paura (vedi al Getsemani). Anzi, va avanti con più determinazione.
A quelli che desiderano seguirlo e che riescono a tenere il suo passo, non promette soldi, poltrone, privilegi, successo, popolarità, ma un «Dio vicino» in una vita sobria, essenziale, dura ed esigente, in una vita da nomade. Gesù educa i suoi a essere persone contente del «pane quotidiano», senza il peso e i legacci delle preoccupazioni, senza l’ansia per cose pur essenziali come la casa, il cibo, i vestiti. Vuole «angeli» (nel significato originale di messaggeri) la cui prima parola sia «pace a voi»: non l’annuncio di regole, riti, imposizioni, formalità, divieti, ma di gioia, festa, fraternità, bellezza, condivisione, comunione, amore reciproco, rispetto, accoglienza, perdono. Gesù cerca persone che lo seguano con coraggio e testimonino che Dio è amore e Padre di tutti, e ha un occhio di riguardo proprio per chi è disprezzato o ignorato da coloro che si ritengono «i buoni e giusti».
«Gli ultimi sono i primi»: non sono solo parole, ma una scelta di vita. Anche a costo di scandalizzare i «giusti», che per difendere il bene del popolo lo appendono alla croce.
Avere coraggio oggi non è fare le cose che raccolgono consensi, rendono popolari nel branco, fanno avere più voti, ma scegliere di stare dalla parte dell’uomo, «tutto» l’uomo, ogni uomo, perché uomo.
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Cari missionari
Un sabato di ordinaria missione
Dal 6 febbraio mi trovo con mia moglie Roberta a Dianra, in Costa d’Avorio (foto in basso), presso la missione della Consolata dove vive e svolge il suo servizio mio figlio Matteo insieme a padre Raphael Ndirangu dal Kenya e padre Ariel Tosoni dall’Argentina.
In genere il sabato si stabilisce che ogni missionario vada a celebrare la messa in un villaggio delle varie parrocchie: Dianra, Dianra Village e Sononzo. Il sabato 30 marzo si era così stabilito: p. Raphael a Dianra, p. Matteo a Dianra Village e p. Ariel a Sononzo. Considerando che la comunità di Sononzo è la più lontana dalla «base» – circa 45 km – e che per andarci si passa per Dianra Village, siamo partiti con una sola macchina. Con noi c’era una bimba nata il 18 marzo, la cui mamma era deceduta poco dopo il parto, da portare ai nonni in un villaggio lungo il tragitto.
Siamo partiti verso le ore 16.00 e sull’auto eravamo in 8: p. Ariel, p. Matteo, Roberta ed io, la bimba, la nonna ed altre due persone della famiglia. Dopo circa 20 minuti siamo arrivati al villaggio della bimba. Siamo scesi tutti dall’auto. Varie persone ci hanno accolto sulla strada e ci hanno fatto accomodare nel cortile della casa che era poco lontana. Dopo averci offerto dell’acqua ed aver adempiuto ai saluti e riti convenzionali, lasciata la neonata e la famiglia, siamo ripartiti.
Verso le 17.30 siamo arrivati a Dianra Village. Padre Ariel è subito ripartito per passare la serata con i giovani di Sononzo e potervi poi restare per la messa domenicale. Io, con Roberta e Matteo, sono rimasto a Dianra Village. Matteo, che è l’amministratore del dispensario ivi esistente, ha dovuto sbrigare degli impegni prima di partire in moto per il villaggio di Bébédougou. Poiché tutti e tre non potevamo andare, mi ha chiesto se volevo accompagnarlo, mentre Roberta sarebbe restata a Dianra Village. Ho accettato volentieri. Il villaggio dove eravamo diretti era a una ventina di km. Indossato il casco e messo in spalla lo zaino, siamo partiti. Erano le 19.30. Prima di uscire dal villaggio, Matteo ha chiesto a un giovane che conosce la zona quali fossero le condizioni della strada. Joseph lo ha rassicurato dicendo che era percorribile, raccomandandoci però di fare attenzione in alcuni tratti perché avremmo trovato molta sabbia accumulata… e così siamo partiti.
Detto fatto. Poco dopo ci siamo resi conto che la «strada» era in realtà una pista sconnessa con cumuli di sabbia che formavano dei solchi… pista che si snodava attraverso piantagioni di anacardo e di cotone. Nel buio della notte, le luci della moto non facilitavano molto il percorso. Prima di arrivare a destinazione, avremmo dovuto attraversare tre villaggi. Dopo il primo, Pétérikaha, ed il secondo, Chontanakaha, eccoci arrivare al terzo, Nadjokaha, dove ci doveva attendere il catechista Emile. Purtroppo, arrivati al punto di incontro stabilito, non abbiamo trovato nessuno. Matteo ha provato a telefonare, ma non c’era connessione. Nel villaggio, non essendoci l’illuminazione, si vedeva circolare qua e là qualche persona con la pila. Poco distante, davanti a una casa, c’erano due bambini dall’apparente età di otto-dieci anni che con dei bastoni battevano dentro un mortaio circolare in legno per frantumare delle granaglie. Più in là, seduti a terra intorno ad una scodella, ve ne erano altri quattro, dai due ai quattro anni, che stavano mangiando con le mani. Ed ecco che si avvicina un giovane, Basile, amico di Emile e membro della piccola comunità cattolica del villaggio. La notizia non è affatto buona: Emile non era venuto all’appuntamento perché lo avevano chiamato per cercare un bambino in un villaggio vicino, che poi sarebbe stato trovato morto in un pozzo.
A questo punto, Matteo decide di continuare senza accompagnamento per raggiungere il villaggio di Bébédougou. Non sapeva dove era il cortile scelto per la celebrazione, ma una volta arrivati si è fermato nella casa del capo villaggio al quale ha chiesto se sapeva dove si svolgeva la celebrazione religiosa. Questi, che era sdraiato su un lettino nella veranda davanti casa, ha riconosciuto Matteo (infatti, pochi mesi prima, il centro sanitario di cui Matteo è responsabile aveva inaugurato una casetta della salute nel suo villaggio); gentilmente si è alzato e ci ha accompagnati nel luogo richiesto che era a non più di 50 metri dalla sua abitazione. Giunti sul posto alcune donne hanno portato delle sedie, ci hanno fatto accomodare e secondo la tradizione hanno offerto dell’acqua e chiesto le notizie. Dopo una decina di minuti, abbiamo accompagnato il capo villaggio nella sua abitazione e siamo ritornati indietro. Le donne stavano già preparando per la celebrazione e per la cena. Erano già presenti una decina di persone e altre stavano affluendo dai villaggi vicini, chi a piedi e chi su motofurgone. Nel frattempo queste avevano preparato nel cortile un piccolo tavolo come altare e davanti, in modo circolare, sedie e panche. La messa è iniziata verso le 21.45 e le persone erano più di 50, senza contare quelle alle spalle che osservavano incuriosite. La celebrazione è stata bella perché molto partecipata, con canti e preghiere individuali, anche se – come mi ha detto Matteo – la maggior parte dei partecipanti non erano ancora battezzati. La messa è terminata intorno alle 23.20. Subito le donne hanno portato la cena con grandi recipienti ricolmi di riso ed una tipica salsa verde come condimento. A me e Matteo hanno portato del riso con salsa di pesce e dei pezzi di radice di ignam lessati. In pochi minuti i commensali avevano già mangiato tutto! A questo punto, vista l’ora e la tanta strada da percorrere per raggiungere Dianra Village, Matteo ha chiesto il permesso di ripartire, come si usa qui (si chiede la strada), e ce lo hanno concesso. Ho indossato il casco, ripreso lo zaino contenente gli arredi per l’altare e siamo partiti. La strada era molto insidiosa a causa della solita gran quantità di sabbia e, pur proseguendo a bassa velocità, ci è voluta tutta l’abilità di Matteo per mantenere l’equilibrio. Più volte ha dovuto mettere i piedi a terra per non cadere tenendo conto dell’oscurità e delle insidie nascoste dietro ogni curva. La temperatura era gradevole e soffiava un vento leggero. Contrariamente all’andata, nel tragitto di ritorno abbiamo incrociato poche moto e furgonette, anche loro tutte in precario equilibrio. La cosa che mi sorprendeva era che, non essendoci l’illuminazione, ci trovavamo al centro dei villaggi senza neanche accorgercene, anche perché – vista l’ora – non c’erano più persone in giro con la pila. Attraversando il villaggio di Nadjokaha Matteo mi ha indicato il pozzo fatto realizzare dai missionari poiché in quella zona non c’era acqua. Il punto più vicino per attingerne si trovava a 9 km, quindi la gente era obbligata a percorrerne 18 per avere acqua potabile disponibile.
Siamo arrivati a Dianra Village verso mezzanotte e mezzo. Che dire? Per me è stata un’esperienza molto bella dove ho potuto vedere persone semplici e piene di fede che pregano con tanto fervore. Matteo mi dice che in questi villaggi il missionario lo vedono due o tre volte l’anno e la domenica si celebra solo la liturgia della Parola con l’aiuto del catechista.
Siamo andati a letto che era l’una passata. Questo è il sabato del missionario.
La domenica ha poi celebrato a Dianra Village e incontrato i vari gruppi: giovani, corali, catecumeni, Caritas, catechisti, ecc. Il pranzo è stato offerto da una famiglia della comunità. Questo è il mio resoconto di un tipico, «ordinario», fine settimana vissuto dai missionari in questa terra.
Pietro Pettinari
Senigallia, 20/04/2019
Cambiamenti climatici
Anche tu puoi fare parte del tam tam
Ormai anche i governi hanno capito che dobbiamo impedire alla temperatura terrestre di innalzarsi ulteriormente. Dal 1880 ad oggi è aumentata appena di un grado centigrado e già si vedono gli effetti. I cambiamenti climatici non riguardano solo il futuro dei nostri figli e nipoti, sono realtà già oggi. Si verificano tempeste sempre più violente, incendi sempre più frequenti, penuria d’acqua per riduzione dei ghiacciai, innalzamento dei mari per scongelamento delle calotte polari. Nessuno ha più certezza del destino del proprio territorio: l’alterazione delle piogge può trasformare ridenti paesaggi in deserti, città costiere in un intreccio di canali per l’avanzare del mare, ampi territori in distese d’acqua per lo straripamento dei fiumi. Con ricadute sociali inimmaginabili. Dal 2008 al 2018, nel mondo si sono avuti 265 milioni di sfollati per disastri naturali, molti di loro per l’instabilità del clima.
Chi ha provocato il danno lo sappiamo. La colpa è del sistema economico tutt’oggi dominante che avendo fatto dell’espansione della ricchezza il proprio idolo, ha spolpato la terra e prodotto rifiuti in maniera sconfinata. E non per la dignità di tutti, ma per il privilegio di pochi, e tuttavia quanto basta per avere messo il pianeta a soqquadro. Per definizione la produzione esige energia, la sua scarsità è il motivo per cui in passato la produzione era pressoché costante. Limite che il capitalismo ha superato con l’accesso ai combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e l’invenzione di macchine capaci di trasformare il loro enorme potenziale energetico in movimento, calore, elettricità. Peccato che attraverso questa operazione si siano messe in libertà miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in misura ben superiore alla capacità di assorbimento di oceani e sistema vegetale. Di qui l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera con conseguente intrappolamento dei raggi solari, aumento della temperatura terrestre e cambiamento del clima che porta con sé calamità, alterazione della piovosità e quindi riduzione della produzione di cibo e migrazioni.
Gli scienziati ci dicono che per arginare la situazione bisogna dimezzare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2030 e annientarle entro il 2050. Un’operazione titanica che il sistema pensa di poter affrontare solo con cambiamenti tecnologici. Invece non ha capito che la vera sfida è la riduzione, che a sua volta chiama in causa un altro modo di organizzare l’economia. Se vorremo salvare la nostra umanità dovremo riorganizzarci in modo da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti e garantendo a tutti l’inclusione lavorativa. Di sicuro il mito della crescita infinita è al tramonto, ma ancora non si è sviluppato un dibattito adeguato per discutere come va riorganizzata l’economia in una logica di stazionarietà orientata al benvivere. Un nuovo pensiero economico costruito non più attorno all’interesse dei mercanti, ma della buona vita per tutti, è ciò di cui abbiamo urgente bisogno.
Ma nell’attesa che questo dibattito divampi, ognuno di noi deve fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per arginare l’incendio. Tanti lo vogliono fare, ma non agiscono perché non sanno. Per questo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it) ha prodotto una serie di infografiche per spiegare in maniera comprensibile le cause dei cambiamenti climatici e i rimedi possibili a partire da noi. Visita il sito, scarica il documento, e invita i tuoi amici a fare lo stesso.
Francesco Gesualdi
17/06/2019
Il papa in ginocchio
L’11 aprile 2019 papa Francesco, dopo una giornata di riflessione con i due vice presidenti del Sud Sudan, s’inginocchiò con molta fatica per baciare loro i piedi e per supplicare per la pace del popolo del loro paese. La pace è il dono più grande che Gesù offre ai suoi discepoli.
Vorrei provare leggere questo avvenimento con gli occhi e il cuore della cultura dell’Etiopia, il mio paese.
La tradizione culturale etiopica è una tra le tradizioni più antiche, ricche e significative dell’Africa. Da noi le persone anziane, scimaghile – così sono chiamate in amharico -, sono coloro che hanno un grandissimo valore nella società e vengono rispettate in un modo speciale.
Nella nostra cultura una persona diventa scimaghile verso i sessant’anni, quando, con l’esperienza acquisita, sa qual è il bene da fare e il male da evitare. La responsabilità degli scimaghile non è limitata all’ambito privato o famigliare, ma riguarda la società tutta, per cui quando un anziano osserva un atto di ingiustizia, ha la responsabilità di intervenire per risolvere il problema.
Per esempio quando ci sono difficoltà, incomprensioni o atti di violenza nelle famiglie tra marito e moglie, tra i vicini o tra le tribù, gli anziani si radunano per analizzare le cause dei conflitti. Dopodiché si inginocchiano davanti alle persone in conflitto e chiedono loro di perdonarsi e di fare pace. Quando un anziano si mette in ginocchio davanti a una persona per chiedere di fare la pace, nessuno dei contendenti ha la possibilità fisica o morale di resistere o rifiutare. Diventa un imperativo categorico. Quando uno scimaghile si mette in ginocchio, il conflitto deve essere superato e la pace ristabilita.
Da questa prospettiva culturale, il gesto di papa Francesco che s’inginocchia e bacia i piedi ai vice presidenti del Sud Sudan ha un valore enorme.
Papa Francesco, agli occhi della gente del mio paese, l’Etiopia, indipendentemente da ogni interpretazione religiosa, è considerato uno scimaghile che sente sulle sue spalle la responsabilità di risolvere un grave problema di tutto un popolo, e si mette in ginocchio e chiede a due politici importanti la pace per il loro paese.
Papa Francesco, con questo gesto, mostra di conoscere la cultura africana, e indica il modo nel quale entrare in dialogo con gli altri.
Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 68), papa Francesco scrive che «una cultura popolare evangelizzata, contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine».
Inoltre papa Francesco mette in pratica tutto ciò che ha scritto nella stessa esortazione a proposito di una chiesa in uscita per la pace e il dialogo.
In questo caso, papa Francesco esce dalla sua cultura e si mette in ginocchio per la pace di un popolo. La vera evangelizzazione si realizza stando attenti ai segni dei temi. L’Africa si evangelizza nel contesto africano. In altre parole, gli africani non si possono evangelizzare senza tener conto dei loro valori e delle loro tradizioni.
È proprio questo che vediamo nel gesto di papa Francesco che esce dal suo contesto culturale ed entra profondamente nella cultura africana per favorire e far sorgere la pace.
Ephrem Tadesse Ebiyo
Torino, aprile 2019
L’abilità di essere «normali» (in Africa)
Testo di Enrico Casale
Nel continente la disabilità è ancora percepita come qualcosa di anomalo, causato dalla colpa di qualcuno. Qualche decade fa, alcuni missionari iniziarono a occuparsi del tema. Anche la sensibilizzazione, per un cambio di mentalità, sta avendo i suoi effetti. E qualcosa sta cambiando.
Qualcosa sta cambiando, lentamente, nel mondo della disabilità in Africa. Si sta diffondendo un diverso atteggiamento verso chi è portatore di un handicap e stanno migliorando le cure e l’assistenza. La situazione è ancora difficile, ma i passi avanti ci sono.
Paura e discriminazione
In Africa, la condizione dei disabili non è semplice perché eredita un passato fatto di superstizioni e pregiudizi. «Non è possibile parlare di un atteggiamento “africano” nei riguardi della disabilità – spiega Franco Lain, religioso dell’Opera don Guanella, piccola congregazione che da sempre si occupa di orfani, anziani e disabili -. Ogni paese, ogni regione ha un suo modo di affrontare il tema. In generale, possiamo dire che nel portatore di handicap gli africani vedevano, e tuttora, in larga parte, vedono, qualcosa di strano. Un’anomalia che, per forza, deve venire da un intervento esterno, più o meno spirituale. Un fenomeno che va interpretato. Il problema è che, molto spesso, la disabilità è stata compresa in senso negativo: “Se è nato un disabile è perché qualcuno ha fatto il malocchio, oppure i genitori si sono comportati male, oppure conoscenti o parenti hanno fatto riti speciali, ecc.”. Quindi si guardava e si guarda ai portatori di handicap con paura, a volte con terrore».
Nel passato, in alcuni paesi, si arrivava fino alla loro soppressione. L’uccisione dei piccoli disabili era prassi comune. «Anni fa – continua fratel Lain -, spesso mi sentivo dire: “Ho affidato il bambino alla zia…”. Questo significava che i piccoli erano stati dati a chi sapeva come eliminarli. In alcuni casi erano pure le madri a essere abbandonate e isolate dalle famiglie insieme ai bambini».
«Il disabile – conferma Pierre Kouasi, religioso africano dell’Opera don Orione – era una sorta di maledizione. Non si capiva perché una famiglia potesse avere un figlio “non normale”. L’uccisione di un bambino disabile era una pratica comune. Venivano eliminati e poi, d’accordo con la famiglia, si diceva che il piccolo era morto durante il parto. Se sopravvivevano, venivano nascosti».
Fino a qualche anno fa, per le strade, nei mercati, nelle scuole, non si vedevano portatori di handicap. Venivano relegati in casa e non era permesso loro di uscire. I missionari che arrivavano in Africa non li trovavano e, quando chiedevano dove fossero, veniva loro risposto che nel continente non esistevano. «Quando 25 anni fa sono arrivato in Nigeria – ricorda fratel Lain -, l’idea della mia congregazione, in accordo con il vescovo locale, era quella di creare un centro per disabili. I capi villaggio, invece, ci chiedevano una scuola e un ospedale e ci dicevano che i disabili non c’erano. Noi eravamo stupiti. Un giorno, però, ci fermammo in un villaggio e ci venne incontro di corsa un ragazzo con la sindrome di Down e ci abbracciò. Ci rivolgemmo quindi al capo villaggio e gli dicemmo: “Noi siamo qui per loro. Non vogliamo e non possiamo guarirli perché è cosa impossibile, ma vogliamo assisterli e aiutarli a inserirsi appieno nella loro società”. I leader locali capirono e ci sostennero come potevano».
Possibile integrazione?
Se le eliminazioni selettive, negli anni, sono gradualmente diminuite (fino quasi a sparire), non è successo altrettanto per il senso di colpa e di vergogna da parte delle famiglie. Questo atteggiamento è legato anche alle condizioni di vita della maggioranza degli africani. In molte nazioni non esistono forme di assistenza sociale, così i genitori fanno affidamento sui figli per poter godere in vecchiaia di un minimo di benessere. «Per i genitori africani – spiega fratel Lain -, il figlio è un investimento per il futuro. È chiaro che, in questa visione, un figlio disabile è una sorta di ingombro. È un costo che “non dà un ritorno”. Di conseguenza se i disabili non vengono più soppressi, su di loro comunque non si investe.
La difficoltà che noi abbiamo nel gestire i centri per disabili mentali sta proprio nel fatto che i genitori è come se si stancassero di assistere i figli. Quindi o li confinano in casa, senza assisterli, oppure cercano di abbandonarli nei nostri centri. Noi, come guanelliani, ci siamo sempre rifiutati di tenere i ragazzi lontano dalle loro famiglie. Anche perché, nella realtà africana, una persona che non ha un legame famigliare non esiste (l’individuo è tale solo in quanto membro di una comunità, nda)».
Non tutti i disabili, però, sono uguali. «I feriti di guerra sono visti come eroi e, come tali, trattati – nota Gigi Conforti, medico ortopedico, da anni impegnato con Medici con l’Africa Cuamm in progetti a favore dei disabili -. Per loro c’è un’attenzione particolare anche da parte dello stato. In Etiopia, per esempio, i feriti nella guerra contro l’Eritrea combattuta alla fine degli anni Novanta non solo godono di assistenza, ma hanno anche uno status sociale elevato. Differente è la situazione di donne e bambini. Soprattutto in campagna, dove vengono emarginati e isolati».
In questo contesto, i guanelliani cercano di coinvolgere le famiglie creando reti, in modo che i singoli nuclei famigliari si sostengano vicendevolmente. Si ricrea così quella famiglia allargata che è uno dei pilastri della società africana. La famiglia allargata è anche una sorta di «ammortizzatore sociale» grazie al quale il disabile non è mai solo e, anche nel caso i genitori o i fratelli non potessero più prendersi cura di lui, trova comunque un aiuto.
Non solo i guanelliani, ma anche altre congregazioni religiose (come i sacerdoti e le suore del Cottolengo) e Ong lavorano all’integrazione attraverso attività di sensibilizzazione. «Lo sforzo per migliorare le condizioni di vita dei disabili è indispensabile – osserva Tommaso Sartori, coordinatore per conto dell’Ong milanese Celim del progetto Disability in Zambia -, ma sarebbe vano se a esso non si aggiungesse un attento lavoro di sensibilizzazione per ridurre i pregiudizi e le discriminazioni».
Celim ha attivato, insieme al ministero della Sanità dello Zambia, un programma di conferenze aperte ai famigliari e agli operatori sanitari. «Stiamo anche realizzando una serie di incontri nei vari quartieri di Lusaka – spiega Sartori -. L’obiettivo è far passare un’immagine diversa della disabilità. Far capire che chi vive con un handicap è una risorsa e non una vergogna da nascondere».
«Don Orione – aggiunge padre Pierre Kouasi – diceva che in ogni persona c’è l’immagine di Dio. Come orionini seguiamo proprio questa linea. Nelle nostre chiese e nei nostri centri in Costa d’Avorio, Togo, Burkina Faso cerchiamo di far passare l’idea che il disabile non debba essere emarginato, ma accolto e valorizzato per le sue grandi potenzialità. Da noi i disabili seguono cure e riabilitazione, ma poi rientrano in famiglia. Solo i disabili mentali rimasti soli rimangono nelle nostre case. C’è ancora molto lavoro da fare, ma noto che le famiglie stanno cambiando sguardo nei confronti dell’handicap».
Ma lo stato dov’è?
Se la società civile e le congregazioni religiose sono attive sul fronte della disabilità, non altrettanto si può dire delle istituzioni pubbliche. I governi nazionali e locali fanno poco per i portatori di handicap, soprattutto per motivi economici. Mancano i fondi per un sostegno strutturale che dia vita a reti di centri pubblici e privati in grado di lavorare in sinergia sul fronte della cura e dell’integrazione.
«Dalle amministrazioni pubbliche riceviamo molte lodi – osserva fratel Lain -. Le autorità ci dicono che siamo santi e buoni, che facciamo un lavoro indispensabile, poi però difficilmente ci sostengono.
Anche se qualche distinguo va fatto. Nel nostro centro in Ghana (una scuola professionale, aperta a disabili e non, dove si insegnano tessitura, elettronica, falegnameria, e altro), più della metà degli insegnanti sono pagati dal governo di Accra. Sia in Nigeria sia in Rd Congo ci sono rapporti continuativi con le autorità, anche se i sostegni sono sporadici e concentrati su singoli progetti».
Parole simili anche da padre Pierre Kouasi: «Dagli stati abbiamo poco sostegno. Non ci sono programmi di intervento a lungo termine. Gli aiuti diretti sono davvero pochi. Recentemente in Costa d’Avorio, il ministero della Salute ha accordato un’esenzione fiscale su alcune tipologie di farmaci. Non è molto, ma è un piccolo passo avanti. Va anche detto che generalmente le autorità ci lasciano lavorare senza metterci i bastoni tra le ruote. E ciò va visto in modo positivo».
Questo non significa che l’impianto normativo nei singoli paesi sia deficitario. Anzi. Negli ultimi decenni le Nazioni Unite hanno varato numerose direttive in materia di disabilità. Queste sono state in gran parte recepite dei paesi africani. Quindi quasi tutte le nazioni del continente hanno leggi adeguate. Mancando, però, i fondi (e, spesso, la volontà politica), queste leggi rimangono inapplicate o applicate solo in parte.
In Nigeria, per esempio, esiste un corpo di leggi sull’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro. Ma le norme sono applicate solo nel pubblico impiego, comparto importante, ma che non copre tutto il mercato del lavoro. In Zambia esiste una legge (Disability Act 2012) che prevede sostegni alle famiglie con un componente disabile. «Sul terreno però è stato fatto pochissimo – osserva Tommaso Sartori di Celim -. Mancano i fondi e ciò ha fatto sì che la legge zambiana sia completamente disattesa e non siano disponibili quindi i mezzi, le infrastrutture e la formazione specifica per gli operatori».
Ma non tutti sono pessimisti. «Lavoro da trent’anni in Africa e, nel tempo, ho notato qualche passo avanti – osserva Gigi Conforti -. La vera differenza è tra gli stati in pace e quelli instabili a causa di controversie politiche o guerre. Negli anni Ottanta e Novanta, per esempio, l’Uganda aveva pochissime strutture sanitarie e quasi tutte in condizioni precarie. Oggi, dopo anni di pace, sono stati creati centri moderni, con attrezzature all’avanguardia e programmi di assistenza seri e continuativi. Diversa è la situazione della Repubblica Centrafricana. Personalmente ho lavorato nell’ospedale di Bangui, dove ho operato in condizioni difficilissime. Quello della capitale, tra l’altro, è l’unico centro attrezzato. Fuori dalla città, dove dominano le bande armate, non c’è nulla e non è neppure ipotizzabile creare qualcosa».
Una sensibilità che aumenta
In Africa inizia a esserci una nuova sensibilità tra la gente comune. Il lavoro culturale portato avanti da chiese cristiane e associazioni di volontariato sta aprendo spazi per i disabili. Pure le normative, anche se non applicate, creano una mentalità, un clima favorevole alla disabilità. «Lo zambiano medio – osserva Tommaso Sartori – non discrimina il portatore di handicap. Mi è capitato spesso di vedere uomini e donne avvicinare i disabili, parlare con loro, avere con essi un rapporto sereno. Rimane il senso di disagio delle famiglie, ma intorno ad esse si sta creando un ambiente non più ostile. La strada è ancora lunga, ma qualcosa si sta muovendo».
C’è anche una forte solidarietà popolare. «Molti disabili girano di villaggio in villaggio e sono nutriti e accuditi – racconta fratel Lain -. In alcuni casi c’è una solidarietà commovente. Ricordo un ragazzo con la sindrome di Down che era così onesto e così ben voluto dalla comunità, che tutti gli affidavano le incombenze che richiedevano il maneggio di soldi: piccoli pagamenti, piccole transazioni, ecc. Erano sicuri che lui avrebbe portato a termine il lavoro. Così si era costruito un ruolo nel paese». Molti abitanti dei villaggi aiutano le comunità religiose che accudiscono i disabili. Donano aiuti materiali: un sacco di riso, un piccolo animale, un po’ di farina, ecc. Una solidarietà che si va estendendo. Fondi e piccole donazioni arrivano da imprenditori stranieri che lavorano in loco. «Gli indiani, per esempio, pur non cattolici, ci offrono grandi aiuti – spiega fratel Lain -. Anche gli imprenditori italiani sono sensibili».
Sta accadendo qualcosa di più. Sebbene a macchia di leopardo e con molti limiti, si sta diffondendo la consapevolezza che il disabile sia una risorsa di cui però deve farsi carico la stessa comunità. Così, per esempio, in Nigeria, la mamma di una ragazza con la sindrome di Down ha dato vita a un’associazione che ha creato centri per i ragazzi disabili e fa un attento lavoro di sensibilizzazione. Nell’associazione è riuscita a coinvolgere i genitori stessi dei giovani disabili. «Questa sensibilità esiste, inutile negarlo – sottolinea padre Pierre Kouasi – però è un fenomeno soprattutto cittadino e limitato alle classi sociali medio-alte. La povera gente, sia in città sia in campagna, ha ancora altre priorità».
Anche nella scuola si inizia a vedere un primo, limitato, processo di inclusione. I guanelliani, per esempio, hanno creato, sempre in Nigeria, un centro per disabili e lo hanno aperto ai non disabili. «Quello realizzato a Ibadan – osserva fratel Lain – è un caso interessante però è un tentativo sporadico, non è il tassello di un mosaico più ampio che parte e include le istituzioni». Anche in Tanzania esistono scuole (private) che accettano disabili, ma solo in classi differenziate dove i portatori di handicap sono separati dagli altri ragazzi. «Le organizzazioni internazionali danno sovvenzioni allo stato perché metta in atto l’inclusione – conclude il guanelliano – così lo stato dà vita a piccole iniziative come quelle della Tanzania. La vera integrazione, però, è un’altra cosa».
In Africa, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, i disabili sarebbero tra i 60 e gli 80 milioni, circa il 10% della popolazione africana, anche se in alcune delle zone più povere la percentuale sale fino al 20%.
Quando si parla di disabilità, solitamente, ci si riferisce a una serie molto ampia di menomazioni, limitazioni e restrizioni alla normale attività fisica e mentale. I fattori sono molteplici: malnutrizione, menomazioni alla nascita, incidenti in casa, al lavoro o sulle strade, malattie invalidanti, guerre, ecc.
La questione della disabilità non ha un carattere esclusivamente sanitario, ma anche sociale. Molti paesi hanno finanze troppo disastrate per poter creare un sistema di sostegno. Sebbene spesso leggi a favore dei disabili siano state approvate, mancano edifici pubblici attrezzati, non ci sono farmaci adeguati, carrozzine e stampelle sono in numero non sufficiente. I portatori di handicap non riescono quindi a frequentare le scuole: solo tra il 5 e il 10% si iscrive a corsi regolari. Il risultato è che non più del 5% dei portatori di handicap adulti è in grado di leggere e scrivere correttamente.
Ciò, a catena, li esclude dal mondo del lavoro. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) stima che la disoccupazione delle persone disabili a livello mondiale sia da due a tre volte superiore rispetto a quella delle altre persone.
Uganda: I nipotini alla riscossa
In Uganda i missionari della Consolata hanno una presenza piccola, ma vivace, che data 34 anni. Il paese è in una posizione strategica, tra i colossi dell’Africa dell’Est e quelli dell’Africa centrale. Oggi soffre a causa di un presidente padrone che ha difficoltà a farsi da parte. Per questo i giovani ugandesi sono in fermento e chiedono leader che «parlino la loro lingua».
Padre Leo Bagenda è un raro missionario della Consolata di nazionalità ugandese. Entrato nell’Istituto nel 1983 frequentando la filosofia a Nairobi (Kenya), è stato ordinato nel 1992. La sua prima missione è stata in Tanzania, paese nel quale ha operato diversi anni. Nel 2003 è tornato in Uganda, dove lavora tuttora. Negli ultimi anni, fino a giugno 2019, è stato parte del consiglio regionale dei missionari della Consolata di Kenya e Uganda come consigliere responsabile per il suo paese.
Padre Leo è vispo e parla un ottimo italiano. Ci racconta la realtà dell’Istituto in Uganda, vivace ma poco conosciuta.
Attualmente lavora nella parrocchia di Bweyogerere, «la prima dei missionari della Consolata in Uganda», tiene a precisare, «fondata nel 1985 da padre Luigi Barbanti (+1999)». Padre Leo offre il suo appoggio alle altre due missioni nel paese, quella di Kapeka, da lui fondata nel 2003, e di Bulugui, la nuovissima missione inaugurata il 30 settembre dello scorso anno. Segno anche questo di vitalità della compagine ugandese. Completa la presenza dell’Istituto nel paese il centro di animazione vocazionale di Kiwanga, non lontano da Kampala, la capitale.
I missionari della Consolata di nazionalità ugandese sono una quindicina e, in questo momento, lavorano in Kenya, Sud Africa, Colombia, Brasile e Stati Uniti, oltre ad alcuni in servizio nel loro paese.
«Uganda mon amour»
Padre Leo ci parla del suo paese e accenna alla guerra civile che lo ha attraversato a partire dagli anni ‘80 e poi fino a metà 2000: «Nel Nord dell’Uganda la guerra è finita, ma ha rovinato la vita sociale. Le popolazioni locali sono nomadi, e molti abitanti sono andati via, lontano, a causa del conflitto. Le famiglie sono state smembrate. Inoltre l’educazione è sempre complessa per questa tipologia di persone, ovvero è difficile per i bambini nomadi andare a scuola. È anche un discorso di mentalità da cambiare. Inoltre la guerra ha rovinato le infrastrutture esistenti».
Nel Nord dell’Uganda imperversava il sanguinario Joseph Kony leader del Lord resistence army, gruppo armato che ha agito nel paese dal 1986 a metà 2000, quando è stato cacciato e si è spostato in altri paesi (vedi MC giugno 2012). «Kony ha ammazzato tanta gente, ha diviso famiglie, arruolato a forza bambini. Per rifare la vita ci vuole tempo. Inoltre la gente ha dei dubbi, vuole capire se la guerra è davvero finita. Psicologicamente il trauma è enorme».
Padre Leo ci spiega che il Nord, al contrario del Sud, è una zona ancora molto missionaria. «Nelle diocesi del Sud c’è molto clero locale, siamo tranquilli con il personale. Al contrario nel Nord, dove, come detto, il livello di scolarità è molto basso, il clero è raro ed è necessario avere sacerdoti stranieri o di altre zone del paese. Anche i vescovi arrivano spesso dall’estero».
Il padre ci racconta della situazione attuale del paese, e in particolare di politica. Qui, Yoweri Museveni, presidente della repubblica dal 1986, non accenna a voler lasciare la poltrona, e si ricandiderà alle elezioni del 2021. Su di lui circolano diverse storie. La più incredibile riguarda la sua età: «Di fatto non si sa con certezza la data di nascita del presidente. Qualche anno fa, ha fatto cambiare la Costituzione che prevedeva il limite massimo dei 75 anni per la candidabilità. Oggi però non sappiamo quanti anni abbia. Ci sono alcuni personaggi, che hanno studiato con lui, quindi suoi coetanei, che hanno oltre 80 anni. Ma lui dichiara di averne almeno sette di meno».
Quanto è difficile lasciare
«Museveni ha lavorato bene come presidente, ma ora non vuole mettersi da parte», è il parere di padre Leo. «È diventato quasi un dittatore, non vuole che altri si presentino come candidati alla presidenza della Repubblica e cerca di screditarli. Inoltre ha nominato diversi famigliari in posti chiave, facendo diventare la gestione della cosa pubblica quasi una cosa di famiglia». È un ex militare, un uomo forte, che si impone. Tuttavia il rischio per il paese è quello tipico dei presidenti che stanno a lungo al potere: «Quando cadono, non c’è nessuno abbastanza forte che li sostituisce, e si scatena una guerra per la successione».
Il missionario lamenta anche una mancanza di diritti di base nel suo paese e fa il confronto con il Kenya, che conosce bene: «Il Kenya ha fatto qualche passo in avanti. Oggi non si può bistrattare l’opposizione e incarcerarne i membri senza ragione. In Uganda è ancora possibile. In Kenya c’è una maggiore libertà di parlare in pubblico, di fare convegni e manifestazioni anche contro il partito al potere. Nel mio paese non è assicurato. Le forze dell’ordine possono intervenire rapidamente, e lo fanno, con lacrimogeni, disperdendo le manifestazioni e arrestando le persone».
I giovani e la politica
«Museveni dice di essere voluto da tutti ma, in realtà, io vedo un desiderio di cambiamento nella gente, e soprattutto nei giovani, che sono la maggioranza della popolazione».
Chi ha oggi 40 anni, non ha visto che lui come capo di stato, che è al potere da 33. Negli ultimi tempi si è creato un movimento intorno al cantante Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, 37 anni, che ha iniziato a produrre canzoni politiche. Aumentata la sua popolarità, tre anni fa si è candidato in parlamento ed è stato eletto. Ora punta alla presidenza, con il suo movimento «People Power, our power», che si definisce «un gruppo di resistenza e di pressione, che vuole farla finita con gli abusi dei diritti umani e la corruzione in Uganda». Un movimento giovane, il cui leader, come spesso sta accadendo sul continente, è un cantante che ha veicolato il messaggio politico attraverso la musica. «Bobi parla del presidente Museveni come se fosse suo nonno. Un famoso testo – ricorda padre Leo – recita: “Nonno, è tempo che tu lasci il posto ai tuoi nipotini. Dovevi lasciarlo ai tuoi figli, ma adesso sei in ritardo. Stai tranquillo che tutto sarà sotto controllo”».
Padre Leo continua: «Bobi Wine parla chiaro. Dice che il popolo ugandese è giovane e vuole dei leader che parlino la sua lingua, che lavorino per lo sviluppo del paese. E per questo fa campagne e ha molta gente che lo sostiene. Il presidente Museveni lo teme e lo ha già fatto incarcerare più volte, con svariate scuse. Spesso le sue manifestazioni sono bloccate con il pretesto che non hanno il permesso. Salvo il fatto che quando il permesso viene richiesto è concesso in ritardo. Inoltre quando deve fare un concerto, le autorità cercano d’impedirlo, perché molte canzoni sono a sfondo politico e assembrano masse di giovani. Ad esempio, per la festa dei martiri ugandesi, quando è arrivato Bobi, c’era più di un milione di persone. È diventato pericoloso per il presidente».
Conclude padre Leo speranzoso: «Questo fenomeno ci fa dire che la voglia di cambiamento da parte del popolo giovane c’è, e speriamo che riesca a smuovere qualcosa».
Ugandesi social?
I giovani sono aiutati nella mobilitazione, anche politica, dalle nuove tecnologie. In particolare dai social network come Facebook (Fb) e i programmi di messaggistica come Whatsapp. «Infatti – spiega padre Bagenda -, quando ci sono crisi politiche, lo stato blocca i mezzi di comunicazione, a partire dai social, poi i telefoni. È il fenomeno noto come media blackout. I leader autoritari dicono a se stessi: “Fb e Whatsapp non ci portano da nessuna parte. I casi sono due: o li blocchiamo o li controlliamo”. Ma questo non si può fare, almeno non completamente. Inoltre su Fb la gente dice tutto quello che pensa, e usa anche un cattivo linguaggio. Ma adesso non è possibile tornare indietro, i giovani ovunque hanno il cellulare. In tante scuole, ad esempio, li fanno depositare all’ingresso, perché è un disturbo per le lezioni». Questo vale per le città. Nelle campagne la rete internet è più debole, ci spiega il missionario, e così anche la possibilità di collegarsi.
I cellulari sono anche molto utilizzati per il trasferimento di soldi (money transfer), e per il pagamento diretto di prodotti e servizi, abitudine che invece è ben diffusa nel vicino Kenya.
Il sogno americano
I giovani che vogliono lasciare l’Uganda per cercare una vita migliore altrove sono ancora molti. «Aumentano tutti gli anni – ci conferma il missionario – e oggi si emigra sotto forme diverse. Esiste ad esempio una migrazione organizzata verso i paesi della penisola arabica. Agenzie specializzate selezionano i ragazzi a Kampala e se li trovano idonei per alcuni lavori, di solito di basso livello, come guardiani, ecc., li reclutano e poi organizzano la documentazione necessaria e il viaggio stesso. Il pacchetto completo insomma.
Così all’aeroporto di Entebbe (Kampala) capita di vedere gruppi di ragazzi ugandesi, molto giovani, tutti con la stessa maglietta, che, come fossero in una vacanza studio, si imbarcano per un paese del Golfo. In realtà vanno a lavorare». Padre Leo non lo dice, ma uno dei rischi di chi va in quei paesi, soprattutto per le ragazze, è quello di finire sfruttati o schiavizzati.
Gli altri paesi di attrazione per gli ugandesi sono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, anche a causa dell’affinità linguistica. In questi ultimi, ci racconta padre Leo, si è diffusa la pratica del matrimonio di comodo: «Ho saputo di donne ugandesi che riescono a recarsi negli Usa con un visto turistico. Qui fanno un accordo con uomini cittadini statunitensi per sposarsi civilmente. In questo modo la donna ottiene il permesso di soggiorno. Nell’accordo la donna si impegna a restituire un debito, di solito 5-10mila dollari, al marito di comodo. La donna lavora e rimborsa a rate. Saldato il debito, e possono passare anni, i due richiedono il divorzio».
Padre Leo ci racconta che molti giovani, anche di classe media, finita l’università, anche se trovano lavoro in Uganda, poi fanno di tutto per migrare negli Usa. Alcuni utilizzano la scusa degli incontri internazionali del Rotary International: «Si iscrivono, passano alcuni anni come soci, poi prendono l’occasione di una convention in Canada o negli Usa. Come Rotary ottengono facilmente i visti. Ma una volta lì, si dileguano, diventando clandestini».
Negli Stati Uniti o in Canada non è detto che si riesca a inserirsi per le competenze che si hanno. Padre Leo ci racconta di un suo parente medico che, da diversi anni, lavorava in Uganda guadagnando poco. Ha voluto seguire l’esempio di un collega che era andato negli Usa. Là il collega, non potendo fare il medico in quanto la sua laurea non è riconosciuta, si era messo a lavorare come assistente in una casa di riposo, con un buon guadagno. Il parente del missionario è partito a sua volta. Ora si è integrato, ha un lavoro, una famiglia, una casa. Ovviamente non fa il medico.
«I giovani continuano a lasciare i nostri paesi perché hanno informazioni su altri e cercano una vita migliore. I ragazzi che muoiono in Libia o nel Mediterraneo sono disperati. Quando sono nel proprio paese sentono dire che la vita è migliore in Europa e decidono di correre il rischio. Secondo me, l’unico modo di evitare questo esodo, è appoggiare i paesi di origine, ma certo non è facile. Voglio dire che un ugandese non è attratto dalla prospettiva di andare a vivere in Kenya, perché il livello di vita è simile, ma in Europa sì. Il problema poi resta l’integrazione».
Marco Bello
Cronologia essenziale
Nel regno incontrastato di Museveni
1962, 9 ottobre – Proclamazione dell’indipendenza. Un anno più tardi l’Uganda diventa Repubblica.
1966, 22 febbraio – Colpo di stato del primo ministro Milton Obote con l’aiuto del generale Idi Amin.
1971, 25 gennaio – Colpo di stato del generale Idi Amin Dada, Obote si rifugia in Tanzania.
1972, settembre – Iniziano le violenze etniche contro Acholi e Lango. Obote cerca di riprendere il potere ma fallisce. Nel ‘74 iniziano campagne di persecuzioni contro etnie rivali di Amin e partigiani di Obote.
1976, 25 giugno – Idi Amin, che si è proclamato maresciallo, si nomina presidente a vita.
1978, ottobre – Inizio della guerra contro la Tanzania. Nell’aprile del 1979 l’esercito tanzaniano conquista Kampala, Idi Amin fugge in esilio. Si susseguono due presidenti (Yusuf Lule e Godfrey Binasa) insediati dal Fronte di liberazione nazionale dell’Uganda (Unlf) e una Commissione militare.
1980, 10 dicembre – Milton Obote vince le elezioni presidenziali.
1981, giugno – Yoweri Museveni fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra), braccio armato del Movimento di resistenza nazionale. L’Nra si oppone all’esercito governativo.
1986, 25 gennaio – L’Nra conquista la capitale e quattro giorni dopo Yoweri si proclama presidente.
1987, gennaio – Iniziano combattimenti nel Nord del paese a causa dei ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) comandato da Joseph Kony.
1993, 5-10 febbraio – Visita di Giovanni Paolo II.
1996, 9 maggio – Yoweri Museveni vince le elezioni presidenziali. Sarà rieletto nel 2001, 2006, 2011 e 2016 (quello attuale è il quinto mandato di 5 anni).
2005, 12 luglio – Il parlamento sopprime la limitazione ai mandati presidenziali.
2005, 6 ottobre – Mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro 5 capi dell’Lra, tra i quali Joseph Kony.
2006, 29 giugno – Firma di un accordo di responsabilità e riconciliazione tra governo e Lra. Il 31 luglio Kony incontra i rappresentanti del governo.
2006, 26 agosto – Firma a Juba (Sud Sudan) di un accordo di cessate il fuoco tra Lra e governo.
2010, 11 luglio – Doppio attentato a Kampala rivendicato dagli islamisti di Al Shabaab (76 morti).
2011, 22 novembre – L’Unione africana dichiara l’Lra «gruppo terrorista».
2013, 20 dicembre – Adozione di una legge molto dura nei confronti degli omosessuali.
2015, 3 gennaio – Cattura in Repubblica centrafricana di Dominic Ognwen, uno dei capi dell’Lra.
Ma.Bel.
Uganda in cifre
Superficie: 241.038 km2 (poco meno dell’Italia)
Popolazione: 42,8 milioni (2017) | Crescita demografica: 3,3%
Speranza di vita: 60 anni | Mortalità infantile (0-5 anni): 49‰ (2017)
Alfabetizzazione adulti: 73,8%
Lingue: ufficiali inglese e swahili, parlate tutte le lingue dei gruppi etnici, tra cui ancholi, kiganda, konjo, lusoga
Religioni: cattolici (44,6%), anglicani (39,2%), musulmani (10,5%), altri
Pil e crescita del Pil: 26 miliardi di dollari; 3,9% (2017)
Pil pro capite: 620 dollari / anno
Indice di sviluppo umano: 162° paese su 189 (2017)
Nel paese asiatico i cristiani sono il 2 per cento della popolazione. Spesso i più poveri e disprezzati. Le discriminazioni quotidiane, per molti, diventano vera e propria persecuzione che condanna a una vita di paura e stenti.
L’invito alla preghiera del muezzin sovrasta la voce del sacerdote durante la preghiera del mattino. È questa la prima immagine che abbiamo del Pakistan. Un’immagine altamente significativa di quella che è la realtà vissuta dai cristiani pachistani: cittadini di seconda classe, ospiti nella loro stessa patria.
La loro non è la semplice condizione di minoranza in un paese musulmano. Perché qui i meccanismi di una società a maggioranza islamica, di per sé discriminanti nei confronti delle minoranze religiose, incontrano il sistema castale indiano che emargina le caste inferiori, cui spesso i cristiani appartengono. Il tutto si traduce in miseria ed emarginazione in un contesto in cui la fede cristiana diviene un marchio a vita.
Visitando il Pakistan con una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre Italia, abbiamo avuto modo di conoscere dal vivo la realtà di questa piccola comunità – le stime ufficiali parlano di circa il 2% di cristiani a fronte di un 97% di musulmani – che, pur incontrando difficoltà quotidiane, conserva una fede incrollabile.
Tutti conoscono Asia Bibi, la donna condannata a morte per blasfemia che ha finalmente riacquistato la propria libertà dopo essere stata assolta. E molti hanno sentito parlare della cosiddetta legge antiblasfemia, che prevede l’ergastolo per chi profana il Corano, e la pena capitale per chi, come nel caso di Asia, è accusato di aver offeso il profeta Maometto. Ma è soltanto la punta di un iceberg. Perché la vita dei cristiani in Pakistan è fatta di discriminazioni quotidiane, di ingiustizia, di opportunità negate.
Autosegregazione
A Karachi, metropoli di oltre 20 milioni di abitanti, molti cristiani vivono in quartieri come quello di Essanagrì, che significa «quartiere di Cristo». Più di mille famiglie cattoliche abitano in case fatiscenti in vicoli al cui lato scorre una fognatura a cielo aperto.
I bambini giocano a piedi nudi nella sporcizia fino a quando non sono costretti a iniziare a lavorare anche a soli 10 anni. Nella piccola scuola elementare St. Mary gli alunni sono costretti a bere l’acqua sporca semplicemente filtrata, con un logico proliferare di malattie.
Come molti altri quartieri cristiani, Essanagrì è un vero e proprio ghetto. Ma per i cristiani spesso l’autosegregazione è una scelta obbligata.
La locale comunità è stata costretta a costruire un muro che separa il quartiere dal vicino insediamento musulmano. «Non è raro che i cristiani vengano attaccati – spiega il parroco, don Joseph Saleem -. Recentemente in questo quartiere sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani».
Eppure i cristiani mostrano apertamente e orgogliosamente la propria fede. Su ogni porta è dipinta una croce e la domenica la piccola e spoglia chiesa di Santa Maria è gremita al punto che molti fedeli devono ascoltare la messa dalle viuzze attigue. «Ogni domenica vi sono due messe, ma partecipano talmente in tanti che molti riescono a malapena a sentire le parole del sacerdote».
Nessun Dio all’infuori di Allah
«Non c’è nessun Dio all’infuori di Allah». Cartelloni come questo si trovano in tutta Karachi e ve n’è uno anche all’ingresso di Kuda ki basti (una basti è l’equivalente della nostra borgata), un quartiere che si sta sviluppando nell’area Nord della metropoli pachistana, oggi in rapida crescita.
Tra le strade del quartiere ancora in costruzione, i mega poster con il volto di Khadim Hussain Rizvi, invitano a unirsi alle fila del Tlp, il partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan da lui fondato.
Don Augustine Soares, parroco di San Giuda, ci mostra un piccolo lotto di terra dove spera possa sorgere al più presto la chiesa di San Barnaba. «La presenza di una chiesa in un quartiere è essenziale per i cristiani – ci spiega – se c’è una chiesa, i cristiani sanno che non verranno facilmente cacciati dalle loro case. Per loro è una garanzia».
Per il momento le messe sono celebrate in una piccola sala parrocchiale, altrimenti la chiesa più vicina è quella di San Giuda che – come abbiamo potuto verificare – si trova a oltre tre quarti d’ora di macchina.
Persecuzioni quotidiane
La presenza islamica si fa ancora più evidente quando raggiungiamo la parrocchia di San Giuda. In questo quartiere fino a 10-15 anni fa vivevano perlopiù famiglie cattoliche. Ma da quando queste sono andate via, soprattutto per motivi di sicurezza, l’area si è popolata di immigrati afghani.
Anche questa chiesa ha avuto la sua dose di persecuzione. Nel 1989 è stata profanata da giovani musulmani, mentre nel 2004 è stata incendiata. Infine nel 2009 alcuni talebani hanno attaccato sei abitazioni cristiane, uccidendo il piccolo Irfan Masih, di appena 11 anni.
Non è purtroppo l’unico caso in cui sono stati attaccati dei cristiani che vivevano in quartieri musulmani. Nel nostro soggiorno a Karachi, ad esempio, abbiamo incontrato Vikhram John, 25 anni, che nel settembre 2017 si è trasferito assieme alla sua famiglia nel quartiere K.D.A. Mahmoudabad di Karachi. Quella di Vikhram era l’unica famiglia cristiana dell’intero vicinato e non ci è voluto molto prima che fosse presa di mira. «Inizialmente ci dicevano che facevamo troppo rumore quando pregavamo – ci racconta il ragazzo cattolico -, poi hanno iniziato a lanciare sassi contro la nostra casa». Le intimidazioni, gli insulti e le angherie si sono fatte sempre più insistenti. Poi alcuni musulmani hanno minacciato di voler rapire e convertire forzatamente all’islam la sorella, obbligandola a sposare uno di loro. Il giovane cattolico ha fronteggiato quanti avevano espresso la minaccia, ma è stato picchiato al punto da perdere la vista all’occhio sinistro. «Oggi la famiglia di Vikhram è costretta a nascondersi – ci riferisce l’avvocatessa cattolica Tabassum Yousaf che assiste il giovane – mentre l’uomo arrestato per la sua aggressione è già fuori su cauzione».
Conversioni forzate
La stessa avvocatessa ci racconta quanto sia estesa la piaga dei rapimenti e delle conversioni forzate all’islam di giovani cristiane. «In questi giorni – riferisce in una telefonata al nostro rientro in Italia – sto seguendo il caso di Neha, una ragazza cristiana di appena 15 anni che vive a Itihad, un piccolo centro vicino Karachi». Il 28 aprile scorso, sua zia Sundas, convertitasi all’islam qualche anno fa, ha chiesto ai genitori di Neha il permesso di portare la ragazza all’ospedale dove era ricoverato suo figlio. I genitori si sono fidati della donna, ma era una trappola. La piccola Neha è stata costretta a convertirsi e a sposare un uomo di 45 anni, già sposato, il cognato della zia, che le ha usato violenza. Neha è riuscita a scappare soltanto giorni dopo grazie a una delle figlie del marito.
«Quella delle conversioni forzate è purtroppo una piaga che colpisce numerose famiglie – ci racconta la Yousaf che ha da poco costituito, assieme ad altri attivisti, un comitato interreligioso atto a denunciare e a gestire tali casi -. Ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze cristiane e indù vengono sequestrate, violentate e costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio stupratore. Il più delle volte la famiglia sa bene chi ha rapito la propria figlia, ma le ragazze vengono costrette con la forza a dichiarare che si sono convertite volontariamente. E quando ciò accade la polizia chiude il caso.
Molto spesso i familiari non sporgono neanche denuncia, perché gli aggressori musulmani li minacciano di accusarli di blasfemia. Dicono loro: “Se non smettete di cercare vostra figlia, strappiamo delle pagine del Corano, le mettiamo davanti casa vostra e diciamo che avete profanato il libro sacro. Così per voi sarà la fine”».
Ingiustizie sociali e giudiziarie
Essere cristiani in Pakistan, significa infatti anche avere meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza. A livello sociale, ma anche giudiziario.
Lo ha imparato a sue spese la famiglia di Sawan Masih, uno dei 25 cristiani che si trovano attualmente in carcere perché accusati di blasfemia. Sawan è stato accusato di aver offeso Maometto nel 2013 da un conoscente musulmano.
In seguito all’accusa, una folla ha dato fuoco all’intero quartiere cristiano in cui Sawan viveva, Joseph Colony a Lahore, distruggendo 200 case di cristiani e due chiese. Ma mentre gli 83 responsabili dell’attacco al quartiere sono stati tutti liberati su cauzione, Sawan è stato condannato a morte in primo grado nel 2014, e ancora attende il processo d’appello. Il processo viene infatti costantemente rimandato perché «il giudice incaricato è sempre impegnato in altre cause», come ci spiega l’avvocato del giovane cristiano, Tahir Bashir, che incontriamo a Lahore assieme alla moglie di Sawan, Sabia, che cresce da sola i loro tre figli.
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La schiavitù dei mattoni
Eppure Sawan è fortunato, perché, come ci riferisce Cecil Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace del Pakistan – organismo della Conferenza episcopale locale -, dal 1990 al 2017, ben 23 cristiani sono stati uccisi perché accusati di blasfemia, ancora prima di essere processati.
Tra loro Shama e Shahzad Masih, arsi vivi in una fornace di mattoni, assieme al bimbo che lei portava in grembo, il 4 novembre 2014.
Shama era stata accusata ingiustamente di aver bruciato alcune pagine del Corano. Così una folla di 400 persone li ha gettati tra le fiamme.
La tragica morte della coppia – che ha lasciato tre figli – ha messo in luce un’altra grave problematica: la schiavitù delle fabbriche di mattoni che colpisce anche numerosi cristiani.
Normalmente il processo di schiavizzazione ha inizio con un prestito elargito dal proprietario della fabbrica. Per ripagare il debito, spesso l’equivalente di due o trecento euro, necessari a dar da mangiare ai propri figli, intere famiglie lavorano per generazioni. Il debito non si estingue mai, in parte per la paga irrisoria percepita e, in parte, perché i proprietari delle fabbriche spesso ingannano i cristiani, nella quasi totalità dei casi analfabeti, dicendo loro che non hanno ancora restituito il dovuto quando invece è stato ampiamente saldato.
E poi sopraggiungono le malattie, la necessità di trovare i soldi per le doti delle figlie femmine, e così un circolo vizioso senza uscita.
Sono tra i due e i tre milioni i pachistani impiegati in questo settore redditizio soltanto per i proprietari delle fabbriche.
Tra i lavoratori, un alto numero di cristiani finisce in trappola, soprattutto a causa della discriminazione incontrata in ambito lavorativo.
Catene da spezzare
Abbiamo visitato una fabbrica di mattoni che si trova nella periferia di Lahore. La zona è quella di Karoul, nell’area Nord della città. Il viaggio in macchina è stato di circa un’ora, eppure sembra di essere tornati indietro di almeno un paio di secoli.
C’è odore di fumo, di immondizia bruciata, e il terreno è un misto di fango e sporcizia.
I lavoratori e le loro famiglie vivono in piccole stanze senza neanche il tetto, né servizi igienici. Molti di loro contraggono malattie, si feriscono gravemente sul lavoro, soffrono di gravi problemi respiratori a causa del fumo della fornace, mentre alcuni perdono addirittura la vita predisponendo il forno in cui vengono cotti i mattoni.
«In questi mattoni c’è realmente il mio sangue e il mio sudore», ci racconta Asif Masih, 30 anni, mentre ci mostra come realizza i pezzi disponendo il fango in una forma rettangolare adagiata su di una tavoletta che imprime su ogni mattone il logo della fabbrica.
Gli operai guadagnano una rupia per mattone e sono quindi necessari 160 mattoni perfettamente integri, per riuscire a guadagnare un solo euro. Inoltre se qualche pezzo si rompe o è imperfetto non viene conteggiato. I mattoni sono composti semplicemente da acqua e terra e disposti in lunghe file ad asciugare al sole prima di essere trasportate al forno. Durante l’inverno la pioggia scioglie tutti i mattoni, vanificando intere giornate di lavoro.
Assieme ad Asif lavorano anche la moglie Reema e Yousaf, 13 anni, il primo dei quattro figli della coppia. Molte famiglie, per riuscire a guadagnare un po’ di più, arruolano i figli già in tenerissima età. Gli altri tre figli di Asif e Reema, i piccoli Almas, 8 anni, Danish, 5, e Akas, 18 mesi, giocano poco distante con le pietre e il fango. Sembra un gioco, ma per loro, come per tanti altri, quel fango molliccio si trasformerà in catene impossibili da spezzare.
Marta Petrosillo portavoce di Acs Italia
Kenya: In viaggio con il vescovo «selvaggio»
Foto e testi di Daniele Romeo
Sole. Polvere. Calore. Il suono delle campane delle mucche. Il belato delle capre. Il sottofondo costante, ritmico, quasi ipnotico del canto di guerrieri Samburu, che si preparano a festeggiare l’evento dell’iniziazione alla vita adulta di un gruppo di ragazzi. Accade ogni quindici anni circa. È una scena affascinante, antica, quasi biblica. Come biblica è la figura di Virgilio Pante, the wild bishop, il «vescovo selvaggio», come lo chiamano nella diocesi di Maralal e come lui stesso ama definirsi.
Pante, come preferisce essere chiamato, è la mia guida e il mio «autista» instancabile alla scoperta del territorio abitato dalle etnie Samburu, Turkana e Pokot, in un safari fotografico che mi permetterà di conoscerlo e apprezzarlo insieme a un altro grande missionario poco convenzionale in un territorio difficile, isolato, al centro di eterni conflitti e dominato dalla filosofia dell’«Io, adesso»: monsignor Virgilio Pante e padre Aldo Giuliani, missionari della Consolata.
Il viaggio
Mi trovo nel Kenya del Nord, la Samburu County, nella diocesi di Maralal, per un viaggio fotografico esplorativo in un’area nella quale da decenni, esattamente dal 1952, operano i missionari della Consolata. Partito da Nairobi, sono arrivato a Maralal, dove monsignor Pante ha la sua sede. E da Maralal partirò, accompagnato dal missionario, alla scoperta delle missioni più remote della sua diocesi.
Lungo l’itinerario percepisco un’atmosfera fraterna, serena, fatta di amicizia e condivisione che solo il viaggiare in compagnia e col supporto di chi da sempre vive in simbiosi e sintonia con questa terra, può creare. Un senso di pace interiore mi fa sentire solidale con questi luoghi isolati. Siamo in una delle zone forse più difficili del Kenya, segnata dalla violenza causata dalla follia dell’uomo e dalla durezza e sobrietà di un ambiente naturale che pure è di sorprendente bellezza.
A decidere ogni singola tappa, villaggio e missione da visitare, per tutto il tempo al volante della sua Toyota 4×4, è il vescovo Pante, narratore instancabile e conoscitore di ogni angolo di quella che lui chiama la «sua sposa» (la sua diocesi) che ha attraversato in tutte le direzioni con la sua moto.
Monsignor Pante, la mitra, la Yamaha
Ordinato vescovo della diocesi di Maralal il 6 ottobre del 2001, è fiero di aver donato, un paio di anni fa, a papa Francesco la sua mitra in pelle di capra. Mitra che non rappresenta per lui solo un simbolo cristiano, ma uno stile di vita e la memoria della sua stessa esistenza in mezzo ai pastori samburu da quando nel 1972 iniziò la sua avventura missionaria in un territorio in bilico tra montagne e deserto e segnato dalla conflittualità delle tribù di pastori nomadi che lo abitano, sempre in competizione per le magre risorse.
Durante il nostro viaggio mi racconta che da quel lontano 1972, molte cose sono cambiate in meglio mentre molte sono peggiorate. Altre sono rimaste identiche, come la sua smisurata passione missionaria.
Allora quelle terre erano relativamente pacifiche, spazi infiniti e incantati tra gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati, come in un dipinto, dai pastori samburu al seguito delle loro greggi. A quel tempo era solo, lui e la sua motocicletta Yamaha, che ancora oggi custodisce gelosamente a Maralal e usa spesso e volentieri, non solo sulle strade e piste polverose del Nord.
Viaggiare nel Nord del Kenya non è agevole. Lontani solo poche ore da Nairobi, ci si addentra in zone con strade sterrate e prive di qualsiasi indicazione, sulle quali un fuoristrada non è certo un lusso. In questo ambiente, Pante si muove come nel giardino di casa, senza esitazioni, conoscendo a occhi chiusi il cammino che porta ai villaggi più isolati, alle manyatte (tipici insediamenti dei Samburu) immerse nel mezzo del nulla e alle missioni di Baragoi, Barsaloi, South Horr, Tuum e Sererit.
Veniamo accolti dai bambini. All’inizio ci fissano con i loro sguardi timidi e incuriositi, ma, dopo pochi attimi, ci circondano sorridenti festeggiando l’arrivo del vescovo. Grazie alla sua dimestichezza con le lingue samburu e swahili, il vescovo mi aiuta a godere di racconti, storie e leggende degli anziani dei villaggi.
La Suguta Valley e i conflitti etnici
«Cactus, alberi di acacia e polvere: sono le ultime cose che i militari della polizia keniota hanno visto quando sono stati uccisi in un’imboscata in uno dei luoghi più inospitali della terra». Queste le parole con cui Pante descrive la «valle della morte» quando l’osserviamo dall’alto andando verso Baragoi. Situato a Sud del lago Turkana e parte della Rift Valley, questo è uno dei luoghi più caldi e inospitali del mondo. La valle è stata ed è tuttora luogo di rifugio sicuro per razziatori di bestiame, sia Turkana che Samburu, che si rubano il bestiame a vicenda, un tempo solo per dare prova di coraggio contro il «nemico», oggi anche istigati da mestatori e trafficanti di bestiame.
Il conflitto tra Samburu, Turkana e Pokot è il tema dominante delle conversazioni con monsignor Pante. La riconciliazione è l’obiettivo della sua missione di vescovo. Sono decine gli episodi raccontati durante le lunghe ore trascorse in auto. Capisco così come la competizione per il bestiame e l’approvvigionamento di acqua e pascoli nella Samburu County sono oggi manifestazioni di contese e rivalità non solo di tipo etnico ma anche politico.
La cultura della razzia tra le comunità di Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Gabbra e Rendille è cambiata negli ultimi 40 anni. Mentre un tempo erano gli anziani i guardiani delle istituzioni tribali, oggi lo sono molto meno. Tra le fila delle comunità di pastori nomadi, sono emersi politici e astuti uomini d’affari pronti a sfruttare le rivalità tradizionali e l’oggettiva scarsità di risorse per scatenare le violenze e affermarsi. Queste lobby politiche e imprenditoriali giocano un ruolo determinante nel conflitto, pagando e armando i guerrieri. La competizione per la supremazia politica è strettamente intrecciata con quella per le scarse risorse idriche e dei pascoli tra Turkana, Samburu e Pokot. Le élite politiche armano le loro comunità non solo durante la stagione secca per prendere il sopravvento nella corsa alle risorse limitate, ma durante tutto l’anno, per sostenere politiche locali e contese tra leader delle diverse etnie.
A guadagnarci sono poi i trafficanti di bestiame che lo possono acquistare a prezzi irrisori e rivendere vantaggiosamente a Nairobi o addirittura in Medio Oriente.
Ma Pante è anche molto fiducioso nel cammino di riconciliazione da lui avviato. Il ruolo della Chiesa, la presenza dei missionari sempre più «neri» e la crescita del numero dei sacerdoti locali offrono a Samburu, Turkana, Pokot, strumenti che permettono di costruire una convivenza pacifica: il dialogo, la scuola, il mercato. Incontri di preghiera, condivisione e scambio tra anziani delle diverse etnie, bambini Samburu e Pokot che dormono, mangiano e giocano insieme nella stessa scuola-collegio, mercati intertribali, nuove scuole.
È un cammino lungo e difficile, ma lentamente sta portando risultati.
Dan Romeo
Scatti ed emozioni di un fotografo
U na serie di articoli fotografici, sotto il titolo «I viaggi di Dan», troveranno spazio su queste pagine per un po’ di tempo. Confesso che è emozionante per me avere l’opportunità di condividere con i lettori di Missioni Consolata la mia passione per la fotografia, i viaggi e le azioni umanitarie.
Mi auguro di riuscire a farvi partecipi di cosa c’è dietro al lavoro di un fotografo e viaggiatore umanitario. Ho vissuto esperienze con Onlus e Ong come la stessa Missioni Consolata Onlus, Unicef, Save the children e molte altre in 55 nazioni diverse.
Vorrei soprattutto farvi entrare in contatto con le realtà che ho visitato, tutte molto diverse dalla nostra, e con le situazioni vissute, ben lontane dalla quotidianità, dal comfort e dal consumismo a cui siamo abituati. Sarò felice di poter condividere con voi una passione che ha aperto per me nuovi orizzonti.
Chi è il fotografo umanitario
Essere un fotografo umanitario e documentare le attività di una Ong, non rappresenta solo l’opportunità di viaggiare
e di vedere decine di posti diversi in tutto il mondo, ma di provare, e poi trasmettere,
emozioni che difficilmente altri tipi di lavori
o di fotografia possono offrire: paesaggi, sguardi, profumi, odori, gioie, dolori.
I viaggi e la fotografia umanitaria sono uno strumento potente che può generare consapevolezza e cambiamenti nelle nostre vite.
Le immagini catturate dalle fotografie possono far sognare le persone e proiettarle in territori remoti, far comprendere popoli, tradizioni, condizioni di vita lontani dai nostri.
Ci sono poi sempre alcune immagini che, per il fotografo, segnano i singoli viaggi e reportage perché sono legate a momenti nei quali si è creata una connessione umana e un’empatia particolare con i soggetti ripresi. Sono quelle che condividerò con voi.
Il termine è inglese e significa «divario», differenziale tra i titoli di stato di un paese (per esempio, l’Italia) e quelli di un altro (per esempio, la Germania). Minore è la fiducia nel paese che ha emesso quei titoli, più alto sarà il differenziale. È esagerata l’attenzione concessa allo spread? No, perché il suo meccanismo (perverso) porta conseguenze reali per tutti. Cerchiamo di capire come e perché.
Ci sono parole oscure che ci piombano addosso dal niente e hanno il potere di terrorizzarci. Una di queste è «spread», parola che si è affacciata nella nostra vita nel 2011 e da allora non ci ha più abbandonati. Non che prima non esistesse, ma circolava solo in ambienti ristretti e specialistici, per cui non ci coinvolgeva.
Abbiamo sempre visto questo termine associato al debito pubblico e, nel nostro immaginario, si è radicata l’idea che se sale porta tormenta, se si riduce torna il bel tempo.
Ma di cosa parliamo esattamente? Non è semplice dirlo, prima di tutto perché non è un vocabolo costruito per noi, intendo dire noi comuni cittadini che ci alziamo al mattino, andiamo in ufficio o in officina e viviamo di ciò che guadagniamo dal nostro lavoro. No, la parola spread è stata coniata a uso e consumo degli operatori finanziari e per capire di quale messaggio è portatrice, bisogna aprire un po’ di parentesi. La prima di queste riguarda la finanza pubblica.
Prestare allo stato
Il canale normale di finanziamento dei governi è quello fiscale, ma quando per questa via essi non riescono a coprire l’intero fabbisogno, allora ricorrono ai prestiti bancari, se non dispongono di sovranità monetaria.
Per lasciare traccia dei prestiti ricevuti, i governi rilasciano dei certificati, titoli su cui sta scritto l’importo da restituire, la data di scadenza, l’interesse riconosciuto. Si tratta dei famosi titoli del debito pubblico che a seconda delle loro caratteristiche assumono nomi diversi. Nel caso italiano il ventaglio comprende i Buoni ordinari del tesoro (Bot), i Buoni del tesoro poliennali (Btp), i Certificati di credito del tesoro (Cct) e altre varietà ancora. La parola «tesoro» ricorre costantemente perché l’organismo governativo addetto al reperimento dei prestiti è il ministero del Tesoro che oggi si chiama ministero dell’Economia e delle Finanze.
Dal momento che i certificati hanno assunto il ruolo di controfigure dei prestiti, hanno finito per prendersi tutta la scena ed ormai è solo di loro che si parla in tutte le operazioni che chiamano in causa i prestiti richiesti e/o ottenuti dai governi. Ad esempio, le operazioni attivate per chiedere prestiti, sono state battezzate «operazioni di collocamento dei titoli» che in Italia avvengono tramite apposite aste. Di fatto succede che lo stato annuncia di essere alla ricerca di una certa quantità di prestiti e che prediligerà i soggetti che richiedono i tassi di interesse più bassi. Va precisato, tuttavia, che le aste non sono aperte a tutti, ma a pochi soggetti, così detti specialisti in titoli di stato, che possono intervenire per sé o per conto di terzi. All’aprile 2019 erano meno di venti e comprendevano UniCredit, Monte dei Paschi, Deutsche Bank, Barclays Bank, Goldman Sachs.
Questo primo livello di vendita, che vede come protagonista lo stato alla ricerca di prestiti, è definito mercato primario. Ma accanto ad esso si è sviluppato anche un altro circuito di compra vendita che è stato definito mercato secondario dei titoli. Per capirlo bisogna abbandonare certi stereotipi che abbiamo rispetto alla macchina dei crediti. Nel nostro immaginario chi ha prestato dei soldi non ha altro modo per riaverli se non aspettando che il debitore li restituisca alle scadenze prefissate.
Entrano gli speculatori
Nel mondo reale le cose non funzionano così: le somme date in prestito si possono recuperare anzi tempo cercando altri soggetti disposti a diventare creditori al posto proprio.
Nel caso dei titoli di stato l’operazione avviene tramite la vendita dei titoli posseduti. Con questo passaggio di proprietà il creditore dello stato cambia, ma a quest’ultimo importa poco perché le condizioni di rimborso rimangono quelle pattuite in partenza. Del resto lo stato sa che prima di arrivare a scadenza, i suoi titoli possono cambiare di mano infinite volte perché attorno a essi ruotano gli speculatori. Soggetti, cioè, che comprano titoli non perché siano interessati a trattenerli, ma per guadagnare sulle variazioni del loro prezzo. Un po’ come fa lo speculatore di case: non compra abitazioni perché sia senza alloggio, ma perché spera di poterci guadagnare rivendendole qualche tempo dopo a un prezzo più alto.
Valore nominale e valore reale
Il fatto che sul mercato secondario i titoli di stato possano cambiare di prezzo ci costringe a segnalare che il valore dei titoli può essere espresso sotto due forme. Da una parte il valore nominale che è quello scritto sul titolo e che corrisponde all’importo che lo stato restituirà alla scadenza. Dall’altra il valore reale che corrisponde al prezzo di scambio in vigore sul mercato. Prezzo determinato dalle dinamiche della domanda e dell’offerta: alto se il titolo è molto richiesto, basso se poco desiderato.
A quanto ammonti il numero di titoli di stato scambiati quotidianamente forse nessuno lo sa, ma tutti concordano che si tratta di una cifra elevata. Per questo si sono sviluppati degli indicatori per fare capire a colpo d’occhio come si muovono sul mercato i prezzi dei titoli di stato di ogni singola nazione.
Lo spread e lo stato
Uno di questi è lo spread che, a onor del vero, è piuttosto cervellotico perché riflette la mentalità dell’investitore tutta concentrata sul guadagno. Cominciamo col dire che «spread» è una parola inglese che significa divario, differenziale, discrepanza. In effetti lo spread è il frutto di un confronto: indica la differenza di guadagno che si ottiene investendo sul titolo maggiormente richiesto, generalmente il Bund tedesco, e su quello del paese preso in considerazione. Si misura in punti base dove un punto corrisponde allo 0,01 di rendimento. Per cui se l’investimento nel Btp italiano a 10 anni rende il 3% e quello nel Bund tedesco rende l’1%, lo spread del titolo italiano è di 200 punti base. Se sale a 500, come è successo nel 2011, vuol dire che la differenza di rendimento fra i due titoli è al 5%.
Fin qui il ragionamento è piuttosto lineare.
Rendimento e rischio
Le complicazioni arrivano se tentiamo di capire in che modo lo spread dà indicazioni sul prezzo e perché la sua crescita è motivo di preoccupazione per il paese bersaglio. I due temi sono collegati: se capiamo l’uno, capiamo anche l’altro. Concentriamoci sulla relazione fra prezzo e rendimento, partendo dalla nascita del titolo. Su di esso ci sono tre numeri che rimangono tali fino alla morte: la durata, il valore nominale e il tasso di interesse. Se il suo valore nominale è 100 euro, la durata 12 mesi e il tasso di interesse 3%, quel titolo frutta 3 euro. Quei tre euro sono indiscutibili, ma a seconda del prezzo pagato sul mercato secondario assume un diverso valore percentuale. Se, ad esempio, il giorno dopo l’emissione viene ricomprato a 90 euro, il vero tasso d’interesse sarà del 3,3%. Da cui l’analogia: spread in crescita prezzo in discesa. A cui segue una seconda analogia: prezzo in discesa, fiducia ridotta.
In effetti, la ragione per cui certi titoli si deprezzano è legata al fatto che si riduce il numero di coloro che li vogliono. Ragione spesso dovuta alla paura che il paese che ha emesso il titolo non dia sufficienti garanzie di solidità e quindi di restituzione del capitale e dell’interesse. Così lo spread da «indicatore di rendimento» si è trasformato in «indicatore di rischio paese». Esprime la fiducia del mercato sulla capacità dei singoli governi di restituire i prestiti ricevuti: spread alto fiducia bassa, spread basso fiducia alta. Ed è proprio il tema della fiducia che genera preoccupazione nei governi ed ha trasformato lo spread in un ricatto. Preoccupazione non tanto per i titoli in circolazione, quanto per quelli di futura emissione. Il mercato, infatti, aspetta i governi deboli al varco e quando si presentano per collocare titoli di nuova emissione ricorda loro che attraverso la caduta dei prezzi, il mercato li ha giudicati debitori poco affidabili, ossia più rischiosi. Quindi, se vogliono nuovi denari, devono essere disposti a pagare tassi di interesse più alti, perché così esige il mercato: a rischio elevato deve corrispondere compenso elevato. Ed ecco la spirale: spread più alti generano spesa per interessi più alti e quindi debito più alto in una rincorsa alquanto pericolosa. Lo abbiamo sperimentato nel 2012 quando la spesa per interessi crebbe dell’11% a seguito del tracollo dei nostri titoli avvenuto nel 2011.
I riflessi sulle banche
Oltre che per il futuro dei bilanci pubblici, lo spread che cresce mette paura anche per le ricadute sul costo dei mutui a interesse variabile. Ancora una volta la connessione è piuttosto tortuosa e passa attraverso il fatto che i tassi sui mutui risentono del tasso di interesse che le banche applicano sui prestiti che si fanno fra loro.
Anche nei rapporti fra banche vige la regola secondo la quale a minore affidabilità corrispondono interessi più alti.
Succede che, se i titoli del debito pubblico dello stato italiano risultano svalutati, anche la posizione delle banche italiane si fa più debole. Non bisogna dimenticare, infatti, che le banche italiane detengono circa il 26% del debito pubblico italiano e, se questo si svaluta, automaticamente anche il capitale delle banche risulta compromesso. Di conseguenza sono più fragili: quando si presentano presso le altre banche per ottenere esse stesse dei prestiti, pagano il prezzo della loro debolezza tramite il pagamento di interessi più alti che puntualmente poi riversano sui loro clienti.
Dunque, il timore per lo spread è giustificato. Non è invece giustificata la nostra ostinazione a mantenere la testa fra le fauci del mercato.
Francesco Gesualdi
Lo spread Btp-Bund: Quel numero fatidico
Ormai gli italiani si sono abituati a sentire dai telegiornali frasi del tipo: «Oggi lo spread è salito a…», «lo spread è tornato sotto la soglia di…».
Il 30 dicembre del 2011 esso arrivò al picco di 528 e costò la poltrona di primo ministro a Silvio Berlusconi (che da allora parla di «colpo di stato internazionale» ai suoi danni).
Oggi (luglio 2019), dopo una nuova altalena dovuta alle incertezze sull’economia italiana, lo spread si attesta poco sopra i 200 punti base. Ma – ne siamo certi – questo è un numero destinato a subire nuovi scossoni.
Gioie e fatiche di camminare insieme
All’inizio del capitolo sesto degli Atti degli Apostoli la chiesa sembra stabilizzata: ha subito alcune persecuzioni, che però non l’hanno sconvolta troppo; ha già una sua struttura interna, molto minimale, con l’abitudine di mettere in comune i beni perché i poveri possano essere sostenuti. E il numero dei discepoli continua ad aumentare. Sorge però un problema, apparentemente secondario, che invece è serio e, soprattutto, è sintomo di una realtà molto più complicata di quanto non ci verrebbe da immaginare: «Gli ellenisti mormorarono contro gli ebrei perché nella distribuzione quotidiana venivano trascurate le loro vedove» (At 6,1).
Luca vuole presentare la comunità ideale senza però nascondere le tensioni interne e i problemi reali che continueranno a riproporsi nella chiesa di tutti i tempi: ecco, dunque, che ci lascia degli indizi per capire che anche la prima chiesa, pur idealizzata, non presenta solo rose e fiori.
Ebrei ellenisti a Gerusalemme
Luca può dare per scontato che i suoi contemporanei conoscano abbastanza bene una realtà che per noi è invece lontana e difficile da immaginare.
L’impero romano, nella sua espansione, porta una riduzione delle autonomie e una tassazione più rigorosa, ma porta anche una legge prevedibile e affidabile che, pur non uguale per tutti, concede addirittura a dei provinciali di denunciare il proprio procuratore romano, se disonesto, con una certa speranza di vincere la causa. Il tutto sostenuto da ordine pubblico e strade che fanno crescere la ricchezza, soprattutto per i commercianti.
Un discreto numero di ebrei, con conoscenze e agganci in tutto il Mediterraneo, approfitta di questa opportunità.
Diventano relativamente numerose le famiglie ebree i cui i figli (principalmente maschi, ma non solo) si dedicano al commercio a tempo pieno. Spesso questi decidono di sposarsi solo avanti nella vita, dopo aver raggiunto una certa solidità economica e, di solito, con mogli molto più giovani di loro. Tra questi non pochi, più avanti ancora nell’età, lasciano la gestione degli affari ai figli più grandi e si ritirano con mogli e figli più piccoli a recuperare ciò che fino ad allora hanno dovuto tralasciare: per alcuni è il lusso, ma per altri, persino più numerosi, è la dimensione spirituale. E deve essere attraente, per un ebreo del I secolo d.C., in una situazione di serenità economica e politica, ritirarsi a Gerusalemme, nella città santa, accanto al tempio, per essere sepolto subito fuori dalla città, così da essere tra i primi a risorgere all’arrivo del messia. Non è un caso che in quel tempo i prezzi dei sepolcri intorno a Gerusalemme spiccano il volo: la regione, di suo, non è ricca, ma chi arriva da fuori è pieno di soldi che lì rendono ancora di più e che vengono facilmente investiti in case e sepolcri. Ai contemporanei degli evangelisti non sfugge che essere posti, come Gesù, in un sepolcro appena scavato, mai usato, subito fuori dalle mura della città, è un evento da privilegiatissimi: Gesù muore da scarto umano e viene sepolto da re.
Possiamo solo immaginare come venga vissuta questa «invasione» di persone che condividono, sì, la religione, ma che sono ricche, forestiere e si sentono superiori, tra l’altro senza conoscere la lingua del posto. Se a Gerusalemme infatti si parla ancora ebraico o forse aramaico, la maggior parte degli ebrei nuovi immigrati parla soprattutto le lingue delle zone da cui proviene, oltre forse al latino e sicuramente al greco, se questa non è già la lingua madre. «Ellenista» (che è la vecchia traduzione della Bibbia della Cei) significa in effetti «di lingua greca» (come ci dice la nuova versione).
I nuovi immigrati ricchi sono già attempati e si portano dietro mogli più giovani e i figli minori. È normale quindi che muoiano per primi, lasciando delle vedove che dipendono dalla benevolenza del tempio e dei figli cresciuti tra terme, palestre e vita mondana, che si ritrovano in una piccola cittadina dominata dal tempio e dalla carità dei sacerdoti… I nuovi immigrati sono ricchi, certo, ma di una ricchezza che non si rinnova e che è destinata a finire, incastrati in una regione che non permette loro di riprendere ad arricchirsi.
I «diaconi» (At 6,2-6)
Sono questi «ellenisti» a lamentarsi. Il verbo usato, mormoravano, ricorda le lamentele degli ebrei nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Sembra di sentire la reazione degli ebrei di Giudea, che li vedono come degli esiliati, scappati dal mondo esterno cattivo e persecutore, che osano anche lamentarsi della terra promessa nella quale sono stati accolti.
Che le vedove elleniste siano trascurate, peraltro, è scontato. Non sono probabilmente ben viste, non avendo un uomo che le protegga (mancanza già pesante nel mondo greco, ma peggiore in Giudea) e non parlando la lingua del posto, per cui probabilmente non hanno neppure quei contatti che possono offrire loro delle garanzie di assistenza o di tutela.
Può stupirci, tuttavia, che il problema esista anche tra i cristiani. Potevamo pensare che la nuova fede trasformasse tutto (come sogna Paolo di Tarso: Col 3,11), ma evidentemente il legame linguistico e culturale è più importante di quello religioso. Prima di essere cristiane, queste vedove sono elleniste. E restano marginalizzate.
La loro lamentela raggiunge però le orecchie dei Dodici, che ovviano al problema. Come? Facendo attenzione anche a loro? No. Limitandosi a nominare alcuni responsabili che si occupino del problema. La bella notizia, ci verrebbe da dire, è che tra i cristiani le lamentele vengono ascoltate e vi si pone rimedio; la cattiva è che non si pensa di integrare meglio queste vedove ellenistiche, ma di nominare alcuni che si occupino di loro, lasciandole nella loro emarginazione, anche se, almeno, un po’ meno povere.
Non stupisce che i nomi dei sette incaricati di servire (diakoneo è il verbo usato; li chiamiamo «diaconi» ma in realtà negli Atti non sono mai chiamati così) abbiano tutti nomi greci. È vero che il mondo greco era affascinante e anche tra i dodici discepoli galilei di Gesù alcuni avevano nomi greci (Andrea, Filippo), ma qui lo sono tutti e sette.
Stefano (At 6,8-15)
Dunque vengono nominate sette persone perché provvedano a dare cibo a povere vedove straniere?
Più o meno. Due sono quelli di cui si racconti qualcosa di più del nome, uno è Filippo, a cui è dedicato poi il capito 8 degli Atti. L’altro è Stefano, del quale non si dice che distribuisca pane, ma che opera prodigi e segni (At 6,8), esattamente come Gesù (Lc 10,13). Predica ricolmo di Spirito e sapienza, come Gesù (Lc 2,52; 21,15 lo promette per i discepoli). Viene accusato da falsi testimoni di aver bestemmiato contro Mosè e la legge, come Gesù. Viene portato davanti al sinedrio, come Gesù. E si presenta sereno e luminoso come Gesù (At 6,15).
Stefano non solo al prezioso servizio della carità, quindi, ma globalmente al servizio del Vangelo. E si comporta in tutto come il suo modello, Gesù di Nazaret.
Il grande discorso (At 7)
Di fatto Stefano è ricordato dagli Atti degli Apostoli soprattutto per due motivi: il suo martirio (è il primo cristiano a morire per la propria fede) e il suo lunghissimo discorso, tra i più lunghi del libro, nel quale parla quasi solo dell’Antico Testamento. Ricorda che Dio era con Abramo in Mesopotamia (7,2), con Giuseppe in Egitto (7,9), con Mosè sul Sinai (7,30-33), sempre lontano dalla Terra promessa, che i primi patriarchi non avevano ottenuto in eredità (7,5): ossia, Dio non è legato a un luogo. Peraltro, quando gli ebrei si sono legati ad un culto, questo è diventato presto idolatrico (7,41-43: dal vitello d’oro in poi). Insomma, Dio era con Israele quando il tempio non c’era (7,45-46), mentre la costruzione del tempio da parte di Salomone è stata sostanzialmente un fraintendimento della volontà divina (7,48-50), perché Dio non risiede in costruzioni umane: addirittura, «fatto da mano d’uomo» (v. 48) era la definizione degli idoli. E ciò che era accaduto ai tempi antichi, il rifiuto dei veri profeti di Dio, si è rinnovato con Gesù (7,51-53).
Il discorso è il più violento attacco contro il tempio condotto a partire dall’Antico Testamento dall’interno del mondo ebraico. Non ci sarà più niente di simile in tutto il libro degli Atti. E non dimentichiamoci che Pietro e gli altri continuavano a frequentare il tempio (At 3,1). Si potrebbe pensare che il risentimento di Stefano dipendesse dalla sua storia familiare? Può darsi, ma intanto le argomentazioni sono scritturistiche, l’inutilità del tempio è dimostrata a partire dall’Antico Testamento, ed è un’inutilità che non era saltata fino ad allora agli occhi dei cristiani.
Il primo martire (At 7,54-60)
Chi ascolta Stefano capisce la portata del suo discorso. E reagisce come forse è inevitabile che accada. Stefano ha appena affermato che il tempio, «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora tra gli uomini» (Dt 12,5; Ez 37,27), è considerato inutile da Dio. Per i Giudei è una blasfemia, punibile con la pena di morte, sostenuta per di più con argomenti biblici, quindi è ancora più incisiva e offensiva. Infatti, Stefano non viene giustiziato in modo regolare, benché venga ascoltato davanti al sinedrio, ma viene linciato.
E muore come il suo Signore, affidando il proprio spirito a Gesù (At 7,59) come Gesù lo aveva affidato al Padre (Lc 23,46) e perdonando chi lo uccide (Lc 23,34; At 7,60), vedendo Gesù già pronto ad accoglierlo in paradiso accanto al Padre (At 7,56).
Assiste alla scena un Saulo (At 7,58) che viene citato per la prima volta ma diventerà importantissimo negli Atti: come fa spesso, Luca si prepara con intelligenza gli sviluppi successivi.
Ieri come oggi
È umano idealizzare gli inizi, pensare alla prima generazione cristiana come a un tempo paradisiaco. Luca stesso, che scrive gli Atti degli Apostoli, ci invita a guardare a questa comunità come un modello.
Ma questo modello non è perfetto. La divisione tra ellenisti ed ebrei, che vigeva a Gerusalemme, si ritrova anche tra i cristiani. Quando gli ellenisti si lamentano, gli ebrei non pensano anche a loro, ma incaricano alcuni al posto loro. E non sembra che nessuno si sia mosso, tra i «giudei» (ossia, tra i cristiani che erano originari della Palestina), per difendere Stefano o gli ellenisti. I quali, da parte loro, fanno sorgere il sospetto di essere mossi all’odio per il tempio più dalla loro vicenda personale che da ragioni teologiche, anche se poi elaborano anche queste. Se fossimo stati contemporanei di Stefano, probabilmente lo avremmo definito attaccabrighe ed esagerato.
Ma lo Spirito si muove anche dentro a queste tensioni umanissime, Dio scrive dritto anche su righe storte, la chiesa cresce anche grazie al sangue di Stefano, il quale potrà anche sembrare eccessivo, ma paga con la propria vita, e il suo martirio si fa a immagine della morte di Gesù, perché sia più chiaro che con il suo Signore risorgerà.
Non tutto nella nostra chiesa è perfetto, ma questo vale anche per la prima generazione cristiana. E lo Spirito si muove anche nelle nostre imperfezioni.
La tratta e l’attualità dello sfruttamento in Italia:
La schiavitù non è finita
La tratta di esseri umani è uno dei crimini più gravi. Oggi, nel mondo, circa 40 milioni di persone ne sono vittime. E l’Italia non ne è esente, anzi, cresce la tratta negli ambiti dello sfruttamento sessuale, agricolo e domestico. Questo fenomeno è diverso dal traffico dei migranti. Il decreto sicurezza del governo gialloverde complica ulteriormente la situazione, rendendo ancora più vulnerabili i soggetti deboli.
La tratta degli esseri umani e la riduzione in schiavitù delle persone non è un fenomeno relegabile a una pagina chiusa della storia. È una questione di grandissima e terrificante attualità che riguarda anche l’Italia come paese di origine, transito e destinazione dei nuovi schiavi.
La tratta degli esseri umani, infatti, è un fenomeno globale che – secondo le Nazioni unite – riguarda tutti i paesi del mondo. Un fenomeno tragico e complesso che coinvolge milioni di donne, uomini e bambini, usati principalmente come manodopera a bassissimo costo o sfruttati sessualmente. La tratta oggi è uno dei crimini più spaventosi e una delle più gravi violazioni dei diritti umani: un «crimine contro l’umanità», lo ha definito papa Francesco che non si stanca di denunciare le nuove orribili pratiche di schiavitù e di invitare tutti a liberare e proteggere le vittime.
Ma come si configura oggi il fenomeno della tratta di esseri umani? Per molti versi non diversamente da come si realizzava nei secoli passati il traffico degli schiavi africani verso le Americhe. Ovvero attraverso tre passaggi: quello del reclutamento, quello del trasferimento e quello del grave sfruttamento. Il «Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini», conosciuto come Protocollo di Palermo, messo a punto nel 2000 ed entrato in vigore nel dicembre del 2003 – definisce i termini e la complessità di questo fenomeno.
La definizione della tratta
«Tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi […] Il consenso della vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui [sopra] è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi di cui sopra sia stato utilizzato».
Protocollo di Palermo, 2000. Protocollo delle Nazioni Unite
sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani,
in particolar modo donne e bambini.
Nel mondo: chi sono
Secondo l’UfficioOnu contro la droga e il crimine (Unodc), circa 40 milioni di persone nel mondo sono vittime di tratta, prevalentemente a scopo di sfruttamento sessuale (59%) e lavoro forzato (34%), ma anche per altre finalità: espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni forzati (12 milioni di bambine ogni anno), reclutamento di bambini soldato o per gruppi terroristici, adozioni illegali e gravidanze surrogate commerciali.
Nel presentare il rapporto globale di Unodc, lo scorso 7 gennaio, il direttore esecutivo, Yury Fedotov, ha sottolineato due trend inquietanti emersi dalle informazioni raccolte in 142 paesi e specialmente nelle zone di conflitto: «Bambini soldato, lavoro forzato e schiavitù sessuale – la tratta di esseri umani ha assunto dimensioni orribili da quando gruppi armati e terroristi la utilizzano per diffondere paura e ottenere vittime da offrire come incentivi per reclutare nuovi combattenti», ha affermato. «Questo rapporto mostra che dobbiamo intensificare l’assistenza tecnica, rafforzare la cooperazione, sostenere tutti i paesi per proteggere le vittime e assicurare i criminali alla giustizia e raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile».
Purtroppo, anche il paradigma delle cosiddette «quattro P» – prevenzione, protezione, persecuzione e partenariato -, condiviso a livello internazionale per la prevenzione del fenomeno, la protezione delle vittime, il perseguimento giudiziario dei criminali e la promozione di un lavoro più coordinato e in rete tra stati, ma anche tra pubblico e privato, viene disatteso a più livelli. La dimostrazione è che il fenomeno non solo continua a crescere, ma si aggrava, coinvolgendo, ad esempio, un numero sempre maggiore di minorenni. È questo l’altro elemento inquietante che emerge dall’ultimo rapporto di Unodc: un terzo delle vittime del traffico di esseri umani è costituito da bambini, il 5% in più rispetto al periodo compreso tra il 2007 e il 2010. Le bambine rappresentano più dei due terzi dei minori coinvolti (il 23% del totale) e il loro numero è in crescita: con le donne rappresentano il 72% delle vittime. Negli ultimi trent’anni, circa 30 milioni di bambini sono stati coinvolti nella tratta; molti di più, circa 152 milioni – secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) – sono schiavi nei loro stessi paesi di origine. Non sono, dunque, «tecnicamente» vittime di tratta, ma sono comunque costretti a lavorare in condizioni servili e di grave sfruttamento specialmente nei settori dell’agricoltura (70.9%), dei servizi (17.1%) e dell’industria (11.9%).
Il traffico e la tratta di esseri umani
Anche l’Italia non può dirsi un paese libero dalle nuove schiavitù. E non da oggi.
Il fenomeno si è strutturato nell’arco di oltre trent’anni, ma ha assunto proporzioni più rilevanti negli ultimi tempi, in seguito all’arrivo di migliaia di migranti sulle coste meridionali del nostro paese. Tra di loro ci sono anche molte vittime di tratta, in particolare giovani donne nigeriane che vengono poi costrette a prostituirsi.
Bisogna però distinguere fra traffico e tratta. Secondo Europol, circa il 90% di coloro che hanno raggiunto l’Europa in questi ultimi anni lo ha fatto affidandosi a criminali (smuggler o passeur) che, in cambio di soldi, ha permesso loro di superare le frontiere degli stati dell’Est Europa o di attraversare il Sahara e il Mediterraneo. La fuga dei siriani dal loro paese in guerra – per fare un esempio – poteva arrivare a costare anche 10mila euro a testa.
Solo nel 2015, il traffico di migranti (smuggling) da Medio Oriente e Africa ha fruttato al crimine organizzato circa 6 miliardi di euro. Europol stima che questo business illegale sia il più lucrativo nel Vecchio Continente, ancor più del traffico di droga, e che vi sarebbero implicati circa 30mila trafficanti.
La tratta (trafficking) prevede non solo il traffico, ma il grave sfruttamento: ovvero la riduzione delle vittime in una condizione di vera e propria schiavitù. In Italia, il fenomeno riguarda soprattutto
due macro aree: quella dello sfruttamento sessuale e quella dello sfruttamento lavorativo. Anche se sono presenti situazioni gravi riguardanti l’accattonaggio forzato (in crescita), l’espianto di organi, le adozioni illegali e la servitù domestica.
Quello della tratta e dello sfruttamento sessuale in Italia è una piaga che riguarda dalle 30 alle 50mila donne straniere, tra le quali un numero significativo di nigeriane, ma anche di ragazze provenienti dall’Europa dell’Est, dall’America Latina e dalla Cina. Negli ultimi tempi, tuttavia, il fenomeno ha assunto caratteristiche inedite, soprattutto in seguito allo sbarco massiccio di migliaia di giovani nigeriane arrivate attraverso la rotta del Sahara, della Libia e del Mediterraneo centrale.
A partire dal 2014, e con punte record nel 2016 (11mila), il numero delle donne nigeriane è aumentato esponenzialmente. Sono, oltre 20mila, infatti, quelle arrivate con gli sbarchi, e tra di loro un numero significativo di minorenni e di donne incinte o con bambini molto piccoli.
La maggior parte – seguendo le istruzioni dei trafficanti – ha fatto richiesta di asilo ed è finita nei centri di accoglienza straordinari (Cas) o nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), in attesa del riconoscimento della protezione umanitaria (abolita dal decreto sicurezza, 5 ottobre 2018, poi trasformato in legge il 27 novembre) o dell’asilo. Mentre si trovavano in queste strutture – che per loro natura non sono ad alta protezione -, i trafficanti hanno trovato il modo di costringere molte di queste donne a prostituirsi per restituire un «debito» che attualmente si aggira in media attorno ai 25-30mila euro. Si tratta sostanzialmente della somma che queste donne riescono a racimolare nei tempi di permanenza nelle strutture (un anno e mezzo circa), mentre in passato, poteva anche andare dai 60 agli 80mila euro.
I trafficanti, in sostanza, hanno trovato il modo di «sfruttare» non solo le donne, ma anche il sistema di accoglienza italiano per realizzare i loro turpi guadagni.
Solo una piccola parte delle donne nigeriane sbarcate, infatti, sono state individuate come vittime di tratta o potenziali tali e indirizzate verso i percorsi specifici del «Piano nazionale anti tratta» che – messo a punto nel 2014 – è stato rifinanziato lo scorso marzo.
Agricoltura biologica? No, schiavista
In questi ultimi anni, si è molto aggravato in Italia anche il fenomeno dello sfruttamento lavorativo che, solo in campo agricolo, riguarda circa 132mila lavoratori. Si tratta in gran parte di giovani uomini immigrati, ma anche di italiani e italiane, che si trovano in condizioni di povertà, mancanza di opportunità e pesante vulnerabilità. Secondo il «Quarto rapporto agromafie e caporalato» pubblicato dell’OsservatorioPlacido Rizzotto di Flai-Cgil del luglio 2018, sarebbero addirittura 400/430mila i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale. Non tutti possono essere definiti «vittime di tratta», perché tra essi si segnalano anche nostri connazionali, ma anche perché tra gli stessi migranti ci sono situazioni variegate e complesse. Tutti, però, possono essere considerati veri e propri «schiavi». Quando si parla di grave sfruttamento lavorativo, infatti, non si sta facendo riferimento semplicemente al lavoro nero. È lavoro in condizioni servili, in cui le persone sono private della loro libertà e dignità, subiscono abusi, minacce e ricatti, e ovviamente vengono retribuite in maniera del tutto inadeguata.
Oltre al settore agricolo, il lavoro in condizioni servili diffuso in tutto il paese riguarda diversi altri ambiti: edilizia, servizi domestici e di cura, settore turistico alberghiero, ristorazione, fabbriche e commercio ambulante.
La nuova legge sul caporalato dell’ottobre 2016 (n. 199), recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo», riformula il reato di caporalato, introducendo una fattispecie base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori e prevede pene più severe (la reclusione da 1 a 6 anni) non solo per chi recluta la manodopera (il caporale vero e proprio), ma anche per chi utilizza, assume o impiega manodopera (ovvero il datore di lavoro), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.
Un aspetto interessante di questa legge è il fatto che i proventi delle confische vengono assegnati al fondo anti tratta, le cui finalità sono state estese anche alle vittime del delitto di caporalato (oltre che alle vittime di sfruttamento sessuale): le due situazioni, infatti, sono ritenute simili, anche perché spesso le persone sfruttate nei lavori agricoli vengono reclutate usando mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. Inoltre, in molti contesti, specialmente le donne subiscono una duplice forma di sfruttamento, lavorativo e sessuale. Nella provincia di Ragusa, solo per fare un esempio – migliaia di donne, in gran parte dell’Europa dell’Est, vivono segregate nelle campagne, spesso con figli piccoli, e lavorano per pochi euro nelle serre. E nel totale isolamento – anche se la cosa è stata denunciata più volte – subiscono ogni genere di violenza sessuale.
I danni del decreto sicurezza
L’entrata in vigore del decreto sicurezza ha ulteriormente complicato la situazione, creando un clima di grande confusione se non addirittura di criminalizzazione delle vittime. Un esempio è l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che veniva riconosciuto alla maggioranza delle donne nigeriane vittime di tratta o potenziali tali, che oggi rischiano di ritrovarsi in una situazione di irregolarità e dunque di maggiore vulnerabilità rispetto alle reti criminali. Inoltre, l’impossibilità d’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (e tra questi molte vittime di tratta), in attesa dell’audizione presso la commissione territoriale, fa sì che molti di loro si ritrovino in una situazione di ulteriore precarietà, non potendo accedere all’assistenza sanitaria, al sistema di welfare, a percorsi di formazione o ad altri servizi, finalizzati all’inserimento socio-lavorativo nel nostro paese. Infine, il processo di trasformazione degli Sprar (sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati), che hanno accolto anche molte vittime di tratta seppure non identificate necessariamente come tali, in Siproimi (sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e il relativo taglio dei fondi, sta contribuendo ad accentuare il clima di confusione e di incertezza. Da tutto ciò non traggono certamente beneficio le vittime di tratta, ma anche tutti coloro che stanno lavorando per realizzare significativi ed effettivi cammini di formazione e integrazione. Per non parlare del fatto che – specialmente nel caso delle donne nigeriane – molte di coloro che sono vittime di un crimine gravissimo, non solo non vengono identificate come tali, ma si ritrovano private di alcuni diritti fondamentali.
Ed è proprio questo uno dei temi centrali che deve essere messo a fuoco quando si parla di tratta e di grave sfruttamento: quello dei diritti umani. La tratta, secondo gli esperti dell’Unione europea, si realizza «attraverso la considerazione e il trattamento di esseri umani alla stregua di proprietà private o merci di scambio, deprivando l’individuo della possibilità di fruire dei diritti che invece gli sono garantiti costituzionalmente. In questo senso, la tratta viola la dignità e il diritto dell’autodeterminazione della persona. Uno stato che non agisce per prevenire e combattere la tratta di esseri umani viola indirettamente i diritti umani della persona trafficata».
Di conseguenza, anche tutte le azioni di prevenzione, contrasto e protezione delle vittime devono necessariamente tenere al centro la questione dei diritti umani e il rispetto della dignità della persona, specialmente quando si ha a che fare con minori, che richiedono una particolare tutela. Per tutte queste ragioni, il fenomeno della tratta non può essere semplicemente ricondotto a un problema di migrazione, di ordine pubblico o di criminalità organizzata. Ma è, innanzitutto, una questione di dignità e diritti fondamentali di tutti e di ciascuno.
Una piaga del mondo moderno
Cosa mette in campo la chiesa per combattere la tratta
«Un reato di lesa umanità», definisce così la tratta papa Francesco. Le religiose rispondono all’appello del pontefice a combattere questo flagello nutrendo una rete, nata 10 anni fa, attiva in 70 paesi dei 5 continenti. Si occupano di protezione delle vittime ma anche di fare pressione per avere leggi più idonee. E la Chiesa istituzione si dota di Orientamenti pastorali sulla tratta di persone.
«La tratta di esseri umani è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo». In moltissime occasioni papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato, si è espresso chiaramente per denunciare la tratta di esseri umani, un fenomeno che lui stesso ha definito «una delle ferite più dolorose, una moderna forma di schiavitù, che viola la dignità, dono di Dio, in tanti nostri fratelli e sorelle».
Per questo il pontefice ha spronato la Chiesa tutta a «intervenire in ogni fase della tratta degli
esseri umani», per «proteggerli dall’inganno e dall’adescamento; per trovarli e liberarli quando vengano trasportati e ridotti in schiavitù; per assisterli una volta liberati».
Su questo tema papa Francesco ha scritto anche diversi documenti, a cominciare dal testo della Giornata mondiale della Pace del 2015, significativamente intitolato «Non più schiavi, ma fratelli», in cui ha chiesto a tutti una «mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso». Nel messaggio, papa Francesco parla della schiavitù come di un «reato di lesa umanità», che continua a interessare, ancora oggi, «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».
Nel settembre dello stesso anno, partecipando all’Assemblea generale delle Nazioni unite, papa Francesco ha ammonito tutti i leader della terra affinché di fronte a mali quali «la tratta degli esseri umani, il commercio di organi e tessuti umani, lo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, il lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione», non si risponda solo con vaghi «impegni assunti solennemente», ma si abbia «cura che le nostre istituzioni», come pure tutti i nostri sforzi, «siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».
Le religiose scendono in campo
Ma se il monito del papa non è stato preso adeguatamente sul serio sul fronte delle grandi istituzioni internazionali, chi ha risposto prontamente al suo pressante appello è stato un altro network, quello delle religiose.
Impegnate in prima linea soprattutto nella prevenzione del fenomeno e nella protezione delle vittime, in Italia come in molti altri paesi del mondo, le religiose riunite nella rete di Talitha Kum – che fa riferimento all’Unioneinternazionale delle superiore generali (Uisg) – ha dato vita, già l’8 febbraio del 2015, alla prima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone fortemente voluta da papa Francesco.
L’obiettivo di questa giornata – che ormai si celebra in diverse parti del mondo – è innanzitutto quello di creare maggiore consapevolezza sul fenomeno e far riflettere sulla situazione globale di violenza e ingiustizia che colpisce milioni di persone in tutto il pianeta. Al contempo, si vogliono indicare piste concrete per dare risposte efficaci. Per questo, da un lato, viene ribadita la necessità di garantire diritti, libertà e dignità alle persone trafficate e ridotte in schiavitù e, dall’altro, di denunciare sia le organizzazioni criminali sia coloro che usano e abusano della povertà e della vulnerabilità di queste persone per farne oggetti di piacere o fonti di guadagno.
«La tratta di persone ferisce con efferata violenza l’umanità – dice suor Gabriella Bottani, missionaria comboniana e coordinatrice di Talitha Kum -. Per questo noi, come religiose, continuiamo a portare avanti cammini di libertà e speranza attraverso gesti quotidiani di ascolto e incontro che curano innanzitutto la dignità ferita. Sono gesti sovversivi e di denuncia che contrastano il male della tratta di persone con il bene».
Suor Gabriella ha alle spalle una lunga esperienza nella rete anti tratta del Brasile, prima a Fortaleza e poi in Amazzonia, dove si è resa conto, incontrando personalmente anche molte vittime, di come «tutto è sfruttato, al punto che non ci si rende più nemmeno conto che gli uomini stessi sono sfruttati». Rientrata in Italia, suor Gabriella coordina, dal 2015, il network internazionale delle religiose per continuare a combattere in ogni angolo del mondo la piaga della tratta. Lo scorso giugno è stata riconosciuta come «eroe» contro la tratta dal dipartimento di Stato Usa, in occasione della presentazione del «Trafficking in Persons Report» (Tip Report) che quest’anno ha declassato l’Italia tra i paesi di seconda fascia a causa del peggioramento nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.
La rete è nata nel 2009 in seno all’Uisg, in seguito a un «Programma di formazione per personale religioso alle azioni di contrasto alla tratta di persone», realizzato in cooperazione con l’Ambasciata americana presso la Santa Sede e gestito in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). «Il desiderio condiviso – spiega la religiosa – era quello di coordinare e rafforzare gli sforzi e le attività contro la tratta promossi dalle religiose nel rispetto dei diversi contesti e culture. Attualmente, ci sono 17 reti regionali in 70 paesi nei 5 continenti».
In occasione del decennale, Talitha Kum ha realizzato anche una mostra fotografica che è stata esposta in Vaticano e che sarà in settembre alle Nazioni unite, in occasione dell’Assemblea generale. «Nuns Healing Hearts» è il titolo di questo progetto dalle immagini molto evocative: «Suore che curano i cuori». «Ciò che desidero trasmettere attraverso queste immagini – afferma la fotografa Lisa Kristine, che ha visitato molte realtà di religiose impegnate contro la tratta in diversi paesi – è il potente lavoro che le suore di Talitha Kum stanno facendo in tutto il mondo in prima linea contro la schiavitù. Ma la cosa più significativa di questo progetto è stato lavorare intimamente con le suore e sperimentare come loro operano instancabilmente e umilmente, spesso con poche risorse, per aiutare i più bisognosi».
Come si combatte la tratta in Italia
Anche in Italia, le religiose sono state tra le prime a individuare il fenomeno della tratta e a farsi carico della protezione delle vittime, ma anche tra le più efficaci nel denunciarlo e nel promuovere azioni di advocacy nei confronti delle autorità. Questo impegno – portato avanti insieme ad altri – ha condotto all’approvazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione del 1998, una delle leggi più avanzate al mondo per quanto riguarda la protezione sociale delle vittime di tratta.
Purtroppo, in questi ultimi anni, le potenzialità dell’articolo 18 sono state gravemente disattese, per mancanza di risorse finanziarie e umane. «L’articolo 18 – ha denunciato in più occasioni Mirta Da Pra Pocchiesa del Gruppo Abele – è stato il frutto di un lavoro tra associazioni operanti sul campo e i ministeri degli Affari sociali, Pari opportunità e Interno, per aiutare le vittime a contrastare il traffico di esseri umani. Per un certo periodo l’Italia era diventata una terra difficile per i trafficanti: le ragazze denunciavano e le forze dell’ordine potevano colpire duramente le organizzazioni criminali. Da un certo punto in avanti, però, è iniziato lo sfacelo. C’è stato un disinvestimento generale: enti e associazioni che lavorano sul tema si sono trovati senza una regia, senza un coordinamento».
Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, è stata tra le pioniere, insieme a Mirta Da Pra, di queste battaglie. Dopo 24 anni in Kenya, rientrata in Italia all’inizio degli anni Novanta, suor Eugenia ha ritrovato nel suo paese giovani africane sfruttate barbaramente come non aveva mai visto. Lei che aveva sempre lavorato per la promozione delle donne in Africa, si è rimboccata le maniche anche qui per contrastare una delle peggiori violenze che potessero subire. Prima a Torino, poi per molti anni a Roma, come coordinatrice dell’Ufficio Tratta donne minori dell’Usmi (Unione superiori maggiori d’Italia) e dal 2014 come presidente dell’associazione «Slaves no More» (mai più schiave), suor Eugenia continua a portare avanti instancabilmente una battaglia per liberare queste donne non solo dalle catene della schiavitù, ma anche da quelle del pregiudizio e dell’indifferenza. Per questa ragione, papa Francesco le ha affidato quest’anno le riflessioni della via crucis che si è tenuta in Vaticano la sera del Venerdì Santo (cfr sotto: Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta).
Ma se fino a oggi, all’interno della Chiesa, il tema della tratta sembrava essenzialmente relegato alla dimensione religiosa femminile, un significativo passo avanti nel coinvolgimento di tutti i suoi membri e in una presa di coscienza sul fenomeno è stato fatto con la pubblicazione, lo scorso gennaio, degli «Orientamenti pastorali sulla tratta di persone», realizzati dalla «Sezione migranti e rifugiati» del Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale.
«Gli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone – spiegano i due sottosegretari della Sezione, padre Fabio Baggio, scalabriniano, e padre Michael Czerny, gesuita – si propongono di fornire una chiave di lettura della tratta e una comprensione che diano ragione e sostegno a una lotta necessaria e duratura».
Istituita il primo gennaio 2017 da papa Francesco, che ne ha assunto personalmente la guida ad tempus, la Sezione migranti e rifugiati è incaricata di affrontare il tema della tratta di persone assieme alle altre questioni relative alle migrazioni. La sua missione è quella di assistere in particolare i vescovi e quanti si sono messi a servizio di questi gruppi vulnerabili.
Come sono nati gli «Orientamenti»
«Per affrontare il problema della tratta e della schiavitù di esseri umani – precisano i due sottosegretari – durante il 2018, la Sezione ha organizzato due consultazioni con vescovi, coordinatori pastorali, ricercatori, operatori professionisti e rappresentanti di organizzazioni impegnate in questo settore. I partecipanti si sono scambiati esperienze e punti di vista, affrontando gli aspetti rilevanti del fenomeno. Si è pure analizzata la risposta globale della Chiesa, specificandone i punti di forza e le debolezze, le opportunità politiche e pastorali, come pure la necessità di un potenziamento del coordinamento a livello mondiale.
Questo processo, durato sei mesi, ha dato vita agli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone, indirizzati alle diocesi, alle parrocchie e alle congregazioni religiose, alle scuole e alle università, alle organizzazioni cattoliche e altre organizzazioni della società civile e a qualsiasi altro gruppo disponibile a impegnarsi in questo campo».
Un esempio di questo impegno viene da Caritas italiana che a inizio luglio ha presentato i risultati di un monitoraggio svolto sul territorio nazionale di tutte le Caritas che si occupano del fenomeno della tratta. Ne è emerso un panorama complesso di una sessantina di realtà che, in modo diverso, si occupano del fenomeno, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati: dalle unità di strada alle accoglienze, dalle azioni di sensibilizzazione ai processi di integrazione (cfr pag 40).
Questo lavoro viene svolto in diversi casi in collaborazione con le religiose che operano o direttamente nelle Caritas o in case di accoglienza. Questo servizio – tuttora coordinato dall’Usmi nazionale che ha svolto in parallelo un analogo monitoraggio – è diminuito in questi ultimi anni o si è diversificato. Molte case di accoglienza delle religiose, infatti, non sono più specifiche per vittime di tratta, ma si sono convertite in accoglienze per mamme e bambini con varie forme di disagio o vulnerabilità. La complessità del fenomeno e la fluidità – legata alla questione degli sbarchi come anche ai cambiamenti legislativi – chiedono a tutti coloro che operano in questo ambito difficile e delicato di mettersi continuamente in gioco, a cominciare dalla formazione, e di sperimentare nuove progettualità.
È l’invito che arriva anche da papa Francesco: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? […] Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti!».
Il lavoro delle Caritas in Italia, una rete capillare sul territorio
Sono una sessantina le Caritas che in Italia si occupano di tratta, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati. Molte di più sono quelle che in modo spontaneo e non strutturato intercettano – in particolare attraverso i centri di ascolto o i dormitori – le vittime di tratta o presunte tali e le orientano verso servizi o realtà più specifiche. È quanto emerge da un report di monitoraggio realizzato da Caritas italiana per avere una mappatura più aggiornata e articolata del lavoro delle Caritas in questo ambito. Ne emerge un quadro variegato di impegno e difficoltà su molti fronti.
Qualche dato: le Caritas in Italia gestiscono 18 unità di strada; 31 accoglienze e progetti di integrazione; 24 realtà con attività di sensibilizzazione/informazione rivolte al territorio e corsi di formazione; 17 sportelli/drop in con servizi legali, sanitari, psicologici e così via; una ventina di iniziative di sostegno ad altre realtà con aiuti economici o materiali, supporto burocratico o altro.
Un impegno consistente, che tuttavia in questi anni si è confrontato e talvolta scontrato con molti ostacoli: la complessità e la fluidità del fenomeno, nonché i recenti provvedimenti legislativi, hanno messo molte Caritas di fronte alla necessità di aggiornarsi costantemente per continuare a dare risposte efficaci nonostante il mutamento delle situazioni.
Come per tutti, infatti, anche le Caritas – che spesso operano in collaborazione con gli Istituti religiosi femminili – hanno dovuto far fronte, da un lato, alla grande urgenza legata alla presenza di numerose donne vittime di tratta o potenziali tali, dall’altro, a un cambiamento del fenomeno che ha richiesto uno sforzo ulteriore di riflessione, formazione e organizzazione.
Più in generale, si legge nel report, tra le difficoltà emerge «il problema di una burocrazia molto complessa, il non facile rapporto con le istituzioni e l’enorme complicazione del reperimento dei documenti. Per non parlare dei tempi lunghi del percorso legale e sociale, difficili da gestire all’interno di una struttura protetta».
Tra gli auspici condivisi, quello che maggiormente emerge è l’importanza di consolidare il lavoro in rete: tra le diverse Caritas, ma anche con altri enti pubblici e privati. Perché insieme si è più forti, anche nel contrasto alla tratta e nel difficile e complesso compito di proteggere e integrare le vittime nella nostra società.
Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta
È stata una delle pioniere in Italia della lotta contro la tratta di esseri umani. Con il suo piglio battagliero, ma anche con la sua capacità di compassione, suor Eugenia Bonetti si è messa senza indugio al fianco delle vittime, per riscattarle dalla schiavitù, ma anche per dare loro voce, denunciando così un fenomeno che molti non volevano neppure vedere. Purtroppo anche oggi.
Era il 1993, e suor Eugenia Bonetti – missionaria della Consolata, oggi ottantenne – era appena rientrata in Italia, dopo aver vissuto 24 anni di missione tra le donne del Kenya.
A Torino, dove era tornata a malincuore, è stata un’altra donna africana ad aprirle gli occhi con il suo grido di aiuto. Suor Eugenia si è ben presto accorta che il fenomeno che aveva di fronte non riguardava semplicemente la prostituzione, ma qualcosa di molto più grave e orribile: tratta e schiavitù.
Da allora ha condotto moltissime battaglie; ha contribuito a togliere dalla strada oltre 6mila giovani donne, soprattutto nigeriane; ha coordinato a lungo il network delle religiose italiane che operano nelle case di accoglienza – l’ex Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi -; ha infine fondato l’associazione «Slaves no More», di cui è presidente, che ha realizzato un progetto pilota di rimpatri volontari assistiti di donne nigeriane, e che garantisce, grazie all’impegno di una quindicina di religiose, una presenza settimanale nel Cpr di Ponte Galeria a Roma (Il Cpr è il Centro di permanenza per il rimpatrio, ex Cie, Centro di identificazione ed espulsione, ndr).
Di tutto ciò ha parlato anche in diversi libri, ma la sua figura e il suo impegno sono diventati particolarmente noti soprattutto dopo che papa Francesco le ha chiesto di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo dello scorso 19 aprile.
Suor Eugenia, che cosa ha significato scrivere quei testi?
«Una grande responsabilità, ma anche un’opportunità unica. Quando ho ricevuto la telefonata del cardinale Gianfranco Ravasi che mi chiedeva di scrivere le meditazioni per la Via Crucis sono stata presa di sorpresa. Ho vissuto quel periodo nella preghiera, ripensando alle parole di papa Francesco che parla di tratta come di “un crimine contro l’umanità”. Ho pensato che la Via Crucis potesse scuotere le coscienze e per questo ho accennato a valori come l’uguaglianza, la fede, la fratellanza, la misericordia, l’amore in tutte le sue forme (di una madre, di un padre, di un fratello e di una sorella, di un amico, di un passante, di un soccorritore), l’accettazione del diverso e del malato, di chi è in difficoltà. Ho fatto tutto attingendo ai molti anni passati a camminare sulle strade con queste donne, anni in cui le ho ascoltate, ci ho parlato e le ho aiutate con il sostegno di molte altre religiose e laici».
Su cosa ha voluto insistere?
«Ho cercato di includere tutte le forme di schiavitù presenti nel fenomeno della tratta, ma soprattutto ho tentato di sottolineare la condizione delle giovani donne distrutte da questa enorme piaga. Mi è sembrato giusto anche fare un appello: ai poteri e alla Chiesa affinché si prendano le loro responsabilità e agiscano mettendo l’essere umano sopra ogni altro valore e principio; alla società civile che, pur facendo molto deve fare sempre di più; ai clienti che sono parte attiva del problema».
Non solo storie finite male, però…
«Ho cercato di far riaffiorare anche la speranza, l’Italia del riscatto, di tutti i volontari e operatori del terzo settore, capaci di stare accanto al prossimo e di aiutarlo. E di tutti coloro che rispondono alla richiesta del Signore di mettersi in ascolto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Mi sembrava importante anche soffermarmi sulla forza di rinascita delle donne e sulla loro capacità di lenire il loro dolore e il dolore altrui».
Lei indica nel deserto e nel mare i nuovi cimiteri di oggi. Che cosa intende?
«Nel deserto e nel Mediterraneo, continuano a morire migliaia di uomini, donne, bambini: esseri umani bruciati dal caldo del deserto o annegati nel mare, senza un nome, senza un’identità, privati della dignità e dei diritti che tutti possediamo, nell’indifferenza quasi totale di paesi che preferiscono non decidere».
Lei continua a essere impegnata su più fronti, in quanto fondatrice e presidente dell’associazione «Slaves no More». Che cosa state facendo?
«L’associazione nasce principalmente per aiutare le donne a liberarsi da ogni forma di violenza; in particolare si concentra sulle vittime di tratta, costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Le attività che porta avanti, grazie al sostegno di tanti che ci aiutano e ci supportano, vanno dai rimpatri volontari assistiti in Nigeria alle diverse forme di interventi legati alla formazione e all’informazione sui temi specifici della tratta. L’associazione intrattiene strette relazioni di collaborazione anche con le case di accoglienza delle religiose a Lagos e Benin City (Nigeria)».
E nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria?
«A Ponte Galeria, insieme a un gruppo di suore di molte nazionalità e lingue diverse, siamo presenti tutti i sabati pomeriggio. Cerchiamo di accompagnare, con preghiere, feste e canti, le molte donne che, trovate senza documenti, sono costrette a passare molto tempo lì dentro, spesso senza sapere che ne sarà di loro. Ponte Galeria è a tutti gli effetti un luogo di detenzione, con sbarre e cemento, lenzuola di carta, molto freddo e caldo estremo. E anche tanta solitudine. Qui le donne sono costrette a una condizione di inattività, costantemente sorvegliate, con una minima possibilità di contatti con l’esterno, sole con le loro paure e i loro traumi, in balìa degli eventi. Noi rappresentiamo l’unico momento, durante la settimana, di ascolto, comprensione e compassione».
Le sembra che in Italia sia cresciuta la consapevolezza circa la tratta degli esseri umani, e la presenza di schiavi e schiave anche nel nostro paese?
«La tratta e i fenomeni a essa connessa sono cambiati e si sono evoluti, così come gli interventi a livello legislativo e da parte dell’associazionismo. Anche la consapevolezza è sicuramente cresciuta ma, oggi, mi sembra che ci sia una battuta d’arresto. Viviamo in una società consumistica dove i valori sono il denaro, il prestigio, l’esteriorità e l’apparenza; dove tutto può essere venduto e acquistato; dove l’essenziale è pensare a se stessi; dove ci viene istillata la paura del diverso; dove l’odio viene urlato e propagandato. Anche le nuove leggi sono lo specchio di un pensiero e di un modo di fare che tende alla divisione, all’odio e alla prevaricazione. Tutto questo non va certamente nella direzione dell’unione, della fratellanza, dell’aiuto e della comprensione».
Le misure dello stato italiano: un piano anti tratta (e il numero verde)
In Italia esistono un numero verde anti tratta e anche un piano nazionale che dovrebbero contrastare le gravi forme di sfruttamento presenti sul territorio nazionale.
Il primo, attivato nel 2000, viene gestito dal 2006 dal comune di Venezia. Il secondo, è stato finanziato per la prima volta nel 2016 e viene coordinato dal Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) della Presidenza del consiglio dei ministri. Sono gli strumenti messi in campo dal governo italiano per il contrasto alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime.
Il numero verde (800 290 290), in particolare, dopo una prima fase, in cui ha funzionato con una postazione centrale e 14 periferiche, dal 2006 fa capo a un unico ente – il comune di Venezia, appunto – che fa riferimento ai vari attori che, a livello regionale, operano nei progetti anti tratta finanziati dal Dpo. Sono 21 e coprono tutte le regioni italiane. Il piano è stato rifinanziato lo scorso primo marzo con 24 milioni di euro per i prossimi 15 mesi. Nel 2018, sono state assistite 1.914 persone (al 90% donne, in gran parte nigeriane), e si sono registrate 820 nuove emersioni (l’11,23% minorenni). Nell’88% dei casi si tratta di vittime di sfruttamento sessuale.
«Il numero verde – spiega Cinzia Bragagnolo che ne è la responsabile – raccoglie le segnalazioni, ed effettua una prima valutazione del caso, offre informazioni e orienta sui territori, cercando di favorire l’emersione del fenomeno e di offrire indicazioni sulle possibilità di aiuto e assistenza. Innanzitutto, viene fatta una prima valutazione della pertinenza della chiamata e poi si orientano le persone ai servizi sul territorio. L’obiettivo è di supportare le vittime di tratta e sfruttamento, ma anche di ottimizzare le risorse presenti qualora, ad esempio, ci sia bisogno di spostare le persone da una regione all’altra per motivi di sicurezza o per mancanza di posti in accoglienza o per incompatibilità delle strutture».
Le telefonate arrivano da soggetti diversi. «Possono essere le stesse potenziali vittime di tratta a chiamare – continua Bragagnolo -, oppure forze dell’ordine, operatori di progetti, servizi sociali o sanitari. Ultimamente sono cambiati molto i soggetti segnalanti che afferiscono al numero verde. Molte chiamate, infatti, arrivano da commissioni territoriali e prefetture o da Cas e Sprar, in cui sono presenti potenziali vittime di tratta».
Questo perché, da un lato, non sono più state fatte campagne di promozione del numero verde anti tratta e dunque è poco conosciuto – l’ultima risale al 2016, seguita da una brevissima campagna nel 2017 -; dall’altro lato, perché il fenomeno degli sbarchi, in particolare di giovani donne nigeriane potenziali vittime di tratta, ha inciso significativamente anche su tutto il sistema di accoglienza.
«In questi ultimi anni – conferma Bragagnolo – nelle prese in carico c’è stato un grande aumento delle donne nigeriane. Il picco lo si è avuto un paio di anni fa; adesso, in strada, le donne nigeriane sono tornate a essere circa un terzo, ma nei progetti del Dpo sono quasi il 90% dei casi. Questo significa che sono stati probabilmente trascurati altri target, ad esempio, donne provenienti da altri paesi; soprattutto, però, significa che è stato trascurato un altro ambito altrettanto preoccupante, quello del grave sfruttamento lavorativo».
Solo tre progetti su 21, infatti, si occupano di questa piaga che ormai non riguarda più soltanto il lavoro agricolo o il Sud Italia, ma interessa un po’ tutte le regioni e tutti i settori dell’economia del nostro paese: dall’industria alla logistica, dall’assemblaggio alla ristorazione.
«Ci sono pochi interventi strutturati sul grave sfruttamento lavorativo – conferma Cinzia Bragagnolo – anche perché è molto difficile operare in questo ambito. Occorrerebbe un lavoro multi agenzia e in questo momento si è ancora troppo poco strutturati per essere incisivi su questo fenomeno».
Lo scorso 7 maggio, il sottosegretario con delega alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha presieduto la prima riunione della nuova cabina di regia per la prevenzione e il contrasto alla tratta degli esseri umani, affiancata da un nuovo comitato tecnico. La cabina è la sede di confronto e di raccordo politico, strategico e funzionale tra le amministrazioni statali, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, le forze dell’ordine, le regioni e gli enti locali per la definizione del nuovo piano nazionale anti tratta 2019-2021. Al comitato tecnico, invece, partecipano soggetti della società civile direttamente impegnati nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.
«Sarebbe importante – conclude Bragagnolo – che si possa mettere a punto il prossimo piano nazionale anche alla luce dei nuovi cambiamenti del fenomeno e delle recenti evoluzioni delle dinamiche della tratta. A mio avviso, occorrerebbe rivedere le connotazioni del programma di protezione sociale, dal momento che, in questi ultimi anni, la natura dell’art. 18 è andata in gran parte persa, poiché la maggior parte delle vittime ha seguito percorsi di richiesta d’asilo. Ma anche il contrasto alle reti criminali si è affievolito. Inoltre, bisognerebbe tenere aperto lo sguardo su altre forme di sfruttamento e non solo prevalentemente su quello sessuale».
Il nuovo piano nazionale anti tratta avrebbe dovuto essere presentato entro fine giugno, ma probabilmente slitterà di qualche mese.
Hanno firmato questo dossier:
Anna Pozzi – Giornalista professionista, collabora con diverse testate giornalistiche. Tiene incontri di formazione e seminari su politica, economia, società e cultura africana e sulle questioni di migrazioni e tratta. È tra i fondatori dell’associazione «Slaves no more» contro la tratta degli esseri umani. Ha collaborato alla realizzazione delle Giornate mondiali contro la tratta di persone (8 febbraio). Su questo tema ha scritto diversi saggi, tra cui Il coraggio della libertà (ed. Paoline, 2017) con Blessing Okoedion, Mercanti di schiavi (San Paolo, 2016), Spezzare le catene (Rizzoli, 2012). Ha inoltre realizzato due documentari: No place like home (2016) e Il coraggio della libertà (2017).
Dal 2015 associazioni e leader degli Yanomami si riuniscono per elaborare un «Piano di gestione territoriale e ambientale» (Pgta) della loro terra. Un sistema che, usando parole del mondo bianco, si potrebbe definire di «democrazia partecipativa». L’ultima assemblea si è tenuta sul lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, a circa 200 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Vi raccontiamo come si è svolta.
La Br-401 conduce in Guiana. È asfaltata, liscia, dritta e poco trafficata: motivo d’orgoglio per i politici locali che si autocelebrano con alcuni cartelloni pubblicitari posti lungo la strada.
Siamo in Amazzonia, ma il paesaggio sembra suggerire altro. Al posto della foresta c’è il cosiddetto lavrado, un ecosistema molto simile alla savana. Anche qui l’agrobusiness, l’industria agricola, sta facendo danni con la diffusione dell’allevamento estensivo e delle monocolture. «Riso, soia e Acacia mangium», mi spiega Carlo Zacquini che guida l’auto.
L’Acacia mangium è una pianta di origine asiatica, caratterizzata da una rapida crescita. Certamente più consone all’ambiente originale del lavrado sono le piante di burití (Mauritia flexuosa), una palma che dà frutti commestibili usati in svariati modi, tra cui sotto forma d’olio.
Passiamo accanto a varie fattorie: fazenda Arizona, fazenda Nova Altamira, fazenda Rio das Pedras e molte altre di cui non riesco ad annotare il nome perché fratel Carlo non toglie mai il piede dall’acceleratore.
Percorsi poco più di cento chilometri, lasciamo la 401 per girare a sinistra su una strada sterrata rossa. Direzione municipio di Normandia. Di lì a poco, superato il fiume Tacutu, un cartellone ci avverte che stiamo entrando nella terra indigena Raposa Serra do Sol, abitata in prevalenza da Macuxi ma anche da Taurepang, Ingarikó, Patamona e Wapichana.
Una nuova deviazione prima di arrivare alla cittadina di Normandia ci conduce in breve alla nostra meta: il lago Caracaranã sulle cui sponde i Macuxi gestiscono una piccola struttura, spesso adibita a luogo d’incontri.
L’ingresso è un cancello di legno tipo fazenda o ranch. Con accanto un cartello sbilenco ma leggibile: «Proibido entrada com bebidas alcoólicas» (Proibita l’entrata con bevande alcoliche).
Ci vengono ad aprire e posteggiamo accanto alle uniche due automobili presenti. Un’ottima cosa in ottica ambientalista.
Gli Yanomami e gli altri
Il posto è bello. Alberi (quasi tutti di caju, Anacardium occidentale), prati, una spiaggetta di sabbia bianca che delimita un lato del lago, piccolo ma delizioso.
La struttura ricettiva che è stata costruita è semplicissima e poco impattante. Ci sono alcune piccole costruzioni in muratura a un solo piano e poi varie capanne senza pareti sotto le quali gli ospiti appendono le loro amache. Al centro c’è un capannone, anch’esso senza pareti, dove si svolgono gli incontri plenari.
In questi giorni (ben sette in totale) la struttura sul lago Caracaranã ospita una riunione delle organizzazioni e dei leader Yanomami arrivati, spesso dopo viaggi lunghi e complicati, da varie comunità sparse sul loro vastissimo territorio.
Uno striscione dai colori vivaci, steso davanti al capannone delle riunioni, presenta l’evento: «Plano de Gestão territorial e ambiental Terra indígena Yanomami». In basso sono riportati nomi e loghi dei partecipanti.
Gli organizzatori sono due: Hutukara, la principale tra le associazioni degli Yanomami (quella guidata da Davi Kopenawa) e Isa, l’Istituto socioambientale brasiliano cui vanno ascritti molti meriti. Tra i collaboratori, le altre organizzazioni Yanomami e la Missione Catrimani. Tra i finanziatori (indispensabili) figurano la Norvegia, il Fondo Amazzonia, l’Unione europea.
Gli indigeni presenti sono oltre ottanta, in maggioranza uomini, ma ci sono anche donne e alcuni bambini. Portare alle assemblee persone che abitano in comunità distanti e spesso isolate richiede sempre uno sforzo organizzativo e finanziario importante.
All’assemblea partecipano anche due organizzazioni governative: la Fundação Nacional do Índio (Funai) e l’Instituto Chico Mendes de Conservação da Biodiversidade (IcmBio), che dipende dal ministero dell’Ambiente. Si tratta di due organizzazioni controverse (soprattutto la Funai), ma qui i loro rappresentanti – tutti giovani – sembrano molto bendisposti e coinvolti.
Come gestire la terra indigena?
Cosa sia il «Piano di gestione territoriale e ambientale» viene spiegato nel materiale conoscitivo distribuito al banco dell’organizzazione: «È un documento che contiene le proposte di come gli Yanomami e gli Ye’kuana debbono prendersi cura della loro terra e di come il governo e le istituzioni partner debbono lavorare per migliorare la protezione territoriale, l’assistenza sanitaria e l’educazione, la gestione dei redditi e la valorizzazione delle conoscenze tradizionali».
La gestione territoriale e ambientale della Terra indigena yanomami è una tematica complessa. In primis, perché riguarda un territorio che si estende su 96.650 chilometri quadrati (più o meno la grandezza del Nord Italia meno l’Emilia) di Amazzonia, uno spazio che genera enormi appetiti tra i non indigeni.
Detto questo, la prima impressione sull’assemblea indigena del lago Caracaranã è molto positiva: l’organizzazione è ineccepibile. Un cartello appeso nel capannone centrale riporta l’elenco dei gruppi tematici: protezione e controllo, governo, redditi, conoscenze tradizionali, risorse naturali, salute, educazione. Ogni gruppo discuterà una serie di proposte sul tema prescelto, dovendo rispondere a due domande fondamentali: come attuare le varie proposte e con chi, distinguendo tra indigeni e non-indigeni.
Una volta formati, i sette gruppi si distribuiscono negli spazi della struttura: chi attorno a un albero, chi sotto una tettoia. Per agevolare e coordinare le discussioni ci sono dei facilitatori (moderatori), ruolo assunto dai non indigeni.
Fratel Carlo Zacquini, dopo aver salutato a destra e a manca, si aggrega come partecipante a un gruppo. Io, unico estraneo, sono libero di passare da un gruppo all’altro per scattare foto e fare qualche filmato (dopo il permesso ottenuto da Davi Kopenawa).
La lingua utilizzata è il portoghese ma, non essendo compresa da tutti i partecipanti, in ogni gruppo c’è una persona che fa da traduttore. Davi Kopenawa è sotto il capannone centrale nel gruppo in cui si parla di governança (governo). Qui ci sono anche alcune donne che, pur avendo neonati tra le braccia, non rinunciano alla partecipazione. Nel gruppo su proteção e fiscalização (protezione e controllo) due ragazze dell’Istituto Chico Mendes (IcmBio) conducono i lavori, sotto lo sguardo attento degli indigeni e di tre rappresentanti della Funai. Qui la presenza dei non indigeni è forte perché si discute di uno dei problemi più gravi: l’invasione della Terra indigena yanomami da parte dei garimpeiros, i cercatori d’oro illegali. Le proposte per affrontare il problema sono scritte con un pennarello su un cartoncino bianco posto in terra, in mezzo al gruppo. Più tardi saranno votate o respinte da ogni partecipante.
Sotto alcuni alberi, a pochi metri dalla spiaggia e dal lago, un altro gruppo sta discutendo con grande partecipazione (ma senza animosità). In quanto bianco, la mia attenzione è verso due Yanomami, provenienti dallo stato di Amazonas, che hanno viso e petto dipinti di nero. La grande maggioranza dei partecipanti al convegno indossa vestiti da «bianco» (nelle comunità, i vestiti sono invece ridotti al minimo sufficiente per coprire i genitali), ma nessuno ha rinunciato alle pitture corporali o ad alcuni oggetti simbolici (copricapi di piume, collane, pendagli per collo e orecchie, cinture di perline).
È invece sotto una tettoia con i partecipanti seduti sulle loro amache il gruppo che si occupa di salute. L’unico in piedi è un giovane relatore bianco che parla con scioltezza la lingua indigena. Le uniche parole che riesco a intendere sono i nomi di alcuni farmaci che non arrivano nelle aldeias (comunità) indigene.
Il gruppo sulle conoscenze tradizionali è sotto un albero, vicino alla cucina. È moderato da padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani. Con lui un altro missionario della Consolata, padre Izaias Melo Nascimento, che sta preparandosi per aggregarsi a Catrimani.
Con Mauricio Ye’kuana
È ora del pranzo. La fila che porta davanti ai pentoloni dove alcune signore distribuiscono il cibo è lunga ma ordinata. Oggi servono carne di maiale con riso e fagioli.
È qui che conosco Mauricio del popolo Ye’kuana. Gli Ye’kuana condividono con gli Yanomami la terra indigena e rappresentano circa il 3 per cento della popolazione totale che è di circa 24.800 persone.
Mauricio ha soltanto 32 anni, ma già dal 2008 fa parte del consiglio di Hutukara. Vive in una comunità della regione di Auaris, al confine con il Venezuela e per questo parla anche un po’ di spagnolo, oltre al portoghese e alla lingua madre del suo popolo.
Il giovane Ye’kuana spiega: «In questi giorni siamo riuniti per decidere come difendere la nostra terra. Dobbiamo arrivare a un manifesto da presentare allo stato perché capisca come noi vogliamo gestire il territorio».
Poi conferma quanto è di dominio pubblico: «Il grande problema di oggi è l’attività mineraria dentro la terra indigena. I garimpeiros inquinano i boschi in cui noi viviamo con tranquillità e armonia. I nostri bambini e i vecchi hanno problemi di salute perché i minatori usano grandi quantità di mercurio che poi finisce nel pesce che noi mangiamo. Noi chiediamo allo stato di agire perché faccia ritirare questi invasori. Vogliamo evitare che accadano fatti come il massacro di Haximu del 1993 (quando un gruppo di garimpeiros uccise 16 Yanomami, comprese donne e bambini, ndr)».
Mauricio parla di 5mila invasori, ma altri, tra cui lo stesso Davi Kopenawa, sostengono che siano più di 20mila.
La lotta continua
È un peccato dover tornare a Boa Vista, mentre qui, al lago Caracaranã, si discuterà ancora per alcuni giorni. Il risultato finale sarà il «Piano di gestione territoriale e ambientale della Terra indigena Yanomani».
Un sistema decisionale che nel mondo dei Bianchi potrebbe essere chiamato di «democrazia partecipativa». Un successo importante per le comunità indigene, pur nella consapevolezza che la lotta per difendere i loro diritti e la terra faticosamente conquistati è lungi dall’essere conclusa.
Paolo Moiola
L’«Instrumentum Laboris»
Ascoltare le grida amazzoniche
A metà giugno è stato reso pubblico lo «strumento di lavoro» su cui verterà la discussione dei partecipanti al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Si tratta di 147 punti ricchissimi di osservazioni, critiche e proposte per il presente e il futuro dell’Amazzonia e dei suoi abitanti.
Nato da un lungo processo d’ascolto iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado (19 gennaio 2018), l’Instrumentum Laboris è la base teorica su cui lavorerà il Sinodo panamazzonico. Con il titolo di Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale, esso si compone di tre parti: «La voce dell’Amazzonia», «Ecologia integrale» e «Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze». La sua divisione in parti e capitoli trova la propria unità in una numerazione progressiva che si conclude con il punto 147.
La voce dell’Amazzonia
Si parte dall’affermazione che l’Amazzonia è la seconda area più vulnerabile del pianeta, dopo l’Artico, in relazione ai cambiamenti climatici di origine antropica (punto 9). Qui la vita è minacciata dalla distruzione e dallo sfruttamento ambientale, dalla sistematica violazione dei diritti umani fondamentali dei popoli originari (diritto al proprio territorio, all’autodeterminazione, alla consultazione e al consenso previi) (14). I cambiamenti climatici e l’aumento degli interventi umani (deforestazione, incendi e cambiamenti nell’uso del suolo) stanno portando l’Amazzonia a un punto di non ritorno (16). Oggi essa è diventato luogo di una bellezza ferita e deformata, di dolore e violenza. La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie (più di un milione degli otto milioni di animali e piante a rischio), costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni (23). A dispetto di tutto questo, l’Amazzonia è il luogo della proposta del «buon vivere», della promessa e della speranza di nuovi cammini di vita. La vita in Amazzonia è integrata e unita al territorio, non c’è separazione o divisione tra le parti. Questa unità comprende tutta l’esistenza: il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso, mentre gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi. La vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio (24). I popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci. Dobbiamo riconoscere che, per migliaia di anni, essi si sono presi cura della loro terra, dell’acqua e della foresta, e sono riusciti a preservarli fino ad oggi (29). Lo sfruttamento della natura e dei popoli amazzonici (indigeni, meticci, lavoratori della gomma, coloro che vivono sulle rive dei fiumi e persino quelli che vivono nelle città) provoca una crisi di speranza (31).
L’attuale crisi socio-ambientale può condurre all’autodistruzione. Secondo papa Francesco occorre realizzare un dialogo interculturale in cui i popoli indigeni siano i principali interlocutori (35), avendo sempre presente che l’Amazzonia è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso (36).
Il dialogo incontra però pesanti resistenze. Gli interessi economici e un paradigma tecnocratico respingono ogni tentativo di cambiamento. I suoi sostenitori sono disposti a imporsi con la forza, trasgredendo i diritti fondamentali delle popolazioni presenti nel territorio e le norme per la sostenibilità e la conservazione dell’Amazzonia (41).
Intessuta di acqua, territorio, identità e spiritualità dei suoi popoli, la vita in Amazzonia invita al dialogo e all’apprendimento della sua diversità biologica e culturale (43).
Ecologia integrale
La seconda parte dell’Instrumentum Laboris tratta i gravi problemi causati dagli attentati alla vita nel territorio amazzonico (44). L’Amazzonia è oggetto di contesa su più fronti. Uno risponde ai grandi interessi economici, avidi di petrolio, gas, legno, oro, monocolture agro-industriali, ecc. Un altro è quello di un conservatorismo ecologico che si preoccupa del bioma ma ignora i popoli amazzonici (45).
Per prendersi cura dell’Amazzonia, le comunità aborigene sono interlocutrici indispensabili, poiché – lo abbiamo già evidenziato – sono proprio loro che normalmente si prendono meglio cura dei territori (49). L’abbattimento massivo degli alberi, la distruzione della foresta tropicale per mezzo di incendi boschivi intenzionali, l’espansione della frontiera agricola e delle monocolture sono la causa degli attuali squilibri climatici regionali e globali, con grandi siccità e inondazioni sempre più frequenti (54).
La cultura amazzonica, che integra gli esseri umani alla natura, diventa un punto di riferimento per la costruzione di un nuovo paradigma di ecologia integrale. La Chiesa dovrebbe assumere nella sua missione la cura della Casa comune con azioni per il rispetto dell’ambiente, programmi di formazione, denunce dei casi di violazione dei diritti umani e di distruzione estrattivista (56).
La popolazione originaria dell’Amazzonia è stata vittima del colonialismo nel passato e di un neocolonialismo nel presente. L’imposizione di un modello culturale occidentale ha inculcato un certo disprezzo per il popolo e i costumi del territorio amazzonico, definendoli addirittura «selvaggi» o «primitivi». Oggi, l’imposizione di un modello economico estrattivista occidentale colpisce ancora una volta le comunità amazzoniche invadendo e distruggendo le loro terre, le loro culture, le loro vite (76).
L’educazione implica un incontro e uno scambio (93). In Amazzonia, essa non deve significare imporre ai popoli amazzonici le proprie cosmovisioni: parametri culturali, filosofie, teologie, liturgie e costumi estranei (94). La cosmovisione dei popoli indigeni amazzonici è diversa perché comprende la chiamata a liberarsi da una visione frammentata della realtà, incapace di percepire le molteplici connessioni, interrelazioni e interdipendenze.
Da qui deve nascere l’educazione per un’ecologia integrale. Per comprendere questa visione, vale la pena di applicare lo stesso principio della salute: l’obiettivo è quello di osservare tutto il corpo e le cause della malattia e non solo i sintomi (95). Tale educazione «deve tradursi in nuove abitudini» tenendo conto dei valori culturali. L’educazione, in una prospettiva ecologica e in chiave amazzonica, promuove il «buon vivere», il «buon convivere» e il «fare bene», che deve essere persistente e percepibile per avere un impatto significativo sulla Casa comune (97).
Passare dall’educazione ecologica alla conversione ecologica implica riconoscere la complicità personale e sociale nelle strutture di peccato, smascherando le ideologie che giustificano uno stile di vita che aggredisce la creazione (101).
Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze
La terza e ultima parte dell’Instrumentum parla del volto amazzonico della Chiesa, che deve trovare la sua espressione nella pluralità dei suoi popoli, culture ed ecosistemi (107). È una Chiesa che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli (110). Costruire una Chiesa dal volto amazzonico significa abbandonare la tendenza a imporre una cultura estranea all’Amazzonia che impedisce di comprendere i suoi popoli e di apprezzare le loro cosmovisioni (111).
Essere Chiesa in Amazzonia in modo realistico significa porre profeticamente il problema del potere, perché in questa regione le persone non hanno la possibilità di far valere i loro diritti contro le grandi imprese economiche e le istituzioni politiche. Oggi, mettere in discussione il potere nella difesa del territorio e dei diritti umani significa mettere a rischio la propria vita. La Chiesa non può rimanere indifferente a tutto questo (145).
Nel lungo percorso per la stesura dell’Instrumentum Laboris, sono state ascoltate le voci dell’Amazzonia. Voci che chiedono di dare una nuova risposta alle diverse situazioni e di cercare nuovi cammini che rendano possibile un kairós per la Chiesa e per il mondo (147).