I Perdenti 45. Il comandante José Gervasio Artigas

Testo di don Mario Bandera


José Gervasio Artigas nacque a Montevideo in Uruguay il 19 giugno del 1764, a quel tempo territorio giuridicamente soggetto al Vice Reame spagnolo del Perù, e concluse la sua esistenza terrena a Quinta Ybyray località nei pressi di Asunción del Paraguay, il 23 settembre del 1850.

Fu un militare rioplatense e uno dei più importanti statisti nelle lotte per l’indipendenza dei paesi che si affacciano sul Rio de la Plata. In Uruguay è considerato il padre della patria, così come in Argentina è ricordato con stima e affetto per il contributo dato a quella nazione nella lotta per staccarsi dalla Spagna.

I suoi contemporanei lo onorarono con il prestigioso appellativo di «Protettore dei popoli liberi».

La sua formazione culturale e spirituale la ricevette presso il convento dei francescani di Montevideo. In gioventù fu tra i membri fondatori del corpo dei Blandengues, milizia armata che aveva il compito di difendere Montevideo. Successivamente, per non essere obbligato ad accettare la tutela spagnola sulla sua città, abbandonò con 1.500 famiglie (circa 16 mila persone) il territorio dell’Uruguay rifugiandosi nel Nord dell’Argentina, realizzando così un esodo impressionate che colpì l’opinione pubblica del tempo, sia in America Latina come in Europa.

Nel 1815 riprese la lotta per sottrarre la sua terra ai tentativi di annessione portati avanti questa volta da una coalizione militare tra portoghesi e brasiliani. Purtroppo, dopo diversi tentativi, i loro sforzi ebbero successo e nel 1820 in una battaglia campale le truppe fedeli ad Artigas vennero sconfitte, e lui, come Comandante Generale venne esiliato in Paraguay. Nel 1856 – a titolo postumo – il governo uruguayano lo dichiarò «Fundador de la nacionalidad uruguaya oriental».

Monumento a José Gervasio Artigas en el bosque, ciudad de La Plata.
Comandante Artigas se non sbaglio la tua famiglia era una delle più rinomate della città.
I tuoi avi furono tra i primi coloni europei a insediarsi in forma stabile a Montevideo.

Non ti sbagli affatto, la mia gente era emigrata dalla penisola iberica con il proposito di acquistare e coltivare la terra nel continente americano visto che in Spagna ciò era abbastanza difficile. In Uruguay i miei avi trovarono le condizioni favorevoli per realizzare i loro desideri, ciò che a loro stava a cuore.

E con il passare degli anni la tua famiglia andò conquistando rispetto e autorevolezza tra la popolazione autoctona.

Mio padre come colono desideroso di acquisire terreni fertili (purtroppo tutti da dissodare, bonificare e coltivare) si mise subito all’opera, coadiuvato in questo da tutta la nostra famiglia, anche dai miei nonni, dando così una testimonianza di gente volenterosa e caparbia, con tanta voglia di lavorare.

Tu però preferivi svolgere altre mansioni.

Osservando i gauchos, i mandriani delle praterie che a cavallo riuscivano a dominare mandrie bovine ed ovine molto consistenti, incominciai anch’io a domare cavalli, a usare il lazo e le bolas e, inevitabilmente, le armi.

Iniziasti così una nuova attività che ti realizzava pienamente sul piano umano e sociale.

Cavalcare per la pampa, scambiare bestiame con altri proprietari terrieri, comprare dei puledri per poi passare la frontiera e venderli in Brasile, dove erano molto richiesti, era per me e per i miei compagni motivo di orgoglio e soddisfazione oltre che fonte non indifferente di guadagno.

In quel periodo venisti a contatto con i Blandengues, volontari creoli che sopraintendevano il mercato del bestiame e tramite loro avesti contatti con la tribù dei Charruas, l’etnia indigena che occupava da tempo immemorabile la sponda orientale del Rio de la Plata.

Grazie a loro andai a vivere per un certo tempo in un villaggio charrua dove negli anni trovai una compagna che mi diede anche un figlio che chiamai Manuel, anche se nella tribù tutti lo chiamavano Caciquillo.

Nel 1797, approfittando di una amnistia generale emessa dal Re di Spagna per coloro che nelle colonie non si erano macchiati di delitti di sangue, entrasti a far parte del corpo dei Blandengues.

Subito mi spedirono insieme ad altri compagni a sorvegliare e controllare la vasta frontiera con il Brasile.

Lì incontrasti una persona che ebbe un’influenza significativa sulla tua vita.

In quella terra di confine incontrai un afro-montevideano che era stato catturato dai portoghesi e ridotto in schiavitù. Ebbi pena per quel giovane e decisi di comprarlo per ridargli la libertà.

Da allora Joaquin Lenzina, più noto come el negro Ansina, grato per averlo tirato fuori dalla schiavitù, mi accompagnò per il resto della vita, diventando il mio miglior amico e nell’esilio paraguaiano biografo ufficiale della mia esistenza.

Intanto che voi in America Latina eravate impegnati nelle vostre faccende, Napoleone Bonaparte in Europa conquistava una nazione dietro l’altra, tra cui la Spagna, facendo inoltre prigioniero Re Ferdinando VII.

Quando si venne a conoscenza dei fatti che trasformavano radicalmente la situazione sociale e politica in Europa, le colonie iberiche, non avendo più una Corona Reale a cui far riferimento, si sentirono svincolate dalla sottomissione alla monarchia spagnola e i vari movimenti indipendentisti – sull’esempio degli Stati Uniti d’America – costituitesi nelle varie capitali latinoamericane promuovevano e alimentavano l’idea che era giunta anche per loro il momento tanto atteso dell’indipendenza.

Purtroppo le truppe spagnole di stanza nei paesi dell’America Latina, la vedevano in altro modo. Essi dicevano: «Adesso il nostro Re è prigioniero di Napoleone, ma quando sarà rilasciato tutto dovrà tornare come prima».

Ovviamente le popolazioni delle nascenti nazioni latinoamericane non accettavano questo modo di procedere per cui inevitabilmente sorsero dei conflitti tra le truppe spagnole e i patrioti dei diversi paesi dell’America del Sud.

Tu, intravedendo il caos che sarebbe sorto dopo la sconfitta della Spagna tra le diverse città desiderose di avere un ruolo da protagonista nella storia latinoamericana, elaborasti l’idea federalista come collante per tenere insieme le varie province latinoamericane.

La mia idea di federalismo era molto semplice: un governo centrale forte a cui doveva essere affidata la gestione economico finanziaria per ogni paese, nonché la difesa del territorio di fronte a un attacco esterno. Per il resto ogni realtà locale (Perù, Venezuela, Argentina, ecc.) potevano imbastire la loro vita sociale e politica secondo il volere dei propri cittadini.

Tutto ciò non fu possibile realizzarlo a causa dell’opposizione, neanche tanto nascosta, che fece la potenza imperiale di allora, cioè l’Inghilterra, che piano piano andava sostituendosi alla Spagna sulla scena internazionale.

Infatti una delle conseguenze di questa nuova fase fu il mio esilio in Paraguay voluto sia dalla Spagna che dall’Inghilterra. Con il mio fedele amico e servitore Ansina, fui confinato in una località vicina ad Asunciòn, in una forma che possiamo paragonare agli arresti domiciliari, in quella situazione passai oltre trent’anni.

Ma intanto le mie idee facevano sempre più presa tra le varie popolazioni sudamericane fino a diventare patrimonio culturale e universale di tutte le nazioni che allora premevano per trovare il loro posto sul nuovo scenario internazionale.

Nel 1814 organizzasti a Buenos Aires la Unión de los Pueblos Libres (Unione dei popoli liberi). Durante quella assemblea tutti i delegati presenti all’unanimità ti onorarono con il titolo di Protettore dei popoli liberi. Un bel riconoscimento per le tue idee e per il tuo modo di conquistare le nuove nazionalità ai principi che propugnavi da sempre di uguaglianza e di libertà.

Fu un momento molto gratificante per me in quanto stava a significare che tutta la mia vita era stata spesa per la libertà delle colonie spagnole che si affacciavano sul Rio de la Plata, per la dignità dei popoli indigeni e per l’uguaglianza di tutti gli emigranti che cominciavano a riversarsi in Uruguay e nelle province argentine.

Però le nuove autorità che si erano sostituite ai vecchi padroni spagnoli, pur dichiarandoti personaggio prestigioso ed eroe nazionale di tutta la storia latinoamericana, strinsero un accordo per mantenerti confinato ad Asunciòn nel Paraguay, impedendoti così di avere un ruolo di dirigente politico nella nuova società che tu avevi così generosamente aiutato a nascere e svilupparsi.

Ho sempre cercato di realizzare fino in fondo il compito che la Provvidenza mi aveva affidato, per cui anche il mio esilio forzato in Paraguay l’ho vissuto come parte importante della mia vita.

E per come si sono evolute le cose nei paesi latinoamericani, dove nonostante tutto è rimasta traccia del mio disegno federalista, penso che tutta la mia azione abbia inciso in maniera positiva sullo sviluppo successivo di quelle nazioni.

Confinato nella remota e inospitale Villa di San Isidro Labrador Curuguaty, visse gli ultimi anni della sua vita coltivando la terra. Fu in questa città che Artigas, nel 1825, sposò Clara Gómez Alonso, sua compagna fino alla morte. Da questa unione nacque nel 1827 Juan Simeón, l’ultimo della sua numerosa prole, che divenne tenente colonnello in Paraguay e confidente del maresciallo Francisco Solano López.

Artigas seppe conquistarsi la fiducia degli indios guaraní, che nella loro lingua lo chiamavano Caraì Marangatù (padre dei poveri). Dopo trent’anni di esilio in Paraguay, morì a 86 anni. Il 23 settembre 1855, i suoi resti mortali furono rimpatriati in Uruguay con una solenne cerimonia, e furono collocati in Plaza Indipendencia a Montevideo, in un imponente mausoleo meta ancora oggi di numerosi visitatori.

Don Mario Bandera

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