I Ricostruttori: Un cammino per continuare a nascere

Testimonianza sui «ricostruttori nella preghiera»

Testo di Amarilli Varesio !


A metà degli anni Settanta un gesuita inizia il suo apostolato per i «lontani», chi si è allontanato dalla chiesa ma anela a una vita spirituale. Crea un gruppo di preghiera nel quale insegna tecniche di meditazione orientale. Oggi i Ricostruttori contano 50 comunità di vita e centinaia di frequentatori. «L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere».

Quando avevo otto anni, la mia famiglia è migrata verso Sud. Dalle colline del Monferrato ci siamo trasferiti sui pendii dell’Etna per vivere in una cascina dei «Ricostruttori nella preghiera». La casa era stata un antico palmento (luogo adibito a pigiatura e torchiatura dell’uva) ed era immersa in uno sterminato agrumeto con alberi di limoni, aranci e numerosi ulivi, in cui io scorrazzavo con la maglia di Ferrante, l’ex giocatore del Toro, e scrivevo lettere nostalgiche alle mie amiche lontane.

Ricordo che, a circa dodici anni, quando suonava la campanella di scuola per la fine delle lezioni, uscivo dal portone principale facendo finta di non vedere la Peugeot scassata e il signore con la barba e i capelli lunghi al volante che mi attendeva di fronte alla scuola media. Lanciavo un’occhiata feroce a mio padre per fargli capire che doveva venire a prendermi dietro l’angolo, perché mi vergognavo del suo aspetto così scompigliato e diverso da quello dei padri dei miei amici.

Fierezza e imbarazzo

Alternavo fierezza e imbarazzo per il fatto di appartenere a una famiglia così fuori dall’ordinario e, verso i miei genitori, avevo un atteggiamento ambivalente, che oscillava tra ammirazione e divergenza.

Casa nostra era sempre piena di ospiti, amici, «comunitari» (membri di altre comunità dei Ricostruttori, ndr), viaggiatori, curiosi, e per questo era difficile trovare dei momenti in cui andare in vacanza da soli. Adoravo addormentarmi ai piedi di mamma e papà mentre meditavano alla luce delle candele, ma quando lo facevano prima dei pasti, a noi figli toccava aspettarli con i gorgoglii alla pancia.

Mi piaceva moltissimo l’idea che i miei utilizzassero tecniche di rilassamento e medicina naturale per curarci, ma odiavo quando mi dicevano che dovevo imparare a respirare col diaframma per farmi passare i crampi allo stomaco.

Crescendo, ho cominciato a chiedermi in maniera critica e curiosa che significato avesse la danza che i miei genitori facevano per prepararsi alla «doccia mattutina», lo strumento che utilizzavano per infilarsi l’acqua nel naso da una narice e poi soffiare sonoramente il catarro dall’altra, perché non bevessero caffè né fumassero, rifiutassero la televisione, perché facessero yoga al mattino e alla sera, perché ci fosse un’enorme rilievo in cemento della Sindone nel luogo nel quale meditavano.

Superati i rifiuti adolescenziali, a diciassette anni, prima di partire per un viaggio che sarebbe durato un anno, ho deciso di fare il corso di meditazione per darmi coraggio. I miei mi avevano insegnato che la meditazione è il principale strumento di crescita e supporto. Da quel momento, ho cominciato a comprendere sempre meglio il senso di una vita semplice, aperta agli altri, capace di liberarsi da forme di attaccamento materiale, e quindi, di quella migrazione al contrario, da Torino alla Sicilia, che era stata, pensandoci adesso, una sana dolorosa partenza.

La nascita del gruppo

I Ricostruttori nella preghiera sono nati nel 1978 per iniziativa di padre Gian Vittorio Cappelletto, sacerdote gesuita veneto, che, all’epoca della fondazione del movimento, risiedeva a Torino. Padre Cappelletto aveva cominciato a praticare la meditazione a 45 anni, mentre si occupava, oltre agli incarichi da religioso, di cultura e arte, anche come assistente all’università.

Il suo intento era quello di fare un apostolato per i «lontani», coloro che si erano allontanati dalla Chiesa ma mantenevano una aspirazione spirituale cercando risposte altrove. Infatti verso la metà degli anni ‘70, in Europa si cominciavano a diffondere metodi di meditazione orientale, sia induista che buddhista.

I primi anni

Con la barba folta quasi tutta imbiancata e un tono di voce dolce e meditativo, Roberto Rondanina, sacerdote e responsabile generale dei Ricostruttori dopo la morte di padre Cappelletto, avvenuta nel 2009, ricorda: «Eravamo nel post ‘68, con la crisi delle ideologie e della speranza di cambiare il mondo. Con una rivoluzione mancata, c’è stato un ritorno alla religione, ma in forma alternativa, diversa da quella confessionale o istituzionale. Tra queste forme, c’era anche la meditazione, che, in quell’epoca, era una novità assoluta. Il ripiegamento verso forme più intime di preghiera veniva dalla consapevolezza che se non cambio me, il mondo non cambia. E anche se cambia, non mi cambio io. Il gruppo ha usufruito dello spirito del post ‘68 nel quale viveva un sentimento molto forte di aggregazione, rispetto a una condizione odierna di maggiore individualismo.

I segni dei tempi che padre Cappelletto ha colto sono stati due: il ritorno a una spiritualità meno inquadrata e, dall’altra, il bisogno di appartenenza».

Il gruppo dei Ricostruttori ha attirato coloro che si sentivano cristiani ma cercavano esperienze diverse perché quelle tradizionali non le percepivano come trasformanti. Continua Roberto: «La meditazione diventa una grande speranza di trasformazione individuale e, quindi, trasformando se stessi, anche il proprio ambiente relazionale migliora».

Padre Cappelletto ha voluto andare in India per conoscere le forme di meditazione orientali praticate dai maestri indiani, non per aderire all’apparato dottrinale e filosofico dell’Oriente, ma solo per trarne alcuni elementi, quali la valorizzazione del respiro, la preghiera in formule brevi, ripetitive, mantriche, cioè forme di raccoglimento, interiorizzazione e concentrazione.

Attraverso questi incontri, padre Cappelletto ha riscoperto un filone che era già presente nella tradizione cristiana di tipo mistico o monastico: quello dell’esicasmo (dal greco exichia, pace spirituale, silenzio interiore). Una meditazione mantrica legata alla respirazione, cioè la preghiera contemplativa, chiamata «preghiera del cuore». La tradizione esicastica era praticata prima dai monaci del deserto, poi si diffuse in tutto il mondo cristiano, in Giordania, in Egitto tra i copti, nella Chiesa orientale ortodossa. In Europa era conosciuta da personaggi isolati, all’interno di ambienti monastici, non era applicata a livello collettivo.

Ricostruire dentro e fuori

Il gruppo si è formato attorno alla pratica della meditazione, dello yoga e di varie tecniche di rilassamento. Senza che padre Cappelletto lo abbia previsto, è nata una convivenza religiosa composta da uomini e donne e alcuni sacerdoti. Nella sede dei Ricostruttori di Torino, Roberto racconta: «Le esigenze principali erano due. Da una parte creare dei luoghi in città dove incontrarsi per fare meditazione. All’inizio siamo sempre stati ospiti di ambienti religiosi gesuiti, salesiani. Il padre si appoggiava alle case che gli prestavano. Dall’altra, trovare posti fuori città dove fare i ritiri spirituali per dedicare spazio alla preghiera e al silenzio.

Abbiamo cominciato a ricostruire cascinali abbandonati, ad abitare vecchie abbazie, e il lavoro è stato una potentissima forza aggregativa.

Eravamo giovani e pieni di energie. Il nome “Ricostruttori” è nato dall’intento di ricostruire ambienti come parabola e simbolo della ricostruzione interiore».

Questo intenso percorso di condivisione ha portato, in seguito, alla ricerca di un riconoscimento ecclesiastico. Nel 1988, i «Ricostruttori nella preghiera» sono diventati un’associazione pubblica di fedeli retta dal vescovo di La Spezia; una forma giuridica della chiesa che tiene assieme varie scelte di vita.

Attualmente, le sedi dei Ricostruttori sono più di 50, sparse in tutta Italia, e sono luoghi di incontro, nei quali la meditazione unisce e accoglie umanità differenti, simpatizzanti occasionali e frequentatori abituali che possono essere di diverse provenienze culturali. Inoltre, si organizzano corsi di meditazione, training estivi, conferenze, concerti, si predispongono ambulatori che fanno un grosso servizio sociale perché, oltre a considerare il malato come un’unità di corpo e spirito, hanno prezzi molto bassi, e sono gratuiti per chi non può pagare.

I centri di meditazione sono abbelliti da restauri e opere artistiche create dagli stessi comunitari e dai volontari, «espressione di potenzialità inaspettate che si esprimono una volta riacquistata la serenità e l’armonia interiore», abbozza con un sorriso Roberto. Chi vive in comunità non conduce una vita religiosa intesa in senso strettamente tradizionale, cioè vissuta solo all’interno della struttura. «La nostra forma è mista. Ci sono persone che vivono all’interno della comunità che si occupano più dell’organizzazione delle attività: laboratori artistici, musicali, aikido, riflessologia, e persone che invece stanno molto all’esterno, studiano, lavorano, si impegnano in un ambito sociale, come Silvana che da anni lavora al carcere delle Vallette a Torino».

I Ricostruttori professi

La comunità finora si è sempre sostenuta con le proprie forze, grazie agli stipendi dei membri della comunità e a offerte occasionali.

Nell’ambito dell’associazione si distinguono i professi volontari e i professi comunitari. I primi sono coloro che, in senso strettamente giuridico, sono pubblicamente associati (diversamente dai frequentatori) e, dopo un periodo di dieci anni di un percorso all’interno dei Ricostruttori, riconoscendosi in quel carisma, fanno la professione. Cioè, di fronte alla comunità si prendono l’impegno di dedicare il proprio tempo e le proprie energie extra alla causa dei Ricostruttori, «è una sorta di promessa che uno fa di fronte allo Spirito Santo». Essi spesso vivono in comunità. I secondi, invece, sono quelli che hanno accolto le tre promesse monastiche di povertà, castità, obbedienza e conducono una vita religiosa comunitaria.

La meditazione

Per come è intesa dai Ricostruttori, la meditazione si può accompagnare a uno stile di vita sobrio e ad alcune scelte finalizzate a prendere consapevolezza del proprio corpo, dei propri limiti e delle proprie possibilità. Per esempio dormire a terra, sul duro, lavarsi con l’acqua fredda, effettuare le asana (posture yoga, ndr) per mantenere desto e ben massaggiato il sistema ghiandolare, fare un giorno di digiuno al mese, essere vegetariani, evitare fumo e alcolici, compiere quattro meditazioni al giorno di mezz’ora ciascuna. Questi non sono aspetti ascetici obbligatori, ma consigli da applicare in libertà di coscienza alla propria vita.

Roberto racconta la sua singolare esperienza riguardo la meditazione: «All’inizio, per me la meditazione ha rappresentato una grande novità perché era un’esperienza di interiorità, una ricerca di contatto con Dio che non passasse solamente attraverso una preghiera vocale. Io ero un semi-lontano, avevo un sacco di dubbi su tutto, ma desideravo credere. La meditazione mi ha permesso di fare un’esperienza non puramente intellettuale».

Nel gruppo si riflette molto sulla presa di distanza dai condizionamenti culturali e sociali (non dai compiti e dalle responsabilità), spesso radicati in zone profonde di noi. Una presa di distanza necessaria per iniziare a scoprire l’unicità della propria persona e rendere così possibili nuove forme di relazione umana. Inoltre, il dominio delle passioni può essere facilitato dalla disciplina psico-fisica della meditazione, perché, se non integrate, le passioni separano l’uomo. La tentazione lo frammenta. Mentre la meditazione vuole essere un processo di unificazione volto a riconoscere il centro, il desiderio profondo che ogni uomo porta dentro.

Roberto mi rivela un dettaglio prezioso: «L’esperienza spirituale è stata molto diversa dalle aspettative iniziali. Man mano, mi si è chiarito dentro che, al di là di quello che uno può percepire, l’importante è scoprire la dinamica della crescita interiore, cioè la possibilità che noi abbiamo di generare amore. L’amore e la presenza di Dio sono un dono gratuito dentro di noi, ma questa presenza non cresce da sola, devo coglierla, aderirvi, lasciarmi attrarre ed esprimerne la bellezza. I doni spirituali, le piccole esperienze meditative profonde, dove uno sperimenta un’apertura di cuore maggiore di ciò che uno vive normalmente, sono una cosa bella e gratificante. L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere, ma per essere devi poi scegliere di vivere quell’apertura. Una volta percepivo la meditazione come qualcosa che automaticamente mi avrebbe cambiato, ma purtroppo non è così. Attorno alla meditazione ci sono tanti tipi di letture. È vero che fa bene, che rilassa, ma quello che non avevo colto è come uno si possa generare come persona. Ora per me questa è la cosa più importante di tutte. L’esperienza mistica, quando si rivela, ci fa cogliere una realtà d’amore, ma se questa non la faccio mia, non mi serve a nulla».

Ricordo un ritiro spirituale nel quale ho ascoltato parole di Roberto mi sono poi rimaste appiccicate addosso come un mantra quotidiano: «Con la nascita iniziamo un cammino nel quale ogni uomo deve finire di nascere, in un incessante partorire se stessi. Dobbiamo completare, riempire di significato, dare qualità al dono della vita; pensare alla vita come mistero da generare piuttosto che da scoprire.

Siamo costituiti dal desiderio, ma non sappiamo bene cosa desideriamo. Tra le tante cose che la vita ci propone, come riconoscere un idolo da ciò che ci dà vita? Il mercato dei consumi ci distrae, ci stordisce e sostituisce gli oggetti alla qualità della relazione. Il percorso spirituale ci aiuta a riconoscere le fughe da noi stessi e a trovare cosa ci corrisponde in profondità».

Amarilli Varesio

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