Testi di Chiara Brivio
Tre libri, tre punti di vista diversi, un obiettivo comune: riportare un po’ di equilibrio e di spessore nella
narrazione pubblica dell’immigrazione. Il primo ci accompagna dal chiasso della piazza mediatica al silenzio del lavoro di un medico forense che tenta di restituire un’identità a corpi senza nome recuperati nel Mediterraneo. Il secondo tra le mura della casa di una famiglia semplice che ospita sei ragazzi rifugiati (in mezzo a intolleranza, insulti social, ma anche tanta solidarietà). Il terzo tra le pieghe della vicenda personale di Kaled, prima miliziano anti Gheddafi, poi trafficante di uomini in Libia.
«Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Una frase che per molti risuonerà come uno dei principi fondamentali della dottrina cristiana: accogliere lo straniero, il migrante, il senzatetto, il pellegrino.
Oggi, purtroppo, l’accoglienza, una delle questioni fondamentali del nostro tempo, si trova al centro di un infervorato (quando non inferocito) dibattito pubblico e politico. Tre libri di recente pubblicazione affrontano il tema con grande sensibilità e compostezza, e con un pregio comune: dare voce a chi non ce l’ha.
Tre volumi, opera di tre scrittrici che, offrendo una riflessione seria e pacata sulla questione migranti, interpellano le coscienze di tutti, credenti e non.
Naufraghi senza volto
Impegnata da anni nell’identificazione e nel riconoscimento delle vittime dei naufragi nel Mediterraneo, in particolar modo quelli del 3 ottobre 2013 (che fece 366 vittime) e del 18 aprile 2015 (quasi 1000), Cristina Cattaneo, medico legale e direttrice del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) dell’Università statale di Milano, ci parla della sua esperienza.
«Naufraghi senza volto» è il racconto del viaggio, fisico e simbolico, che porta le identità degli scomparsi dal fondo del mare alla terra ferma – tra Milano, Roma e Melilli -, attraverso la minuziosa ricerca e identificazione di oggetti, vestiti, corpi, ossa.
Succede che, nel descrivere il suo lavoro, la studiosa racconti del ritrovamento di una lettera dell’Unhcr che attesta l’«autentico» status di rifugiata politica di una vittima, della pagella scolastica di un ragazzino di 14 anni del Mali cucita ai vestiti (protagonista della vignetta di Makkox successivamente divenuta virale), di un sacchetto di terra conservato in una tasca, di un rosario buddista, una croce e un corano insieme. Tutti segni di una disperazione che supera ogni barriera ideologica e religiosa.
Succede anche che il racconto della missione di ridare un’identità e una storia a chi l’ha persa, passi dai volti e dai ricordi di quei parenti che mai si sono rassegnati, che mai hanno smesso di cercare i loro cari, in barba a ogni «ma chi vuoi che li cerchi questi morti?».
Prima di ogni cosa, però, il libro di Cristina Cattaneo è un monito contro l’indifferenza e contro le logiche campanilistiche del «ma con tutti i problemi che abbiamo in Italia siamo pazzi a occuparci anche di questo?».
Come sottolinea l’autrice, le tragiche storie delle vittime che ha incontrato, scolpite indelebilmente sui loro corpi e le loro ossa, ci ricordano come sia fondamentale per noi «pensare ai loro morti» come se fossero nostri, per comprendere che siamo tutti esseri umani.
Un monito che l’autrice lancia ai singoli, ma anche alle istituzioni, puntualizzando come soltanto attraverso la cooperazione e la collaborazione tra i governi si potrà affrontare efficacemente il problema.
«Naufraghi senza volto» è un libro dallo stile sobrio e pacato, nonché ben scritto. Un vero antidoto al chiasso che oggi circonda la questione migranti.
A casa nostra
Nicoletta Ferrara e il marito Antonio Calò, insieme ai loro quattro figli, dopo il naufragio nel Mediterraneo del 18 aprile 2015 che provoca quasi mille morti, decidono di accogliere in casa sei ragazzi africani, tutti musulmani: Ibrahim, Tidjane, Sahiou, Mohamed, Saeed e Siaka.
«A casa nostra» è il diario che Nicoletta, maestra di scuola primaria di Treviso, ha tenuto negli anni. Vi racconta una «straordinaria» avventura che sin dal principio sembra figlia di un «disegno più ampio». Come i Calò, tra lingue che si mescolano, una pastasciutta e un piatto africano, stentati racconti delle torture subite in Libia, sono diventati una vera e propria famiglia «allargata» che tuttoggi vive unita e affiatata.
Quelle di Nicoletta Ferrara sono pagine profonde, che rispecchiano la fede granitica della sua famiglia che non vacilla mai, nemmeno davanti all’ennesimo rifiuto di una protezione umanitaria, all’ennesimo insulto sui social, alla diffidenza di amici e vicini.
Oggi i ragazzi lavorano tutti, parlano la nostra lingua, si stanno costruendo una vita in Italia. Sono sei volti, sei nomi, sei storie che ritrovano dignità attraverso la voce dell’autrice: «Ho pensato alle immagini degli sbarchi e a come ciascuno nella massa si confonda, mentre invece ciascuno porta su di sé una storia, degli affetti lasciati, una mamma e un papà che aspettano un ritorno, una moglie in attesa, delle speranze e una voglia di vita che nessuno ha il diritto di negare. Nessuno».
Il libro, scritto con grande sensibilità, dolcezza e una buona dose di ironia, è soprattutto il racconto della sua personale vicenda di madre di dieci figli. Un punto di vista inedito che forse ancora mancava nell’ampia letteratura disponibile oggi sul tema dell’immigrazione.
«A casa nostra» è un inno alla solidarietà, che richiama tutti a farsi artefici di una società migliore.
Io Khaled vendo uomini e sono innocente
Khaled è un ex combattente delle milizie di Misurata che hanno partecipato alla rivoluzione contro Gheddafi. Nel caos della Libia del dopo regime, dove non ci sono né vinti né vincitori, si ritrova a diventare trafficante di esseri umani. A volte stupra, a volte uccide. «Io Khaled vendo uomini e sono innocente», romanzo d’esordio di Francesca Mannocchi, giornalista, documentarista ed esperta di migrazioni, è uno sconvolgente viaggio nella mente del suo protagonista, nel quale il confine tra il bene e il male, tra vittima e carnefice, tra innocente e colpevole si fa poroso.
Ingegnere mancato, ribelle tradito dalla rivoluzione, perseguitato dalla morte in battaglia dell’amato fratello Murad, Khaled non ha mai assaporato il gusto della «libertà», perché la «guerra non è mai davvero finita».
Con una prosa asciutta e scarna, l’autrice descrive in prima persona un personaggio che si ritrova sempre al «limite» in un paese che «puzza» come la corruzione dei ministeri, come «i negri» nelle stive dei barconi («il vero oro della nostra Libia»).
I migranti che Khaled traffica non hanno volti né nomi, sono quasi una massa indistinta, la merce che gli serve per raggiungere il suo obiettivo: una vita comoda e tranquilla a Istanbul. L’unica a lasciare un segno è Fouzieh, la siriana di Homs annegata insieme al piccolo Bilal perché priva del denaro necessario per pagare i salvagenti. Fouzieh lo perseguita nelle sue notti agitate, forse simbolo di una pietas dalla quale Khaled pensava di essersi «salvato».
«Io Khaled vendo uomini e sono innocente» è un libro coinvolgente, a tratti inquietante, nel quale la vera protagonista è l’ambiguità, quella di Khaled e quella della stessa Libia, dilaniata da guerre intestine, mai veramente liberata, né dai vecchi colonialisti né dalla feroce dittatura del rais. È un profondo chiaroscuro, dove tutti, in qualche modo, sono complici del male – «siamo tutti piccoli Satana (Gheddafi), tutti piccoli dittatori di noi stessi», conclude Khaled -, e dove nessuno può sentirsi davvero libero e innocente.