Testo di Enrico Casale
All’inizio degli anni 2000 si apre la rotta della cocaina dal Sud America all’Africa dell’Ovest per l’Europa. Da Oriente, invece, arrivano gli oppiacei e le metanfetamine. Il traffico è gestito da organizzazioni dei 4 continenti molto interconnesse. Ma l’Africa da zona di transito è diventata terra di produzione e consumo. E mancano i fondi per i trattamenti e la riabilitazione.
Crocevia di traffici, ma anche mercato di consumo. Il rapporto dell’Africa con la droga si fa sempre più forte e per le grandi organizzazioni internazionali di trafficanti, il continente sta diventando una terra ricca nella quale gestire e potenziare un business miliardario.
Il quadro complessivo non è dei più rassicuranti. «La produzione e il traffico illeciti di cannabis – spiegano i responsabili di Unodc (United Nations office on drugs and crime, l’agenzia Onu che si occupa del rapporto tra stupefacenti e crimine) – è la sfida più grande che le forze dell’ordine e le organizzazioni internazionali si trovano ad affrontare in Africa in questi anni. La foglia di cannabis è prodotta in tutto il continente mentre la produzione di resina è limitata ad alcune zone del Nord Africa (in particolare Marocco, Algeria ed Egitto, vedi box). Sebbene la cannabis rimanga la droga più prodotta e consumata nel continente, l’abuso di cocaina, oppioidi, anfetamine e nuove sostanze psicoattive si sta diffondendo rapidamente. E anche l’eroina sta prendendo piede». Tendenzialmente, l’eroina arriva per terra e per mare dall’Asia centrale (Afghanistan, Pakistan e Iran) o dal Sud Est asiatico (Birmania, Cambogia, Laos, Vietnam, Thailandia). La marijuana arriva dall’Asia centrale, ma esistono anche una produzione europea (Balcani, in particolare Albania, Macedonia, Kosovo), una nordafricana (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto sul percorso del Nilo) e una nell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Tanzania). La rotta della marijuana è più mediterranea e si mescola ai traffici di esseri umani e di armi. La cocaina invece è una produzione tipicamente latinoamericana.
Cocaina sudamericana
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, le rotte dell’Oceano Atlantico settentrionale non sono state più sicure per i trafficanti. Troppi i controlli di polizia sui velivoli e sulle navi mercantili.
I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a guardare con sempre maggiore interesse alle rotte dell’Atlantico meridionale. Nei primi anni Duemila, l’Africa e, in particolare l’Africa occidentale, era ancora un terreno vergine per il traffico di cocaina. Esistevano però rotte collaudate per il traffico di sigarette ed esseri umani. Piste che dalla costa occidentale risalivano il Sahel, attraversavano il Sahara per giungere fino alla costa mediterranea e, da lì, all’Europa meridionale (Italia e Spagna). I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a sfruttare le lunghe coste africane per sbarcare i loro carichi di polvere bianca. Facilitati da istituzioni statali fragili e da funzionari facilmente corrompibili hanno creato le loro basi in alcuni paesi.
Il caso più eclatante è quello della Guinea-Bissau. Nell’aprile 2008, la polizia locale ha sequestrato 635 chilogrammi di cocaina, in un periodo in cui la Guinea-Bissau aveva solo 60 agenti addetti alla lotta al narcotraffico. Ovviamente il flusso di droga era grandemente superiore e i narcotrafficanti godevano della complicità di alcuni alti gradi delle forze armate. Nel traffico si dice fossero coinvolti anche esponenti dei movimenti jihadisti saheliani (al Qaeda per il Maghreb islamico, Aqmi, in particolare) che, attraverso la droga, cercavano fonti di finanziamento.
Nonostante il rafforzamento delle autorità preposte al controllo del traffico di stupefacenti, secondo Unodc, in Guinea-Bissau «l’intero bilancio del settore sicurezza e giustizia del 2018 è inferiore alla metà del valore medio di una tonnellata di cocaina venduta in Europa». «Nonostante un calo della quantità di cocaina sequestrata negli ultimi anni, il flusso di droghe che attraversa la Guinea-Bissau rimane significativo, con i trafficanti che spostano le rotte e utilizzano metodi meno tracciabili per contrabbandare la polvere bianca – osserva Antero Lopes, direttore del dipartimento legge e sicurezza presso la missione delle Nazioni Unite a Bissau -. La Guinea-Bissau è vittima del narcotraffico a causa della vulnerabilità delle sue istituzioni. Qui, il crimine organizzato corrode anche la stabilità e la democrazia». L’Onu stima che «non meno di 30 tonnellate» di cocaina passino ogni anno attraverso la Guinea-Bissau. I carichi vengono paracadutati nelle isole al largo del paese e da lì trasportati da pescherecci, verso il Nord, mentre il resto viene trasportato sulla costa da pescatori locali e poi portato da militari corrotti al di là dei confini.
La via del Marocco
A partire dal 2015, è proprio il Marocco a essere diventato uno dei principali hub per il commercio di cocaina. Nel 2017, le autorità di Rabat ne hanno sequestrato 2,5 tonnellate in una sola operazione. Sempre nel 2017 sono stati scoperti 116 kg di cocaina nel porto di Tangeri. La droga proveniva dal Brasile ed era destinata in larga parte all’Europa e in misura minore alla stessa Africa.
Ma se Guinea-Bissau e Marocco sono i punti di riferimento più importanti per i trafficanti, non sono gli unici. Grandi sequestri di cocaina sono stati effettuati, per esempio, in Tunisia. Nel 2016 la polizia è riuscita a intercettare quasi una tonnellata di polvere bianca nel porto di Tunisi diretta verso l’Italia. Altri sequestri importanti sono stati eseguiti in Ghana, Madagascar, Mali, Mozambico e Nigeria.
Passaggio ad Est
Sulla costa orientale è Gibuti il principale snodo. Nel 2017 è stata sequestrata mezza tonnellata di cocaina nel porto gibutino, il sequestro più importante dal 2004. «Negli ultimi anni – osserva Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Università Cattolica di Milano e dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), autore, tra gli altri, di studi sui traffici illegali -, Gibuti è stata ritenuta il ventre molle del traffico di droga in Africa orientale. Dai docks del suo porto passa la droga proveniente dall’Asia in modo incontrollato. Nelle ultime indagini di polizia e in alcune inchieste giornalistiche si evidenzia il ruolo del porto di Gibuti nel traffico di armi e di droga. Anche Kenya e Tanzania sono, negli anni, diventati punti di approdo della droga e le rotte che partono da lì si uniscono a quelle di Gibuti e vanno verso Nord».
Spesso i trafficanti, secondo quanto riporta Unodc, corrompono gli agenti di polizia o i funzionari pagandoli in parte in contanti e in parte in droga. Questi ultimi, rivendono gli stupefacenti creando e alimentando un mercato che, fino a pochi anni fa, era sostanzialmente inesistente.
Non solo eroina
Se l’Africa occidentale è invasa dalla cocaina, quella orientale è la patria degli oppiacei (eroina in primis). Nei porti di Tanzania, Kenya, Gibuti arrivano carichi sempre maggiori di stupefacenti dall’Asia centrale e, in particolare, da Afghanistan e Pakistan. La droga viene trasportata sulle stesse rotte che seguono i migranti verso l’Europa, ma si diffonde anche in altre nazioni. Nel 2017 sono stati sequestrati carichi fino a 800 kg in Algeria, Egitto, Libia e Marocco, ma anche in Ghana, Madagascar, Mozambico, Sudafrica.
A combattere il traffico sono le varie polizie locali (come quella tanzaniana che ha sequestrato 27 kg di eroina nei primi sei mesi del 2017), ma anche le forze armate occidentali che mantengono una forte presenza nell’Oceano Indiano in funzione antipirateria. Le navi militari spesso intercettano i trafficanti e operano sequestri ingenti. Nel maggio 2017, la Royal Navy della Gran Bretagna ha sequestrato 266 kg di eroina che erano nascosti nel fondo del freezer di un peschereccio.
All’eroina si aggiungono anche altre sostanze. Tra esse, la metanfetamina, un derivato sintetico dell’anfetamina che, rispetto a essa, raggiunge più rapidamente il cervello con un effetto stimolante più intenso e con un maggiore potenziale di dipendenza. Prodotta in Oceania e in Asia, arriva nell’Africa occidentale e in quella centrale. Tra il 2016 e il 2017, la National Drug Law Enforcement Agency nigeriana ha sequestrato ingenti quantitativi di droga, in particolare 40 kg di metanfetamine. Sequestri sono stati compiuti anche da Kenya e Sudafrica rispettivamente 9 e 440 kg.
Oltre alla metanfetamina, vengono trafficate sostanze quali il tramadol, un oppioide sintetico, e il metaqualone, un farmaco con azione sedativa-ipnotica, simile agli effetti di un barbiturico. Sono farmaci e non rientrano nelle tabelle degli stupefacenti veri e propri, ma sono considerati pericolosi se non vengono assunti sotto il controllo medico.
Il tramadol è contrabbandato soprattutto nella regione del Sahel. Nel 2016 ne sono stati sequestrati in Niger 8 milioni di tavolette, in Nigeria 3,1 tonnellate. Negli ultimi anni la Libia è diventato un punto di transito di tramadol verso l’Egitto. Il metaqualone invece arriva dall’Indonesia e sbarca sulle coste mozambicane e sudafricane. Alla fine del 2016, la polizia sudafricana ne ha sequestrate 8 milioni di tonnellate.
Il mercato africano
Negli anni, l’Africa si è trasformata da regione di passaggio in mercato della droga. «Il fenomeno dell’abuso di sostanze stupefacenti nel continente – spiegano gli esperti di Unodc – non è facilmente quantificabile. Le autorità non effettuano un monitoraggio continuo e quindi le statistiche disponibili sono parziali o datate». Secondo le ricerche di Unodc, la sostanza più utilizzata è la cannabis. Le stime dell’agenzia dicono che il 7,5% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni ne fa uso (circa il doppio della media mondiale). L’Africa centrale e quella occidentale sono le regioni in cui l’utilizzo è più massiccio attestandosi intorno al 12,4% della popolazione.
Anche l’eroina sta prendendo sempre più piede. Le autorità sanitarie di Costa d’Avorio, Kenya, Mozambico, Nigeria, Tanzania, Sudafrica e Zambia hanno segnalato un incremento dei tossicodipendenti che fanno uso di questa e di altre sostanze derivate dall’oppio.
Sempre secondo Unodc, nel continente quasi due milioni di persone si iniettano o fumano eroina.
Solo un terzo dei paesi in Africa ha però un budget per il trattamento dell’abuso di sostanze. Strutture di trattamento e riabilitazione, nonché trattamenti di base e servizi sanitari correlati alla droga, sono ancora scarsi. La maggior parte del trattamento fornito è la disintossicazione, a volte solo attraverso il supporto psicosociale. In passato veniva fornita assistenza in ospedali psichiatrici sovraffollati e senza farmaci specifici. Anche se in molti paesi qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi due anni, Burundi, Capo Verde, Eritrea, Etiopia, Kenya, Liberia, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Nigeria, Senegal, Seychelles e Tanzania hanno investito maggiori risorse. In Kenya, per esempio, è stato introdotto un protocollo per far fronte all’abuso. Il governo di Nairobi vuole sradicare un fenomeno che colpisce i giovanissimi (il 50% dei tossicodipendenti ha tra i 10 e i 19 anni) ed è veicolo di trasmissione dell’Aids-Hiv. In Egitto e nelle Seychelles si stanno sperimentando terapie sostitutive degli oppioidi. In Senegal, nel 2017, 178 pazienti sono stati ammessi a una terapia a base di metadone. Anche in Tunisia sono stati aperti centri ad hoc mentre in Kenya, Mauritius e Tanzania hanno varato progetti per fornire aghi e siringhe sterili ai tossicodipendenti per evitare la trasmissione di malattie infettive.
Mafie e jihadisti
Il traffico di stupefacenti è gestito da più attori. «La base – continua Dentice – è formata da piccoli criminali, poveri disperati che fanno da manovalanza della malavita per procurarsi da vivere. Questa manovalanza è gestita da grandi organizzazioni criminali africane, europee e latinoamericane che collaborano nei vari settori. Il traffico di cocaina, per esempio, è gestito dalle organizzazioni sudamericane. L’eroina che proviene dall’Asia invece è in mano alle mafie asiatiche. Quando cocaina ed eroina arrivano in Europa, la protagonista assoluta è la Ndrangheta calabrese che ne gestisce il commercio fino al dettaglio. La Ndrangheta ha fortissimi legami sia con i cartelli latinoamericani sia con quelli asiatici. La Sacra corona unita, invece, gestisce tutto il traffico di marijuana ed eroina sul lato adriatico della nostra penisola. Cosa Nostra ha perso un po’ di peso nel traffico di droga, ma rimane attiva e ha collegamenti con il Nord Africa per la marijuana. La Camorra si inserisce in più mercati soprattutto nel settore della cocaina».
Anche in Africa si stanno rafforzando le organizzazioni criminali, in particolare la mafia nigeriana che oggi è la più forte e la più strutturata. Su questo cartello non si hanno grandi informazioni e sono in corso ancora investigazioni da parte delle polizie internazionali. Operazioni sotto copertura stanno cercando di definirne la struttura. Esistono poi una serie di cartelli minori in Ghana e Burkina Faso.
La zona di confine tra Burkina Faso e Niger è una zona transfrontaliera strutturata in cui operano a stretto contatto organizzazioni terroristiche e criminali.
In alcuni casi, la malavita ha collegamenti con organizzazioni politico-militari. «In Afghanistan – continua Dentice – c’è una vasta produzione di oppio che viene poi trasformato in eroina. Gran parte di questo ciclo produttivo è gestito dai talebani che poi vendono gli stupefacenti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico. Anche in Africa occidentale ci sono complicità con governi deboli e corrotti».
In questo contesto, si inseriscono anche le milizie jihadiste. Le organizzazioni terroristiche entrano nel traffico di stupefacenti in una doppia funzione: come produttori e come gestori del traffico sui territori da esse controllati. Il caso più emblematico è quello di Mokhtar Belmokhtar, jihadista che nasce come trafficante di sigarette e droga (cocaina e marijuana), gestendo il transito dall’Africa occidentale verso l’Africa mediterranea. Quando aderisce al jihadismo militante, non abbandona la sua vecchia professione dalla quale trae importanti risorse per azioni militari terroristiche nell’Africa occidentale. Ciò fa il gioco delle organizzazioni criminali locali che sfruttano (pagando una «tassa») i collegamenti con i movimenti jihadisti per poter percorrere impunemente le vie dei traffici ed essere sicuri di avere, lungo queste rotte, l’assistenza logistica dei fondamentalisti islamici. «Qualcuno – conclude Dentice – potrebbe chiedersi: ma ciò non entra in contrasto con la fede islamica? Teoricamente sì, ma il jihadismo ha bisogno di fondi e il traffico di droga è un’ottima fonte di entrate».
Enrico Casale
Marocco: il paradiso dei fumatori
Coltivazioni «stupefacenti»
Il Marocco produce un terzo della marijuna e dell’hashish mondiale. La coltivazione è illegale, ma tollerata. E fa vivere oltre 90mila famiglie. Si è sviluppato anche un turismo legato all’«erba» da fumare.
Per il Marocco la droga è un business, illegale ma tollerato. Dalle montagne del Rif, la regione nordorientale al confine con l’Algeria, arriva circa un terzo della produzione mondiale di marijuana e hashish. Gli stupefacenti vengono poi smerciati in Europa e nel Nord America. Ma la coltivazione di cannabis alimenta anche un movimento turistico di europei e nordamericani che visitano il paese proprio perché sanno che possono trovare «erba» buona da fumare.
La produzione affonda le radici nella storia. Da secoli, le popolazioni berbere che vivono nella regione producono il kif, una droga leggera a base di hashish, pezzi di foglie e fiori di cannabis. Una coltivazione incoraggiata dai colonizzatori spagnoli, che così cercavano di mantenere la pace in una regione piuttosto turbolenta e poco incline a farsi sottomettere. Il boom esplode negli anni Settanta. In Europa, si diffonde l’uso della cannabis e nel Rif le piantagioni si estendono per ettari. Non solo, ma proprio quelle montagne diventano una delle mete privilegiate degli hippie di tutto il mondo.
Oggi, il Rif continua a essere il centro dell’industria della droga leggera marocchina. Sebbene la legge nazionale ne vieti la vendita e il consumo, fioriscono vaste piantagioni che garantiscono un reddito a più di 90mila famiglie. A ciò si associa il fenomeno del «turismo dello spinello». «Le persone sono attratte dalle montagne, dalle escursioni, dal clima – ha spiegato all’Agenzia France Presse un ristoratore -. I primi furono gli hippie che negli anni Sessanta venivano qui per cercare una vita diversa. In seguito, le autorità hanno stretto le maglie e lentamente il flusso di turisti è svanito».
Recentemente, però, i turisti sono tornati in massa. La marijuana e l’hashish sono diventati un’attrazione. Sono frequenti i festival a base di ganja (come è anche chiamato «il fumo»). Sono illegali, ma nella regione nessun agente si prende la briga di vietare le manifestazioni e di sequestrare «la roba».
«Qui – ha spiegato un coltivatore -, il clima è molto speciale e non cresce nulla eccetto il kif. Per questo è diventato per noi una fonte di reddito». I piccoli commercianti e le guide prive di licenza si rivolgono ai turisti per offrire loro hashish o un tour delle fattorie vicine per incontrare i «kifficulteurs», i produttori locali di cannabis. Le pensioni di Chefchaouen offrono un servizio simile per circa 15 euro, anche se fanno attenzione a non menzionarle nei loro opuscoli. «Qui, fumi dove vuoi – conclude un agricoltore -, eccetto davanti alla stazione di polizia».
En.Cas.
L’Africa Orientale e il khat
La droga dei poveri
La chiamano «la droga dei poveri». Il nome vero è khat (o qat). Coltivato da secoli in Africa orientale (soprattutto in Etiopia e Somalia, ma anche in Yemen), il khat è un arbusto le cui foglie fresche, se masticate, producono un effetto paragonabile a quello dell’anfetamina. Il consumo porta a un aumento della pressione sanguigna, euforia, maggiore attenzione, parlantina, soppressione dell’appetito e del bisogno di dormire.
Fino al 1980 a livello internazionale non era considerato una droga, poi l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha inserito nella lista delle sostanze stupefacenti e da allora è equiparato alle più famose eroina, cocaina e marijuana.
Da sempre in Yemen, Somalia e in alcune regioni di Etiopia, Eritrea, Gibuti e Kenya, gli uomini masticano le foglioline a partire dalle prime ore del pomeriggio. Gli uomini yemeniti e a volte anche le donne, ma separatamente e in privato, passano anche quattro ore tutti i pomeriggi senza far molto altro che masticare le foglie. Masticare il khat è un’importante attività di socializzazione, ma al tempo stesso costituisce un grave problema economico e sociale, oltre a comportare danni irreparabili alla salute. C’è chi spende oltre il 30% del proprio reddito per l’acquisto di questa pianta.
Fino a qualche anno fa, la produzione e il consumo sono rimaste limitate all’Africa e alla Penisola araba. Poi, con l’aumento dei flussi migratori, il khat ha iniziato a diffondersi anche in Europa, perché alcuni paesi europei ne tollerano l’uso. In Olanda, per esempio, nei famosi coffee shop lo si consuma senza troppi ostacoli. Ma anche in altri paesi dove pure è vietato, il khat è consumato soprattutto nelle comunità dell’Africa orientale.
Il traffico ha così preso piede. Nel 2017, la polizia spagnola ha sequestrato due carichi di khat provenienti da Kenya ed Etiopia. Anche le forze dell’ordine italiane hanno aumentato i controlli. Negli anni la Guardia di Finanza ha sequestrato, in vari aeroporti, diverse spedizioni di foglioline, con il boom nel 2015: una tonnellata e mezzo requisita e quantità poco inferiori negli anni successivi. Segno che «la droga dei poveri» si sta gradualmente diffondendo anche da noi.